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29 febbraio 2008

John Kotter

John Kotter, docente alla Harvard Business School e una delle autorità mondiali in materia di leadership, è convinto che la capacità di comandare non sia un dono innato, ma un' attitudine da imparare. Il problema è che non si può imparare nel momento in cui ce n' è più bisogno. E questo è uno di quei momenti.
Perché?
«È nei momenti di transizione e di difficoltà, quando diventa complicato capire dove va il mondo, che i leader sono più necessari, per dare quel colpo di timone che introduce al cambiamento. Se l' economia va bene, la congiuntura è stabile e le cose vanno avanti da sole, c' è meno bisogno di gente che sappia comandare. Ma oggi non siamo in questa situazione...»
Quindi?
«È qui che l' educazione alla leadership diventa più importante. Ma per educare la gente al comando ci vuole molto tempo, l' ideale sarebbe cominciare già negli anni del liceo, introducendo corsi per i ragazzi di quell' età sulle capacità fondamentali per un leader, che gli torneranno utili più tardi. Non si può pretendere che un leader sia già pronto ad agire se gli mancano le nozioni fondamentali per guidare il cambiamento».
E invece?
«Paradossalmente, ai top manager di regola si chiede esattamente il contrario. Un buon amministratore delegato deve sapersi inserire senza scosse al vertice di un' impresa e il suo compito principale, se l' azienda va bene, è solo gestire l' esistente, valorizzarlo al massimo senza cambiare nulla. I manager sono sottoposti a una fortissima pressione in questo senso: la buona gestione non implica il cambiamento, anzi, di solito lo scansa».
Cosa succede in tempi difficili come questi?
«Il mondo di oggi è in preda a enormi cambiamenti: le nuove tecnologie e la globalizzazione sono i due filoni principali, ma in una mia recente analisi più dettagliata ne ho identificati 53, tutti decisamente molto importanti. Il mondo ha superato i sei miliardi di abitanti e il gap fra quello che abbiamo e ciò di cui avremo bisogno domani cresce ogni giorno di più. E' chiaro che in queste circostanze un' azienda ferma non può sopravvivere».
Lei cosa consiglia?
«Lo spiego nel mio libro "Our Iceberg is Melting" (tradotto in italiano da Sperling & Kupfer, ndr): il buon leader deve prendere la situazione in mano e introdurre i cambiamenti necessari a fronteggiare le nuove condizioni in cui l' azienda si trova ad operare. Ci sono otto passaggi fondamentali per riuscire nel colpo di timone. Deve creare un senso di urgenza negli altri, mettere insieme un buon team, sviluppare una nuova strategia, comunicarla con attenzione, rimuovere tutte le barriere che impediscono agli altri di muoversi, produrre qualche rapido successo, continuare a esercitare una pressione inesorabile anche dopo i primi successi e infine mantenere il nuovo corso con fermezza, fino a farlo diventare parte della cultura aziendale. Se questa sequenza funziona nei tempi giusti, l' azienda riuscirà a emergere dalla crisi. Altrimenti finirà per soccombere».

25 febbraio 2008

Ma si arriva alla Casa Bianca passando dal web?

