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22 febbraio 2004

La hit parade delle donne manager

American Express, Avon, Citigroup, Coca-Cola, Gannett, Gap, Hewlett-Packard, JP Morgan Chase, Kimberly-Clark, Estée Lauder, Mattel, McDonald's, Merck, Philip Morris, Reebok, Times Mirror: che cos'hanno queste multinazionali in comune fra di loro, oltre a far parte dell'indice Fortune 500? Secondo uno studio del gruppo Catalyst, rientrano nella ristretta categoria delle aziende con una presenza di donne nel top management nettamente superiore alla media. E hanno anche messo a segno una performance migliore delle loro rivali più maschiliste. Il primo studio che stabilisce un collegamento tra la presenza femminile ai vertici di un'azienda e la sua produzione di valore è stato appena pubblicato, dopo due anni di scavi in una montagna di dati e cifre, dalla più grande organizzazione dedicata alla promozione delle donne nel mondo del business, Catalyst, con sede a New York. "Per anni abbiamo sentito ripetere questa domanda senza che mai nessuno si prendesse la briga di rispondere: le aziende con più donne al comando hanno migliori risultati? Ora possiamo dire con certezza che è così, anche se non possiamo stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra i due dati", spiega con pacata soddisfazione Ilene Lang, presidente di Catalyst. Dallo studio emerge infatti che le aziende con più donne in prima linea nel periodo preso in considerazione (il quinquennio '96-2000) hanno avuto un rendimento (Roe) superiore del 35,1% e un ritorno agli azionisti più alto del 34% rispetto alle loro rivali meno femministe. "L'ampiezza del divario ha sorpreso anche noi, che pure riteniamo in via di principio salutare una maggiore diversificazione di genere nella squadra di vertice di un'azienda", confessa Harvey Wagner, docente di management alla Kenan-Flagler School of Business dell'università della North Carolina, che ha guidato i lavori dei ricercatori. Il glass ceiling (soffitto di vetro) che blocca l'ascesa delle donne è generalmente considerato una sciagura dai teorici del management, convinti dei vantaggi derivanti dalla diversificazione di genere e anche di origine etnica e religiosa nei vertici aziendali. "Più la squadra dirigente è composita, migliori sono le prospettive che sia capace di mettersi in comunicazione con gruppi diversi e che il corto circuito culturale produca una strategia innovativa", spiega Wagner. Le ragioni che possono far risultare determinante la presenza femminile nel top management sono intuitive: "Migliore capacità di rapportarsi alle esigenze delle consumatrici, il cui potere d'acquisto è in rapida ascesa. Inserimento di qualità tipicamente femminili nelle decisioni strategiche", elenca ad esempio Wagner. E anche se lo studio di Catalyst non indica delle correlazioni dirette, è ovvio che i suoi risultati daranno da pensare a più di un amministratore delegato. I ricercatori hanno preso in considerazione le 353 aziende dell'indice Fortune 500 per cui avevano a disposizione tutti i dati sulla presenza femminile nei ranghi più elevati e le hanno suddivise in quattro categorie in base al numero di manager donne presenti fra il '96 e il 2000. Poi hanno fatto i calcoli sul rendimento e sul ritorno agli azionisti nello stesso periodo e hanno incrociato i due set di dati. Il divario fra i risultati finanziari delle aziende "più femminili" rispetto a quelle "meno femminili" è lampante: colossi come Bank of America, Compaq, Disney, Exxon Mobil, Goodyear, K Mart, Nabisco, Texas Instruments, Union Carbide o Whirlpool, tutti nel gruppo di coda, in media hanno messo a segno un Roe del 13,1% e un ritorno agli azionisti del 95,3%, contro un Roe del 17,7% e un ritorno del 127,7% delle aziende che compongono il gruppo di testa. Le differenze sono particolarmente marcate nel settore dei prodotti di largo consumo, meno spettacolari ma comunque significative nel settore finanziario. "Non c'è tanto da stupirsi", commenta dall'Italia Irina Piazzoli, 38 anni, responsabile dell'ufficio legale di Philip Morris, una delle aziende considerate più attente alla promozione della presenza femminile. "Una maggiore intelligenza emotiva e una buona dose di pragmatismo danno spesso alle donne una marcia in più nelle decisioni cruciali", commenta Piazzoli, che in Philip Morris ha trovato una grande disponibilità a favorire lo sviluppo del personale e a sostenere la diversità. Eppure, malgrado gli enormi progressi compiuti negli ultimi anni, la percentuale di donne fra i top manager resta minuscola: nell'indice Fortune 500 ci sono solo otto aziende guidate da una donna, fra cui Carly Fiorina di Hewlett Packard, Pat Russo di Lucent e Andrea Jung di Avon sono le più famose. Nonostante siano donne quasi la metà dei diplomati nelle business school americane, solo 63 dei 2500 top earner che lavorano nelle aziende di Fortune 500 sono donne (e questa percentuale è più che raddoppiata dal '95 a oggi). La situazione non è migliore nei mondi contigui al business: solo l'8% dei partner nelle Big Four della contabilità o il 14% dei partner nei primi 250 studi legali del mondo sono donne. E nelle grandi corporation sono quasi più famose le top manager che se ne sono andate di quelle che sono rimaste: Brenda Barnes, che ha piantato tutto a 43 anni alla vigilia della nomina ad amministratore delegato di PepsiCo, e Marta Cabrera, che a 44 anni ha abbandonato la vice presidenza della JP Morgan, restano delle figure leggendarie nell'immaginario delle donne americane.

