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28 maggio 2010

Grandi Stazioni in viaggio verso i soci privati

La parola d'ordine viene dall'alto ed è: dismettere, privatizzare. Non solo i
tesori del Demanio militare o degli enti locali, ma anche delle Ferrovie dello
Stato, appesantite da 9,5 miliardi di debiti. L'obiettivo è soprattutto fare
cassa valorizzando asset inutilizzati, ma potrebbe anche essere di dare in
mano a chi li sa gestire servizi diversi dal core business ferroviario. Come
le Grandi Stazioni, che sono ormai sempre meno piattaforme di traffico e
sempre più centri commerciali, con tutte le dinamiche a loro proprie.
Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie, conviene che "quello che non
rende si vende". Ma per Grandi Stazioni, aggiunge, non è ancora arrivato il
momento giusto. "Non dimentichiamo che una grande stazione non è soltanto un
mall ma anche uno snodo ferroviario", puntualizza. Dopo il lungo braccio di
ferro che ha opposto l'ad del gruppo Mauro Moretti ai soci privati Benetton,
Caltagirone e Pirelli, per gli enormi ritardi accumulati sulla tabella di
marcia delle ristrutturazioni - concluso nel 2008 con la nomina del nuovo
amministratore delegato Fabio Battaggia, in quota Benetton - ora i conti vanno
meglio. Nel 2009, malgrado la crisi, sono saliti sia i ricavi operativi (207
milioni rispetto ai 180 del 2008), sia il margine operativo lordo (a 64
milioni dai 37 del 2008), sia l'utile netto consolidato a 40 milioni, in
crescita di 22. "E quindi un'ulteriore privatizzazione per ora non è
all'ordine del giorno - commenta Cipolletta - anche se nulla si può escludere
in prospettiva".
Altro discorso per Sistemi Urbani, la società del gruppo che ha il compito di
valorizzare il patrimonio del Gruppo FS non funzionale all’esercizio
ferroviario: terreni, stazioni dismesse, ex terminal cargo in abbandono. "Solo
a Milano ci sono quattro aree molto vaste che non servono più e potrebbero
essere valorizzate: lo scalo Farini, Greco, Lambrate e il lotto Porta
Romana-Porta Genova, che in tutto fanno 2 milioni e mezzo di metri quadri, con
valori immobiliari enormi", spiega Oliviero Baccelli del Certet Bocconi. A
Bologna, su un terreno delle Ferrovie è sorta la nuova sede del Comune, con
uffici per 1500 dipendenti, ma resta ancora quasi un milione di metri quadri
da valorizzare. Iniziative simili sono previste in ogni angolo d'Italia. I
rapporti difficili con i Comuni e in qualche caso la mancanza di esperienza in
materia, però, hanno fatto rallentare le dismissioni. E ora il momento non è
dei più propizi. "Da questo veicolo le Ferrovie si aspettavano entrate
ingenti, che invece non sono ancora arrivate", precisa Baccelli. Un altro
asset da valorizzare potrebbe essere Centostazioni, dove i soci privati sono
la Save-Aeroporto di Venezia - controllata dal tandem Enrico Marchi e Andrea
de Vido - e la cooperativa Manutencoop.
Ma con la crisi che continua e la concorrenza del Nuovo Trasporto Viaggiatori
che incombe, la società più facile da privatizzare rapidamente è senz'altro
Grandi Stazioni, che ha già fra i soci Francesco Gaetano Caltagirone, il
costruttore più liquido d'Italia. "Le ristrutturazioni sono molto in ritardo
e avranno bisogno ancora di pesanti investimenti: delle 13 stazioni in
programma, senza considerare quelle dell'Alta Velocità, l'unica veramente
completata è Roma Termini. A Milano e Torino c'è ancora parecchio da fare, a
Bologna e Napoli è stato fatto poco, a Venezia e Firenze quasi niente, mentre
i due scali di Genova sono appena da cominciare, solo per citare le
principali", fa notare Baccelli.
D'altra parte, la crisi colpisce i viaggiatori e la previsione di un raddoppio
dei passeggeri per l'Alta Velocità e gli Eurostar da qui al 2015, con i
prezzi che corrono, potrebbe essere azzardata. Anche perché nel frattempo
scenderanno in campo i bolidi di Montezemolo e Della Valle, proprio sulla
tratta più remunerativa. I tedeschi della Deutsche Bahn sono già sbarcati
sulla tratta Bologna-Brennero. E sul fronte del trasporto pendolari si sta
facendo avanti Giuseppe Arena, con un servizio espresso molto atteso fra
Torino e Milano. L'Authority di Antonio Catricalà chiede più concorrenza
sulle ferrovie. Ma già così i binari per Mauro Moretti si stanno facendo
bollenti.