Si dice che per stabilire un collegamento tra ogni essere umano e ogni altro non sia necessario scalare più di sei livelli di relazioni personali. In effetti, se ogni componente di un network fosse capace di reclutare cento conoscenti, basterebbe allargarsi di tre livelli e ognuno di loro avrebbe un milione di amici. E' su questo principio che si basano i siti di social networking ed è per questo che sono diventati così importanti nella campagna elettorale americana. Nemmeno John McCain, a dispetto dell'età avanzata, è esente dall'interazione online con i potenziali elettori e in onore di MySpace ha cominciato a chiamare McCainSpace il suo sito interattivo. Sul fronte democratico, Barak Obama prevale nettamente su Hillary Clinton: sia su Facebook che su MySpace la sua pagina ha attratto molti più amici di quella della rivale. Il suo video musicale “Yes We Can” è stato visto più di un milione di volte su YouTube. Ma serve? In altre parole: vincere la battaglia del web può tornare utile nel giorno in cui è davvero importante, il giorno delle elezioni? Dalla storia delle campagne elettorali precedenti, sembrerebbe di no. Nel 2004, il passaparola sul network di Meetup e il supporto dei bloggers di sinistra avevano spinto alla ribalta della corsa alla nomination democratica un candidato pressoché sconosciuto, l'ex governatore del Vermont Howard Dean. Ma questo non lo ha salvato da un tonfo clamoroso appena si è passati dal mondo virtuale ai fatti reali: Dean è arrivato terzo in Iowa e quindi è sceso rapidamente dalla giostra. Con l'applauso della blogosfera, che in breve tempo, vista la sua totale incapacità di comunicare nel mondo reale, lo aveva abbandonato. Ne deriva la sensazione che il supporto del popolo della rete possa rivelarsi davvero molto instabile. La crescente importanza del voto giovanile, però, accentua l'interesse dei candidati per il networking online. Il vecchio adagio secondo cui i giovani non vanno a votare sembra passato di moda. Gli exit polls suggeriscono che il voto giovanile sia stato decisivo nella vittoria di Obama in Georgia: il senatore nero ha attratto oltre l'80% dei consensi dalla fascia 18-24. Ma perfino prima del Super Tuesday l'affluenza dei giovani alle urne era cresciuta drammaticamente rispetto alle consultazioni precedenti. In Iowa, ad esempio, l'affluenza dei votanti nella fascia d'età 18-24 è arrivata quest'anno al 13%, dal 3% del voto del 2000 e dal 4% del 2004. In New Hampshire l'affluenza dei giovani è stata ancora più consistente, arrivando al 43% dal 18% nel 2004. A questo boom non sono certamente estranei i siti di social networking. "Per raggiungere gli elettori più giovani è molto più efficace lanciare un messaggio su quei siti piuttosto che metterlo sulla homepage del candidato o farlo circolare per e-mail", commenta Thomas Gensemer, direttore di Blue State Digital, una società di consulenza che lavora sulla campagna elettorale dei democratici. Joe Rospars, il partner di Gensemer, ha lasciato Blue State Digital per gestire la campagna online di Obama. Peter Daou, suo omologo per Hillary Clinton, è convinto che i nuovi media stiano rivoluzionando il processo democratico: "Internet sta diventando sempre più centrale nella vita politica", dice. "Nel 2004 YouTube, Facebook, MySpace non giocavano alcun ruolo. Oggi è cambiato tutto. E chissà come sarà cambiato alle prossime presidenziali". Daou e Gensemer sono chiaramente attirati dalla dimensione di questi network. Lanciare un messaggio su MySpace significa raggiungere 300 milioni di utenti registrati, su Facebook o su orkut oltre 60 milioni, su Friendster 50, su Bebo 40 e via enumerando. Gigantesche catene di Sant'Antonio che hanno un impatto tremendo sulla vita dei ragazzi che le frequentano. Resta il fatto che la dimensione di un network non sempre risulta efficace per centrare qualsiasi tipo di obiettivo. I mercati, in cui la gente entra per mettere a segno delle transazioni, beneficiano certamente della partecipazione di massa: i venditori vogliono