15 febbraio 2004

Irene Tinagli

"Purtroppo i numeri rispecchiano abbastanza fedelmente l'immagine dell'Italia come viene percepita dagli stranieri: un Paese molto bello ma straordinariamente provinciale, tradizionalista e chiuso all'innovazione. Dove la libera concorrenza è molto limitata dai rapporti privilegiati interni alla classe dirigente, sia nel mondo del business che in quello accademico. Dove nessuno parla l'inglese e quindi è difficile comunicare. Dove perfino i film sono doppiati e dunque l'offerta culturale per uno straniero di passaggio è terribilmente limitata". Irene Tinagli, dottoranda alla Carnegie Mellon e co-autrice dell'Euro-Creativity Index insieme a Richard Florida, è un tipico cervello in fuga. Nata a Empoli 29 anni fa, sposata con un collega italiano impegnato come lei nel dottorato, si è laureata in economia aziendale alla Bocconi, dov'è rimasta poi per tre anni. Con una borsa di studio Fulbright ha preso il volo verso Pittsburgh per un master in Public Policy and Management. Ora sta per arrivare il dottorato.
Nostalgia?
"Mi manca la mia famiglia, ma sul medio periodo non ho intenzione di tornare. Qui è quasi un paradiso per chi ama davvero la ricerca".
In che senso?
"Prima di tutto le differenze culturali: qui i professori ti considerano un collega, ti ascoltano come un loro pari, si prendono tutto il tempo necessario per discutere le tue proposte. In Italia il dottorando è lo schiavo del professore, che spesso lo degna appena di una parola ogni sei mesi e poi magari si appropria del suo lavoro senza che nessuno batta ciglio".
Vantaggi economici?
"Le tasse scolastiche sono altissime, ma l'università ti consente di gestirti in maniera molto più imprenditoriale. Se lavori per loro ti pagano separatamente dalla borsa di studio e in questo modo si riesce a cavarsela. E poi le prospettive sono molto attraenti. Sulle retribuzioni dei professori c'è una differenza abissale rispetto all'Italia. Ma non si creda che qui venga tutto facile: devi essere pronto a dare sempre il massimo, perché il sistema è sì stimolante, ma molto competitivo. La soddisfazione viene dal fatto che in linea di massima vince il migliore".
Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività
Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale - scrive Florida nel suo studio - non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania. Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia - conclude - è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta". Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro". "Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo". "Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera - sostiene Florida - non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?

Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività

Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale - scrive Florida nel suo studio - non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania. Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia - conclude - è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta". Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro". "Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo". "Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera - sostiene Florida - non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?

