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30 aprile 2010

Sostenibilità fa rima con convenienza: cresce la spesa verde

L'attenzione all'ambiente è in forte crescita anche in Italia e la domanda di sostenibilità sta diventando diffusa e trasversale. Ma non è più una domanda ideologica, che alza la bandiera verde sulle barricate dello spirito di sacrificio e del pauperismo anti-consumistico. E' diventata una richiesta pragmatica, spesso consapevole del fatto che i comportamenti eco-compatibili possono portare anche qualche risparmio, come nel caso del taglio dei consumi energetici. "Dalle nostre ricerche si evidenzia una crescente presa di coscienza a dei problemi ambientali in tutti gli strati della popolazione, che si può dividere a grandi linee in quattro gruppi", spiega Alessio Alberini di Greenbean, società di analisi e comunicazione dedicata completamente ai temi della sostenibilità. Greenbean vede la società italiana segmentata tra un 10-12% di impegnati, i più appassionati dei prodotti sostenibili e disposti a pagare un surplus per averli; un 20-23% di sostenitori, attenti all’ambiente e disponibili a cambiare le proprie abitudini di consumo, ma senza sacrifici; un 55-60% di spettatori, moderatamente interessati alle tematiche ambientali, disposti agli acquisti verdi solo in funzione di altri vantaggi, se costretti da norme legislative o per seguire le mode; e un 10-15% di indifferenti, impermeabili a ogni tentativo di coinvolgimento, prevalenti nelle fasce meno evolute e in quelle più giovani, dai 15 ai 24 anni. "Ma a tutti i livelli, dai consumatori più impegnati in giù, la risposta delle aziende a questa domanda crescente resta sempre un passo indietro: un gap che si traduce in una diffusa insoddisfazione", precisa Alberini. L'insoddisfazione nei confronti dell'offerta emerge chiaramente anche da altre indagini. Tra i dati illustrati nel Fabris Retail Summit, ad esempio, si scopre che i livelli di soddisfazione dei consumatori italiani sono rimasti costanti per un decennio e poi sono scesi dal 69% del 2006 al 64% del 2009. Che il consumo dichiarato di prodotti biologici è cresciuto dal 16% del '96 al 28% del 2009. Che in due anni è cresciuto dal 54% del 2007 al 71% del 2009 il trend del consumo eco-compatibile, inteso come utilizzo di lampadine a ridotto consumo energetico, carta riciclata, prodotti ecologici per la pulizia della casa, prodotti tessili ecologici, giocattoli ecologici, prodotti del commercio equo e solidale. Che la presa di coscienza dei problemi ambientali è in aumento dal 45,7% del 2005 al 55,4% del 2009. Che il 93% dei consumatori è critico sulla ridondanza eccessiva del packaging. E che il 90% dei consumatori si dichiara disposto a pagare di più per un prodotto che rispetta l'ambiente. La domanda di sostenibilità si concentra soprattutto sui prodotti di cura della casa e della persona o sulla salute, con una forte richiesta di cure mediche alternative. Ma si estende anche alla mobilità sostenibile, con un'altissima domanda di auto ecologiche, che siano ibride o elettriche. Nella recente ricerca Monitor 3SC, addirittura il 73,9% degli intervistati si è detto "favorevole all'introduzione di leggi che obblighino tutti i costruttori d'auto a produrre soltanto auto ibride (elettriche + benzina)". La nuova sensibilità si estende anche all'abitare sostenibile, con una forte ricerca dei materiali e delle tecnologie più eco-compatibili per la propria casa. E perfino alla moda eco-chic, con una grande attenzione nei confronti dei materiali utilizzati dalle case di moda. "In pratica, ci accorgiamo che su questi temi la domanda è decisamente più alta dell'offerta, tanto che ormai la domanda si rivolge spesso a soluzioni esterne ai canali tradizionali di distribuzione", osserva Sissi Semprini di Greenbean. I gruppi d'acquisto solidale o i consorzi di agricoltori biologici che forniscono direttamente ai consumatori le loro cassette settimanali sono esempi già consolidati. "La nuova consapevolezza è aiutata anche dalla tecnologia", fa notare Semprini. Da un lato ci sono le informazioni disponibili in rete, che aiutano i rapporti diretti fra produttore e consumatore. Dall'altro lato si vanno diffondendo sistemi semplici e immediati di monitoraggio dei consumi che inducono una nuova coscienza degli sprechi quotidiani di risorse, dall'elettricità all'acqua, e dell'impatto ambientale del nostro stile di vita. Una tendenza destinata a crescere sempre di più: "L'accessibilità delle informazioni in rete e la possibilità di misurare in tempo reale i consumi energetici contribuirà alla riduzione degli sprechi e all'adozione di comportamenti individuali più responsabili", commenta Semprini. Perfino su temi considerati di basso profilo, come lo smaltimento dei rifiuti, emergono tendenze creative. "Opporsi allo spreco attraverso il riciclo non è più un ripiego, bensì una pratica divertente e socializzante: da nuovi gesti nascono nuovi oggetti, utili ma anche chic, responsabili anche se inessenziali. Dare una seconda vita alle cose, anziché disfarsene una volta concluso il loro ciclo di vita, è un'occasione per ripensarne il senso e la funzione e per accedere a nuove estetiche, non necessariamente negative e austere, ma virtuose e glamour".

