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31 marzo 2003

L' Eni tratta per Nasiriya

Per i soldati americani Nasiriya è il luogo dell' imboscata, è l' immagine scioccante dei compagni feriti esibiti in tv. Per l' industria italiana invece è la testa di ponte che potrebbe aprirci la strada ai pozzi iracheni. I giacimenti lungo la riva dell' Eufrate, a metà strada fra Bassora e Bagdad, sono tra i più vasti conosciuti in Iraq, con una portata di circa 300 mila barili al giorno e riserve stimate di due miliardi e mezzo di barili. L' Eni è da anni in trattative con il governo iracheno per il loro sfruttamento, insieme alla spagnola Repsol. E anche se per ora non ha impianti in loco, resta il fatto che i negoziati Bagdad hanno consentito alla compagnia di Vittorio Mincato di raggiungere una certa familiarità con la controparte irachena che tornerà molto utile nel dopoguerra. Ma nella lotta per il controllo del petrolio iracheno il piazzamento migliore va ai russi della Lukoil, insediati fin dal ' 97 sui giganteschi giacimenti, stimati attorno ai 15 miliardi di barili, che dormono sotto la leggendaria pianura di Qurna alla confluenza del Tigri e dell' Eufrate, uno dei luoghi collegati dagli antichi al giardino dell' Eden. Anche se il contratto con Lukoil è stato più volte denunciato da Bagdad, che chiedeva a Mosca di cominciare a scavare in violazione dell' embargo, saranno certamente i russi i primi a esercitare i propri diritti a guerra finita. Già oggi vendono quasi la metà del petrolio iracheno che finisce poi sul mercato Usa, fra i maggiori acquirenti del greggio di Bagdad. Anche i francesi possono vantare una lunga relazione con Bagdad, tanto che Jacques Chirac è uno dei pochi politici occidentali ad aver ricevuto una visita di Saddam nel lontano ' 79. Non a caso l' altro maggiore pretendente ad una fetta del petrolio iracheno è il gruppo franco-belga TotalFinaElf, che ha messo le mani sul giacimento di Majnoon, nel Sud, stimato in almeno 20 miliardi di barili. Certo, alla fine della guerra la competizione si farà più dura, con l' entrata in campo delle major americane e britanniche, ma quale che sia l' orientamento del dopo Saddam è probabile che gli impegni presi dal regime precedente in un modo o nell' altro vengano onorati.