12 febbraio 2004

Un oligopolio europeo dell'energia

In Europa sta nascendo un oligopolio dell’energia. «Se le utility italiane non daranno un colpo di acceleratore ai processi di aggregazione, finiranno per diventare facile terra di conquista per i colossi esteri». Andrea Gilardoni, direttore del master in gestione delle utility alla Bocconi e curatore di un Osservatorio sulle alleanze e acquisizioni delle utility locali italiane, sull’acceleratore ha messo tutto il suo peso: il progetto di aggregazione delle municipalizzate lombarde che il professore ha consegnato al governatore Roberto Formigoni non è ancora un fatto compiuto, ma sta dando molto da pensare nella regione più energivora d’Italia. Lombard Utilities — secondo il piano delineato da Gilardoni insieme allo studio Sciumé Zaccheo e alla Bp Consulting su incarico dell’istituto di ricerca regionale Irer — potrebbe raggiungere una capitalizzazione di Borsa di 8,5 miliardi, unendo venti municipalizzate di natura diversa ma compatibile con una struttura federale simile a quella di Hera, la multiutility bolognese nata dall’aggregazione di 11 municipalizzate da Bologna fino al mare. Ancora niente a che fare con i colossi che si sono formati negli scorsi anni nei mercati liberalizzati prima del nostro, come Rwe in Germania o Vattenfall in Scandinavia, ma pur sempre un peso notevole in un panorama ancora estremamente frammentato. Con un patrimonio netto di 3,6 miliardi e un volume d’affari di 3,8 miliardi, Lombard Utilities potrebbe dare filo da torcere a Enel e in Borsa peserebbe da sola più di tutte le altre municipalizzate messe assieme. Naturalmente al momento attuale il condizionale è d'obbligo, ma come dice Gilardoni «tutte le grandi imprese sono nate da un sogno». Un sogno che a livello nazionale è molto sostenuto: "Il movimento di aggregazione delle multiutility è un passo decisivo per lo sviluppo industriale italiano e il governo segue da vicino sia il progetto lombardo che quello in corso nel Nord Est", sostiene Adolfo Urso, sottosegretario alle Attività produttive. "Le occasioni per le nostre ex-municipalizzate di competere con i concorrenti europei nell'Europa orientale, nei Balcani e anche nel bacino del Mediterraneo non mancherebbero, se avessero già raggiunto la massa critica sufficiente per andare all'estero. Rinchiudersi nel mercato italiano non può garantire la sopravvivenza". "Sulla strada delle aggregazioni, che Aem pone da anni al centro delle proprie strategie, ci si scontra sempre prima o poi con il campanilismo dei politici", mette in chiaro però Giuliano Zuccoli, presidente di Aem Milano. "Certo è che crescere per linee di sviluppo interne ormai non può bastare per reggere la concorrenza con il mercato europeo, quindi va trovata al più presto una formula di aggregazione che metta d'accordo tutti. Il Gruppo Linea lungo la direttrice Cremona, Lodi, Mantova, Pavia è una buona cosa. Ma ci vuole un'aggregazione più vasta. Se sarà quella delineata nel progetto di Gilardoni, l'Aem non si tirerà certo indietro: abbiamo le competenze e abbiamo i numeri. Perché non provare?" Sul fronte della politica la risposta è Infrastrutture Lombarde, la nuova società regionale destinata a favorire lo start up di progetti infrastrutturali su tutte le reti, da quella idrica a quella elettrica a quella ferroviaria. Raffaele Cattaneo, presidente del consiglio di sorveglianza della società e vice segretario generale della giunta, è convinto della necessità di un disegno industriale complessivo per le multiutility lombarde: "Chi saprà trovare il giusto mix fra le ragioni industriali dell'aggregazione e le necessità politiche di proteggere le specificità locali avrà vinto questa partita", commenta Cattaneo. "L'avversario che va sconfitto - precisa Cattaneo - è il campanilismo, ma non bisogna dimenticare che i servizi di pubblica utilità sono molto radicati sul territorio e toccano corde delicate". Anche il presidente di Asm Brescia, Renzo Capra, vede nel progetto di Gilardoni notevoli difficoltà da superare: «Le nostre sono organizzazioni nate da storie diverse, con caratteristiche specifiche che vanno rispettate. Basta guardare in che condizioni si trovano oggi le banche dopo le fusioni. Sono ancora lì a leccarsi le ferite». Del resto le aggregazioni sono la conseguenza di un cambiamento che non si può evitare. E Capra invita le piccole municipalizzate a non aspettare l’ultimo momento per scegliere questa strada, «perché è meglio trattare da una posizione di forza che tendere la mano quando non si hanno altre vie d'uscita». Il progetto, del resto, parte dalla constatazione che anche in Italia qualcosa sta cominciando a muoversi. Dopo la nascita di Hera il processo di concentrazione in Emilia Romagna ha continuato a espandersi, da un lato con l’aggregazione dell’Agea di Ferrara al primo nucleo bolognese, dall’altro lato con l’alleanza delle municipalizzate di Reggio Emilia (Agac), Parma (Amps) e Piacenza (Tesa), sotto il cappello di Meta Modena. Se il progetto andrà in porto (e, malgrado le frizioni sulla spartizione delle cariche, ci sono buone probabilità che ce la faccia entro la scadenza di aprile), il nuovo blocco avrà un fatturato di 900 milioni di euro, che lo colloca direttamente alle spalle della stessa Hera, di Aem Milano e Acea. Sul fronte Nord-Est, secondo le ultime voci Aem Milano starebbe trattando per l’acquisizione di un 20% di Acegas-Aps, mentre sta cominciando a prendere forma Nes (Nordest Servizi), la maxi-utility concepita dal sindaco di Venezia Paolo Costa e dal presidente di Iris Gorizia Gianfranco Gutty, che comprende 12 municipalizzate del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. «Sarà sempre meglio condividere le proprie specificità con il campanile vicino che essere inghiottiti da un colosso francese, tedesco o scandinavo, con il pericolo di finire stritolati in un periodo di crisi com’è successo alle acciaierie di Terni», insiste Gilardoni, che presenterà la settimana prossima i risultati del suo Osservatorio sulle alleanze a un convegno a porte chiuse da dove spera di veder uscire un impulso nuovo verso il consolidamento: «L’importante è fare massa critica e aumentare l’efficienza, tagliando i costi grazie alle sinergie, in modo da diventare competitivi anche a livello europeo, perché pensare al mercato italiano come se fosse isolato dal resto è un grande errore».