26 maggio 2010

Da Goteborg a Los Angeles, le banchine diventano elettrificate

Il cold ironing è un sistema già abbastanza diffuso in Europa e nel mondo, soprattutto fra quei porti che vogliono crescere senza danneggiare troppo l’equilibrio ambientale dell'area. Il primo porto a sfruttare l’elettrificazione delle banchine per alimentare le navi in sosta è stato quello di Goteborg, in Svezia, nel lontano 1999. Nello scalo svedese sono infatti presenti cinque banchine elettrificate in bassa e media tensione, con una potenza di 1,25 MW e una connessione a 6 o a 11 kv, che forniscono supporto ai traghetti della Dfds Tor Line e alle navi-container della cartiera Stora Enso. La cartiera ha ammodernato tutta la sua flotta ed è uno dei principali utilizzatori di questo nuovo trend. Le sue navi container, infatti, sfruttano anche le banchine elettrificate del porto di Lubecca, in Germania, a partire dal 2008, di quelli di Oulu, Kemi e Kotka in Finlandia e di quello di Zeebrugge, in Belgio. Dove arrivano anche i traghetti della Dfds Tor Line. Oltre all’Europa, l’unico altro posto dove il cold ironing ha preso piede fino ad oggi è il Nord America. Dal 2001 il porto di Juneau, in Alaska, si è dotato di una banchina elettrificata per le navi da crociera, utilizzata dalla Princess Cruise e dalla Holland America del gruppo Carnival. Sulla costa Ovest, invece, si sono attrezzate Los Angeles (dal 2004), Seattle (dal 2005) e lo scorso anno Vancouver. A Seattle e a Vancouver si appoggiano le navi crociera, mentre Los Angeles è il riferimento mondiale per la connessione di navi porta container: alle sue banchine elettrificate si connettono le navi della China Shipping e della Nippon Yusen.

24 maggio 2010

Venter a caccia del batterio fotosintetico giusto

L'energia, la chimica, l'agroalimentare, oltre ovviamente alla medicina, ringraziano Craig Venter, lo scienziato-imprenditore che è riuscito a inserire un genoma artificiale in un batterio capace di auto-replicarsi. La nuova "macchina metabolica" creata dal biologo surfista non cambierà nell'immediato i processi industriali basati sulle biotecnologie, ma spinge le capacità umane di manipolazione della vita ben oltre i limiti raggiunti fino ad oggi. E le prospettive di utilizzo sono dietro l'angolo, tanto che il presidente Barack Obama ha chiesto alla commissione di bioetica della Casa Bianca di indagare sui "potenziali benefici medici, ambientali e per la sicurezza" di queste ricerche e sui possibili rischi.
Lo stesso Venter, del resto, aveva già chiarito a suo tempo dove vuole andare a parare: "Nel giro dei prossimi vent'anni - dichiarò nel 2007 - la biologia sintetica diventerà il processo standard usato per produrre qualsiasi cosa. Dominerà completamente l'industria chimica. Dominerà, spero, in larga misura
anche il settore energetico. E' davvero urgente trovare un'alternativa all'idea di estrarre combustibili fossili, bruciarli e rimettere tutta quell'anidride carbonica nell'atmosfera. Questo è il contributo più grande che vorrei dare all'umanità". Non a caso la sua Synthetic Genomics ha ricevuto l'anno scorso un finanziamento di 600 milioni di dollari dal colosso petrolifero ExxonMobil per trovare la pietra filosofale dell'energia: un batterio capace di trasformare quello che mangia – dagli scarti agricoli ai residui industriali – in combustibile, come una minuscola bioraffineria. Ma in prospettiva, Venter vorrebbe andare ancora più in là, eliminando la materia prima di partenza: perché sobbarcarsi la fatica di mettere in piedi un processo pianta-microrganismo-carburante, quando si potrebbero creare batteri fotosintetici in grado di elaborare nei loro processi metabolici direttamente il carbonio che c'è nell'aria, utilizzando l'energia che ricevono dal sole? In questo modo, Synthetic Genomics riuscirebbe addirittura a prendere due piccioni con una fava: produrre biocarburante assorbendo anidride carbonica dall'atmosfera e quindi contrastando l'effetto serra.

11 maggio 2010

Caro Partito Democratico, sostieni il nucleare

Una settantina tra universitari, parlamentari, imprenditori e giornalisti chiedono al segretario del Partito Democratico di non escludere l'opzione del ritorno all'energia nucleare: questa è la lettera aperta, pubblicata dal Riformista http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/223074/ «L'energia nucleare, quasi ovunque, nel mondo industrializzato è vista come un'insostituibile opportunità che contribuisce alla riduzione del peso delle fonti fossili sulla generazione di energia elettrica, compatibile con un modello di sviluppo ecosostenibile», si legge nella lettera, firmata, tra gli altri, dall'oncologo Umberto Veronesi, dall'astronoma Margherita Hack, dal fisico Carlo Bernardini, dall'ex presidente dell'Enel (e in passato di Legambiente) Chicco Testa e dall'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu.L'appello a Bersani «Sebbene la legge che reintroduce la possibilità di utilizzo del nucleare contenga forzature e punti sbagliati e ci siano limiti nell'azione di governo per la realizzazione dell'annunciato programma nucleare, riteniamo che non sia in alcun modo giustificata l'avversione al reingresso dell'Italia nelle tecnologie nucleari», dice ancora l'appello, che chiede a Bersani «di garantire che le sedi nazionali e locali del Pd, gli organi di stampa, le sedi di riflessione esterna consentano un confronto aperto e pragmatico». «Riterremmo innaturale e incomprensibile ogni chiusura preventiva su un tema che riguarda scelte strategiche di politica energetica, innovazione tecnologica e sviluppo industriale così critiche e con impatto di così lungo termine per il nostro Paese». Per i firmatari dell'appello pro atomo «importiamo più dell'80% dell'energia primaria di cui abbiamo bisogno, principalmente, da paesi geopoliticamente problematici. Produciamo l'energia elettrica per il 70% con combustibili fossili. Circa il 15 la importiamo dall'estero e prevalentemente di origine nucleare... Con le rinnovabili, se escludiamo l'idroelettrico... produciamo circa il 6%. L'energia solare per la quale sono stati investiti fino a ora circa 4 miliardi, ben ripagati dai generosi incentivi concessi fino a oggi dal sistema elettrico italiano, contribuisce al nostro fabbisogno elettrico per lo 0,2%».