raggiungere il maggior numero possibile di compratori e i compratori vogliono scegliere dal maggior numero possibile di offerte. Meg Whitman insegna. Ma non è detto che il processo elettorale funzioni allo stesso modo. Per dare fiducia e condividere i valori degli amici che partecipano a un network ci vuole il senso della comunità. E per soddisfare il bisogno di comunità, un social network non dovrebbe assomigliare a una metropoli anonima che si estende fino all'orizzonte, ma piuttosto - come dice Hillary - a un villaggio. I network online, invece, tendono ad inflazionare il termine "amico" fino a farlo annegare in una massa sterminata. Provare per credere. Aprendo una pagina su Facebook, nel giro di una settimana si può essere sommersi da duecentomila contatti. Fine del gioco. A me è capitato e non sono l'unica. Solo pochissimi network online, come ad esempio aSmallWorld, puntano a mantenere la cerchia il più possibile ristretta per evitare di annacquare il target. La dimensione di un network - insegna Esther Dyson - diventa un vantaggio soltanto nel caso in cui tutti i partecipanti siano interessati alla stessa cosa. Conoscere l'anima gemella. Condividere film o musica. Scambiare manga. Organizzare attivismo sociale, ambientale, religioso. Ricerca scientifica o medica. Giochi di ruolo. Investimenti finanziari. Viaggi. Libri. Ricette. Come diceva Robert Putnam, nel suo libro Bowling Alone: "La persone, che siano proprietari di Chihuahua o azionisti della Walt Disney, si organizzano in gruppi". Poi però ci sono i gruppi che parlano chiaro e quelli che mica tanto. Prendiamo LinkedIn, un social network su cui gravitano 19 milioni di abitanti di questo pianeta e che mette l'accento sulla posizione professionale dei componenti. Essere iscritti facilita molto le relazioni paritarie fra professionisti dello stesso settore o gli scambi fra settori diversi. Ma LinkedIn (come molti altri network) consente alle persone di allargare i propri contatti di lavoro fino a quattro livelli. Un "leverage" degno di un hedge fund. In pratica, se qualcuno vuole entrare in contatto con una persona che figura nella cerchia di conoscenti di un altro, può chiedergli di presentargliela. E questo fino a quattro livelli di distanza. Reid Hoffman, fondatore di LinkedIn, sostiene che la libertà di passare in rassegna i contatti dei tuoi conoscenti e dei loro conoscenti e così via semplifica molto la possibilità di gettare ponti in una certa direzione. Nessuno ne dubita. Il problema è che spesso la gente si iscrive a un network di questo tipo proprio perché vuole ottenere un certo contatto. Tanto che gli iscritti ai network cominciano a sentire il peso di una variante dello spam, chiamata in gergo snam (da "social network"), ovvero un fiume in piena di richieste di favori di vario tipo da parte di altri membri del loro network. E cominciano a sorgere barriere per mantenere il fenomeno entro limiti accettabili. La tecnologia, evidentemente, non può eliminare frizioni e disagi tipici della socializzazione di massa. Assemblare una collezione di migliaia di "amici" può risultare divertente per un po', ma alla lunga stanca. L'audience di MySpace si è ridotta del 9% nel 2007 in base a un'indagine Nielsen, dopo anni di tassi di crescita fenomenali. Facebook ha vissuto il primo mese di declino in gennaio, con una contrazione del 5% rispetto a a dicembre 2007. Tanto che qualcuno comincia a mettere in dubbio il luminoso futuro dei network online, oltre alla loro efficacia in campagna elettorale. E definire il valore di mercato di queste aziende è sempre meno agevole. La piccola partecipazione appena comprata da Microsoft in Facebook (1,6%), ad esempio, conferisce al sito un valore teorico di 15 miliardi di dollari. Ma il prezzo pagato dal gigante di Redmond è stato criticato da molti come assolutamente esagerato, per una società di appena tre anni di vita che genera un giro d'affari da meno di cento milioni di dollari all'anno. Azionisti di network, che sia arrivato il momento di vendere?