9 febbraio 2004

Luigi Zingales

“Più poteri alla Consob? Ottima idea. Ma attenzione a non appesantire ulteriormente le regole, che poi finiranno per essere disattese. Il grave problema dell’Italia non è la mancanza di regole, ma piuttosto il fatto che nessuno le rispetti. Laddove ci sono troppe leggi è automatico che vengano disapplicate”. Luigi Zingales, professore di Finanza all’università di Chicago e autore di un best seller del dopo-Enron, “Saving Capitalism from the Capitalists”, preferisce andare sul concreto in materia di frodi societarie. E diffida delle riforme varate sull’onda degli scandali.
Allora non ha apprezzato nemmeno la Sarbanes-Oxley?
“Si tratta senz’altro di un passo avanti, seppure con alcune controindicazioni. Le misure più importanti introdotte dalla Sarbanes-Oxley, secondo me, sono le norme sui criteri di nomina dei revisori, che non rispondono più all’amministratore delegato ma a un comitato di controllo interno (audit committee) formato da direttori indipendenti, come deterrenza allo strapotere dei manager e ai comportamenti fraudolenti dei revisori. In Italia, invece, finora sono mancate alla Consob le risorse necessarie per l'assolvimento della funzione di controllo sulla qualità della revisione”.
Altre norme a cui varrebbe la pena di ispirarsi?
“Nella Sarbanes-Oxley si affronta per la prima volta il problema del controllo interno, cioè la vigilanza che può essere esercitata in prima persona dai dipendenti chiave, gli unici con una conoscenza di prima mano dei conti dell’azienda. Anche in Italia bisognerebbe rendersi conto che nel mondo della finanza, basato in gran parte sulla fiducia, i controlli esterni lasciano il tempo che trovano. Negli Stati Uniti la Sec ha molti più poteri della Consob, sia d’indagine che sanzionatori, eppure non è riuscita a evitare frodi gigantesche. Sono quindi i controlli interni quelli che contano di più”.
Ma indurre un dipendente a “tradire” la società in cui lavora non è facile…
“Appunto: la legge dovrebbe stare lì apposta per proteggerli. I problemi dei whistle blowers, cioè di chi si rivolge alle autorità di controllo segnalando abusi o irregolarità, sono tali e tanti da impedire questo tipo di controllo in condizioni normali. Il dipendente che denuncia l’azienda non ha certo vita facile in ufficio e il più delle volte viene licenziato non appena si scopre la sua ‘infedeltà’. Spesso incorre anche in grane giudiziarie per aver fatto uscire informazioni riservate. E ha molte difficoltà a ritrovare lavoro: chi si sente di assumere uno “spione”? Basta vedere cos’è successo alla famosa Sherron Watkins, che ha denunciato per prima lo scandalo Enron: ha avuto un grande successo sui media ma si è giocata la carriera”.
Quali potrebbero essere le misure per aiutarli?
“Prima di tutto vanno depenalizzate questo tipo di infrazioni alla privacy, consentendo loro di far uscire delle informazioni riservate senza incorrere in sanzioni legali. A patto naturalmente che i denuncianti si rivolgano alle autorità di controllo, non ai giornali. Poi bisogna garantire il reintegro nel loro posto di lavoro, com’è successo nei giorni scorsi a un direttore finanziario, reintegrato dopo essere stato licenziato nell’ottobre 2002 per aver denunciato un caso di insider trading. Era la prima volta che un giudice usava questa nuova norma. Infine stabilendo una ricompensa a chiunque permetta di far emergere una frode finanziaria, con un compenso proporzionato alla sua entità: se l’onestà non paga bisogna aumentarne il rendimento per legge”.
E secondo lei dei provvedimenti come questi avrebbero potuto impedire il caso Parmalat?
“Certamente. Se ai dipendenti Parmalat si fosse prospettata una ricompensa, diciamo del 10% della dimensione della truffa, è probabile che avrebbero parlato prima. Non credo che i bilanci sarebbero stati contraffatti per ben quindici anni”.
Apparentemente un’idea molto semplice. Possibile che nessuno ci abbia pensato prima?
“In un Paese come l’Italia, dove nessuno è in regola e quindi tutti sono legati all’omertà degli altri, uno strumento efficace come questo fa senz’altro paura. Ma potrebbe essere un buon sistema per smuovere le acque. In fondo abbiamo compensato con la libertà anche degli assassini pur di stroncare il terrorismo, perché non si potrebbe tentare questa strada per stroncare le frodi societarie?”

