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28 giugno 2009

Bioagricoltura e Ogm: un'alleanza che salverà il mondo?

Nell'orto botanico di Cascina Rosa, della Statale di Milano, cresce un melo più potente degli altri. E' stato creato per resistere alla melolonta, un elegante maggiolino che sta distruggendo i meli della Val d'Aosta. Le sue larve fanno strage delle radici e in breve tempo uccidono alberi di grande valore. Il melo valdostano così rischia l'estinzione, ma il suo omologo più resistente, costruito inserendo nel portainnesto un gene di Bacillus thuringiensis, è illegale in Italia. Non può essere piantato in terra e oggi non potrebbe nemmeno nascere, perché dal 2002 è bloccata anche la ricerca sugli Ogm, non solo la sperimentazione in campo. "In questo modo, per salvare il melo valdostano resta soltanto la chimica, ma anche quella in molti casi non basta: ci sono mele molto presenti sulle tavole degli italiani che subiscono ben 34 trattamenti antiparassitari all'anno, ma nessuno se ne preoccupa, invece dove gli Ogm sono legali, l'uso della chimica diminuisce drasticamente, come in Cina dove il cotone Ogm ha portato all'eliminazione quasi totale nell'uso di pesticidi, a tutto vantaggio della salute degli agricoltori e dei consumatori, per non parlare del risparmio sui costi di produzione", spiega Francesco Sala, il professore della Statale che ha creato i meli resistenti alla melolonta, inutilizzabili in Italia. "Le chiamano piante Frankenstein, ma mancano le prove che siano pericolose. Anzi, per la prima volta nella storia dell'agricoltura, gli ibridi prodotti con le biotecnologie devono essere sottoposti al vaglio di molte analisi scientifiche. Le piante utilizzate oggi in agricoltura, invece, non sono mai naturali, ma sono state selezionate senza tutti questi controlli. Per questo spesso sono più buone, ma più fragili dei loro antenati e hanno bisogno di interventi continui a base di pesticidi", precisa Sala. La situazione attuale dipende dalle condizioni storiche in cui si è sviluppata l'industria agraria nell'ultimo cinquantennio. La rivoluzione verde seguita alla seconda guerra mondiale ha contribuito a un enorme efficientamento delle tecniche agricole, ma alla perdita del 90% delle varietà di sementi utilizzate, rendendo gli agricoltori dipendenti da una o poche sementi, laddove un tempo ne usavano centinaia. Alla perdita di biodiversità, corrisponde la concentrazione dei produttori e rivenditori di sementi: nel 1990 le prime dieci società sementiere controllavano un quinto del mercato mondiale e nel 2000 il 32%, su un giro d'affari complessivo di 23 miliardi di dollari. Di pari passo, negli anni Settanta i produttori di pesticidi negli Usa erano 30, negli anni Novanta una decina. Sul fronte della ricerca, da un lato è cresciuta la genetica, che ha cercato di rendere le piante più resistenti dall'interno, ma nel contempo è cresciuta anche la chimica, da Montedison in poi, che punta allo stesso risultato con interventi esterni. Le multinazionali hanno utilizzato l'una e l'altra, creando un sistema integrato, fra sementi sterili, che devono essere ricomperate ogni anno, e trattamenti chimici mirati, a cui gli agricoltori non possono sottrarsi se entrano in quel sistema. "Alle multinazionali va sempre bene: se vogliamo gli Ogm ci danno gli Ogm, altrimenti ci danno i pesticidi, i loro guadagni li fanno comunque", commenta Sala. Per spezzare questo circolo vizioso, sta nascendo una rivoluzione verde 2.0, che punta a mettere a disposizione degli agricoltori le scoperte biotecnologiche, senza dover passare attraverso il sistema chiuso delle multinazionali. Richard Jefferson, un biologo australiano, ha fondato un movimento open source, Bios, che vorrebbe offrire al singolo gli strumenti di base per applicare da soli le biotecnologie, scegliendo liberamente l'approccio che preferisce. A chi è contrario agli Ogm si aprono così possibilità alternative d'intervento, come lo "smart breeding", una via di mezzo fra ingegneria genetica e selezione tradizionale. Con lo smart breeding si selezionano in laboratorio i geni da inserire per sviluppare determinate caratteristiche, si identifica la specie portatrice e poi si incrocia con la varietà locale usando le tecniche tradizionali. Il prodotto non è un Ogm e quindi non è brevettabile, ma la selezione è molto più rapida e precisa. In questo modo si potrebbe facilitare l'avvicinamento fra l'ingegneria genetica e l'agricoltura biologica, che molti genetisti considerano la carta vincente per il futuro. "L'agricoltura biologica ha dimostrato che è possibile ridurre drasticamente l'uso dei pesticidi", spiega Pamela Ronald, una genetista dell'Università della California a Davis, che ha isolato un gene capace di rendere il riso resistente a un batterio devastante per le risaie cinesi, brevettandolo e poi regalandolo a un gruppo di agronomi cinesi, che lo stanno inserendo nelle varietà ibride locali. "Ma le tecniche bio – aggiunge Ronald - presentano alcuni limiti invalicabili: molti parassiti e malattie delle piante non possono essere controllati con un approccio di questo tipo". Qui s'inserisce la prospettiva di un connubio con l'ingegneria genetica, che potrebbe diventare la soluzione migliore per saziare il mondo senza danneggiare l'ambiente.