24 marzo 2003

Gli scienziati e il gioco d'azzardo

A cinquant' anni esatti dalla scoperta della doppia elica del Dna, in maggio, gli scienziati del National Human Genome Research Institute squaderneranno la più aggiornata mappa del genoma umano mai disegnata fino ad oggi, alla presenza di James Watson, uno dei due scopritori della doppia elica. La nuova versione consentirà di riempire i buchi e riaggiustare i pezzi del grande puzzle, rivelando fra l' altro il funzionamento dei geni che causano malattie come l' Alzheimer o il diabete. Il simposio, che si terrà al Cold Spring Harbor Laboratory, culla della genetica americana sulla costa settentrionale di Long Island (New York), ora diretto da Watson, attirerà gli sguardi degli scienziati di tutto il mondo. Ma fra loro ce ne saranno 165 mossi da un interesse tutto particolare. Si tratta di un drappello animato da un' alta propensione al rischio, che ha deciso di accettare la sfida lanciata tre anni fa da Ewan Birney, un collega dello European Bioinformatics Institute di Cambridge, scommettendo di tasca propria sul numero preciso di geni presenti nel genoma umano. Nella foga del dibattito scientifico, Birney ha lanciato la sfida fra un ristretto gruppo di colleghi all' inizio del 2000, ma col tempo la cerchia degli scommettitori si è talmente allargata che ha dovuto inserire i termini precisi della tenzone in una pagina internet (www.ensembl.org/Genesweep), da dove si può anche formalizzare la propria ipotesi. La stima più bassa finora ricevuta punta su 27.462 geni e la più alta su 153.478: in base alle regole stabilite all' inizio, per identificare il vincitore - che vincerà mille dollari - ci si atterrà al numero reso noto al simposio di Long Island, anche se probabilmente non si tratterà di quello definitivo. Ma gli scommettitori di GeneSweep non sono gli unici scienziati disposti a rischiare dei soldi per sostenere le proprie opinioni e vivacizzare il dibattito teorico. La storia della scienza è lastricata di scommesse, dai lontani tentativi di dimostrare che la Terra è piatta alle sfide più recenti volte a prevedere l' esistenza di questa o quella particella subatomica. Il famoso cosmologo britannico Stephen Hawking è noto per essere uno scommettitore accanito. E nel sito dell' acceleratore di particelle di Stanford, in California, sono registrate ben 35 scommesse sulla fisica subatomica, di cui parecchie ancora insolute. Alcuni accademici si sono addirittura spinti a sostenere che questo tipo di gioco d' azzardo è utile al progresso della scienza. Rischiare di tasca propria incoraggia infatti a concentrarsi su una certa questione e può anche attirare l' attenzione di colleghi su temi altrimenti quasi sconosciuti. Non a caso negli ultimi anni il numero di siti web dedicati alle scommesse scientifiche si è moltiplicato tanto da farne quasi un genere a sé. Il più famoso è quello lanciato da Kevin Kelly, leggendario direttore di Wired e pioniere della rivoluzione Internet, con cui ha raccolto 48 mila dollari su undici diverse sfide pensate per incoraggiare le riflessioni di lungo termine. Sul sito LongBets il futurologo Ray Kurzweil scommette diecimila dollari contro Mitchell Kapor, fondatore di Lotus e paladino del movimento open source, che entro il 2029 un computer riuscirà a passare il test di Turing, cioè a essere scambiato per un uomo da un altro essere umano. Il direttore tecnico di Microsoft Craig Mundie scommette duemila dollari contro l' amministratore delegato di Google che entro il 2030 i jet di linea voleranno senza pilota. Il futurologo Peter Schwartz scommette duemila dollari contro la regina californiana delle public relation Melody Haller che almeno un essere umano già nato nel 2000 sarà ancora vivo nel 2150. Le sfide sono aperte, faites vos jeux. E chi vivrà, vedrà. Kelly è convinto che «una scommessa ben congegnata possa fare chiarezza sui termini di un problema, allargando nel contempo il dibattito» e con ciò si è già a metà strada sulla via per risolverlo. LongBets, lanciato un anno fa, gode di un ritmo di crescita sfrenato anche se molti scommettitori sanno bene che non avranno mai la possibilità di verificare chi aveva ragione, dato il lungo termine delle sfide. Le cifre scommesse vengono custodite da una fondazione, la Long Bets Foundation, che s' impegna a versare il dovuto agli eventuali eredi del vincitore. Ma il gioco d' azzardo sulla scienza può essere catapultato ad altezze ancora superiori: Robin Hanson, un economista della George Mason University in Virginia, ha addirittura sviluppato una Borsa di futures delle idee, in cui le quotazioni di ogni teoria scientifica vengono quantificate in base al valore delle scommesse che raccoglie.