29 aprile 2010

E ora il manager verde è pagato di più

La sostenibilità va di moda, ma finora nessuno aveva pensato che potesse influenzare le remunerazioni dei manager. Sbagliato. In Olanda siamo già avanti su questa strada. Il colosso dei servizi postali Tnt e Dsm, una conglomerata che si occupa di energia, farmaceutica e alimentare, sono appena entrate nella schiera di aziende che faranno dipendere parte dei bonus assegnati al top management anche dal livello di sostenibilità raggiunto. In questo caso sostenibilità è un concetto esteso non solo agli aspetti ambientali, ma anche alla soddisfazione dei dipendenti e alla sicurezza. Il problema sta nella misurazione, molto più difficile rispetto a valori numerici precisi come il prezzo delle azioni o i risultati di bilancio. L'azienda chimica Akzo Nobel è stata la prima di questa banda di pionieri a spingersi su un territorio ancora sconosciuto. Metà del suo modello d'incentivazione sul lungo termine è basato sulla posizione che l'azienda raggiunge nel Dow Jones Sustainability Index per il settore chimico. La decisione di Akzo Nobel è stata accolta positivamente dagli investitori: è passata al 97% in assemblea. Ora i manager ricevono il bonus intero se Akzo si posiziona fra le prime tre delle 90 aziende comprese nell'indice Dow Jones e solo una parte se riesce a piazzarsi quarta o quinta. Anche Royal Dutch Shell ha deciso di utilizzare lo stesso modello per i bonus di lungo termine. Ma non tutte le aziende sono d'accordo su questi parametri. Tnt e Dsm, ad esempio, hanno optato per un modello misto che misura la soddisfazione dei dipendenti e dei clienti, la riduzione delle emissioni di CO2 e i tagli ai consumi energetici. In un modo o nell'altro, comunque, siamo arrivati al punto di dare alla sostenibilità un valore economico, che cambia la paga dei capi azienda. Un passo avanti non da poco.

28 aprile 2010

Acqua azzurra, azienda chiara

Un essere umano su otto, quasi un miliardo di persone, non ha acccesso a fonti pulite di acqua. Il 40% della popolazione mondiale, 2 miliardi e mezzo di persone, vive in luoghi privi di sistemi fognari. Un milione e mezzo di bambini all'anno, quattromila al giorno, muoiono di malattie derivate dall'acqua contaminata. Noi occidentali, intanto, chiamiamo l'idraulico per potenziare il getto della doccia. E guai se al bar manca il soft drink della marca che preferiamo. Ma per le aziende che sfruttano il nostro rapporto con l'acqua, o la utilizzano come materia prima, il problema della responsabilità sociale e ambientale, nei confronti di questa risorsa preziosa e sempre più scarsa, si pone. Le riflessioni aziendali sulla sostenibilità del business, dunque, sono ormai all'ordine del giorno in tutti i settori, ma nel caso di produzioni attinenti all'acqua, che siano rubinetti o aranciate, si declinano con particolare attenzione a questo elemento fondamentale per la vita dell'uomo e del pianeta. "Con una popolazione mondiale in forte crescita, è chiaro che i sistemi mirati al risparmio idrico saranno sempre più importanti. Da un lato, l'urbanizzazione dell'Asia è galoppante. Qui la carenza d'acqua e la qualità delle forniture stanno diventando un problema enorme. Dall'altro lato, un crescente numero di persone vuole dei bagni ben disegnati e cerca sollievo nel wellness. In entrambi i contesti, per noi l'utilizzo efficiente delle risorse e l'impegno a favore di un'edilizia sostenibile sono fondamentali", spiega Albert Baehny, ad della svizzera Geberit, leader europea nei servizi igienici e fin dalla fondazione, nel 1874, all'avanguardia nelle tecnologie idriche. Come noto, proprio i servizi igienici sono all'origine dei principali sprechi d'acqua nel mondo occidentale ed è quindi naturale che le aziende leader in materia di sciacquoni, sifoni e tubature si pongano seriamente questo problema e cerchino soluzioni innovative. Ma non solo i giganti sono fortemente impegnati sul fronte del risparmio idrico. Azzurra, una piccola azienda di Civita Castellana, ha messo a punto in questi anni un sistema che garantisce lo scarico di tutti i suoi wc con 4,5 litri d'acqua al massimo, il che consente un risparmio pari a 18mila litri in un anno rispetto ai sistemi tradizionali. Ancora più estremo il risparmio con le ultime due linee di prodotto, Thin e Jubilaeum, appena presentate, che garantiscono uno scarico efficace con soli 2,7 litri e un risparmio di 31mila litri all'anno, corrispondenti a ben tre anni del fabbisogno minimo d'acqua per un individuo medio. In materia di rubinetteria, l'attenzione è ancora più marcata. La tedesca Hansgrohe, leader mondiale nei sistemi per la doccia, è stata fra le prime aziende europee a far rientrare nella sua mission la ricerca di soluzioni tecnologiche mirate al risparmio idrico. Hansgrohe si considera a tutti gli effetti specializzata in ogni momento del nostro rapporto quotidiano con l'acqua: dall'erogazione all'utilizzo, fino al riciclo. "E' importante utilizzare al meglio l'acqua che abbiamo a disposizione, imparare a risparmiarla e a rispettarla, senza perdere di vista il benessere e il comfort che ci regala", spiega Maurizio Lunardi, ad di Hansgrohe Italia. Sul fronte del risparmio idrico, il suo pezzo forte è la tecnologia EcoSmart, grazie alla quale è possibile limitare la portata di rubinetti e docce, aumentando al contempo il volume dell'erogazione, grazie a speciali diffusori che incamerano particelle d'aria nell'acqua, rendendo il getto più vaporoso e confortevole. EcoSmart utilizza inoltre un meccanismo di precisione che risponde in modo flessibile alla pressione dell'acqua, consentendo di ridurre il consumo idrico. Con questo sistema, da gennaio tutta la rubinetteria Hansgrohe ha ridotto la portata d'acqua dai normali 13 litri a 5 litri al minuto. Un grande impegno sul fronte della responsabilità sociale verso la materia prima che utilizzano emerge anche dalle aziende produttrici di soft drink. Coca-Cola, ad esempio, si propone di restituire alle comunità locali e alla natura l'equivalente quantità di acqua utilizzata nelle sue bevande e nei suoi processi produttivi. La strategia per il raggiungimento di questo scopo include la riduzione dell'aqua utilizzata in produzione, la sua completa restituzione all'ambiente per il sostegno della vita acquatica e dell'agricoltura, il rifornimento di bacini d'acqua e programmi idrici locali sostenibili. In più, il progetto Rain (Replenish Africa Initiative), finalizzato a raccogliere fondi per rendere migliore la vita di milioni di bambini africani dando loro accesso all'acqua potabile nelle scuole e fornendo servizi igienico-sanitari adeguati, è stato lanciato da Coca-Cola nel marzo 2009 con un impegno finanziario di 30 milioni di dollari, per la durata di 6 anni. "Il progetto Rain si fonda sulla lunga e importante storia di Coca-Cola per la tutela mondiale dell'acqua", spiega Rodolfo Echeverria, ad di Coca-Cola Italia. Grazie alla costruzione di pozzi, di servizi igienico-sanitari migliori e a programmi educativi mirati, si prevede di distribuire acqua potabile e impianti igienici ad almeno 2 milioni di persone in Africa entro il 2015. Pepsi, da parte sua, non si tira indietro: PepsiCo Foundation ha impegnato oltre 15 milioni di dollari in diverse iniziative per offrire acqua potabile e servizi igienici a varie comunità nei Paesi in via di sviluppo. Le sue iniziative raggiungeranno entro il 2011 un milione di persone in tutto il mondo, dal Ghana alla Cina, dal Brasile all'India. "Per ogni litro di acqua che utilizziamo - promette Pepsi, come Coca Cola - vogliamo restituirne uno al pianeta". Nestlé Waters, attraverso le controllate Sanpellegrino e Levissima, è particolarmente impegnata in Italia. Con oltre 700 sorgenti, il nostro Paese rappresenta oggi, infatti, il primo produttore al mondo di acqua minerale. Un patrimonio di eccezionale importanza che Sanpellegrino vuole salvaguardare attraverso lo sviluppo di una serie di progetti, finalizzati da un lato alla tutela e valorizzazione della risorsa acqua, dall'altro alla riduzione dell’impatto ambientale nei processi produttivi e distributivi. Così, negli ultimi 3 anni l'azienda è riuscita a ridurre i volumi complessivi di acqua utilizzata nei processi di produzione del 40% e nel frattempo ha promosso in Italia il progetto Wet (Water Education for Teachers) presso le scuole di primo grado, che ha coinvolto complessivamente 192mila studenti, per sostenere i principi di consumo responsabile delle risorse idriche anche presso le nuove generazioni. Dall'estate 2007, inoltre, attraverso il brand Levissima, il gruppo ha intrapreso un progetto di ricerca sulle Alpi Lombarde in collaborazione con la Statale di Milano, finalizzato alla quantificazione delle perdite idriche causate dalla fusione glaciale e alla formulazione di concrete proposte di mitigazione degli effetti del riscaldamento atmosferico sui ghiacciai alpini. La ricerca ha preso avvio dalle cime montuose della Valdidentro in Valtellina, dove nasce Levissima, con particolare attenzione al ghiacciaio Dosdè.