La rivoluzione colturale parte dalle città

Gli antichi greci ci insegnano che l'umanità deve la capacità di coltivare i campi alla generosità di una dea. I semi di grano donati da Demetra al suo sacerdote, perché li distribuisse sorvolando il pianeta in lungo e in largo sul suo cocchio alato, hanno rappresentato per millenni il simbolo stesso della civiltà. Ma da allora ad oggi, le cose sono molto cambiate. Le tecniche agricole sviluppate dalla civiltà neolitica - in realtà ben prima e ben più a Est dell'Olimpo, nella Mezzaluna Fertile mediorientale oltre diecimila anni fa - si sono trasformate in una delle principali fonti d'inquinamento del pianeta. La benedizione della dea ha consentito all'umanità di moltiplicarsi e di colonizzare tutte le terre emerse, ma in questo processo ha causato danni colossali all'ambiente in cui viviamo. La deforestazione e il degrado del suolo sono andati avanti per millenni. L'avvento, nella prima metà del secolo scorso, dell'agricoltura meccanizzata e delle monoculture, per far fronte all'impennata dei fabbisogni alimentari mondiali, ha raddoppiato l'approvvigionamento globale di grano, mais e riso, ma ha nettamente aggravato i danni ambientali, portando alla perdita di biodiversità, al crescente consumo di combustibili fossili, all'uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici. Il livello di tossicità dell'industria agricola continua ad aumentare, man mano che le erbe infestanti e i parassiti diventano resistenti ai veleni. Queste dosi sempre più micidiali inondano l'ambiente a ogni acquazzone, degradando il suolo, "bruciato" dai fertilizzanti. Benché i pesticidi più pericolosi, tossici e a volte cancerogeni della prima metà del secolo scorso, siano stati pressoché eliminati dall'uso agricolo (ma il Ddt continua a essere usato nei Paesi in via di sviluppo), i loro effetti non sono stati del tutto rimossi e lo scolo di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti resta la principale fonte di inquinamento delle acque. Ora il sistema si scontra con i suoi limiti: le terre sfuttabili a fini agricoli sono sostanzialmente esaurite e la popolazione mondiale continua a crescere. La prima crisi, dovuta all'aumento repentino dei prezzi dei cereali, è avvenuta l'anno scorso, con una serie di rivolte del pane in tutto il Sud del mondo. Se la curva demografica globale ci porterà, come dicono le previsioni, a 9 miliardi di individui entro il 2050, per soddisfare la fame dell'umanità dovremmo aggiungere alle superfici attualmente coltivate un'estensione equivalente a tutto il territorio del Brasile. Ma questa terra arabile non esiste. Di conseguenza, gli esperti sono concordi nel sostenere che da qui ad allora l'agricoltura dovrà cambiare radicalmente faccia. Su cosa si baserà la nuova rivoluzione verde? La via che porta all'agricoltura sostenibile passa inevitabilmente per l'economia della conoscenza. Da un lato la conoscenza genetica delle piante consentirà di introdurre delle modifiche per renderle naturalmente resistenti ai parassiti, che abbattono di un terzo la produttività agricola del mondo, malgrado l'utilizzo diffuso di pesticidi. Dall'altro lato le conoscenze tecniche sull'energia verde, sulla desalinizzazione e sull'irrigazione “on demand” potranno ridurre la dipendenza dell'agricoltura dai combustibili fossili e gli enormi sprechi di acqua, consentendo anche di far fiorire il deserto, com'è già avvenuto in Israele. Le conoscenze urbanistiche, infine, ci spingono sempre di più a concentrare gli insediamenti per limitare l'eccessiva dispersione umana sul territorio, con il suo relativo impatto ambientale, e questa tendenza coinvolge anche la produzione alimentare. Basta guardare come si distribuisce la popolazione mondiale per capire che l'agricoltura urbana è il nostro futuro. All'inizio dell'800 il 90% degli americani lavorava la terra. All'inizio del '900 era il 40% e oggi non arriva al 4%. Lo stesso trend si ripropone in tutti i Paesi industrializzati. Quest'anno, per la prima volta nella storia dell'umanità, oltre la metà della popolazione mondiale risulta concentrata nelle città. E le previsioni dicono che nel 2050 gli agglomerati urbani ospiteranno l'80% dell'umanità. Per alimentare tutta questa gente, quale sistema migliore di costruire in loco le fattorie dove cresceranno le piante e gli animali destinati a sfamarli? Con 170 grattacieli di 30 piani, a pianta quadrata di due ettari (l'equivalente di un isolato a Manhattan), Dickson Despommier, professore alla Columbia University, assicura di essere in grado di sfamare tutta New York. Lotti vacanti o inutilizzati di questa dimensione in città ce ne sono 1.200: lui li ha contati. Con le tecniche di coltivazione idroponica, l'illuminazione a Led e la somministrazione controllata dell'esatta quantità di umidità e nutrienti necessari, le fattorie verticali di Despommier potrebbero produrre raccolti a ciclo continuo tutto l'anno, 20 volte di più di un appezzamento di terreno paragonabile. Potrebbero riciclare l'acqua che la città butta via, filtrandola e rimettendola in circolazione. Potrebbero produrre con il sole, il vento e la biomassa di scarto tutta l'energia necessaria per far funzionare ogni fattoria a impatto zero. Si tratta solo di decidere chi riuscirà a conquistare quell'ufficio d'angolo al trentesimo piano, esposto a Sud, con vista sull'oceano: i pomodori o le fragole?