6 maggio 2010

Due robot per fermare la marea nera

La marea nera che sommerge le coste della Louisiana s'ingrossa: dai 5 ai 25mila barili di greggio si riversano ogni giorno nel Golfo del Messico dal pozzo di petrolio che Bp stava trivellando quando la piattaforma Deep Horizon è esplosa. Per chiudere questo enorme rubinetto che perde, il sistema più rapido è cercare di rimettere in sesto la valvola che non ha funzionato, mandando a 1.500 metri di profondità un sottomarino con un braccio teleguidato via cavo, per operare sulla testa di pozzo. Un intervento complicatissimo, che infatti per ora è fallito. Ma non per colpa dei due robot della guardia costiera americana, che sono stati utilizzati nel tentativo. Si tratta di due Rov (Remote Operated Vehicles) molto sofisticati, che fanno parte di un mercato, quello della robotica sottomarina, ormai consolidato e in fortissima crescita. Nel 2009 per questo tipo di robot sono stati spesi 1,7 miliardi di dollari a livello globale. Ma secondo l'ultimo rapporto targato Douglas-Westwood, in questo quinquennio ne serviranno almeno altri 550 per soddisfare la domanda crescente, che dovrebbe arrivare a 3,2 miliardi nel 2014. E i veicoli teleguidati via cavo sono solo uno dei due segmenti principali del mercato complessivo. L'altro segmento rilevante è quello degli Auv (Autonomous Underwater Vehicles): ce ne sono già 629 in giro per il mondo e in questo decennio ne serviranno almeno altri 1200 secondo Douglas-Westwood, per un valore di 2,3 miliardi di dollari, ma si potrebbe arrivare anche a 1800 unità, per 3,8 miliardi di dollari. Gli assoluti dominatori di questo mercato sono i norvegesi: il colosso militare Kongsberg ha acquisito due anni fa l'americana Hydroid - non senza polemiche vista la rilevanza strategica del settore - che produce Remus, il sottomarino autonomo più diffuso sul mercato. Ma si stanno affermando anche i battelli di superficie senza equipaggio, utilizzati come i droni aerei soprattutto per scopi militari, dalla sorveglianza delle coste alle operazioni antimine: qui prevalgono decisamente gli israeliani. La differenza essenziale fra le due categorie di robot sottomarini è la presenza o meno di un cavo che li collega alla stazione di pilotaggio. "Per intervenire fisicamente su un impianto vengono usati quasi sempre veicoli telecomandati via cavo", spiega Massimo Caccia, fra i massimi esperti italiani di robotica sottomarina, responsabile della sezione di Genova dell'Istituto di studi sui sistemi intelligenti e l'automazione del Cnr. Il motivo è semplice: con il cavo si può immettere potenza e quindi dare più forza ai bracci teleguidati, consentendo anche una maggiore interazione con il pilota. In più, via cavo si possono trasmettere molti più dati alla base. "I veicoli autonomi, invece, registrano con telecamere e sensori una massa di dati, che poi vengono estratti in superficie", precisa Caccia. L'ultima frontiera di questo tipo di robot è lo sviluppo di funzioni di comportamento adattivo, che inducono reazioni "intelligenti" agli input ricevuti, per adattare sempre più i loro movimenti ai dati raccolti sul campo. "In pratica, si cerca di far prendere direttamente a loro le decisioni necessarie per condurre al meglio la propria missione". Nelle situazioni di emergenza o di guerra, una valutazione rapida della situazione e una risposta pertinente, possono risultare fondamentali. "Questa è la direzione che stanno prendendo i nostri studi", ragiona Caccia, che ha già al suo attivo lo sviluppo, insieme ai colleghi dell'Issia, di due Rov - Roby e Romeo - e di due veicoli di superficie senza equipaggio, Charlie e Alanis. "In Italia c'è un enorme bacino di competenze in materia di robotica sottomarina, non solo dentro al Cnr, ma anche nell'Isme (Interuniversity Center Integrated Systems for Marine Environment), che si ritrova anche nel tessuto produttivo ligure, in particolare nel distretto tecnologico di Genova dei sistemi intelligenti integrati e in quello delle tecnologie marine di La Spezia - fa notare Caccia - da cui stiamo cercando di stimolare la nascita di un polo italiano in questo campo così promettente".

