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12 giugno 2006

Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà

Sulla questione del sistema energetico si è perso troppo tempo e ora dobbiamo recuperare. Per Pippo Ranci, economista della Cattolica ed ex presidente dell' Authority per l' energia, il problema è duplice: d' infrastrutture e di regole. «In Italia negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il consumo di gas, utilizzato per produrre la maggior parte dell' energia elettrica di questo Paese: per far funzionare il sistema bisogna quindi aumentare di molto gli approvvigionamenti, rafforzando le infrastrutture, sia i gasdotti che i terminali di rigassificazione, che garantiscono una pluralità di fornitori». Quando avremo più gas, anche il prezzo scenderà, influenzando quello dell' energia elettrica. Servono perciò nuovi investimenti, ma anche nuove regole. «Le nostre importazioni di gas continuano a essere mirate solo a soddisfare a malapena il fabbisogno interno: è un sistema derivato dalla politica tradizionale dell' Eni, che non ha interesse a costruire più infrastrutture di quelle strettamente necessarie. Ma questo non è più accettabile: come l' elettricità circola liberamente in un mercato integrato europeo, così dev' essere anche per il gas». Per ampliare il mercato, ci dev' essere concorrenza anche sul fronte delle importazioni. «Finché sarà solo l' Eni a controllare tutto l' import, l' Italia non riuscirà mai a diventare un hub del gas, così come sarebbe conveniente: non dimentichiamo che la sicurezza di un Paese di transito è molto maggiore di quella di un Paese solo consumatore». E l' Italia si presta a diventarlo per la sua collocazione geografica centrale nel Mediterraneo, ideale punto di raccordo fra i produttori del Nord Africa e i consumatori del Centro Europa. «Ma va modificata alla radice la struttura societaria delle reti, che non possono stare in mano agli operatori: Snam Rete Gas dev' essere separata dall' Eni e il governo deve garantirne la neutralità». Ma non si rischia, come ammonisce frequentemente Paolo Scaroni, di farla finire in mano ai russi? «A Gazprom interessano i clienti finali: non la rete di trasporto, ma semmai quella di distribuzione. E comunque, l' azionariato di Snam dev' essere neutrale e stabile, non soggetto a scalate». Anche gli stoccaggi, remunerati con tariffa amministrata, oggi sono ancora tutti in mano all' Eni. «Se il consumo aumenta e vogliamo mantenere buoni livelli di sicurezza, dobbiamo accrescere le riserve. E' opportuno che anche il mercato degli stoccaggi venga aperto: o facendo offrire il servizio, oggi appannaggio della Stogit, in concorrenza da diversi soggetti, o con una progressiva riduzione della quota Eni in Stogit». Il rischio di ridimensionare troppo un campione nazionale, che sul mercato mondiale deve competere con aziende molto più grandi, secondo Ranci non esiste. Come non esiste l' utilità di una fusione o di un incrocio di partecipazioni fra Eni ed Enel, per accrescerne il peso specifico. «Per evitare che vengano scalate dall' estero non è necessario portare a un matrimonio così innaturale due società con interessi radicalmente diversi. Basta che crescano bene e siano ben amministrate: i loro azionisti le difenderanno dagli attacchi esterni».

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Municipalizzate ancora troppo piccole