Fattorie verticali per sfamare l'umanità urbanizzata

Dickson Despommier è un microbiologo della Columbia University, che ha passato 27 anni a studiare le malattie trasmesse dai parassiti, come la malaria o la scabbia. Nel corso dei suoi studi ha capito che l'agricoltura, così come viene praticata oggi, è una delle cause principali di diffusione delle epidemie. Daqui nasce l'idea della fattoria-grattacielo: trasferire le coltivazioni al chiuso, in condizioni controllate, è un buon sistema per eliminare i fattori patogeni ambientali. Ma anche per ridurre l'impronta agricola delle città, che divora sempre più territorio. "L'impronta agricola di New York ha le dimensionidella Virginia", spiega Despommier. "Quella sarebbe l'estensione che si libererebbe coltivando il cibo dei newyorkesi dentro la loro città, in verticale", precisa. "Il territorio liberato dalle coltivazioni potrebbe essere restituito alle foreste, con grande vantaggio per il bilancio delle emissioni. I contadini guadagnerebbero crediti, che alla lunga fruttano più del mais, nello spirito del protocollo di Kyoto". Nel 2001, Despommier ha messo a lavorare un team di ricercatori per definire meglio i dettagli tecnici ed economici delle fattorie verticali, arrivando a concepire un grattacielo di 30 piani in grado di nutrire 50mila persone per tutto l'anno, senza pesticidi e inquinamento. Ora il suo progetto ha attirato l'attenzione di un gigante delle costruzioni come Arup, che vorrebbe realizzarlo nella prima eco-città cinese, e di diverse municipalità, da Chicago a Las Vegas, da Shanghai a Inchon, in Sud Corea.

Gli alberi hanno sete? Mandano un sms al contadino

Serre nel deserto, che utilizzano l'acqua di mare per irrigare i filari, dopo averla distillata con il calore del sole. Dispositivi che riescono a sfruttare la rugiada per placare la sete degli ortaggi. Sistemi di irrigazione “on demand”, con cui le piante lanciano l'allarme da sole. La ricerca sfrutta ogni filone per risparmiare acqua. Come nel caso di un circuito che misura la conduttività elettrica all'interno della pianta e quando scende troppo trasmette una richiesta d'intervento al contadino: in caso d'emergenza, anche un sms. “La conduttività è correlata alla presenza d'acqua e indica con precisione se la pianta è a secco”, spiega Eran Raveh del Volcani Institute, il più grande centro di ricerca agricola d'Israele. “In questo modo – precisa Raveh – gli agricoltori potranno risparmiare dal 30 al 40% di acqua”.