4 maggio 2010

Cloud computing, nuvola verde o nuvola grigia?

Sarà una nuvola verde o una nuvola grigia? Uno dei principali paradossi del cloud computing è proprio la naturalezza con cui i suoi fautori lo hanno già dipinto di verde a prescindere da qualsiasi misurazione. Istintivamente, viene da dargli ragione. In fondo, l'outsourcing dei database dovrebbe portare maggiore efficienza nel sistema e quindi un risparmio di energia: invece che avere un milione di piccoli server mezzi vuoti sparsi qua e là, ne avremo uno grosso tutto pieno, molto più efficiente e risparmioso. E' lo stesso concetto dell'auto elettrica: con la sua diffusione non sostituiremo necessariamente una fonte di energia con un'altra più pulita, ma concentreremo lo sfruttamento dei combustibili fossili da un milione di motori a combustione interna a una singola centrale, più efficiente e quindi meno inquinante, da cui ogni veicolo caricherà poi la sua batteria per circolare. La produzione concentrata, come la memoria concentrata, è sempre più conveniente. Ma... Il cloud computing non è soltanto un'azione di sostituzione (invece di comprare uno storage interno affitto uno spazio virtuale), ma anche di enorme ampliamento delle potenzialità di memoria. Ora abbiamo la possibilità di far girare le nostre applicazioni su migliaia di server, cosa che prima non era nemmeno pensabile. E quando nasce una possibilità nuova, la nostra tendenza naturale è sfruttarla. Per riprendere la metafora di prima, come noto, più autostrade si costruiscono e più macchine si metteranno in marcia. In altre parole, immagazzinare i dati tutti assieme in un grosso server ci consentirà sì di consumare l'80% di energia in meno per ciascuna unità di memoria, ma se avremo mille volte più capacità di prima, tenderemo a sfruttarla e quindi alla fine il bilancio energetico andrà decisamente in rosso. Anzi, è quello che sta già accadendo: il rapido aumento di servizi online, che coinvolgono lo stile di vita di tutti noi oltre alle aziende piccole e grandi, sta portando il settore a livelli di consumo energetico analoghi a quelli delle industrie più energivore. Tra il 2000 e il 2006 il fabbisogno energetico della rete è raddoppiato e le emissioni dell'information technology hanno una loro “legge di Moore”, tanto che ormai sono quasi equivalenti a quelle del trasporto aereo. Flickr e Picasa, GMail e Facebook, passando per le applicazioni mobili e tutto il software as a service, stanno innalzando l'impatto ambientale del settore più di quanto stimato in precedenza. Greenpeace, nel nuovo rapporto Make IT Green, stima che i data center e le reti di telecomunicazione, all'attuale tasso di crescita, consumeranno quasi duemila miliardi di kilowattora di elettricità nel 2020. È oltre il triplo del loro consumo attuale e più del consumo elettrico di Francia, Germania, Canada e Brasile messi insieme. Greenpeace mette in luce una dimensione spesso nascosta agli occhi degli utenti, i quali vedono soltanto il risultato finale dell'elaborazione, senza avere esatta conoscenza delle dinamiche che reggono l'alimentazione delle immense web farm dedicate alla gestione dei dati. E così scopriamo che i tanto decantati vantaggi ambientali del cloud computing sono più che altro un'operazione di marketing. La problematica non è sfuggita agli IT manager, che nell'ultimo Green Survey di Rackspace si sono divisi sulla questione: solo il 21% resta ancora convinto che il cloud computing sia una scelta decisamente verde, mentre il 19% si è reso conto che le potenzialità verdi del cloud computing non si sono ancora realizzate, il 25% si dice infastidito da tutta l'enfasi verde che lo circonda e il 35% ha dichiarato di non essere per niente convinto dei suoi vantaggi ambientali. Ma non tutto è perduto, per la nuvola verde. La concentrazione dei database in effetti potrebbe portare dei vantaggi ambientali, se i giganti del settore, da Google a Amazon, optassero per un'alimentazione sostenibile dei loro server, utilizzando solo energia da fonti rinnovabili o altri sistemi per abbattere in maniera consistente i consumi di energia da fonte fossile. Un fulgido esempio di comportamento virtuoso in questo senso ci arriva da Helsinki. Nella capitale finlandese, dove la penetrazione della banda larga è fra le più alte del mondo e quindi la memoria virtuale ha il suo peso, è stata avviata all'inizio di quest'anno una web farm davvero straordinaria, collocata in un ex rifugio antiaereo scavato nella roccia sotto la cattedrale Uspenski per mettere al sicuro i membri del governo durante la seconda guerra mondiale, in caso di attacco russo. Centinaia di server hanno trovato sede al fresco, nelle sale di roccia viva. E già così hanno ovviato a una parte del problema. In una tipica web farm, infatti, solo il 40-45% dell'energia consumata viene utilizzata per l'attività di elaborazione dati vera e propria. Il resto si consuma per raffreddare i server, che lavorando emettono molto calore. Nel caso del data center sotto la cattedrale Uspenski, questo calore verrà sfruttato per contribuire al teleriscaldamento cittadino, trasformandolo nella web farm più verde del mondo. Il progetto, realizzato dalla multiutility locale Helsingin Energia, è molto semplice: basta connettere la web farm con il sistema di tubazioni che trasportano l'acqua scaldata centralmente a tutte le case della capitale. Quello prodotto dai server ospitati sotto la capitale basterà per scaldare e dare acqua calda a 500 famiglie: non è moltissimo, ma è certamente meglio uno scambio vantaggioso per tutti piuttosto che consumare altra energia per raffreddare i server. Sono azioni di questo tipo, innescate da una visione sostenibile molto più ampia della nostra, che aiuteranno il cloud computing a riguadagnare le sue credenziali verdi, sempre più appannate.