La partita dell' energia ormai è una partita globale. Per Andrea Gilardoni, direttore del master in Economia e gestione dei servizi di pubblica utilità della Bocconi, il problema della dimensione d' impresa delle utilities va visto in una prospettiva europea. «Da un lato - dice - bisogna accelerare il processo d' internazionalizzazione delle imprese italiane dell' energia, dall' altro favorire l' aggregazione interna fra gruppi di utilities per consentire la formazione di quattro o cinque poli capaci di competere fra loro». Il che non esclude, naturalmente, l' apertura del mercato italiano a soggetti stranieri. «La presenza di operatori internazionali è una preziosa opportunità per arricchire il sistema nazionale da molti punti di vista, tecnologici, finanziari e di approvvigionamento - dice Gilardoni -. Anche se, data la strategicità della materia energetica, questa presenza non dovrebbe mai diventare ragione di eccessiva dipendenza e perdita di autonomia». L' internazionalizzazione, quindi, è in cima all' agenda: «Con tutto il rispetto per l' importanza del libero mercato - fa notare Gilardoni - il ruolo del governo non va sottovalutato in questo campo: in tema di approvvigionamento è stato nel passato, ed è ancora oggi, decisivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che in molti Paesi sono le compagnie di Stato a gestire le risorse energetiche. E ciò impone delle considerazioni di carattere più generale sul ruolo fondamentale della diplomazia». Di conseguenza non è pensabile, secondo Gilardoni, una completa privatizzazione di Eni ed Enel, né un ulteriore smagrimento dei due «campioni nazionali»: tranne per quanto riguarda Snam Rete Gas, che andrebbe scorporata dall' Eni per renderla neutrale come Terna. «Basta guardare che cos' è successo in questi giorni con la questione Suez, o durante l' inverno con i problemi di approvvigionamento del gas dalla Russia, per capire che Enel ed Eni devono andare nel mondo con alle spalle un governo ben deciso a sostenerle». D' altra parte, il governo dovrebbe avviare una politica capace di facilitare la crescita della competizione interna, favorendo le aggregazioni. «Un processo in questo senso è già bene avviato, con le aggregazioni nel Nord, attorno ad Aem Milano e a Hera, ma bisognerebbe allargare il raggio d' azione, creare concentrazioni più vaste». La strada per accelerare il processo di aggregazione non passa tanto attraverso un sistema di incentivazione diretta - precisa Gilardoni - bensì attraverso la rimozione di circostanze che, di fatto, scoraggiano l' accorpamento. «Utilizzando, ad esempio, il sistema delle gare per l' affidamento della distribuzione locale, e rafforzando l' obbligo di condizioni minime di sicurezza e qualità del servizio, si porta automaticamente le società più piccole a unirsi per sfruttare le economie di scala. Nella pratica, per una piccola società è spesso difficile ottemperare in maniera rigorosa a tutti gli obblighi su sicurezza e qualità. Già oggi si vedono gli effetti dei controlli dell' Autorità: una costante pressione del regolatore in questo senso ha l' effetto di spingere le società ad aggregarsi e a diventare più efficienti».

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Sulle rinnovabili il modello è tedesco

Bene il gas, ma ci vogliono anche le fonti rinnovabili. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, associazione d' imprese ed enti impegnati sul fronte delle energie alternative, il mix italiano di generazione elettrica ha enormi potenzialità su questo fronte, che non vengono sfruttate. Ma fra neanche un anno e mezzo il nostro sistema energetico arriverà al dunque. Nel 2007, infatti, Kyoto presenta il conto e per l' industria italiana sarà un conto salato. Spiega Silvestrini: «Bruciando idrocarburi, il nostro sistema industriale - in primo luogo le imprese produttrici di energia elettrica - produce 120 milioni di tonnellate all' anno di anidride carbonica in più rispetto al limite che ci è stato assegnato. Se facciamo il conto complessivo sui primi 5 anni del protocollo, sono 600 milioni di tonnellate. Di questi, circa un terzo potrebbe essere ridotto con i provvedimenti già varati e noi riteniamo che un altro terzo si dovrebbe riuscire ad abbattere con ulteriori misure di efficienza energetica. Il resto andrà comprato sul mercato dei certificati di emissione: calcolando un prezzo medio di 15 euro a tonnellata, già molto ottimistico, la spesa si aggira sui 3 miliardi di euro. Ma perché non metterli in Italia - si chiede Silvestrini - invece che andare a spenderli all' estero?». Basterebbe un minimo di programmazione per far nascere anche qui, come in Germania o in Danimarca, una filiera delle fonti rinnovabili potenzialmente molto redditizia. «Sul fotovoltaico, dopo il decreto d' incentivazione in conto energia, qualcosa si sta già muovendo: ci sono aziende produttrici straniere che vengono a chiedermi informazioni per un possibile investimento in Italia. Ma l' obiettivo di raggiungere i 1000 MW fotovoltaici entro il 2015 è troppo basso. Per ora solo 340 MW sono stati autorizzati, a fronte di una valanga di richieste. Basterebbe alzare l' obiettivo, e magari ridimensionare un pò l' incentivazione per non sforare il budget, per creare i presupposti all' insediamento di produttori di pannelli sul nostro territorio, dando vita a un' industria di questo tipo, com' è già successo in Germania». Ma in Italia non c' è solo il sole. «Le resistenze all' eolico di alcune regioni, come Sardegna e Puglia, andrebbero corrette con un sistema di "burden sharing": ogni regione dovrebbe essere obbligata a dare il suo contributo alla costruzione di un sistema di fonti rinnovabili. Se non vuole l' eolico, scelga qualcos' altro, dal solare alle biomasse, ce n' è per tutti. Dire no e basta non dovrebbe essere consentito». Un sistema che potrebbe aiutare molto alcuni settori in crisi. «Guardiamo ad esempio alla conversione della produzione agricola dal food al non food che si è scatenata in Germania: con gli alti prezzi del petrolio, l' entrata in vigore del protocollo di Kyoto e la fine della Pac, la politica agricola comunitaria, le fonti rinnovabili sono state una manna per i contadini in cerca di nuove fonti di reddito: ospitare aerogeneratori o pannelli fotovoltaici, produrre biomasse o biocarburanti per la generazione elettrica o il trasporto sta salvando un settore in crisi».