8 febbraio 2004

La caduta degli amministratori delegati

Martha Stewart Living, la società che insegna alle casalinghe americane come arredare e decorare la casa, è la vittima più recente. Con la sua fondatrice messa alla gogna proprio in questi giorni a New York, in uno dei processi più spettacolari degli ultimi anni, l'impero mediatico nato dal nulla nel '91 ha perso circa metà del suo valore rispetto alla quotazione di partenza e l'azienda è finita in rosso. Martha Stewart, naturalmente, ha ceduto il timone ai suoi collaboratori. Ma non è chiaro se un'azienda così strettamente legata alla personalità del suo amministratore delegato sarà in grado di rimettersi dopo l'accusa infamante di insider trading che l'ha disarcionata. Nell'ondata di scandali societari seguiti allo scoppio della bolla borsistica e all'"esuberanza irrazionale" degli ultimi anni Novanta, Martha Stewart Living non è stata certamente l'unica società, né la più importante, a soffrire del crollo dei suoi vertici e delle loro strategie spericolate. Dopo i disastri di Enron, GlobalCrossing, WorldCom o Tyco nella prima fase, oggi è il turno di HealthSouth, Hollinger, Parmalat, Ahold, Skandia. Per non parlare delle banche o delle società di revisione contabile, devastate dalla bufera che ha travolto i loro capi. E non sono solo le frodi ad aver messo schiere di amministratori delegati fuori combattimento: da Aol a Bertelsmann, spesso le strategie troppo ardite che sono costate la testa a più d'un capo azienda vengono oggi disfatte in fretta e furia dai suoi successori. Un bilancio completo della distruzione di valore avvenuta in questi anni non è ancora stato stilato, ma resta la curiosità di andare a vedere i danni causati nelle singole aziende. Citizen Works, un'organizzazione americana impegnata nella difesa dei consumatori, si è presa la briga di esaminare i casi più eclatanti. Andersen è l'unico caso di estinzione completa fra i marchi colpiti dalla pubblica infamia. L'amministratore delegato dello scandalo, Joseph Berardino, si è dimesso nel marzo 2002 dietro sollecitazione di un comitato di saggi guidato da Paul Volcker, chiamato a salvare l'azienda. Ma non è servito a nulla: con la condanna della sua controllata americana Arthur Andersen, in primissima linea nell'affare Enron, il colosso delle revisioni contabili (con un giro d'affari da quasi 10 miliardi di dollari) si è trovato abbandonato nel giro di poche settimane da tutti i suoi clienti e costretto a chiudere in breve tempo l'intero network di 390 uffici in 85 Paesi del mondo. La fusione fra Time Warner e Aol, nel 2001, è stata il canto del cigno della rivoluzione digitale che ha sostenuto la straordinaria crescita economica americana negli anni Novanta. Oggi, tutti i manager che hanno contribuito al matrimonio fra il numero uno mondiale dei media e il numero uno di Internet hanno perso il posto: il presidente Steve Case (fondatore di Aol) si è dimesso l'anno scorso, poco dopo l'abbandono di Ted Turner (fondatore della Cnn), e l'amministratore delegato Jerry Levin (ex-capo di Time Warner) aveva lasciato la nave già nel 2002, non appena il fallimento della storica operazione era diventato evidente. Nel 2002, Aol TimeWarner ha messo a segno un gigantesco buco da 98,7 miliardi di dollari, la più spettacolare perdita della storia americana. E sui risultati dell'anno precedente pesa un'indagine della Sec, che li ha scoperti gonfiati per abbellire i connotati della maxi-fusione. Nel 2003, la due società sono state separate (anche nel nome) e Aol, che era entrata nelle nozze da padrona, è diventata una controllata di Time Warner. Nello stesso anno il primo Internet provider del mondo ha perso oltre due milioni di abbonati, attratti dai rivali più economici. Ma anche le divisioni "old economy" del gigante dei media non se la passano benissimo: il nuovo presidente e amministratore delegato, Dick Parsons, ha definito il 2003 un "anno di riassetto", dedicato più alla riduzione dei debiti che alla crescita. La sua ultima mossa, infatti, è stata la vendita di Warner Music a Edgar Bronfman, ex capo della Seagram, che sarà perfezionata nei prossimi giorni. Lo scandalo Ahold ha spazzato via nel giro di poche settimane il 63% del valore di Borsa del colosso olandese della grande distribuzione, che oggi capitalizza poco più di tre miliardi di dollari. In seguito alle irregolarità nei conti della sua affiliata americana, l'amministratore delegato Cees van der Hoeven e il direttore finanziario Michiel Meurs si sono dimessi l'anno scorso, seguiti poche settimane fa dal presidente Henny de Ruiter. Nel 2002 Ahold ha messo a segno la prima perdita della sua storia ultracentenaria: un buco da 1,27 miliardi di dollari. Gli altri casi europei più eclatanti di amministratori delegati caduti in disgrazia sono quelli di Vivendi Universal e di Bertelsmann, dove all'origine della caduta non ci sono state frodi, ma banali manie di grandezza su cui gli azionisti hanno preferito tirare il freno. Anche qui, i successori si sono affrettati a disfare ciò che i due visionari Jean-Marie Messier e Thomas Middelhoff avevano costruito durante il loro mandato, accumulando montagne di debiti. In Bertelsmann, Gunter Thielen ha ceduto tutte le quote comprate dal suo predecessore Middelhoff in diverse Internet companies e rallentato i piani di quotazione in Borsa. In Vivendi, dopo la cacciata di Messier nel 2002 il suo successore Jean-René Fourtou ha venduto Vivendi Universal Publishing a Lagardère e sta cedendo gli studios Universal al network televisivo di General Electric, Nbc. Malgrado ciò, nel 2002 la società è andata in rosso di 25 miliardi di dollari, un passivo senza precedenti in tutta la storia francese.