3 maggio 2010

Il solare italiano verso la grid parity

Calano i prezzi dei moduli, aumenta la loro efficienza. E l'era del petrolio a buon mercato sembra ormai finita. Di questo passo, per l'energia del sole la strada verso la competitività con le fonti fossili è spianata. "Il business del solare sta entrando nella fase di maturità e si prevede che la grid parity, cioè il momento in cui il costo del kilowattora fotovoltaico diventerà perfettamente competitivo, scatterà tra la fine di quest'anno e il 2014", spiega Luca Zingale, fondatore di Solarexpo, il tradizionale appuntamento di Verona dedicato all'energia del sole, che si apre il 5 maggio. L'attuale boom dipende da questo, non solo dai generosi incentivi pubblici. Solarexpo - che negli ultimi quattro anni è decuplicata, di pari passo con il business fotovoltaico - alla sua nascita attirava soprattutto scarpe da ginnastica, ma oggi è popolata di businessmen in grisaglia, a caccia del sole che illumina di più, oltre che delle tecnologie migliori. Se la grid parity è un insieme di condizioni da raggiungere, su cui pesa il costo dell'impianto e il confronto con i prezzi delle fonti fossili, uno dei parametri fondamentali, infatti, è la quantità dell'irraggiamento solare: un parco fotovoltaico costruito in Germania, per quanto efficiente, non potrà mai reggere la competizione con lo stesso parco in Italia o in Spagna. E infatti qui la grid parity è già a portata di mano: "Lo scorso inverno, in Sicilia, il costo medio del megawattora ha raggiunto i 160 euro, anche a causa delle strozzature della rete, per cui siamo a un passo dai 200-220 euro del fotovoltaico e secondo le previsioni di alcune grandi banche internazionali la forbice si chiuderà in tempi brevi", fa notare Zingale. Da qui discende la calata dei big del solare in Italia. L'altro motore del business sono gli sviluppi tecnologici. I progressi del fotovoltaico seguono un andamento più lento, ma simile alla legge di Moore che governa il mondo della microelettronica: a parità di prezzo, la potenza raddoppia ogni otto anni. Mitsubishi Electric ha appena annunciato un nuovo record di efficienza nella conversione fotoelettrica delle sue celle in silicio policristallino: sono arrivate al 19,3% e puntano decise al 20%, un traguardo considerato impensabile una decina d'anni fa. Ma avanzano anche gli sviluppi del fotovoltaico di seconda generazione, quello su film sottile, che presenta una serie di vantaggi, fra cui la flessibilità del supporto e i costi ridotti. Non a caso gli ultimi impianti produttivi in costruzione in Italia e nel mondo si muovono soprattutto in questo ambito. Il gruppo Moncada ha inaugurato da poco in Sicilia, vicino ad Agrigento, uno stabilimento di pannelli a film sottile da 40 megawatt l'anno, il più grande in Italia e il terzo in Europa, per un investimento di 90 milioni di euro. Sempre in Sicilia, a Catania, verrà avviata una fabbrica ancora più grande, che a regime potrà sfornare 480 megawatt di pannelli a film sottile l'anno, grazie all'alleanza fra Enel Green Power, StMicroelectronics e Sharp, con un investimento complessivo di 770 milioni. Il gruppo senese Pramac, invece, è andato a costruire il suo stabilimento di moduli a film sottile in Svizzera, nel Canton Ticino, dove sforna dallo scorso autunno 30 megawatt di pannelli all'anno, con un investimento di 80 milioni. Anche il gruppo Marcegaglia sta investendo in questa tecnologia innovativa, con due fabbriche diverse: una a Taranto per produrre pellicola di silicio amorfo e un'altra in provincia di Varese che sfornerà celle al tellururo di cadmio con un processo sviluppato dalla controllata Arendi. C'è poi l'Eni, che ha investito 300 milioni in un progetto in collaborazione con il Mit per realizzare pannelli solari senza silicio. General Electric, addirittura, ha appena annunciato che tutti i suoi stabilimenti fotovoltaici saranno convertiti al film sottile. In prospettiva, la tecnologia a film sottile crescerà rapidamente e già nel 2012 è destinata a rappresentare il 35% del mercato. E' una nuova frontiera di cui a Verona si parlerà molto, sia al Solarexpo che nella fiera parallela Greenbuilding, grazie alla forte spinta che le nuove tecnologie stanno dando all'integrazione del fotovoltaico nell'architettura, molto interessante per un Paese come il nostro, patria dell'industria del design.