18 febbraio 2008

L'Ulivo non c'è più, il risiko cambia giro

Dopo l' aggregazione di Aem Milano e Asm Brescia, che ha dato vita alla maxiutility lombarda A2A, riparte la marcia di avvicinamento fra Iride e Hera, passando per Enìa. Dal valzer delle utilities del Nord, invece, sembra ormai tagliata fuori Acea, l' ex municipalizzata romana, un po' per l' uscita di scena di Walter Veltroni dal Campidoglio e un po' per la fusione, attesa entro metà 2008, tra Gaz de France e Suez, che aumenterà il peso dei francesi, già azionisti di Acea. Marta Vincenzi, sindaco di Genova, ha aperto le danze richiamando i sindaci emiliano-romagnoli a un incontro, che dovrebbe svolgersi all' inizio di marzo, ma il pallino è in mano a Hera. «Già questo giovedì - dicono a Bologna - è fissata una riunione fra i sindaci che potrebbe essere decisiva». È da lì che deve uscire una chiara indicazione di campo per l' ex municipalizzata, ancora sospesa fra l' opzione Nord-Ovest e la via capitolina. Sergio Cofferati, principale azionista di Hera con il 15%, fino ad oggi si sentiva vincolato a una promessa fatta a Walter Veltroni di stringere un' alleanza con Acea. Ora gli interessi di Veltroni sono rivolti altrove e anche su Cofferati girano voci di disimpegno dalla politica cittadina. Sembra quindi arrivato il momento giusto per uscire dal pantano in cui Hera si era arenata quest' estate, quando sembrava imminente una decisione. Tutti gli altri sindaci (a eccezione di Ferrara) vorrebbero indirizzare gli sforzi di aggregazione verso Torino e Genova, includendo Enìa. Gli emiliani di Enìa, intanto, si stanno muovendo per conto loro, ponendo le basi di un' unione con Iride limitata all' energia, che potrebbe allargarsi anche a Hera se il dialogo si sblocca. «Il nostro è un problema industriale: abbiamo una buona distribuzione - spiega l' amministratore delegato di Enìa, Ivan Strozzi - ma non produciamo energia. Fare una holding con chi è più forte nella produzione serve ad avere massa critica nell' approvvigionamento e nel trading. È per questo che abbiamo messo mano all' ipotesi di alleanza». L' utility emiliana è anche partner di A2A in Delmi, la società che controlla Edison insieme a Edf. «Su questo fronte ci sarà un cambiamento fra breve, quando Delmi sarà incorporata in A2A e quindi anche noi entreremo a far parte direttamente dell' azionariato», fa notare Strozzi. I concambi non sono ancora definiti, ma si parla di un 3-4%. Enìa si troverà così al crocevia fra i due grandi movimenti di aggregazione che muovono le ex municipalizzate del Nord e potrà giocare contemporaneamente su due tavoli. Due tavoli che nel tempo, secondo la visione del sindaco di Brescia Paolo Corsini, potrebbero diventare uno solo, con uno scenario finale di aggregazione completa da Torino a Bologna, passando per Genova, Milano, Reggio Emilia e le altre, sul modello della tedesca Rwe. Ma questo è solo un miraggio lontano. «Ci sono grandi vantaggi nelle aggregazioni di questo tipo, soprattutto sul fronte degli approvvigionamenti - spiega Andrea Gilardoni, economista della Bocconi ed esperto di utilities - ma anche alcuni svantaggi: ad esempio le difficoltà di governance. Nella situazione attuale, mi sembra prioritario far funzionare le aggregazioni che ci sono già piuttosto che allargare troppo il campo». Per adesso, ci si attiene quindi agli studi di Bain e Mediobanca, commissionati da Iride, che mettono in luce la convenienza di un matrimonio fra Iride, Hera ed Enìa, soprattutto sul fronte dell' energia. Marta Vincenzi e Sergio Chiamparino, soci in Iride, premono molto in questo senso. Il sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, principale azionista di Enìa con il 22%, gli fa eco: «La fusione fra Enìa, Iride e Hera è un obiettivo prioritario, per questo siamo pronti a sederci attorno a un tavolo. Si può fare e anche presto».