4 febbraio 2004

Not in my backyard

A Sparanise nel Casertano in testa al corteo ha marciato anche il vescovo Francesco Tommasiello. In Basilicata, non paghe del blocco antinucleare di Scanzano, destra e sinistra unite hanno promesso opposizione durissima. A Termoli, sulla costa adriatica molisana, la protesta coinvolge una miriade di associazioni e tutte le forze politiche di opposizione. A Scandiano nel Reggiano la Lega Nord sta dando battaglia. A Voghera si rincorrono le sospensive del Tar. Costruire centrali elettriche o elettrodotti, malgrado il decreto Marzano, non è facile di questi tempi. E anche davanti ai terminal gas, che potrebbero liberare l'Italia dai metanodotti, non si stendono tappeti rossi. Ottenere dagli enti locali tutte le carte bollate necessarie per far partire i cantieri dura spesso anni. E talvolta non ci si riesce proprio. Le centrali che hanno ottenuto tutte le autorizzazioni dai diversi ministeri sono ben 26, per oltre 12.600 megawatt complessivi, tra cui anche l'impianto a ciclo combinato da 800 Mw progettato a Sparanise dalla svizzera Egl insieme alla multiutility emiliana Hera, la centrale a turbogas prevista a Termoli da Energia e quella da 400 Mw di Electrabel con Asm a Voghera. Ma solo in otto siti, per poco più di quattromila megawatt complessivi, si sta effettivamente lavorando. E a fronte dei primi collegamenti avviati dalla centrale mantovana di Sermide (Edipower), da quella di Ponti sul Mincio dell'Asm Brescia e da quella di Ferrera Erbognone in provincia di Pavia (Enipower), c'è una lunga lista di incompiute - o meglio mai cominciate - che non accennano a sbloccarsi. Tre sono, ad esempio, le centrali a turbogas che hanno ricevuto parere negativo da parte di altrettante Regioni. Ha negato il suo assenso il Piemonte per la centrale di Leinì, l'Umbria per un impianto che dovrebbe essere ubicato a Narni e il Molise per la centrale progettata a Venafro. Ma ci sono anche casi più complessi, dove i dinieghi si sommano e a volte si incrociano con i permessi. Qualche esempio? In Liguria contro l'impianto di Cairo Montenotte si sono messe Regione, Provincia e ministero dei Beni culturali a cui si oppongono i pareri favorevoli del Comune e dei ministeri di Salute e Infrastrutture. A Bari la proposta per un impianto è passata indenne attraverso l'esame di tre ministeri (Infrastrutture, Salute e Beni culturali), ma si è poi trovata la strada sbarrata per la posizione interlocutoria del Comune. Anche la centrale Enel di Porto Tolle, quella che produce il 5% della potenza di generazione effettiva del Paese, è caduta vittima di un veto: il progetto di riconversione da olio combustibile a un'emulsione di acqua e bitume naturale è fermo per la mancanza delle autorizzazioni regionali. Analoga sorte per l'impianto di Modugno, in Puglia, e per la centrale di Civitavecchia. Qui la riconversione da olio combustibile a carbone ha trovato l'ostacolo di Comune e Regione che hanno alla fine dato il loro consenso, ma solo per una parziale attuazione dei lavori previsti. E poi ci sono gli elettrodotti, come quello di Scandiano (Reggio Emilia) che passerebbe troppo vicino alle case o quello tra Matera e Santa Sofia bloccato dalla Corte d'appello di Potenza. Anche i terminal gas progettati al largo del Delta del Po, nel distretto petrolchimico di Rosignano (Livorno), a Brindisi e in Calabria sono vittime delle resistenze locali, malgrado le autorizzazioni a livello centrale siano già state ottenute da anni. Perfino le centrali eoliche sono fieramente osteggiate, tanto che nel 2003 in Italia sono stati aggiunti solo 20 megawatt di wind farm alla capacità esistente. Secondo i dati della Legambiente, l'Italia non supera così gli 800 megawatt complessivi generati con l'energia eolica (i tedeschi ne hanno 19mila). Eppure negli ultimi dieci anni i consumi energetici degli italiani sono aumentati del 15% (contro il 12% in Europa). Di conseguenza diverse regioni, come la Campania o il Veneto, soffrono di un deficit energetico che rischia di rallentare le loro attività industriali. E da parte delle autorità centrali si sta facendo il possibile per sveltire le procedure. Il documento tariffario appena varato dall'Autorità per l'energia, ad esempio, facilita la connessione dei nuovi impianti, incentivando gli investimenti Enel sugli allacciamenti della rete nazionale alle centrali. Mentre il disegno di legge firmato dal ministro Antonio Marzano, che attende ancora l'esame del Senato, contiene un regime di compensazioni da riconoscere alle amministrazioni disposte a ospitare le nuove centrali elettriche, che potrebbe far cambiare atteggiamento agli enti locali coinvolti. E' proprio su questo punto, oltre che sulla riunificazione della proprietà della rete elettrica in capo al suo Gestore, che la riforma Marzano si è arenata davanti a una raffica di emendamenti. Ma l'efficacia degli incentivi varati sarà essenziale per dare certezze alle aziende e alle banche che devono finanziare gli investimenti.