2 maggio 2010

Il 2010 anno record per il fotovoltaico mondiale

Il 2010 sarà l’anno record del fotovoltaico, con un installato a livellomondiale di 13.600 megawatt (quasi il doppio rispetto al 2009), che farà lievitare la potenza cumulata a 35mila megawatt. E l'Italia non sarà da meno. "Nel 2010 la potenza installata potrebbe oltrepassare il raddoppio, arrivando a 2.500 megawatt, dai mille dell'inizio di quest'anno". La previsione è di Francesco Trezza, responsabile del Conto Energia per il Gestore dei Servizi Energetici, che erogando gli incentivi ha in ogni momento il polso della situazione. L'Italia, secondo Trezza, dimostra di aver "cambiato mentalità nei confronti del fotovoltaico". Tra gli elementi che hanno favorito lo sviluppo c'è la riduzione del costo degli impianti e dei componenti, incentivi adeguati e una certa collaborazione che si va facendo sempre più intensa fra università, centri di ricerca e imprese, per trasformare l'Italia da mera utilizzatrice a protagonista attiva del solare. L'importante ora è fare in modo che questo boom non diventi il canto del cigno, per uno dei pochi settori in crescita malgrado la crisi. Le tariffe incentivanti del Conto Energia - fra le più appetibili d'Europa, dopo il drastico taglio spagnolo - sono in via di esaurimento e il progetto del governo per ulteriori incentivi è pronto, ma attende da mesi di essere sottoposto alla conferenza Stato Regioni. Per di più, le recenti sentenze della Consulta che hanno dichiarato incostituzionali le leggi regionali con cui Puglia e Calabria facilitavano le autorizzazioni, potrebbero rallentare gli investimenti. La farraginosità dell'iter autorizzativo, infatti, comporta in alcune Regioni, come la Sicilia, anche cinque anni di attesa. E' naturale quindi che là dove le autorizzazioni erano più rapide ci sia stato un raddoppio secco delle installazioni di fotovoltaico nel 2009, mentre le altre Regioni rimanevano ferme, tanto che la Puglia ha superato la Lombardia con una crescita del 110 per cento. La stessa Consulta, del resto, lamenta nelle sue sentenze la mancanza delle linee guida nazionali sugli impianti fotovoltaici, attese dal 2003. E' da questo vuoto normativo che nasce la necessità, soprattutto per le Regioni più coinvolte nella corsa al solare, di sostituirsi al legislatore. Andrea Gemme, presidente dell'Associazione Energia dell'Anie, rileva che "l'industria fotovoltaica ha già pianificato per il solo 2010 oltre 2,5 miliardi di euro di investimenti, che porterebbero alla creazione di almeno 3mila nuovi posti di lavoro lungo tutta la filiera. Investimenti che potrebbero essere rallentati dal cambio forzato di rotta sulle autorizzazioni". Ma tra i grandi gruppi, in realtà, nessuno si tira indietro. Da Sorgenia a Marcegaglia, da Siemens a Maccaferri, da Ascopiave a Moncada e perfino l'Eni, con la controllata Eurosolare, fanno a gara per occupare i primi posti nella graduatoria degli investimenti nel fotovoltaico, sia sul fronte dei grandi parchi solari, sia sul piano della produzione di componenti. E anche gli istituti di credito danno una mano. UniCredit, oltre ai finanziamenti per gli impianti altrui, si muove anche in proprio: attraverso il fondo WealthCap (che lancerà in luglio un fondo dedicato esclusivamente al fotovoltaico) della filiale tedesca Hypo Vereinsbank, ha appena acquistato per 160 milioni di euro il colossale impianto di Lieberose, terzo al mondo per dimensioni, avviato alla fine dell'anno scorso su un'area di 162 ettari nella Germania orientale, dove fino al 1990 era in funzione un centro di addestramento dell'Armata Rossa. "Nulla di strano: proprio nel 2009 gli investimenti in energia pulita hanno superato per la prima volta quelli in fonti tradizionali", fa notare Alessandro Marangoni, docente della Bocconi e coordinatore del centro studi milanese Althesys, che ha messo a punto l'Irex, l'indice per monitorare l'andamento in Borsa delle società quotate che hanno come core business le fonti rinnovabili: Alerion, Actelios, Erg Renew, ErgyCapital, Greenvision, K.R.Energy, Kerself, Kinexia, TerniEnergia. Nella sua ricerca Energia Rinnovabile, Marangoni identifica la top ten delle aziende italiane più attive negli investimenti in fonti rinnovabili (non solo fotovoltaico, ma anche e soprattutto eolico): ai primi tre posti ci sono Enel, Moncada e il gruppo Marseglia. "La filiera del fotovoltaico, in ogni caso, è destinata a crescere", spiega Vittorio Chiesa, direttore dell'Energy Strategy Group del Politecnico di Milano e coordinatore del Solar Energy Report, che segue l'andamento delle imprese industriali impegnate nella produzione di componenti. Nel 2009 il loro giro d'affari è cresciuto del 28%, fino a 2,34 miliardi, mentre il Pil italiano s'inabissava del 5%. Anche gli operatori del settore aumentano: sono 700, +12% sul 2008. "I produttori italiani di celle e moduli nel 2009 hanno tenuto. Anzi, sono aumentate le esportazioni", osserva Chiesa. Le imprese italiane nel 2009 hanno prodotto circa 200 megawatt di moduli (su 500 megawatt installati complessivamente), destinati a crescere a 700 megawatt entro la fine di quest'anno, soprattutto grazie all'alleanza fra Enel Green Power, StM e Sharp, che hanno fatto nascere a Catania una fabbrica di moduli destinata a sfornare 480 megawatt di pannelli all'anno, vicino al livello dei colossi mondiali. Le tecnologie di prima generazione (costruite con silicio policristallino o monocristallino) raggiungono l'85% della potenza installata. Ma crescono gli impianti a film sottile: arriveranno al 34% del mercato globale entro il 2012, supportati dagli investimenti di Cina e Stati Uniti. "Il costo è inferiore perché richiedono meno materiale attivo e sono applicabili con maggiore facilità", rileva Chiesa. Riflettori puntati anche sul solare termodinamico: tra dieci anni raggiungerà nel mondo i 18,6 gigawatt. Crescono, dunque, le opportunità su tutti i fronti, per chi sarà capace di coglierle.