26 aprile 2010

Eco-fronte del porto: il traffico marittimo si fa verde

Elettrificazione delle banchine per l’alimentazione delle navi in sosta. Mobilità il più possibile elettrica di passeggeri e merci. Produzione di energia con impianti fotovoltaici o eolici e illuminazione con tecnologia led. Miglioramento dell’efficienza energetica. Introduzione di sistemi telematici per fluidificare i traffici. Il porto - da sempre associato con acque inquinate, fumi pestilenziali, camalli arrabbiati e traffici loschi - si fa verde. E proprio perché fino ad oggi non ha attirato la stessa attenzione delle case o delle auto, potrebbe dare grandi soddisfazioni a chi sta tentando di dargli una ripulita. "In definitiva, l'80 per cento delle vendite di qualsiasi settore produttivo dipende dai porti, eppure i consumi portuali non vengono mai menzionati nel bilancio energetico delle grandi aziende", fa notare Henrik Kristensen, responsabile ambientale della Apm, il braccio portuale del gruppo Maersk, colosso danese dello shipping. Maersk è una delle compagnie che più si stanno impegnando sul fronte dell'efficienza. Fra le novità applicate dal suo operatore portuale, che ha come obiettivo il taglio di un quarto delle emissioni nel giro di tre anni, c'è un sistema di recupero dell'energia cinetica analogo al freno rigenerativo della Prius, ma su scala molto più vasta, che consente alle gru di accumulare energia mentre movimentano tonnellate di container e di restituirla alla rete come un generatore. Nel porto di Rotterdam, l'area concessa alla Apm ha già tagliato le sue emissioni del 45% con il passaggio all'energia del vento, generata da un parco eolico interno allo scalo, alla foce del fiume Maas, nella zona più esposta ai venti del Nord. E con il nuovo sistema regenerativo applicato alle gru, farà ancora meglio: nei test è stata ottenuta una riduzione dei consumi elettrici del 38 per cento. Non a caso Hutchison Wampoa ha equipaggiato così tutte le sue gru nello Yantian Terminal del porto di Shenzhen. Ma già l'utilizzo di energia elettrica, di qualsiasi fonte, al posto degli sporchissimi motori diesel che di solito alimentano le navi ferme in porto, è una buona notizia. Le banchine elettrificate si usano in Nord America nei porti di Los Angeles, Seattle, Juneau e Vancouver, in Europa a Goteborg, Lubecca, Zeebrugge e in tre porti finlandesi. In Italia, il primo scalo che utilizzerà l'elettrificazione delle banchine, consentendo così lo spegnimento dei motori ausiliari di bordo, sarà Civitavecchia. Il sistema di cold ironing, disegnato dall'Enel, verrà poi applicato anche a Venezia e La Spezia. Un'iniziativa importante, considerato che si tratta di strutture che accolgono un gran numero di navi da crociera e da trasporto. Grazie alla maggiore efficienza e ai sistemi di abbattimento delle emissioni presenti nelle centrali elettriche, il cold ironing permette, rispetto ai tradizionali generatori di bordo, una riduzione di oltre il 30 per cento delle emissioni di CO2 e del 95 per cento degli ossidi di azoto e del particolato, oltre all'azzeramento dell'inquinamento acustico. Il problema di base è che le navi non ancora predisposte a questo tipo di tecnologia dovranno pagare un costo di conversione che non è di certo irrisorio, si parla di cifre che vanno tra i 500 mila e il milione di euro per imbarcazione. E prima di decidere questo investimento gli armatori voranno sicuramente avere la possibilità di utilizzare il cold ironing in tutti i porti di attracco. Per facilitare la riconversione, quindi, la diffusione del sistema è fondamentale. Il passo successivo sarà imporre agli armatori l'uso di combustibili a basso tenore di zolfo (<0,1%), pena l'incremento delle tariffe. Infine, la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, per chiudere il cerchio.