25 giugno 2009

Wolfram Alpha e gli altri: il web semantico prossimo venturo

Trovare è sempre meglio di cercare. Ma per trovare nel mare magnum del web bisogna usare i termini giusti, in particolare se ci si avventura nel deep web, la rete profonda, quella dove neanche Google riesce a penetrare. Per quanto possa risultare difficile da credere, oltre i trilioni di pagine web indicizzate dall'algoritmo di Mountain View c'è un oceano di siti e informazioni che aspettano solo di essere catalogati e portati in superficie. L'attesa è legata non tanto a un difetto dei tradizionali motori di ricerca, quanto a una caratteristica intrinseca di internet. Per trovare i contenuti in rete si utilizzano dei web crawler, programmi-segugio che saltabeccano di collegamento in collegamento (hyperlink) in modo automatico, acquisendo una copia testuale di tutti i documenti visitati allo scopo di inserirla nell'indice di un motore di ricerca. Questi strumenti si sono rivelati inefficaci a scovare le risorse del deep web: non sono in grado di interrogare, per esempio, un database di una pagina dinamica, dato il numero infinito di termini che si potrebbero ricercare. In sostanza, riescono a sclafire solo la superficie, non vanno oltre la seconda domanda. Brightt, una società specializzata nell'indicizzazione di contenuti dinamci, valuta che gli attuali motori siano in grado di catalogare poco meno dell'1% dei contenuti presenti su internet. Ecco perché il web semantico resta una delle grandi promesse non mantenute della rete. Rendere internet un ambiente capace di fornire risposte evolute resta la sfida più difficile da raccogliere. Ma i malati di web continuano a provarci: Tim Berners-Lee insiste da anni su questo punto. Dagli ambienti che gli girano attorno nascono i nuovi software che tentano di addentrarsi nel deep web. Come ad esempio Kosmix (http://www.kosmix.com/), una start up che ha già ricevuto il sostegno di Jeff Bezos, nata per scavare laddove non c'è un collegamento ipertestuale. I crawler usati dai motori di ricerca convenzionali puntano a cercare l'ago nel pagliaio, mentre Kosmix cerca di esplorare il pagliaio. File Pdf, contenitori audio-video, banche dati ad accesso ristretto sono contenuti finora inaccessibili ai tradizionali crawler. A questo va aggiunto il fatto che il crawler è tutto sommato stupido. Non ragiona come un essere umano e non risponde alle domande formulate nel linguaggio corrente. Con gli attuali motori si inserisce una parola e il crawler scova tutte le pagine che contengono o sono collegate a quel termine. Ma le attuali tecnologie di ricerca non possono rispondere alle interrogazioni complesse, come la domanda: «Qual è il dottore migliore, vicino a casa mia, in grado di curare la tale malattia?» Per estrarre dei dati utili dal deep web, il software di ricerca deve analizzare i termini inseriti dall'utente e capire quali sono i database più utili per trovare informazioni relative a quei termini. Se per esempio un utente chiede “Rembrandt”, il software dovrebbe sapere quali banche dati contengono più informazioni sull'arte - dai cataloghi dei musei alle case d'asta – e che tipo di richieste verranno accettate da quelle banche dati. In questo spirito, una professoressa dell'università dello Utah, Juliana Freire, sta lavorando a un progetto molto ambizioso chiamato DeepPeep (http://www.deeppeep.org/), che punta a esplorare e indicizzare ogni banca dati presente sul web. Ma estrarre il contenuto da tutti questi database richiede una enorme capacità computazionale. Il modo più elementare sarebbe utilizzare per le proprie richieste tutte le parole del dizionario, ma DeepPeep ha già superato questo stadio e pone invece una serie di domande di base, con cui comincia a capire che tipo di database si trova di fronte, per poi scegliere dei termini di ricerca più mirati. Basandosi su questa analisi, il programma riesce a estrarre in media il 90% delle informazioni dalle banche dati che esplora. Il nuovo campo di ricerca aperto da questi pionieri ha già prodotto delle applicazioni interessanti. Wolfram Alpha (http://www.wolframalpha.com/), presentato all'università di Harvard a fine aprile, rappresenta un primo passo verso il web semantico. Per questo ha già sollevato un grande entusiasmo tra gli esperti: molti credono che questo nuovo motore di ricerca sarà una pietra miliare nell'evoluzione di internet e che diventerà un nuovo modello per utilizzare il computer per le ricerche in rete. Non contento di rispondere direttamente a delle domande come: “Quant'è alto il monte Everest?”, Wolfram Alpha genera una pagina molto chiara di informazioni con il soggetto richiesto, accompagnato anche da grafici e da tabelle. Ma la vera innovazione che porta questo nuovo motore di ricerca, è la capacità di trovare delle soluzioni a domande complesse in tempo reale. Stephen Wolfram, il suo inventore, è considerato una delle menti più acute e più stravaganti delle scienze matematiche. Figlio di ebrei tedeschi rifugiati in Inghilterra, enfant prodige della fisica delle particelle, laureato a 17 anni a Oxford, a 20 Wolfram aveva già ottenuto un dottorato al CalTech, ma l'anno dopo restava folgorato dall'informatica e in breve abbandonava la carriera accademica per dedicarsi ai computer. A meno di trent'anni era già miliardario, dopo aver sviluppato Mathematica, un package usato da tutti gli scienziati, gli ingegneri e i ricercatori del mondo per risolvere calcoli matematici complessi. Wolfram Alpha è stato sviluppato sulla base di Mathematica. Se gli domandate di “comparare l'altitudine dell'Everest con la lunghezza del Golden Gate Bridge”, ve lo dirà. Se volete sapere “che tempo faceva a Londra il giorno in cui il presidente Kennedy è stato assassinato”, il motore recupererà le informazioni e vi fornirà la risposta istantaneamente. Digitate “Re diesis maggiore" e vi farà ascoltare l'accordo. Se volete conoscere “la data della prossima eclisse solare su Chicago”, ve la indicherà.In occasione del lancio, Wolfram ha detto che voleva “rendere calcolabili le conoscenze che abbiamo accumulato nella nostra cività” e ha spiegato che il lancio di Wolfram Alpha non è che l'inizio del progetto. Il motore, ad accesso libero, basa le sue ricerche su internet e su delle banche dati inserite da privati e ci vorranno un migliaio di persone per tenerlo aggiornato con le ultime scoperte e informazioni. Considerando che Google e Microsoft (di cui è appena uscito Bing, un motore che ha le stesse ambizioni di Wolfram Alpha) si stanno muovendo entrambe in questa direzione, Wolfram Alpha potrebbe fare gola a molti. Wolfram ha già chiarito che non esclude la possibilità di alleanze o collaborazioni: “Vorremmo lavorare con tutte le società legate alla nostra attività. La ricerca, la narrazione, l'informazione sono complemetari a ciò che facciamo. Speriamo che ci saranno delle vere sinergie”.