19 marzo 2003

Competizione al minimo sull'energia

«La liberalizzazione non è come abbattere un muro o spalancare una porta, consentendo a chiunque di oltrepassare la soglia e andare dove meglio crede. E' come salire uno scalino, il primo di una lunga scalinata». La definizione di Arturo Lorenzoni, direttore della ricerca dell' Istituto di economia e politica dell' energia e dell' ambiente della Bocconi, è suggestiva ma deprimente. In sostanza, dice Lorenzoni, con il decreto Bersani del ' 99 ci siamo imbarcati in un viaggio che prima o poi ci farà approdare a un mercato elettrico veramente liberalizzato, senza lacci e lacciuoli che limitino la competizione fra fornitori; ma per adesso non dobbiamo aspettarci grandi cose, perché il viaggio è irto di ostacoli. Primo ostacolo: la scarsità della materia prima. Secondo Antonio Urbano, capo di Dynameeting, una delle maggiori aziende italiane fornitrici di energia sul mercato libero, il problema fondamentale è proprio quello della produzione. L' energia a disposizione dei fornitori è talmente scarsa e costosa che finiscono per lavorare a vuoto. Spiega Urbano: «Come tutti i mercati, anche quello dell' energia è organizzato in filiera. C' è chi produce, chi trasporta e chi vende. Ora l' attività di produzione presenta margini altissimi, basta andare a guardare quel che dicono gli analisti finanziari su Enel. Ma il margine dell' attività di vendita non è contendibile: lo intasca chi distribuisce. Anche se si tratta di due attività completamente diverse». E non è un problema da poco, in un Paese che sostiene di puntare sulla competizione tra fornitori per abbassare i prezzi dell' energia più alti d' Europa. «Ecco perché - aggiunge Urbano - è molto difficile convincere gli imprenditori stranieri a investire nel nostro mercato libero. Varrà anche tre miliardi di euro, ma per ora è impantanato. E prima di metterci soldi, gli stranieri vogliono vederci chiaro e capire se facciamo sul serio». Stando così le cose, il mercato elettrico è chiaramente dominato dall' offerta. «Il primo punto da chiarire - commenta Lorenzoni - resta sempre lo stesso: vogliamo davvero promuovere la concorrenza? Da certi discorsi sull' Enel campione nazionale, viene il sospetto di no. Ma allora sarebbe meglio dirlo chiaramente: restare a metà del guado è la cosa peggiore». Non a caso l' incertezza avvantaggia sempre l' incumbent. «L' unica speranza è che prima o poi anche la domanda si faccia sentire», puntualizza Urbano. «I consumatori, compresa Confindustria e Confcommercio, devono essere più esigenti», concorda Lorenzoni. Un primo segnale è l' appello a un' effettiva liberalizzazione lanciato dalle piccole e medie imprese: «E' necessario - dice Roberto Radice, presidente di Confapi - aumentare le interconnessioni e il parco impianti nazionale; semplificare le procedure che regolamentano la costruzione delle linee elettriche, in modo che il trasporto di energia avvenga senza congestioni; rendere finalmente operativa la Borsa elettrica che dovrebbe favorire la competizione, creare efficienza e ridurre i prezzi». Confapi chiede anche un attento monitoraggio da parte dell' Authority sui comportamenti distorsivi da parte dei soggetti dominanti come l' Enel. «Ma non si può - aggiunge Lorenzoni - lasciare da sola l' autorità per l' energia: bisogna chiedere più trasparenza nella produzione e una più equa suddivisione dei margini. Anche sulla Borsa elettrica, il lavoro da fare è enorme: quali saranno i contratti, le regole? L' avvio in modalità provvisoria, previsto per luglio, non serve a nulla: aumenterà soltanto l' opacità a favore dei produttori». Non c' è dunque da stupirsi che solo l' 1% dei nuovi clienti liberi, non più di 1.500 imprese, abbia cambiato fornitore all' inizio di questo mese, quando la soglia d' ingresso è stata abbassata a 100mila chilowattora l' anno. Solo l' ampliarsi della base d' utenza aiuterà la maturazione del mercato. «Solo quando le pressioni della domanda cresceranno si smuoverà qualcosa», spera Urbano. «Ma attenzione - precisa Lorenzoni - il passaggio a un regime di concorrenza porta a oscillazioni: gli italiani dovranno rassegnarsi ad accettarle. Non si possono avere i vantaggi del mercato libero e il prezzo fissato dalle autorità, come oggi. Quando gli inglesi sono passati al mercato libero i prezzi sono saliti, ma dopo un po' sono entrati in scena nuovi investimenti che li hanno abbattuti». E oggi a Londra l' energia costa la metà che a Roma.