25 aprile 2010

A Genova l'import-export non ha più bisogno di carta

L'ottica è quella della razionalizzazione. A Genova, gli spedizionieri di Spediporto sono stati i primi a prendere in considerazione le potenzialità dell'informatizzazione per rendere più efficiente il sistema portuale attraverso una riduzione della burocrazia cartacea, che intasa i movimenti delle merci fra agenti marittimi, terminalisti, trasportatori, spedizionieri, doganieri e finanzieri. Ogni container in arrivo via nave ha bisogno di 4-5 documenti prima di essere caricato su un camion e lasciare il porto: tutti questi documenti vengono usualmente redatti, controllati e trasferiti da un soggetto all’altro in modo manuale, con varie inefficienze, come errori nella stesura o perdita dei fascicoli, conseguente rallentamento nello svincolo delle merci e code infinite. Nei primi anni Duemila, il sistema era giunto al limite del collasso. L'autorità portuale prese la palla al balzo e avviò la rivoluzione tecnologica dello scalo: "Il passaggio dalla carta alla trasmissione telematica dei documenti è stato un progetto fortemente condiviso da tutte le componenti coinvolte", spiega Giorgio Cavo, ad di Hub Telematica, che insieme a Elsag Datamat ha progettato E-Port, il primo e unico sistema telematico in Italia volto ad assicurare la fluidificazione dei traffici portuali. "Ora abbiamo trasferito su un sistema web based tutti gli scambi di documentazione necessari per l'importazione delle merci e buona parte di quelli per l'export. Gli operatori devono trasmettere i loro documenti in un formato prefissato e il sistema è un grande concentratore di questi messaggi, che vengono smistati alle 'caselle' giuste in pochi secondi, consentendo di sincronizzare lo scambio di documenti fra tutti i soggetti coinvolti". Il risultato è che i tempi di transito al gate si sono ridotti da mezz'ora a una manciata di secondi, con un'uscita delle merci prevedibile al minuto. Niente più code di camion con il motore acceso a impestare l'aria dei genovesi. E niente più tempi morti per tutti gli operatori: grazie all’utilizzo di E-Port la capacità produttiva del terminal di Voltri è triplicata in soli 4 anni. Un'efficienza da fare invidia anche a Rotterdam.

A Venezia si punta a emissioni zero

Il porto di Venezia ha l’obiettivo di diventare il primo scalo "carbon neutral", riqualificando l’area portuale dal punto di vista energetico e procedendo lungo un percorso di tutela del porto e di tutta la laguna. Con oltre 2mila ettari di superficie, 30 chilometri di ormeggi, 205 chilometri di rete ferroviaria interna e 70 di rete stradale, 13 terminal commerciali, 10 industriali e uno crocieristico, gestiti da 5 mila addetti, 300 operatori portuali e 24 imprese terminaliste, il porto di Venezia è una delle più grandi "industrie del mare" della penisola. Con il passaggio di 541 navi da crociera e 25.2 milioni di tonnellate di traffico merci nel 2009, Venezia è oggi il primo home port del Mediterraneo per numero di croceristi movimentati nonché il primo porto container del Nord Adriatico. E non è tutto, perché a breve saranno realizzati nuovi progetti per l’ampliamento dell’area portuale, con acquisizioni in terraferma a Porto Marghera.Ma il primo obiettivo è l'elettrificazione delle banchine per alimentare le navi da crociera durante la sosta in porto, evitando le emissioni prodotte dai generatori di bordo. Il cold ironing è il primo tassello nel piano ambientale dell’Autorità Portuale di Venezia: ci sono progetti per il moto ondoso e le vibrazioni, per migliorare la qualità dell’aria e diminuire i rumori, per procedere a bonifiche ambientali e per gestire al meglio i rifiuti e l’acqua piovana. E ci sono altre iniziative energetiche, come il progetto pilota di una centrale elettrica alimentata ad alghe. Un progetto ambizioso, per cui sta partendo la prima sperimentazione sull’isola di Pellestrina con 5 o 6 bioreattori. Dopo la sperimentazione, la prima applicazione industriale potrebbe trovare sviluppo nell’isola di Tresse, con la costruzione di un impianto da 50 MW, pari alla metà della potenza necessaria agli abitanti del centro storico di Venezia.