14 giugno 2009

Via la cravatta per risparmiare energia

Via la cravatta. Per l'Eni è questa la parola d'ordine dell'estate. L’iniziativa, nata due anni fa, consiste nel sollecitare i dipendenti a un abbigliamento meno rigoroso in ufficio, con l’obiettivo di risparmiare energia. I risultati dell’iniziativa lo scorso anno sono stati molto positivi: alzando di un grado la temperatura interna dei suoi uffici, il Cane a sei zampe ha ottenuto un risparmio di energia elettrica di 302.000 kilowattora, pari a una diminuzione dei consumi di energia elettrica per climatizzazione del 9% e a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica di circa 175 tonnellate. Il risparmio economico derivato dall’iniziativa è stato investito in progetti di sostenibilità, nell'ambito di un impegno per l’efficienza energetica che è stato anche oggetto di una vasta campagna pubblicitaria, volta a spingere le famiglie italiane verso un consumo più razionale delle risorse energetiche. Ma l'Eni non è un caso isolato. Incoraggiare i dipendenti a togliere la cravatta in ufficio è una metafora per affrontare un argomento decisamente concreto, la sensibilizzazione sul tema dei consumi attribuibili all’uso smodato dei condizionatori d’aria durante i mesi estivi. In Spagna, dopo che un'azienda importante come Acciona ha raccomandato ai suoi 4.000 dipendenti un abbigliamento informale, è lo stesso governo a lavorare a un pacchetto di misure di risparmio energetico da proporre a tutti gli spagnoli. In Inghilterra il look tradizionale dell'uomo d'affari è mutato e non è difficile incontrare gli gnomi della finanza che si aggirano per la City in maniche di camicia. In Giappone è stata varata la campagna "cool biz", lanciata due anni fa dall'ex premier Junichiro Koizumi, che ha inaugurato il nuovo stile casual per i dipendenti pubblici e ha fatto risparmiare al Giappone 70 milioni di kilowattora. In Cina è stato il segretario Hu Jintao in persona a chiedere di indossare solo una camicia a maniche corte.