11 febbraio 2008

Auchan, il kilowattora nel carrello

Il kilowattora finisce nel carrello del supermercato, insieme a due etti di formaggio e un fustino di detersivo. Dopo la liberalizzazione dello scorso luglio, c' era da aspettarselo. Auchan parte in marzo dal suo iper di Cinisello Balsamo con la nuova iniziativa, che si allargherà gradatamente ad altri 45 punti vendita sparsi su dieci regioni italiane: i clienti potranno optare per una fornitura sia di gas che di energia elettrica (o di una delle due), con un risparmio del 5% rispetto alla tariffa ufficiale dell' Authority. Nessun costo di attivazione, una bolletta unica e la massima semplificazione nella transizione al nuovo operatore, come dev' essere per ogni prodotto da supermercato. Basta allungare una mano sullo scaffale e via. Fornitori affidabili Certo, con l' energia non è così facile. Ci vuole un fornitore molto affidabile: Auchan ha siglato un accordo triennale con Italcogim Energie, società partecipata al 60% dal colosso d' Oltralpe Gaz de France e al 40 da Camfin, che è il terzo operatore italiano per volumi venduti ai clienti finali. Ma il tandem Auchan-Italcogim non è il primo ad affacciarsi sul mercato. Già in novembre era partito il gruppo Merloni in coppia con cinque Iper di Marco Brunelli (co-fondatore di Esselunga insieme a Bernardo Caprotti, ma poi messosi in proprio). E un po' tutti ci stanno pensando: Coop ha cominciato a dialogare con i possibili partner, tra cui Enel e Eni, Conad ha avuto contatti informali con British Gas, ma anche la catena tedesca Lidl, che in Italia è cliente di Hera, si sta guardando intorno per lanciare la bolletta discount. Perfino le Poste Italiane di Massimo Sarmi hanno avviato un discorso con Edison, non ancora concluso. Fino ad oggi sembrava che l' acquisto del kilowattora o delle chiamate telefoniche, dei pacchetti turistici o dei servizi finanziari al super sotto casa fosse una bizzarria da inglesi. Invece i nuovi entranti dimostrano che le liberalizzazioni cominciano a funzionare anche da noi. E a cambiare la faccia della grande distribuzione. Ma il mercato italiano è «corto» di energia e gas, che resteranno a lungo prodotti limitati: è per questo che costano molto. Da un lato, quindi, attraggono le offerte discount. Dall' altro lato non ce n' è grande disponibilità in giro. E man mano che la grande distribuzione comincia a prendere posizione ce ne sarà sempre di meno. La corsa agli approvvigionamenti, quindi, diventerà più ardua. A meno che qualche distributore non cominci a fare shopping all' estero oppure si metta in società con i suoi fornitori per importare in Italia del metano in più, magari costruendo un impianto di rigassificazione. Solo uno sviluppo di questo tipo potrebbe davvero smuovere il mercato e potare significativamente i prezzi. Operatori virtuali Discorso diverso per la telefonia mobile, dove gli «operatori virtuali» non sono legati alle infrastrutture e quindi hanno campo libero per conquistare clienti con tariffe facili da capire e servizi a valore aggiunto collegati alla propria attività principale. Su questo fronte per prima è arrivata la Coop con il marchio CoopVoce. Poi Carrefour, con Uno Mobile. E infine Poste Italiane, con PosteMobile. Auchan ha siglato a novembre un accordo con Wind e l' offerta sarà disponibile a breve. Anche Conad ha firmato con Vodafone e dovrebbe debuttare nelle prossime settimane. Un' indagine realizzata da Axia stima che la torta valga 500 milioni per quest' anno e possa allargarsi fino a 1,6 miliardi in un quinquennio. Un bel malloppo per un Paese in cui ci sono già 82 milioni di linee mobili attive. E la nuova faccia della grande distribuzione non si ferma qui. Servizi finanziari, pacchetti turistici, prodotti farmaceutici, carburanti sono sempre più presenti sugli scaffali del super, tranne in catene più tradizionali come Esselunga, che preferisce limitarsi all' offerta di base. Coop ha aperto 73 CoopSalute, Auchan 26 con quasi mille farmaci da banco e sconti che arrivano fino al 30%. Sui benzinai si fa più fatica: per ora in Italia ce n' è una trentina, di cui Auchan con 18 fa la parte del leone. Su 22 mila in tutto, non sono molti. Ma la liberalizzazione ha i suoi tempi.