A La Spezia i container si muoveranno su rotaia

Una nuova stazione marittima per il traffico passeggeri, che rappresenterà un volano per il rilancio del territorio e della sua economia. È il progetto di waterfront urbano, firmato dall’architetto José Maria Tomas Llavador, che interesserà a breve l’area portuale di La Spezia. Un impegno economico di oltre 250 milioni di euro, che rientra tra i tanti progetti in corso per la razionalizzazione delle aree mercantili dello scalo spezzino, tra cui la realizzazione di circa 200mila nuovi metri quadri per l’espansione del molo Garibaldi e la costruzione del terzo bacino a levante del porto. Grazie alla sua posizione geografica strategica, La Spezia è già oggi uno dei più importanti scali del Mediterraneo: con oltre un milione di contenitori movimentati all'anno è il secondo porto container in Italia, con un cluster che comprende tutti i più importanti settori dell’economia marittima, dal porto mercantile alla cantieristica, dalla nautica da diporto al turismo, fino alle attività legate all’acquacoltura. Con il progetto di "porto verde" l'autorità portuale non punta solo all'elettrificazione delle banchine, ma a un vero e proprio piano energetico portuale, che porti a una grande trasformazione complessiva del modo di produrre e consumare energia in porto. Altro importante obiettivo sarà il potenziamento del trasporto intermodale con l’intenzione di movimentare a mezzo ferrovia una quota del 50% del traffico contenitori, potenziando il terminal ferroviario nell’area retro-portuale di Santo Stefano Magra.

20 aprile 2010

Dal Laki all'Eyjafjallajökull: l'Europa al freddo per un vulcano

"Una fitta nebbia ha bloccato i raggi del sole su tutta l'Europa e larga parte del Nord America, durante la primavera e l'estate del 1783, mantenendo il suolo gelato e intatta la neve, che ha continuato a caderci sopra come fosse inverno". Così Benjamin Franklin - primo amabasciatore americano in Francia per un decennio, a partire dall'indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 - riporta in uno dei suoi scritti le conseguenze dell'eruzione del vulcano islandese Laki sull'emisfero settentrionale. Fu una delle maggiori catastrofi per l'Europa di quel tempo, con migliaia di morti avvelenati dalle ceneri solforate, una dura carestia dovuta alla distruzione dei raccolti e un'ondata di miseria con gravi ripercussioni anche sugli anni successivi, che secondo alcuni storici contribuirono allo scoppio della ricoluzione francese. "Niente di tutto questo accadrà stavolta", spiega Warner Marzocchi, dirigente di ricerca dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e responsabile per l'Europa della World Organization of Volcano Observatories, che sta monitorando l'evoluzione del fenomeno in stretto contatto con i colleghi islandesi. "L'eruzione dell'Eyjafjallajökull colpisce l'immaginazione della gente perché ha bloccato il traffico aereo europeo, ma se non fosse per questo ce ne saremmo accorti a malapena", precisa Marzocchi. L'eruzione del Laki sparò 120 milioni di tonnellate di anidride solforosa nella stratosfera, come dire tre volte le emissioni industriali globali nel corso di un anno intero. "Questa eruzione invece ha emesso volumi limitati di gas e anche se durasse mesi le sue ricadute sul clima resterebbero molto modeste", rassicura Marzocchi. L'eruzione del vulcano filippino Pinatubo, l'ultimo episodio rilevante per il clima mondiale, è stata di 3-400 volte più grossa di questa. Nel giugno del '91 il Pinatubo sparò 30 milioni di tonnellate di aerosol solforico nella stratosfera, causando un raffreddamento medio della temperatura mondiale di mezzo grado, anche per tutto l'anno successivo. La sua nuvola carica di particelle di zolfo, emessa quasi tutta d'un colpo in tre ore di eruzione esplosiva, raggiunse i 34 chilometri d'altezza e si sparse attorno al globo nel giro di 22 giorni, per poi restare sospesa lassù oltre un anno prima di disperdersi gradualmente. Lo zolfo sparato in aria dall'interno del vulcano come anidride solforosa, che legandosi con il vapore si trasforma in minuscole gocce di acido solforico, frammenta e riflette i raggi del sole, rimandandone indietro una parte a disperdersi nello spazio. In questo modo può raffreddare il pianeta per mesi, compensando l'effetto serra dovuto alle emissioni umane. In pratica, è lo stesso risultato che alcuni scienziati vorrebbero fabbricare deliberatamente, sparando nell'atmosfera particelle di zolfo, in una delle varie proposte di geoengineering, più o meno pazzesche, per contrastare il riscaldamento globale. Sulle conseguenze dell'emissione vulcanica di zolfo nell'atmosfera, del resto, non vi sono dubbi: nel monitoraggio del clima avviato dall'International Council of Science nel 1980, il diagramma risulta costantemente in crescita, tranne per due anni, l'82 e il '92, corrispondenti alle ricadute dell'eruzione del vulcano messicano Chichon e del Pinatubo. Nella primavera dell'82, il Chichon sparò nella stratosfera 13 milioni di tonnellate di anidride solforosa fino a 25 chilometri d'altezza e la temperatura globale quell'anno si abbassò di 2 decimi di grado. Anche prima che il monitoraggio fosse avviato si registrarono improvvise cadute, in corrispondenza dell'eruzione del vulcano indonesiano Awu nel '66 e del monte Agung a Bali nel '63. Ma le conseguenze più marcate si percepirono in Europa e Nord America dopo l'eruzione del vulcano Tambora, sull'isola indonesiana di Sumbawa, definita la Pompei dell'Oriente dopo la recente scoperta di case e manufatti sepolti sotto la cenere nella catastrofica eruzione dell'aprile 1815, la più vasta registrata nella storia moderna. L'esplosione del Tambora fu udita a 2.600 chilometri di distanza e mandò nella stratosfera una colonna di materiale fino a 43 chilometri d'altezza, con un fallout su un raggio di 1.300 chilometri, che lasciò vasta parte dell'Indonesia al buio completo per due giorni. In Occidente, il 1816 passò alla storia come "l'anno senza estate": da aprile a settembre le temperature si mantennero invernali, con ripetute nevicate anche in agosto. I raccolti andarono perduti, diffondendo la fame e le malattie negli strati più deboli della popolazione, scatenando profezie di sventura e sommosse di piazza. Darkness, il poema scritto da Lord Byron nel 1816, descrive il disastro con precisione: "Il mattino viene e va - e torna, ma non porta il giorno, e gli uomini scordano ogni passione in quest'orrore". L'aumento dell'attività vulcanica è ritenuto dai climatologi anche alla base della Piccola Era Glaciale, una lunga fase di raffreddamento del clima terrestre che mise a dura prova i nostri antenati dall'inizio del 1400 fino ai primi decenni del 1800. La Piccola Era Glaciale fu caratterizzata da inverni molto freddi, documentati dettagliatamente sia in Europa che in Nord America. In questo periodo i ghiacciai delle Alpi avanzarono gradualmente, inglobando fattorie e distruggendo interi villaggi. Il Tamigi e i canali dei Paesi Bassi si congelarono regolarmente, soprattutto nelle due fasi più acute, dal 1645 al 1715 (Maunder Minimum) e dal 1790 al 1830 (Dalton Minimum). Perfino il Mar Baltico fu completamente coperto di ghiaccio almeno per due volte. Nell'inverno del 1780 ghiacciò il porto di New York, consentendo alle persone di camminare da Manhattan a Staten Island. Il mare che circonda l'Islanda e la Groenlandia rimase ghiacciato per molti chilometri in tutte le direzioni, impedendo l'accesso navale ai porti delle due isole. In particolar modo, viene ricordato l'inverno del 1709 che, secondo gli esperti, è stato il più freddo degli ultimi 500 anni per il continente europeo. La Piccola Era Glaciale si è conclusa intorno al 1850, quando il clima terrestre ha iniziato gradualmente a riscaldarsi. Un'evidente testimonianza dell'incremento della temperatura durante gli ultimi 150 anni è costituito dall'impressionante arretramento delle lingue glaciali in tutti i ghiacciai del mondo.