12 giugno 2009

Tecnologie pulite, un mercato da 150 miliardi

Le tecnologie pulite, che migliorano l'efficienza o riducono l'impatto ambientale relativo alla produzione di energia, sono in pieno boom: un mercato da 150 miliardi di dollari, che secondo le stime di un rapporto delle Nazioni Unite è destinato a crescere fino a 600 miliardi nel 2020. Il flusso degli investimenti si incanala in un'ampia varietà di tecnologie, dal solare ai biocarburanti, dall'eolico all'efficienza energetica. L'ultima novità arriva dalla Germania: un consorzio di 20 aziende tedesche ha in progetto di realizzare un investimento da 400 miliardi di euro da qui al 2050 per costruire centrali solari nel deserto del Sahara e distribuire l'energia in Europa. L'idea non è nuova, sono decenni che se ne parla. Ora, però, si stanno muovendo i primi passi. Con una previsione di investimenti enorme, visto che la trasmissione prevede la realizzazione di reti elettriche in corrente continua. Oltre a vasti campi di pannelli solari a concentrazione: grossi specchi che concentrano i raggi del sole su un tubo al cui interno passa un liquido. Questo, una volta scaldato, viene poi utilizzato per creare vapore acqueo in grado di alimentare una serie di turbine. I nomi sono di tutto rispetto. Sotto l'egida del colosso assicurativo Munich Re verrà creato il 13 luglio a Monaco di Baviera il consorzio Desertec, di cui fanno parte tra gli altri Siemens, Deutsche Bank e Rwe. La prima fornitura in Germania di energia solare proveniente dal Sahara dovrebbe aver luogo tra 10 anni. Nei piani del consorzio, Desertec dovrebbe coprire a medio termine il 15 per cento del fabbisogno energetico europeo. Il presidente di Munich Re, Thorsten Jeworrek, si è detto molto ottimista su una partecipazione a medio termine di aziende italiane e spagnole. Il Mediterraneo, a patto che ci siano la volontà politica e gli investimenti necessari, in qualche decennio potrebbe diventare un grande laboratorio per le energie rinnovabili. Ma non è l'unico esempio di investimenti in tecnologie futuribili. Sapphire Energy, una società basata a San Diego che sta cercando di produrre biocarburante dalle alghe, ha raccolto in primavera - già in piena crisi dei mercati - più di 100 milioni di dollari da un gruppo di investitori, inclusa la società di venture capital di Bill Gates, Cascade Investment. Eppure la tecnologia per estrarre biocarburante dalle alghe è ancora ai primi passi. Alcuni osservatori avanzano il sospetto che le tecnologie pulite siano destinate a seguire lo stesso percorso della Net Economy, con un periodo di euforia iniziale destinato a spegnersi nell'arco di pochi anni. Ma in realtà l'atteggiamento degli investitori sembra molto più prudente stavolta. “I capitalisti di ventura sono molto più focalizzati sulla vendibilità di queste tecnologie al consumatore finale”, spiega Peter Linthwaite, amministratore delegato di Carbon Trust Investment. “Non a caso c'è un grande flusso di capitali verso l'eolico o il solare di grandi dimensioni, mentre mancano fondi per le piccole società che hanno progetti interessanti ma non ancora commercializzabili”, precisa Linthwaite. “Non è così che si gonfia una bolla”, commenta. Vero è che le tecnologie più affermate, come l'eolico o il solare, sono quelle che corrono di più. L'interesse dell'industria energetica per l'energia del vento è stato dimostrato dal valore crescente delle acquisizioni. Alla fine dell'anno scorso, il leader tedesco dell'energia Eon ha comprato per 1,4 miliardi di dollari i campi eolici americani di Airtricity, battendo tutti i record del settore, ma già all'inizio di quest'anno la Scottish and Southern Energy ha comprato il resto della compagnia eolica irlandese per 1,45 miliardi di euro. Un altro settore attraente per gli investitori è quello dell'efficienza energetica, nelle sue varie applicazioni. Le tecnologie che aiutano a tagliare i consumi dei server aziendali sono le più popolari. Ma vendono bene anche le tecnologie che aiutano le compagnie elettriche a far risparmiare energia ai propri utenti e a spostare i consumi nelle ore notturne. Enel, ad esempio, ha investito 2 miliardi di euro nei contatori elettronici, portando l'Italia all'avanguardia nel movimento di informatizzazione della rete. “L'installazione dei contatori intelligenti in 31 milioni di case – spiegano all'Enel - ci consente di offrire tariffe molto diversificate a seconda degli orari o dei giorni, ma anche di misurare la produzione dei piccoli impianti fotovoltaici familiari, che ormai sono molto numerosi. E il passaggio alla telelettura per noi significa un risparmio di 3-400 milioni all'anno”.

Sfida all'ultimo barile fra Est e Ovest

I consumatori italiani se ne accorgono solo quando Mosca chiude i rubinetti del gas, ma la battaglia senza quartiere tra Est e Ovest per il dominio mondiale dell'energia, che dura da almeno sessant'anni, è ancora d'attualità. Nel suo libro, “Sfida all'ultimo barile” (Brioschi), Stefano Casertano ripercorre tutta la storia della Guerra Fredda dal punto di vista delle risorse energetiche. Un'analisi che arriva a fagiolo, proprio quando sta per riproporsi un'altra crisi del gas e le oscillazioni del prezzo del petrolio danno le vertigini anche ai più esperti. Il crollo della cortina di ferro, infatti, non ha certo arrestato un conflitto che prende aspetti sempre più estremi. Tanto che il concetto di “nuova guerra fredda” gode da qualche tempo di sorprendente popolarità. “Ci sono tanti spunti, dalle misteriose morti di ex-spie e giornalisti russi al litigio sui missili nella Repubblica Ceca, che negarne l'uso sarebbe quasi un torto”, commenta Casertano, consulente per clienti pubblici e privati, tra cui il Carter Institute di Joseph Stiglitz e il progetto Millennium Villages di Jeffrey Sachs. E' chiaro che la “guerra fredda energetica” non è mai terminata, perché “la disgregazione sovietica non è stata la fine del soggetto politico russo, ma una sua riorganizzazione strategica”. Per ritrovarne traccia, basta guardare come si sta muovendo il Cremlino per contrastare il progetto europeo Nabucco, un gasdotto pensato per portare il metano del Caucaso direttamente in Europa, svincolando i produttori dall'ingombrante intermediario russo. “Mosca non commenta lo sviluppo del gasdotto Nabucco, ma sta provando un'altra tattica: comprare gli azionisti del progetto”, spiega Casertano. “E' per questo che Gazprom è entrata in Mol, azienda energetica ungherese e tra i principali investitori in Nabucco. Non basta: in Ungheria aziende russe stanno comprando compagnie aeree, reti di distribuzione del gas e altro ancora”. In fondo, conclusa la fase del controllo politico tramite governi fantoccio, non c'è motivo per Mosca di rinunciare a esercitare un'influenza importante sui vicini, utilizzando strumenti diversi. La sfida all'ultimo barile si combatte anche così.