1 maggio 2010

Piccolo è bello: scende in campo il nucleare tascabile

Piccolo è bello. Il nucleare 2.0 esce dai laboratori di ricerca e fa il primo botto in Borsa, con l'annuncio dell'alleanza fra Bill Gates e Toshiba per costruire il primo “reattore portatile”, partendo dalla tecnologia sviluppata da Nathan Myhrvold, l'ex capo tecnologico di Microsoft. Sull'onda della notizia, pubblicata dal quotidiano giapponese Nikkei, il titolo Toshiba ha chiuso con un balzo del 3,6% alla Borsa di Tokio, in controtendenza sul resto del listino. La partnership fra il miliardario filantropo e l'azienda giapponese, infatti, potrebbe essere decisiva per quel segmento dell'industria nucleare che sta tentando di miniaturizzare i reattori, tagliando i costi e rendendo sempre più trascurabile il problema delle scorie radioattive.

TerraPower, lo spin out atomico della galassia di Myhrvold, che fa capo a Bill Gates, ha in mente di utilizzare come combustibile nel suo Traveling Wave Reactor (Twr) proprio le pastiglie di uranio esaurito, senza necessità di ricaricarlo per decenni. In questo modo si estenderebbero di centinaia di anni le riserve di uranio a disposizione dell'umanità. Toshiba, da parte sua, è la più avanzata delle grandi società nucleari nella realizzazione di reattori compatti: il suo prototipo 4S (Super-Safe, Small, Simple), che può operare senza interruzione per 30 anni, punta a ottenere in autunno il via libera da parte delle autorità Usa per poter iniziare la costruzione del primo reattore nel 2014. I giapponesi contano di poter sfruttare circa l'80% delle tecnologie usate dal 4S anche per il Twr, mentre resta da risolvere il nodo del combustibile. Ma Toshiba e TerraPower non sono le uniche aziende a muoversi su questo terreno. Il piccolo reattore mPower della Babcock & Wilcox sarà probabilmente il primo a vedere la luce negli Stati Uniti, dove tre grandi utilities - Tennessee Valley Authority, First Energy e Oglethorpe Power - hanno firmato il mese scorso un accordo per la sua realizzazione e hanno già avviato le procedure per ottenere la certificazione dalla National Regulatory Commission. Il reattore ha una capacità di 125-140 megawatt, circa un decimo di quelli grandi. Ma il costo è in proporzione: 750 milioni di dollari (550 milioni di euro), contro i 5-10 miliardi di dollari di un reattore dai 1100 megawatt in su. Il piccolo mPower ha anche il vantaggio di dimezzare i tempi di costruzione e non ha bisogno della presenza di grandi masse d'acqua, per cui può essere installato anche nell'arido West. E' pensato per essere interrato e ricaricato ogni cinque anni: diminuisce ulteriormente il rischio di incidenti. E può essere utilizzato in forma modulare: una centrale prevista inizialmente per pochi reattori può aumentarne gradualmente il numero a seconda delle necessità. Infine può stoccare per l'intero arco del suo funzionamento, 60 anni, le scorie che produce. NuScale ha progettato un prototipo con una potenza ancora più ridotta, sui 45 megawatt, e sta per chiedere la certificazione. Hyperion, una start up che sfrutta un brevetto dei laboratori nucleari di Los Alamos, punta addirittura su un “reattore portatile” da 25 megawatt, da spostare con un pickup, che può dare energia a 20mila famiglie. E ha già firmato un accordo per esportarlo in Russia. E' chiaro che i mini-reattori approfitteranno dei 54 miliardi di dollari stanziati dal presidente Barack Obama per rimettere in moto l'industria nucleare americana. E presto ce li ritroveremo anche da questa parte dell'Atlantico.