15 aprile 2010

Eco-fronte del porto: il traffico marittimo si fa verde

Elettrificazione delle banchine per l’alimentazione delle navi in sosta. Mobilità il più possibile elettrica di passeggeri e merci. Produzione di energia con impianti fotovoltaici o eolici e illuminazione con tecnologia led. Miglioramento dell’efficienza energetica. Introduzione di sistemi telematici per fluidificare i traffici. Il porto - da sempre associato con acque inquinate, fumi pestilenziali, camalli arrabbiati e traffici loschi - si fa verde. E proprio perché fino ad oggi non ha attirato la stessa attenzione delle case o delle auto, potrebbe dare grandi soddisfazioni a chi sta tentando di dargli una ripulita. "In definitiva, l'80 per cento delle vendite di qualsiasi settore produttivo dipende dai porti, eppure i consumi portuali non vengono mai menzionati nel bilancio energetico delle grandi aziende", fa notare Henrik Kristensen, responsabile ambientale della Apm, il braccio portuale del gruppo Maersk, colosso danese dello shipping. Maersk è una delle compagnie che più si stanno impegnando sul fronte dell'efficienza. Fra le novità applicate dal suo operatore portuale, che ha come obiettivo il taglio di un quarto delle emissioni nel giro di tre anni, c'è un sistema di recupero dell'energia cinetica analogo al freno rigenerativo della Prius, ma su scala molto più vasta, che consente alle gru di accumulare energia mentre movimentano tonnellate di container e di restituirla alla rete come un generatore. Nel porto di Rotterdam, l'area concessa alla Apm ha già tagliato le sue emissioni del 45% con il passaggio all'energia del vento, generata da un parco eolico interno allo scalo, alla foce del fiume Maas, nella zona più esposta ai venti del Nord. E con il nuovo sistema regenerativo applicato alle gru, farà ancora meglio: nei test è stata ottenuta una riduzione dei consumi elettrici del 38 per cento. Non a caso Hutchison Wampoa ha equipaggiato così tutte le sue gru nello Yantian Terminal del porto di Shenzhen. Ma già l'utilizzo di energia elettrica, di qualsiasi fonte, al posto degli sporchissimi motori diesel che di solito alimentano le navi ferme in porto, è una buona notizia. Le banchine elettrificate si usano in Nord America nei porti di Los Angeles, Seattle, Juneau e Vancouver, in Europa a Goteborg, Lubecca, Zeebrugge e in tre porti finlandesi. In Italia, il primo scalo che utilizzerà l'elettrificazione delle banchine, consentendo così lo spegnimento dei motori ausiliari di bordo, sarà Civitavecchia. Il sistema di cold ironing, disegnato dall'Enel, verrà poi applicato anche a Venezia e La Spezia. Un'iniziativa importante, considerato che si tratta di strutture che accolgono un gran numero di navi da crociera e da trasporto. Grazie alla maggiore efficienza e ai sistemi di abbattimento delle emissioni presenti nelle centrali elettriche, il cold ironing permette, rispetto ai tradizionali generatori di bordo, una riduzione di oltre il 30 per cento delle emissioni di CO2 e del 95 per cento degli ossidi di azoto e del particolato, oltre all'azzeramento dell'inquinamento acustico. Il problema di base è che le navi non ancora predisposte a questo tipo di tecnologia dovranno pagare un costo di conversione che non è di certo irrisorio, si parla di cifre che vanno tra i 500 mila e il milione di euro per imbarcazione. E prima di decidere questo investimento gli armatori voranno sicuramente avere la possibilità di utilizzare il cold ironing in tutti i porti di attracco. Per facilitare la riconversione, quindi, la diffusione del sistema è fondamentale. Il passo successivo sarà imporre agli armatori l'uso di combustibili a basso tenore di zolfo (<0,1%),>