9 giugno 2009

Il 15 giugno giornata mondiale del vento

Una pala eolica che svetta su Villa Borghese, un trekking eolico nel Fortore per visitare i parchi più suggestivi, un volo di aquiloni nel cielo di Andalo, una regata sul Garda, una mostra al Museo della bora di Trieste, un festival del windsurf a Porto Ercole: cosa avranno mai in comune tutte queste attività? Il vento. E infatti si svolgono, organizzate dall’Anev, in occasione della Giornata del vento, che quest’anno da europea diventa mondiale. Il 15 giugno cinque continenti saranno uniti da eventi, convegni, feste e concorsi per celebrare e promuovere questa fonte di energia pulita. Dall’Australia alla Lituania, dall’India agli Stati Uniti, moltissimi impianti eolici apriranno le loro porte ai visitatori interessati a capire come funzionano i nuovi mulini a vento. In Italia, al centro di tutte le attività, oltre ai convegni, gli incontri e i laboratori che assicureranno una completa informazione di carattere tecnico, normativo, ambientale e regolatorio sull’energia elettrica da fonte eolica, ci sarà una esposizione dei principali operatori del settore nella suggestiva cornice romana del Parco dei Daini, ai piedi della pala eolica dimostrativa. L’impianto, che domina gli storici platani, rimarrà esposto fino al 21 giugno: se fosse messo in funzione sarebbe in grado di produrre 660 chilowatt l’ora. Le iniziative programmate in Italia, che si susseguono per tutto giugno ai quattro angoli dello stivale, sono di carattere scientifico, culturale, ludico, didattico e di intrattenimento, finalizzato alla diffusione di una corretta informazione sulle tematiche connesse all’energia del vento: il calendario si può consultare sul sito www.anev.org e http://www.globalwindday.org/.

5 giugno 2009

I green jobs salveranno il mercato del lavoro?

Un potenziale occupazionale di 250mila posti di lavoro nel 2020 per le fonti rinnovabili, di cui oltre 77mila per l'eolico. E' questo il risultato di uno studio dello Iefe dell'università Bocconi sulle pospettive di sviluppo delle tecnologie rinnovabili, che fotografa l'Italia energetica del 2020 analizzando diversi scenari. Il risultato dello Iefe coincide a grandi linee con l'analisi dell'Anev, che valuta il potenziale occupazionale del vento in Italia attorno ai 66mila posti di lavoro al 2020, se si realizzeranno i 16.000 MW eolici che il nostro Paese potrebbe ospitare. I due studi s'inseriscono in un esercizio prospettico che hanno fatto in tanti: in un momento di cambiamenti epocali nell'organizzazione del sistema produttivo e di forte crisi economica come questo, sono cresciute le aspettative legate al ruolo positivo che l’innovazione tecnologica in campo energetico-ambientale può giocare sulla ripresa. Basti citare un recente rapporto curato dall’Unep, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite, in cui si sottolinea come nei prossimi anni saranno soprattutto i green jobs ad ingrossare le fila dell’occupazione: solo nelle fonti rinnovabili, infatti, si passerà dagli attuali 2,3 milioni di occupati ad oltre 20 milioni di addetti nel 2030. Lo studio Iefe parte dalla considerazione che le politiche energetiche europee potranno garantire “un'opportunità di business e di sviluppo occupazionale per il nostro Paese” se gli sforzi si concentreranno sull'industria nazionale. L'Italia presenta infatti “buoni livelli di attrattività degli investimenti”, ma per farcela occorre eliminare alcune barriere: un “quadro regolatorio incerto e instabile” e “le difficoltà di gestione dei flussi elettrici, a fronte di problemi di congestione e di alcune rigidità delle reti di trasporto”. Poi c'è il fronte industriale. Gli impianti che sfruttano le energie rinnovabili nel nostro Paese sono in decisa crescita, in particolare eolico e fotovoltaico, ma in certi settori la filiera industriale non capitalizza i segmenti con maggiori margini di guadagno. E' per questo che occorre “sfruttare le risorse e le competenze già acquisite in altri settori manifatturieri (meccanica, automazione, elettrotecnica ed elettronica) per non lasciare il campo alle sole importazioni di apparati e componenti industriali degli impianti a fonti rinnovabili”. Per quanto riguarda l'eolico, in realtà, la fascia alta della filiera, quella che si occupa della produzione degli aerogeneratori, è già piuttosto ben rappresentata. Con il suo stabilimento di Taranto, in dieci anni di presenza in Italia il colosso danese Vestas ha prodotto più turbine di tutto il parco installato nel nostro Paese. Con un migliaio di occupati, i danesi rappresentano ormai un tassello molto importante nel panorama industriale pugliese. E ci sono altre due aziende, agli estremi opposti dello stivale - il gruppo Leitner a Vipiteno e il gruppo Moncada a Porto Empedocle – che hanno appena cominciato a produrre i primi aerogeneratori tutti italiani. Per non parlare della miriade di aziende meccaniche ed elettroniche che forniscono componenti molto importanti per il funzionamento dei grandi mulini. Non a caso, fra i professionisti “verdi” più ricercati nel mercato del lavoro, ci sono proprio il progettista meccanico e l'addetto al montaggio delle turbine. Due profili che le aziende fanno sempre più fatica a trovare.