8 febbraio 2008

Michael Hammer

Ristrutturare non basta. In quest' epoca di fusioni e acquisizioni, di globalizzazione galoppante, di competizione sempre più serrata, Michael Hammer, il re dell' efficienza, chiede alle aziende di mettersi dalla parte del cliente. E di reimpostare i processi produttivi ripensando al proprio ruolo come fornitori di soluzioni, più che di prodotti o di servizi. Un concetto che risuona lungo tutta la sua carriera di "rivoluzionario del management", ma che oggi torna con prepotenza d' attualità.
Negli ultimi vent' anni tutte le grandi corporation sono passate attraverso il suo metodo di efficientamento dei processi produttivi. Serve ancora?
«Mi piacerebbe dire che non serve più, ma in realtà il mondo della produzione continua a ospitare gravi sacche d' inefficienza. Prova ne sia la forte resistenza, ad esempio, nei confronti di ogni forma di misurazione della performance. Ad oggi, non sono ancora riuscito a insegnare alle aziende come devono misurare le proprie prestazioni (e come non devono)».
Ma come, se le scale di misurazione proliferano a tutti i livelli...
«E' solo apparenza: la maggior parte delle scale servono ai manager dei singoli dipartimenti per farsi belli nei confronti degli altri, ma non riescono a fotografare la performance di ogni settore nel contesto complessivo del business».
Perché?
«Ma semplicemente perché nessuno ha piacere di farsi misurare. E quindi i manager tendono a tagliare su misura i sistemi di misurazione per dare risultati falsati. Non peccano soltanto di narcisismo, ma anche di provincialismo, misurando solo la propria area di business, e soprattutto di frivolezza, trasmettendo ai propri sottoposti la sensazione che la misurazione non vada presa sul serio, perché tanto non serve di bel principio. E' difficilissimo, in queste condizioni, far passare una misurazione seria».
Dalla pubblicazione nel ' 90 del suo famoso articolo sulla Harvard Business Review a oggi c' è stata l' ondata dell' informatizzazione che ha cambiato il modo di funzionare delle aziende. Non ha aiutato?
«Sono stati fatti enormi passi avanti. Ma non bastano. Se l' organizzazione di base non è efficiente, l' informatica non aiuta. Il problema di fondo resta sempre riuscire a mettere in collegamento fra di loro le singole unità produttive in modo da ottenere quella continuità necessaria per consumare solo le risorse strettamente necessarie al risultato. A questo fine sono convinto che la soluzione migliore sia individuare un singolo referente per ogni processo, che ne segua trasversalmente l' evoluzione dall' inizio alla fine».
Un responsabile di processo...
«Esattamente. Credo che se tutte le aziende fossero capaci di creare questo tipo di figure, darebbero una spinta enorme all' efficienza produttiva. Purtroppo i manager delle singole unità di solito resistono, perché non vogliono condividere il potere con un operatore esterno. Ma i risultati dei miei clienti che sono riusciti ad affermare questo principio, da Shell a Siemens, da Tetra Pak a Zara, parlano chiaro».

4 febbraio 2008

Ascopiave e il poker del Nord Est

Ascopiave muove su Veritas, parla con Agsm Verona e va in buca. Se Acegas-Aps non si muove, l' aggregazione delle ex municipalizzate del Nord Est passerà accanto al gruppo padovan-triestino, quotato a piazza Affari, senza che neppure se ne accorga. «Nell' alleanza con Venezia siamo in chiusura», spiega Gildo Salton, presidente di Ascopiave. Questa settimana o al più tardi la prossima sarà ufficializzato - se tutto procederà come sembra - il passaggio alla società trevigiana del controllo del ramo gas dell' ex municipalizzata veneziana, oltre a una quota di minoranza nel polo integrato di Fusina per lo smaltimento dei rifiuti, una piattaforma tra le più importanti a livello europeo, che comprende due termovalorizzatori. «In questo modo cominciamo a realizzare il progetto d' integrazione per rami d' azienda delineato nel piano di Veneto Sviluppo presentato qualche mese fa», precisa Salton. Una fuga in avanti che verrà rafforzata anche con l' adesione formale al memorandum presentato da Irene Gemmo, la presidente della finanziaria regionale Veneto Sviluppo, sulla base di un lavoro della Bain & Company, prevista per questa settimana. «Così si chiarisce senza ombra di dubbio la nostra volontà di procedere su questa strada», ribadisce Salton. Non manca che la firma delle altre tre ex municipalizzate coinvolte - Acegas-Aps di Trieste e Padova, Agsm Verona e Veritas Venezia - per procedere all' integrazione completa che darà vita alla quarta multiutility italiana per capitalizzazione di Borsa. Un player capace di giocare un ruolo importante sullo scacchiere nazionale. Il numero uno della società di Pieve di Soligo è già in trattative avanzate con i veronesi sull' apposizione di quella firma. Ma le resistenze dell' amministrazione comunale triestina a entrare in una galassia così marcatamente veneta rischiano di rallentare il processo, anche se il primo passo, l' ingresso di Ascopiave al 49 per cento in EstEnergy, la società di vendita del gruppo guidato da Massimo Paniccia, è già stato concluso nello scorso dicembre. Acegas-Aps giustifica la sua prudenza con l' attuale crisi dei mercati, che non consente una valutazione corretta delle rispettive capitalizzazioni di Borsa. «Tutti pensano di essere sottovalutati in questo periodo», commenta Salton. «Ma sono convinto - aggiunge - che l' aggregazione delle quattro grandi agirebbe da calamita per le piccole società circostanti e porterebbe a un' immediata rivalutazione delle quotate». D' altra parte le sfide che si profilano all' orizzonte esigono una certa rapidità d' intervento: «Se avessimo già raggiunto un soddisfacente livello di massa critica potremmo già competere sui mercati confinanti della nuova Europa, dove si stanno giocando partite importantissime in materia di servizi municipali e di distribuzione del gas e dell' energia elettrica». Un vero possibile Eldorado, dove un gruppo che unisce le forze delle municipalizzate del Nord Est d' Italia avrebbe concrete possibilità di espandersi. Ma prima ci vuole un colpo di acceleratore sull' aggregazione interna. E la condivisione di una volontà che per ora viene dal basso, per trasformarsi in progetto concreto.