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Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà

Sulla questione del sistema energetico si è perso troppo tempo e ora dobbiamo recuperare. Per Pippo Ranci, economista della Cattolica ed ex presidente dell' Authority per l' energia, il problema è duplice: d' infrastrutture e di regole. «In Italia negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il consumo di gas, utilizzato per produrre la maggior parte dell' energia elettrica di questo Paese: per far funzionare il sistema bisogna quindi aumentare di molto gli approvvigionamenti, rafforzando le infrastrutture, sia i gasdotti che i terminali di rigassificazione, che garantiscono una pluralità di fornitori». Quando avremo più gas, anche il prezzo scenderà, influenzando quello dell' energia elettrica. Servono perciò nuovi investimenti, ma anche nuove regole. «Le nostre importazioni di gas continuano a essere mirate solo a soddisfare a malapena il fabbisogno interno: è un sistema derivato dalla politica tradizionale dell' Eni, che non ha interesse a costruire più infrastrutture di quelle strettamente necessarie. Ma questo non è più accettabile: come l' elettricità circola liberamente in un mercato integrato europeo, così dev' essere anche per il gas». Per ampliare il mercato, ci dev' essere concorrenza anche sul fronte delle importazioni. «Finché sarà solo l' Eni a controllare tutto l' import, l' Italia non riuscirà mai a diventare un hub del gas, così come sarebbe conveniente: non dimentichiamo che la sicurezza di un Paese di transito è molto maggiore di quella di un Paese solo consumatore». E l' Italia si presta a diventarlo per la sua collocazione geografica centrale nel Mediterraneo, ideale punto di raccordo fra i produttori del Nord Africa e i consumatori del Centro Europa. «Ma va modificata alla radice la struttura societaria delle reti, che non possono stare in mano agli operatori: Snam Rete Gas dev' essere separata dall' Eni e il governo deve garantirne la neutralità». Ma non si rischia, come ammonisce frequentemente Paolo Scaroni, di farla finire in mano ai russi? «A Gazprom interessano i clienti finali: non la rete di trasporto, ma semmai quella di distribuzione. E comunque, l' azionariato di Snam dev' essere neutrale e stabile, non soggetto a scalate». Anche gli stoccaggi, remunerati con tariffa amministrata, oggi sono ancora tutti in mano all' Eni. «Se il consumo aumenta e vogliamo mantenere buoni livelli di sicurezza, dobbiamo accrescere le riserve. E' opportuno che anche il mercato degli stoccaggi venga aperto: o facendo offrire il servizio, oggi appannaggio della Stogit, in concorrenza da diversi soggetti, o con una progressiva riduzione della quota Eni in Stogit». Il rischio di ridimensionare troppo un campione nazionale, che sul mercato mondiale deve competere con aziende molto più grandi, secondo Ranci non esiste. Come non esiste l' utilità di una fusione o di un incrocio di partecipazioni fra Eni ed Enel, per accrescerne il peso specifico. «Per evitare che vengano scalate dall' estero non è necessario portare a un matrimonio così innaturale due società con interessi radicalmente diversi. Basta che crescano bene e siano ben amministrate: i loro azionisti le difenderanno dagli attacchi esterni».