I big del solare calano sul Belpaese

L'Italia è diventata l'Eldorado del solare in questi anni di super-incentivi e i big internazionali non se lo sono fatto dire due volte. Malgrado le incertezze normative, il Belpaese ha guadagnato un'altra posizione, passando al sesto posto nella classifica mondiale di Ernst & Young sui Paesi maggiormente attraenti per gli investimenti nelle fonti rinnovabili. In base all'ultima classifica, che abbiamo scalato dall'ottavo posto nel 2007 al settimo nel 2008 fino al sesto di oggi, l'Italia ha ottenuto infatti un indice complessivo pari a 60, contro il 70 degli Stati Uniti (primi classificati), il 67 della Cina, il 64 della Germania e il 61 dell’India. Non c'è da stupirsi, dunque, se i big mondiali del solare sbarcano in massa nel Belpaese. Il colosso tedesco E.on ha recentemente avviato le attività nel fotovoltaico in Francia e in Italia, dove ha messo in funzione lo scorso dicembre il suo primo parco in Sardegna, accanto alla centrale di Fiume Santo. "Il nostro obiettivo è di raggiungere 80 megawatt fotovoltaici entro l'anno prossimo, con progetti in varie regioni d'Italia", annuncia l'ad di E.on Italia Klaus Schaefer. Siemens scommette invece sul solare termodinamico a concentrazione, che in Italia sta diventando una filiera importante, con a capo l'avvenieristico stabilimento in costruzione in Umbria di Archimede Solar Energy, del gruppo Angelantoni, dove Siemens è entrata al 30%. La nuova fabbrica produrrà i tubi ricevitori per i sali fusi, su cui si concentra tutto il calore intensissimo generato dagli specchi ricurvi, di cui Archimede è l'unico produttore al mondo. SolarWorld, la più nota impresa del fotovoltaico in Germania - anche grazie all'esuberanza del suo principale azionista, Frank Asbeck, uno dei fondatori dei Verdi tedeschi - punta direttamente sul Vaticano: dopo aver donato alla Santa Sede un impianto che riscalda e illumina l'immensa aula dove il Papa, durante l'inverno, riceve ogni mercoledì migliaia di fedeli, ora è in pole position per il maxi impianto da 100 megwatt che il Vaticano intende realizzare a Santa Maria di Galeria. Ma sull'energia del sole non ci sono solo i tedeschi: il colosso russo Renova dell’imprenditore Viktor Vekselberg è entrato in Kerself con una quota del 15% attraverso la controllata Avelar Energy. "Consideriamo il fotovoltaico strategico e continueremo a crescere nel settore", ha annunciato recentemente l'ad di Avelar, Igor Akhmerov, ricordando che nel 2011 partirà la produzione dello stabilimento di moduli a film sottile da 120 megawatt l’anno che Renova sta realizzando nel polo tecnologico russo di Khimprom. SunTech, il gigante del fotovoltaico cinese, ha già al suo attivo parecchie grosse installazioni in Italia realizzate con i suoi moduli, fra cui l'impianto Statkraft di Aprilia da 3,3 megawatt, quello di Manifatture Sigaro Toscano a Lucca e un altro a Castel San Giovanni, e ne ha altri in pipeline. I norvegesi di Statkraft, primo gruppo europeo per la produzione di energia da fonti rinnovabili, sono sbarcati in sottotono, con un impianto da 3,3 megawatt a Latina, ma hanno già firmato un accordo con Solar Utility per l'acquisto di 8 impianti fotovoltaici in Puglia e progettano altri 40 megawatt entro fine anno. Sarà la spagnola Siliken a realizzare "chiavi in mano" il maxi-impianto fotovoltaico da 9,8 megawatt a Fiumicino per Fotowatio Renewable Ventures e Solesa Green Power. Sempre gli spagnoli di Fotowatio hanno appena annunciato la firma di un accordo da 125 milioni di euro con BP Solar per la costruzione in Italia di impianti per un totale di 37 megawatt. Anche canadesi e portoghesi stanno rafforzando la loro presenza in Italia: Canadian Solar ha annunciato un accordo per fornire già quest'anno 60 megawatt di moduli a Fire Energy Group per i mercati italiano, spagnolo e tedesco, mentre la portoghese Martifer Solar ha fatto sapere che realizzerà entro il terzo trimestre del 2010 altri due impianti nel Sud Italia da 4 e 2 megawatt. E sul fotovoltaico italiano punta anche il gruppo israeliano Gilatz, che ha firmato due lettere d'intenti per l'acquisto di 7 parchi solari per 25,8 milioni di euro, dopo i primi due già comprati all'inizio di quest'anno.