1 febbraio 2008

Joseph Bower

Citigroup e Merrill Lynch sono gli ultimi esempi di successioni al vertice finite male. Chuck Prince e Stan O' Neal, incoronati da poco alla guida delle due principali istituzioni finanziarie americane, sono finiti entrambi impallinati dalla crisi dei mutui a fine anno, ingenerando il caos nella linea ereditaria del comando. Nessuna delle due banche era preparata a questa evenienza, «non avevano un piano, così come non ce l' ha il 60% delle società quotate a Wall Street», commenta Joseph Bower, esperto di strategia aziendale della Harvard Business School e autore di una serie di classici sull' argomento. Nel suo ultimo libro ("The Ceo Within", HBS Press), pubblicato in novembre, Bower si cimenta con il problema della leadership e sostiene che il miglior successore a capo di un' azienda, tranne rare eccezioni, viene immancabilmente dall' interno. Un' indicazione da tenere a mente nelle nomine di primavera ai vertici delle aziende italiane di Stato.
Perché è così?
«Semplicemente perché la preparazione di una valida squadra dirigente, da cui al momento buono uscirà l' erede al trono, fa parte integrante del ruolo di capo azienda e non può essere in alcun modo considerata solo nella fase finale del mandato. In pratica, un buon leader ha tre compiti fondamentali: capire dove va il mondo, identificare qual è il talento della sua impresa e utilizzare al meglio quel talento per creare valore. Pianificare la successione rientra a pieno titolo nel lavoro necessario per svolgere correttamente tutti e tre i compiti».
Lei indica il candidato ideale come un "inside outsider", un outsider che viene dall' interno. Che cosa intende?
«Si tratta di persone interne all' azienda che però sono riuscite in qualche modo a mantenere uno sguardo abbastanza distaccato dalle tradizioni aziendali da avere l' oggettività di un esterno. La distanza è necessaria, perché un buon Ceo deve guardare all' azienda che deve guidare come se l' avesse appena comperata». Qualche esempio? «Jeff Immelt, capo di General Electric, è un tipico inside outsider. Viene dalla divisione medica di GE, un settore con una cultura tutta sua. Steve Ballmer, successore di Bill Gates in Microsoft, rientra in questa categoria: ha cominciato a lavorare alla Procter & Gamble».
Tutti Ceo di grande successo. Ma ci sarà anche qualche esterno che ce la fa...
«Un buon esempio è Francesco Caio alla Merloni Elettrodomestici. Vittorio Merloni lo chiamò perché voleva dare una sterzata e far cambiare direzione all' azienda. Ed ebbe successo. In questo caso la scelta di un esterno è ragionevole. Chiamare un esterno se c' è una crisi di performance, invece, è un errore tipico delle grandi multinazionali».
Lei vuol dire che John Thain non sarà un buon leader per Merrill Lynch?
«Non dico questo. John Thain ha accumulato un' enorme esperienza a capo di Goldman Sachs ed è certamente un bravo banchiere. Ma possibile che una banca con oltre 50 mila dipendenti non possa trovare il suo massimo dirigente al proprio interno?»
Dopo una perdita di 8 miliardi...
«E' proprio quello il momento di ricorrere alle forze interne, per ritrovare l' identità perduta. Invece il ricorso agli esterni cresce nel mondo. E non è un buon segno. Segno che la successione viene considerata un evento, mentre è un processo».