2 febbraio 2004

Strana liberalizzazione, fa salire i prezzi

Energia: concorrenza cercasi. A tre anni dall' avvio della liberalizzazione, i prezzi salgono invece di scendere, sia sul mercato vincolato che sul mercato libero, e non è prevedibile un' inversione di tendenza in tempi brevi. Anzi. C' è chi ipotizza aumenti ulteriori, anche del 20%. Il nuovo documento dell' Autorità sulle tariffe 2004-2007, che ha rimesso di buon umore il ministero dell' Economia di Giulio Tremonti, azionista di maggioranza dell' Enel, sta facendo invece preoccupare gli altri operatori. Al più grande gruppo elettrico italiano, che ha archiviato il 2003 con un balzo del 27 per cento del margine operativo lordo, la nuova Autorità di Alessandro Ortis ha regalato un tasso di rendimento del capitale tra il 6,8 e il 6,9 per cento sull' attività di distribuzione e tra il 6,7 e il 6,8 per cento sull' attività di trasmissione (il documento varato dalla gestione precedente, sotto Pippo Ranci, prevedeva un rendimento del 6,4% per la distribuzione e del 6,2% per la trasmissione). Le nuove direttive che stanno entrando in vigore in questi giorni conferiscono dunque a Terna, la società di trasmissione controllata al cento per cento dall' Enel e prossima alla quotazione, un valore di 5 miliardi, contro i 3,5 miliardi dell' ipotesi precedente. Gli analisti finanziari sono entusiasti della prospettiva. I concorrenti di Enel un po' meno. «Se i margini si concentrano tutti sul settore vincolato, a cui soltanto l' Enel ha accesso, la redditività del mercato libero automaticamente si riduce - spiega Mario Molinari, direttore generale di Energia -. Ormai gli sconti ai clienti liberalizzati si giocano su pochi spiccioli e offrire un prodotto concorrenziale senza rischiare l' osso del collo è sempre più difficile». Sul filo del rasoio Mentre il mercato vincolato si gode i fasti delle nuove tariffe, sul fronte del mercato libero si corre sul filo del rasoio. Da un lato la domanda cresce molto più dell' offerta, sia perché il consumo annuo pro-capite d' energia degli italiani è il più basso d' Europa (5.100 kWh contro una media europea di 6.600 kWh) e quindi tende ad aumentare rapidamente per colmare il divario, sia perché la costruzione di nuove centrali continua ad andare a rilento. Dall' altro lato il luogo deputato a far incontrare domanda e offerta in maniera trasparente, cioè la Borsa elettrica, considerata dagli operatori l' unico argine possibile alla lievitazione dei prezzi, continua a collezionare ritardi e rinvia di giorno in giorno il brindisi d' apertura: doveva essere operativa da oggi, ma per adesso l' unica certezza è un nuovo slittamento. «Questo modo di procedere ondivago, in cui manca ogni prospettiva certa e si cambiano continuamente le regole, rappresenta un enorme disincentivo per gli operatori privati a competere con l' Enel sul nuovo fronte dei piccoli e medi consumatori che si sta aprendo. Di conseguenza è probabile che questi nuovi clienti liberalizzati rimangano dove stavano prima e che il mercato italiano dell' energia finisca per assomigliare a quello del gas, dove la liberalizzazione in teoria è ormai completa da oltre un anno, ma in realtà non è mai partita», commenta Molinari. Attività libera «La vendita dell' energia in Italia è un' attività libera, ma allo stesso tempo è un' attività per cui sono previsti margini di remunerazione assolutamente insostenibili», spiega Antonio Urbano di Dynameeting, operatore specializzato nell' intermediazione. «I soli costi variabili di gestione del cliente, cioè i costi amministrativi, fiscali, di fatturazione e incasso, sono di gran lunga superiori al margine di guadagno contendibile stabilito dal regolatore. Per non parlare dei costi promozionali-commerciali, del rischio di credito e della remunerazione del capitale investito», conclude Urbano. Con l' arrivo dei piccoli consumatori, il mercato liberalizzato si allargherà a circa sette milioni di utenti. Per affrontare un mercato di massa di questo tipo ci vogliono offerte standard su tutto il territorio nazionale, mentre in Italia ogni distributore può fare i prezzi che vuole e cambiarli a suo piacimento: come si fa a impostare un' attività di marketing senza sapere con certezza quale sarà il «pedaggio» da pagare ai distributori per accedere alle loro reti? Non a caso gli sconti medi che si sentono fra gli operatori ormai non superano il 3-4 per cento di ribasso rispetto alla tariffa fissata dall' Autorità, mentre un paio di anni fa sfioravano il 10 per cento. E fra i consumatori, soprattutto le piccole e medie imprese, serpeggia la preoccupazione sull' aggravio della fattura energetica che comporterà questa situazione. Gli industriali della provincia di Treviso, ad esempio, prendono in considerazione i vantaggi dell' autogenerazione e mettono in guardia i loro associati perché si attrezzino in tempo contro il caro-bollette. E Confartigianato conferma: «Il trend purtroppo fa pensare che quest' anno si ridurrà ancora di più il vantaggio di passare al mercato libero». Insomma, nessuno si fa illusioni sulle prospettive luminose di un mercato che per ora lascia tutti, tranne Enel, a bocca asciutta.