Senza gas l'Italia al freddo. E al buio

Un mix di produzione del tutto anomalo che porta il prezzo dell' energia in Italia fuori dalle medie europee. Per Davide Tabarelli, direttore dell' istituto bolognese Ricerche industriali ed energetiche (Rie), se vogliamo ridurre i prezzi dobbiamo seguire il modello degli altri Paesi industrializzati. «La regola generale è che almeno il 50% della produzione elettrica vada a nucleare e carbone, per liberarsi dalla schiavitù degli idrocarburi». Da questa regola non si scappa: nessun Paese al mondo produce metà della sua energia elettrica bruciando metano, come si avvia a fare l' Italia con l' inaugurazione delle prossime centrali a gas. E nessun Paese industrializzato ha solo il 14% di carbone e neanche una centrale atomica. «La corsa alla sostituzione dell' olio combustibile con il gas prescinde completamente da considerazioni di prezzo e di sicurezza degli approvvigionamenti - spiega Tabarelli - e comunque non rientra in nessuna strategia complessiva, che dovrebbe essere dettata dalla politica e invece manca totalmente». Non a caso, l' Italia è l' unico Paese d' Europa ad avere sofferto così tanto della crisi del gas quest' inverno, «perché senza gas gli altri restano al freddo, ma noi si resta anche al buio - fa notare Tabarelli -. Abbiamo avuto il più grosso blackout della storia elettrica - fa notare Tabarelli - ma non abbiamo ancora imparato che per evitare guai bisogna impostare una politica energetica di vasto respiro». «Siamo l' unico Paese al mondo - aggiunge - che, pur soffrendo di una grave dipendenza dal gas, su 8 mila chilometri di coste non ha neanche un rigassificatore, a parte quello vecchissimo di Panigaglia, quando ormai ne sorgono come funghi in tutta Europa: la Spagna ne ha già quattro». E non ci sono grandi prospettive di correggere il tiro: «È stato proprio l' attuale ministro dell' industria, Pier Luigi Bersani, a bloccare la costruzione del terminale di rigassificazione di Monfalcone nel ' 96, che ci sarebbe tornato utilissimo per diversificare gli approvvigionamenti ed evitare la crisi quando Mosca ha chiuso i rubinetti». Magari ora avrà cambiato idea. «Ma nel frattempo gli italiani hanno pagato un prezzo del gas e dell' energia del tutto sproporzionato», commenta Tabarelli. Lo stesso sta succedendo con la riconversione a carbone delle centrali Enel a olio. «Il carbone non piace a nessuno, ma inquina meno dell' olio combustibile, se la centrale è fatta bene, e costa poco: produrre un megawattora con una centrale a gas costa 75 euro, con il carbone solo 45». Allora che senso ha bloccarlo? «Fino a qualche mese fa dicevamo che sono le amministrazioni locali a opporsi, ma ora rischiamo di trovarci davanti a un paradosso: a Porto Tolle, ad esempio, l' assenso delle amministrazioni locali c' è già, ma si sta scontrando con le resistenze del nuovo ministro dell' Ambiente». Per l' Enel, che combatte da anni sulla centrale di Civitavecchia, è un grosso danno. «Ma alla fine dei conti chi paga siamo noi: se non vogliono il carbone, l' Enel può anche produrre energia bruciando Chanel N°5, tanto alla fine scarica tutto sui prezzi finali».

Sulle rinnovabili il modello è tedesco

Bene il gas, ma ci vogliono anche le fonti rinnovabili. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, associazione d' imprese ed enti impegnati sul fronte delle energie alternative, il mix italiano di generazione elettrica ha enormi potenzialità su questo fronte, che non vengono sfruttate. Ma fra neanche un anno e mezzo il nostro sistema energetico arriverà al dunque. Nel 2007, infatti, Kyoto presenta il conto e per l' industria italiana sarà un conto salato. Spiega Silvestrini: «Bruciando idrocarburi, il nostro sistema industriale - in primo luogo le imprese produttrici di energia elettrica - produce 120 milioni di tonnellate all' anno di anidride carbonica in più rispetto al limite che ci è stato assegnato. Se facciamo il conto complessivo sui primi 5 anni del protocollo, sono 600 milioni di tonnellate. Di questi, circa un terzo potrebbe essere ridotto con i provvedimenti già varati e noi riteniamo che un altro terzo si dovrebbe riuscire ad abbattere con ulteriori misure di efficienza energetica. Il resto andrà comprato sul mercato dei certificati di emissione: calcolando un prezzo medio di 15 euro a tonnellata, già molto ottimistico, la spesa si aggira sui 3 miliardi di euro. Ma perché non metterli in Italia - si chiede Silvestrini - invece che andare a spenderli all' estero?». Basterebbe un minimo di programmazione per far nascere anche qui, come in Germania o in Danimarca, una filiera delle fonti rinnovabili potenzialmente molto redditizia. «Sul fotovoltaico, dopo il decreto d' incentivazione in conto energia, qualcosa si sta già muovendo: ci sono aziende produttrici straniere che vengono a chiedermi informazioni per un possibile investimento in Italia. Ma l' obiettivo di raggiungere i 1000 MW fotovoltaici entro il 2015 è troppo basso. Per ora solo 340 MW sono stati autorizzati, a fronte di una valanga di richieste. Basterebbe alzare l' obiettivo, e magari ridimensionare un pò l' incentivazione per non sforare il budget, per creare i presupposti all' insediamento di produttori di pannelli sul nostro territorio, dando vita a un' industria di questo tipo, com' è già successo in Germania». Ma in Italia non c' è solo il sole. «Le resistenze all' eolico di alcune regioni, come Sardegna e Puglia, andrebbero corrette con un sistema di "burden sharing": ogni regione dovrebbe essere obbligata a dare il suo contributo alla costruzione di un sistema di fonti rinnovabili. Se non vuole l' eolico, scelga qualcos' altro, dal solare alle biomasse, ce n' è per tutti. Dire no e basta non dovrebbe essere consentito». Un sistema che potrebbe aiutare molto alcuni settori in crisi. «Guardiamo ad esempio alla conversione della produzione agricola dal food al non food che si è scatenata in Germania: con gli alti prezzi del petrolio, l' entrata in vigore del protocollo di Kyoto e la fine della Pac, la politica agricola comunitaria, le fonti rinnovabili sono state una manna per i contadini in cerca di nuove fonti di reddito: ospitare aerogeneratori o pannelli fotovoltaici, produrre biomasse o biocarburanti per la generazione elettrica o il trasporto sta salvando un settore in crisi».