10 marzo 2003

Con il riso Scotti si accende la luce

Nel triangolo italiano del riso cresce una pianta diversa: dopo quattro generazioni di chicchi tutti uguali, oggi fiorisce in forma di olio, di latte, di pasta e perfino di energia elettrica. Si chiama Riso Scotti e ha appena costruito a Nord di Pavia un futuristico stabilimento che comprende anche una centrale elettrica per riciclare gli scarti di lavorazione. «Con la nostra centrale, in cui bruciamo la buccia dei chicchi che altrimenti andrebbe gettata, produciamo molta più energia elettrica di quella che consuma l' intero impianto», racconta con fierezza Dario Scotti, 47 anni, amministratore delegato del gruppo ormai famoso per la pubblicità con Gerry Scotti. «Per la precisione, circa sei volte tanto», aggiunge Giorgio Francescone, amministratore delegato di Riso Scotti Energia. La centrale, costruita insieme al nuovo stabilimento (il più grande d' Europa) con un investimento complessivo di 34 milioni di euro, è in funzione dallo scorso settembre, ma non è ancora a regime: «Entro la fine di quest' anno - spiega Francescone - avremo completato il collegamento fra la centrale e gli altri impianti, che ci consentirà di convogliare nel ciclo di produzione del riso parboiled una parte del vapore a 450° derivante dalla combustione della lolla (la crusca del riso, ndr) e di biomasse vegetali, per riutilizzarlo direttamente in azienda. Il resto del vapore muoverà, come oggi, una turbina che produce 5 Megawatt all' ora, immessi nella rete per venderli all' Enel». La centrale del gruppo Scotti s' inserisce nel programma europeo che promuove la produzione di energia da fonti rinnovabili per adeguarsi al protocollo di Kyoto: la quantità di anidride carbonica emessa nella combustione della lolla del riso e delle biomasse, infatti, è equivalente alla quantità precedentemente assorbita da queste stesse piante. «Il riso è la mia vita - commenta Scotti - ci ho sempre vissuto in mezzo, eppure sono convinto che il modo migliore per rispettare questa tradizione sia scommettere sull' innovazione». Entrato nell' azienda del padre Ferdinando (attuale presidente) a 28 anni e diventato amministratore delegato nell' 86, Dario Scotti è rimasto fedele al chicco dei suoi nonni - la famiglia Scotti si occupa di lavorazione del riso dal 1890 e ancora prima lo coltivava nei campi - ma ha avviato una vigorosa diversificazione, puntando molto sulla ricerca e introducendo sul mercato italiano l' olio di riso, il latte di riso e la pasta di riso, tutti prodotti salutistici mirati anche al mercato europeo, dove la sensibilità nei confronti dell' alimentazione naturale è più radicata. In tal modo ha impresso ritmi di crescita da capogiro al suo gruppo, che nei diciassette anni della sua gestione ha decuplicato la produzione e nel 2002 ha fatturato 140 milioni di euro con 3,2 milioni di utili, portando una ventata di aria nuova in questa sonnacchiosa provincia, che insieme a Vercelli e Alessandria produce il 90% del riso italiano. «In particolare l' olio di riso arricchito di gamma orizanolo, una sostanza già presente nella crusca del riso che contribuisce ad abbassare il colesterolo, sta riscuotendo un buon successo sul mercato europeo», spiega Scotti. Ma sono le trovate più recenti, latte e pasta di riso, in produzione da circa tre mesi, a rendere la gamma Scotti del tutto originale, degna dell' ultimo slogan pubblicitario «la salute vien mangiando». «Sono molto adatti - commenta Scotti - per chi soffre d' intolleranza al lattosio o al glutine, una categoria molto più vasta di quanto si creda. Si calcola ad esempio che, a parte i celiaci veri e propri, un terzo della popolazione europea faccia fatica a digerire il glutine». Inoltre la pasta di riso assorbe più acqua della pasta di grano, quindi ne basta di meno per soddisfare l' appetito, con conseguente minore apporto calorico. Non per niente gli spaghettini di riso in Estremo Oriente sono già un alimento piuttosto diffuso. «Ma la nostra è una pasta completamente diversa dalla loro: assomiglia molto di più alla pasta di grano duro cara al palato degli italiani», spiega Scotti. In generale il gruppo Scotti, che si colloca fra le prime cinque aziende europee del settore, non si considera in competizione con i produttori asiatici, che usano altri tipi di riso e puntano molto sulla produzione di massa. L' azienda di Pavia preferisce sperimentare nei settori del futuro, come quello dell' energia pulita. E pensa già a nuove centrali.