1 febbraio 2004

Travolti dal product placement

Quando il giovane Tom Cruise va a visitare Jene Hackman alle Cayman nel film premonitore "The Firm" (già nel lontano '93 andavano di moda le società offshore), Hackman lancia il suggerimento di "bersi una Red Stripe": Cruise apre il frigorifero e tira fuori una bottiglia della birra giamaicana, fino ad allora un marchio semisconosciuto. Nel giro di un mese dall'uscita del thriller, le vendite di Red Stripe negli Stati Uniti raddoppiano. La storia del product placement, cioè l'inserimento di marhi e prodotti in bella vista all'interno della trama di un film a fini pubblicitari, è fatta soprattutto di pellicole americane. Da ET che viene attirato fuori dal suo nascondiglio agitando un pacchetto di Reese's Pieces nell'82 a Tom Hanks arenato su un'isola del Pacifico dopo essersi schiantato con un cargo della FedEx in "Cast Away" nel 2000, passando per l'ode alle Reebock in "Jerry Maguire" e alle moto Ducati in "Matrix Reloaded". Ma anche le pellicole britanniche, con i primi film di James Bond in testa, hanno fatto epoca: dalle Aston Martin alla vodka Smirnoff, "Goldfinger" è un vero cult movie per gli esperti della pubblicità occulta. Ora la pratica del product placement fa capolino anche in Italia con il nuovo decreto legislativo firmato da Giuliano Urbani, i cui regolamenti attuativi stanno per uscire a giorni. La riforma, che liberalizza questa forma di promozione attualmente vietata alle produzioni cinematografiche italiane e modifica profondamente i criteri di finanziamento pubblico delle pellicole, è stata accolta con un applauso dal cinema nostrano ma anche dalle aziende del made in Italy, finora tagliate fuori da un sistema già molto praticato all'estero, dove ha raggiunto elevati livelli di sofisticazione. Alle più grandi fiere del mondo del cinema, come l'American Film Market di Santa Monica, gli stand dei principali marchi mondiali interessati a piazzare i propri prodotti nei prossimi blockbuster sono ormai di casa. Anche sul fronte televisivo c'è molto movimento. Revlon ha pagato 3 milioni di dollari per metterse in mostra i suoi prodotti nella popolare serie "All My Children". Hallmark Channel, uno dei principali network americani, ha recentemente aperto un reparto specializzato nel coordinamento delle richieste di product placement. E secondo le stime più accreditate entro la fine del 2005 ben un quarto degli investimenti pubblicitari globali verranno incanalati in questo sistema alternativo, che offre alle aziende la possibilità di emanciparsi dal sovraffollato mondo degli annunci tradizionali, spesso saltati a pié pari dai consumatori sempre più infastiditi. Naturalmente sulla liberalizzazione del mercato italiano non sono mancate le polemiche e c'è chi accusa il nuovo decreto di promuovere una forma di pubblicità ingannevole. Ma il ministro Urbani spiega così l'abolizione del divieto: "Gli spettatori italiani guardano moltissimi film stranieri e quindi già oggi l’80% dei film visti in Italia contengono messaggi promozionali di questo tipo. Il divieto di usare questo strumento, quindi, non tutelava il pubblico cinematografico dalla pubblicità occulta, ma danneggiava soltanto l’industria privata e le produzioni locali". Inutile sperare di chiudere i confini alla diversificazione dei messaggi pubblicitari. Per l'industria italiana in realtà si tratta di una rivoluzione a metà. Come dimostra l'ingombrante presenza delle Ducati in "Matrix Reloaded", infatti, i miti del made in Italy sono già ben rappresentati a Hollywood: da Bulgari in "Minority Report" alla Ferrari Testarossa in "Miami Vice", passando per un famoso primo piano dell'orologio Gucci al polso di Harvey Keitel in "Pulp Fiction" o per gli abiti Versace indossati da Madonna in "Swept Away", il remake uscito nel 2002 della commedia di Lina Wertmueller "Travolti da un insolito destino". E non ci sono solo i film: nel 2003 il marchio Gucci è stato citato ben 20 volte e Lamborghini 13 volte nelle canzoni della hit parade americana. Ma per il mercato pubblicitario italiano la riforma potrebbe rappresentare una svolta: "D'ora in poi le aziende, visto che stipuleranno dei veri e propri contratti, potranno mettersi a tavolino con sceneggiatori e registi per inserire i loro prodotti non solo in maniera passiva, ma per farli diventare protagonisti", commenta Mario Nascimbene, responsabile marketing di Campari. Rapporti di questa natura fra aziende e mondo del cinema, del resto, non sono del tutto nuovi nemmeno in Italia: in fondo i prodotti che consumiamo fanno parte della vita quotidiana, non è possibile tagliarli completamente fuori dal tessuto cinematografico. Ma le comparsate di una Vespa o di un vasetto di Nutella restavano nell'ambito della tacita collaborazione. D'ora in poi non sarà più così.