Da Goteborg a Los Angeles, le banchine elettrificate

Il cold ironing è un sistema già abbastanza diffuso in Europa e nel mondo, soprattutto fra quei porti che vogliono crescere senza danneggiare troppo l’equilibrio ambientale dell'area. Il primo porto a sfruttare l’elettrificazione delle banchine per alimentare le navi in sosta è stato quello di Gotenborg, in Svezia, nel lontano 1999. Nello scalo svedese sono infatti presenti cinque banchine elettrificate in bassa e media tensione, con una potenza di 1,25 MW e una connessione a 6 o a 11 kv, che forniscono supporto ai traghetti della Dfds Tor Line e alle navi-container della cartiera Stora Enso. La cartiera ha ammodernato tutta la sua flotta ed è uno dei principali utilizzatori di questo nuovo trend. Le sue navi container, infatti, sfruttano anche le banchine elettrificate del porto di Lubecca, in Germania, a partire dal 2008, di quelli di Oulu, Kemi e Kotka in Finlandia e di quello di Zeebrugge, in Belgio. Dove arrivano anche i traghetti della Dfds Tor Line. Oltre all’Europa, l’unico altro posto dove il cold ironing ha preso piede fino ad oggi è il Nord America. Dal 2001 il porto di Juneau, in Alaska, si è dotato di una banchina elettrificata per le navi da crociera, utilizzata dalla Princess Cruise e dalla Holland America del gruppo Carnival. Sulla costa Ovest, invece, si sono attrezzate Los Angeles (dal 2004), Seattle (dal 2005) e lo scorso anno Vancouver. A Seattle e a Vancouver si appoggiano le navi crociera, mentre Los Angeles è il riferimento mondiale per la connessione di navi porta container: alle sue banchine elettrificate si connettono le navi della China Shipping e della Nippon Yusen.

A Genova l'import-export non ha più bisogno di carta

L'ottica è quella della razionalizzazione. A Genova, gli spedizionieri di Spediporto sono stati i primi a prendere in considerazione le potenzialità dell'informatizzazione per rendere più efficiente il sistema portuale attraverso una riduzione della burocrazia cartacea, che intasa i movimenti delle merci fra agenti marittimi, terminalisti, trasportatori, spedizionieri, doganieri e finanzieri. Ogni container in arrivo via nave ha bisogno di 4-5 documenti prima di essere caricato su un camion e lasciare il porto: tutti questi documenti vengono usualmente redatti, controllati e trasferiti da un soggetto all’altro in modo manuale, con varie inefficienze, come errori nella stesura o perdita dei fascicoli, conseguente rallentamento nello svincolo delle merci e code infinite. Nei primi anni Duemila, il sistema era giunto al limite del collasso. L'autorità portuale prese la palla al balzo e avviò la rivoluzione tecnologica dello scalo: "Il passaggio dalla carta alla trasmissione telematica dei documenti è stato un progetto fortemente condiviso da tutte le componenti coinvolte", spiega Giorgio Cavo, ad di Hub Telematica, che insieme a Elsag Datamat ha progettato E-Port, il primo e unico sistema telematico in Italia volto ad assicurare la fluidificazione dei traffici portuali. "Ora abbiamo trasferito su un sistema web based tutti gli scambi di documentazione necessari per l'importazione delle merci e buona parte di quelli per l'export. Gli operatori devono trasmettere i loro documenti in un formato prefissato e il sistema è un grande concentratore di questi messaggi, che vengono smistati alle 'caselle' giuste in pochi secondi, consentendo di sincronizzare lo scambio di documenti fra tutti i soggetti coinvolti". Il risultato è che i tempi di transito al gate si sono ridotti da mezz'ora a una manciata di secondi, con un'uscita delle merci prevedibile al minuto. Niente più code di camion con il motore acceso a impestare l'aria dei genovesi. E niente più tempi morti per tutti gli operatori: grazie all’utilizzo di E-Port la capacità produttiva del terminal di Voltri è triplicata in soli 4 anni. Un'efficienza da fare invidia anche a Rotterdam.

A la Spezia i container si muoveranno su rotaia

Una nuova stazione marittima per il traffico passeggeri, che rappresenterà un volano per il rilancio del territorio e della sua economia. È il progetto di waterfront urbano, firmato dall’architetto José Maria Tomas Llavador, che interesserà a breve l’area portuale di La Spezia. Un impegno economico di oltre 250 milioni di euro, che rientra tra i tanti progetti in corso per la razionalizzazione delle aree mercantili dello scalo spezzino, tra cui la realizzazione di circa 200mila nuovi metri quadri per l’espansione del molo Garibaldi e la costruzione del terzo bacino a levante del porto. Grazie alla sua posizione geografica strategica, La Spezia è già oggi uno dei più importanti scali del Mediterraneo: con oltre un milione di contenitori movimentati all'anno è il secondo porto container in Italia, con un cluster che comprende tutti i più importanti settori dell’economia marittima, dal porto mercantile alla cantieristica, dalla nautica da diporto al turismo, fino alle attività legate all’acquacoltura. Con il progetto di "porto verde" l'autorità portuale non punta solo all'elettrificazione delle banchine, ma a un vero e proprio piano energetico portuale, che porti a una grande trasformazione complessiva del modo di produrre e consumare energia in porto. Altro importante obiettivo sarà il potenziamento del trasporto intermodale con l’intenzione di movimentare a mezzo ferrovia una quota del 50% del traffico contenitori, potenziando il terminal ferroviario nell’area retro-portuale di Santo Stefano Magra.

13 aprile 2010

Se non misuri quanto sporchi, come fai a pulire?