3 marzo 2003

Il polo dell'informatica resta un sogno

«La tecnologia è un asset strategico del sistema Paese: per salvarlo dal declino c' è bisogno d' investire pesantemente in questo settore, ma ormai il tempo stringe». L' urgenza che traspare dalle parole di Salvatore Pinto, co-amministratore delegato insieme a Nino Tronchetti Provera di Finsiel, braccio informatico di Telecom Italia, è comune a molti manager attivi nel ristretto ambiente dell' information technology (It) italiana. E la sensazione che proprio in questi giorni ci stiamo giocando il futuro del Bel Paese, che l' innovazione tecnologica sia la chiave di volta per arginare la crisi di sistema, è confermata da parecchi sintomi. Mentre Jacques Chirac ha interrotto giovedì scorso l' intensa attività diplomatica per inaugurare a Grenoble un impianto avanzatissimo (da lui stesso definito «il più importante investimento industriale degli ultimi dieci anni in Francia») costruito congiuntamente dall' italo-francese Stm di Pasquale Pistorio insieme a Philips e Motorola, in Italia si dimezza il piano Stanca per la società dell' informazione e si punta sui pc nelle scuole. «Per carità, un' idea encomiabile - commenta Giancarlo Del Sante, direttore generale di Getronics - ma poteva andare bene per il ' 92, massimo ' 93. Oggi ci vuole ben altro». Eppure i rampolli dell' It made in Italy sono convinti che le imprese nostrane siano pronte a raccogliere la sfida: «Abbiamo la statura e le competenze per sviluppare in casa i sistemi informatici che mancano al Paese, ma se si aspetta ancora un po' le poche aziende di primo piano rimaste italiane finiranno in mano ai colossi internazionali e noi resteremo qui a fare solo la manodopera», insiste Del Sante, che di acquisizioni se ne intende. La vendita delle attività informatiche Olivetti all' americana Wang nel ' 98 e il successivo passaggio di Wang all' olandese Getronics l' hanno portato a una certa disillusione sulla possibilità di realizzare un polo italiano dell' It come quello di cui si vagheggiava a suo tempo tra Olivetti, Elsag e Finsiel. «Bisognava cominciare allora - commenta Del Sante - a costruire massa critica, per poter giocare oggi un ruolo a livello internazionale». Invece il mercato italiano dell' It, a parte Ibm, al momento è spartito fra alcune grandi aziende che però non vanno al di là dei confini nazionali, come la Elsag di Giuseppe Cuneo (gruppo Finmeccanica) o la Finsiel, altre ormai diventate espressione locale di grandi multinazionali, come Getronics, Debis (gruppo Deutsche Telekom) o Sema (gruppo Schlumberger), una fascia media ormai in via di estinzione (ad esempio Ids) e una miriade di piccolissime imprese. «Un vasto patrimonio di conoscenze - commenta Del Sante - che rischia di andare disperso perché manca un catalizzatore che metta mano a questa drammatica parcellizzazione, valorizzi le realtà più competenti e concentri le forze per creare un polo nazionale degno di questo nome». «Alcune scommesse - ammette anche Pinto - ormai le abbiamo perse, come quella sul fronte delle macchine, ma altre battaglie sono ancora tutte da giocare. Sui servizi e i sistemi, in un mercato come quello italiano dove la net economy non è ancora nemmeno partita, le opportunità sarebbero enormi». Tutti concordano, comunque, nel giudicare essenziale per le aziende nostrane poter crescere in un mercato captive, dove imparare a nuotare per saper stare a galla anche nei mari più grandi. «Malgrado il libero mercato, tutte le grandi imprese - precisa Pinto - anche le americane, in patria si muovono più agevolmente di noi. In Europa, basta guardare la svedese Ericsson o la finlandese Nokia: è in patria che sono cresciute prima di diventare i giganti che sono adesso». E dove trovare un mercato captive migliore della pubblica amministrazione? «Negli Usa - nota Del Sante - a un certo punto la pubblica amministrazione ha detto: tutto il mio sistema di acquisti lo trasferisco su Internet e chi vuole fare affari con me deve lavorare così. E tutti si sono adeguati. Da lì è partita una rivoluzione i cui effetti si vedono ancora». Anche in Italia, del resto, è proprio sull' automatizzazione delle poste che vive, ad esempio, un' azienda come Elsag. Ma anche su questo siamo in ritardo e bisognerebbe spingere sull' acceleratore. Lo stesso problema si ripropone nell' industria privata. «Mentre le aziende negli Usa buttavano a mare tutto quello che avevano e si rifondavano completamente sulle basi della net economy - insiste Del Sante - noi eravamo qui a mettere cerotti sui sistemi informativi che c' erano già. E ancor oggi continuiamo sulla stessa strada. Forse per riformare l' industria italiana bisognerebbe riformare anche il nostro modo di pensare. La tecnologia esige un modo di lavorare ordinato, una cultura di processo. E qui la resistenza è fortissima». Ma questa resistenza al cambiamento non danneggia solo chi lavora nell' It: «Investire nell' innovazione - precisa Pinto - non va solo a vantaggio di chi quell' innovazione la produce, offrendogli l' opportunità di crescere, ma migliora anche la produttività delle aziende che adottano i nuovi sistemi, riduce i costi, migliora l' efficienza di tutto il sistema Paese. La distinzione tra new economy e old economy, infatti, è fuorviante. Esiste solo un' economia, che però va riorganizzata su basi nuove se si vuole renderla competitiva». Pensiamo alle banche: mentre ormai negli Stati Uniti allo sportello non ci va quasi più nessuno e tutte le operazioni si fanno in Rete, in Italia la banca è ancora agenzia, presidio del territorio, colonne di marmo. Ma questo significa strutture sovradimensionate e tre o quattro volte il personale per la stessa quantità di capitale raccolto rispetto alle banche d' oltre Atlantico. Quindi costi eccessivi, che spesso si riversano sui consumatori, e di conseguenza scarsa competitività a livello internazionale. «In questo modo, alla lunga, si perdono interi settori. Così stiamo perdendo l' auto. E questo è solo l' inizio», conclude Del Sante. Chirac a Grenoble ha detto: «Nessun grande Paese può dipendere unicamente e in modo duraturo dalle scoperte fatte altrove. L' Unione europea si è prefissa, in materia di ricerca e sviluppo, di avvicinarsi al 3% del suo Pil: la Francia, con il 2,2%, è leggermente sopra la media dell' Unione, ma ancora lontana dall' obiettivo». E l' Italia?