Municipalizzate ancora troppo piccole

La partita dell' energia ormai è una partita globale. Per Andrea Gilardoni, direttore del master in Economia e gestione dei servizi di pubblica utilità della Bocconi, il problema della dimensione d' impresa delle utilities va visto in una prospettiva europea. «Da un lato - dice - bisogna accelerare il processo d' internazionalizzazione delle imprese italiane dell' energia, dall' altro favorire l' aggregazione interna fra gruppi di utilities per consentire la formazione di quattro o cinque poli capaci di competere fra loro». Il che non esclude, naturalmente, l' apertura del mercato italiano a soggetti stranieri. «La presenza di operatori internazionali è una preziosa opportunità per arricchire il sistema nazionale da molti punti di vista, tecnologici, finanziari e di approvvigionamento - dice Gilardoni -. Anche se, data la strategicità della materia energetica, questa presenza non dovrebbe mai diventare ragione di eccessiva dipendenza e perdita di autonomia». L' internazionalizzazione, quindi, è in cima all' agenda: «Con tutto il rispetto per l' importanza del libero mercato - fa notare Gilardoni - il ruolo del governo non va sottovalutato in questo campo: in tema di approvvigionamento è stato nel passato, ed è ancora oggi, decisivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che in molti Paesi sono le compagnie di Stato a gestire le risorse energetiche. E ciò impone delle considerazioni di carattere più generale sul ruolo fondamentale della diplomazia». Di conseguenza non è pensabile, secondo Gilardoni, una completa privatizzazione di Eni ed Enel, né un ulteriore smagrimento dei due «campioni nazionali»: tranne per quanto riguarda Snam Rete Gas, che andrebbe scorporata dall' Eni per renderla neutrale come Terna. «Basta guardare che cos' è successo in questi giorni con la questione Suez, o durante l' inverno con i problemi di approvvigionamento del gas dalla Russia, per capire che Enel ed Eni devono andare nel mondo con alle spalle un governo ben deciso a sostenerle». D' altra parte, il governo dovrebbe avviare una politica capace di facilitare la crescita della competizione interna, favorendo le aggregazioni. «Un processo in questo senso è già bene avviato, con le aggregazioni nel Nord, attorno ad Aem Milano e a Hera, ma bisognerebbe allargare il raggio d' azione, creare concentrazioni più vaste». La strada per accelerare il processo di aggregazione non passa tanto attraverso un sistema di incentivazione diretta - precisa Gilardoni - bensì attraverso la rimozione di circostanze che, di fatto, scoraggiano l' accorpamento. «Utilizzando, ad esempio, il sistema delle gare per l' affidamento della distribuzione locale, e rafforzando l' obbligo di condizioni minime di sicurezza e qualità del servizio, si porta automaticamente le società più piccole a unirsi per sfruttare le economie di scala. Nella pratica, per una piccola società è spesso difficile ottemperare in maniera rigorosa a tutti gli obblighi su sicurezza e qualità. Già oggi si vedono gli effetti dei controlli dell' Autorità: una costante pressione del regolatore in questo senso ha l' effetto di spingere le società ad aggregarsi e a diventare più efficienti».