1 giugno 2009

Il vento si prende la rivincita sull'oscurantismo snob

Ernesto Galli Della Loggia tuona contro la “lebbra eolica”. Alberto Asor Rosa plaude al “divieto di pala” proclamato da Volterra nel suo circondario. Vittorio Sgarbi si appella al capo dello Stato perché “intervenga contro lo stupro delle pale eoliche”. Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, annuncia fiero di essere riuscito “a fermare la macchina dell'eolico”. Ma anche il sindaco di Gela Rosario Crocetta, politicamente agli antipodi, dice che sul golfo di Gela, tra il petrolchimico, i pozzi e le trivelle, vuole gettare “uno sguardo pulito”, non offuscato dai mulini a vento che l'Enel progetta di piantare a quasi 6 (sei) chilometri dalla costa. “Vogliono rubarci anche la bellezza – rincara Sgarbi, sindaco di Salemi - l'ultima cosa che rimane alla Sicilia martoriata dalla mafia, dalla criminalità, dalla speculazione, dall’ignoranza”. Il più accanito di tutti è l'ex ministro dell'Ambiente Carlo Ripa Di Meana, che da anni ormai guida Italia Nostra in una crociata senza quartiere contro l'eolico, dalle Alpi alle Piramidi: “Le gigantesche centrali industriali eoliche, che si avvicinano ormai ai 150 metri di altezza, sono rovinose per il paesaggio italiano in ogni sua espressione: addosso alle sue città d'arte, come Perugia e Lecce, lungo le sue coste, come nel Golfo di Policastro e a Otranto, lungo i suoi crinali appenninici e domani lungo lo skyline delle Prealpi e delle Alpi”. Per loro e per molti altri, l'Italia dovrebbe bandire l'eolico dai suoi confini: un Paese de-eolicizzato. Ma non tutti la pensano così. Legambiente e Greenpeace hanno appena firmato un protocollo d'intesa con l'Associazione nazionale energia del vento, che raggruppa gli operatori dell'eolico in Italia, per il corretto inserimento degli impianti eolici nel paesaggio. "In assenza di una direttiva nazionale che desse dei criteri di limitazione, gli associati Anev si sono sempre autoregolamentati con una speciale attenzione nei confronti del territorio italiano, che presenta caratteristiche particolari, estetiche e orografiche", spiega Simone Togni, direttore generale dell'azzociazione. Ora questi criteri sono stati codificati meglio e condivisi con le associazioni ambientaliste. "L'intesa esclude la costruzione di parchi eolici da tutte quelle aree che, pur non essendo precluse dalla normativa vigente, sono di particolare pregio ambientale e paesaggistico. Impone l'utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, quindi le più efficienti e silenziose. Obbliga alla minimizzazione degli impatti visivi e al ripristino totale dello stato dei luoghi al termine dei 15 anni di vita tecnica degli impianti", precisa Togni. Il protocollo d'intesa mette tutti i crociati della campagna anti-eolico di fronte alla realtà: le associazioni ambientaliste sono in maggioranza dalla parte delle pale. "Questo rispecchia la posizione prevalente nella popolazione: in generale l'accettazione dei nostri impianti è molto alta e non c'è un singolo progetto eolico che sia stato bloccato dalle proteste locali. Perfino il famoso caso del parco eolico di Scansano, portato davanti al giudice da un proprietario terriero del posto e da Italia Nostra, è finito in nulla e le pale continuano a girare come prima", sostiene Togni. Lo dimostrano i vari sondaggi d'opinione condotti sia dall'Anev che da fonti indipendenti, dove le percentuali di favorevoli alla costruzione di campi eolici, anche vicini a casa, si aggira sul 95%. Ma lo dimostra anche la popolarità dell'immagine delle pale, che vengono scelte come sfondo dalle pubblicità di tutte le più grandi case automobilistiche, dalla Toyota alla Bmw, e perfino dai cartelloni dei politici in campagna elettorale. Chi ha ragione, dunque? Chi spera di rastrellare consensi scagliandosi contro l'energia del vento o chi la utilizza per farsi pubblicità? "A giudicare dall'esito delle elezioni, si direbbe che i politici filo-eolico abbiano centrato l'obiettivo meglio degli altri", commenta Togni. Man mano che l'energia del vento si diffonde, anzi, sembra che la percezione migliori invece di peggiorare. Forse un giorno le pale saranno viste come i mulini a vento dell'Olanda, che ormai fanno parte del paesaggio e sono diventati un simbolo di civiltà.