Calpers, il fondo pensionistico dei dipendenti pubblici californiani, ha chiesto recentemente alle società in cui investe di dettagliare nei propri bilanci i rischi derivanti dalla scarsità di acqua cui sono esposte. Anne Stausboll, numero uno del potente fondo californiano, le ha invitate a misurare il proprio water footprint, così come per molte di loro è diventato ormai normale misurare il carbon footprint. E non è la prima. Un gruppo di investitori istituzionali, guidato dall'americana Ceres, i cui soci gestiscono oltre 10mila miliardi di dollari, si lamenta in un report del fatto che molte società, dalle compagnie petrolifere ai produttori di abbigliamento o di computer, non sono abbastanza trasparenti nel riferire la propria dipendenza dalle materie prime, i cui costi potrebbero essere influenzati dalla crescente scarsità di acqua dovuta al riscaldamento del clima. Nel report si citano gli esempi di Dell o Hewlett-Packard, che trascurano nei propri bilanci l'esposizione a questo rischio, malgrado il pesante consumo di acqua nella produzione di semiconduttori. Nel settore dell'abbigliamento, il report sostiene che nessuna società valuta con precisione il cospicuo utilizzo dell'irrigazione nella coltivazione del cotone. Anche per le compagnie petrolifere il consumo di acqua sta diventando sempre più centrale e costoso, da quando hanno cominciato a sfruttare i giacimenti canadesi di sabbie bituminose, ma non se ne trova traccia nei bilanci. Perfino in una recente analisi di JP Morgan si lamenta "la difficoltà di stimare questo tipo di rischi, a causa delle scarse informazioni sulle condizioni di fornitura e delle inadeguate comunicazioni fornite dalle società". La richiesta che viene dal basso non parte a caso: per gestire il proprio business in maniera sostenibile bisogna essere prima di tutto consapevoli delle materie prime da cui si è dipendenti. L'acqua in genere si dà per scontata, ma è un errore che alla lunga potrebbe dimostrarsi gravissimo.

12 aprile 2010

Acqua azzurra, azienda chiara

Un essere umano su otto, quasi un miliardo di persone, non ha acccesso a fonti pulite di acqua. Il 40% della popolazione mondiale, 2 miliardi e mezzo di persone, vive in luoghi privi di sistemi fognari. Un milione e mezzo di bambini all'anno, quattromila al giorno, muoiono di malattie derivate dall'acqua contaminata. Noi occidentali, intanto, chiamiamo l'idraulico per potenziare il getto della doccia. E guai se al bar manca il soft drink della marca che preferiamo. Ma per le aziende che sfruttano il nostro rapporto con l'acqua, o la utilizzano come materia prima, il problema della responsabilità sociale e ambientale, nei confronti di questa risorsa preziosa e sempre più scarsa, si pone. Le riflessioni aziendali sulla sostenibilità del business, dunque, sono ormai all'ordine del giorno in tutti i settori, ma nel caso di produzioni attinenti all'acqua, che siano rubinetti o aranciate, si declinano con particolare attenzione a questo elemento fondamentale per la vita dell'uomo e del pianeta. "Con una popolazione mondiale in forte crescita, è chiaro che i sistemi mirati al risparmio idrico saranno sempre più importanti. Da un lato, l'urbanizzazione dell'Asia è galoppante. Qui la carenza d'acqua e la qualità delle forniture stanno diventando un problema enorme. Dall'altro lato, un crescente numero di persone vuole dei bagni ben disegnati e cerca sollievo nel wellness. In entrambi i contesti, per noi l'utilizzo efficiente delle risorse e l'impegno a favore di un'edilizia sostenibile sono fondamentali", spiega Albert Baehny, ad della svizzera Geberit, leader europea nei servizi igienici e fin dalla fondazione, nel 1874, all'avanguardia nelle tecnologie idriche. Come noto, proprio i servizi igienici sono all'origine dei principali sprechi d'acqua nel mondo occidentale ed è quindi naturale che le aziende leader in materia di sciacquoni, sifoni e tubature si pongano seriamente questo problema e cerchino soluzioni innovative. Ma non solo i giganti sono fortemente impegnati sul fronte del risparmio idrico. Azzurra, una piccola azienda di Civita Castellana, ha messo a punto in questi anni un sistema che garantisce lo scarico di tutti i suoi wc con 4,5 litri d'acqua al massimo, il che consente un risparmio pari a 18mila litri in un anno rispetto ai sistemi tradizionali. Ancora più estremo il risparmio con le ultime due linee di prodotto, Thin e Jubilaeum, appena presentate, che garantiscono uno scarico efficace con soli 2,7 litri e un risparmio di 31mila litri all'anno, corrispondenti a ben tre anni del fabbisogno minimo d'acqua per un individuo medio. In materia di rubinetteria, l'attenzione è ancora più marcata. La tedesca Hansgrohe, leader mondiale nei sistemi per la doccia, è stata fra le prime aziende europee a far rientrare nella sua mission la ricerca di soluzioni tecnologiche mirate al risparmio idrico. Hansgrohe si considera a tutti gli effetti specializzata in ogni momento del nostro rapporto quotidiano con l'acqua: dall'erogazione all'utilizzo, fino al riciclo. "E' importante utilizzare al meglio l'acqua che abbiamo a disposizione, imparare a risparmiarla e a rispettarla, senza perdere di vista il benessere e il comfort che ci regala", spiega Maurizio Lunardi, ad di Hansgrohe Italia. Sul fronte del risparmio idrico, il suo pezzo forte è la tecnologia EcoSmart, grazie alla quale è possibile limitare la portata di rubinetti e docce, aumentando al contempo il volume dell'erogazione, grazie a speciali diffusori che incamerano particelle d'aria nell'acqua, rendendo il getto più vaporoso e confortevole. EcoSmart utilizza inoltre un meccanismo di precisione che risponde in modo flessibile alla pressione dell'acqua, consentendo di ridurre il consumo idrico. Con questo sistema, da gennaio tutta la rubinetteria Hansgrohe ha ridotto la portata d'acqua dai normali 13 litri a 5 litri al minuto. Un grande impegno sul fronte della responsabilità sociale verso la materia prima che utilizzano emerge anche dalle aziende produttrici di soft drink. Coca-Cola, ad esempio, si propone di restituire alle comunità locali e alla natura l'equivalente quantità di acqua utilizzata nelle sue bevande e nei suoi processi produttivi. La strategia per il raggiungimento di questo scopo include la riduzione dell'aqua utilizzata in produzione, la sua completa restituzione all'ambiente per il sostegno della vita acquatica e dell'agricoltura, il rifornimento di bacini d'acqua e programmi idrici locali sostenibili. In più, il progetto Rain (Replenish Africa Initiative), finalizzato a raccogliere fondi per rendere migliore la vita di milioni di bambini africani dando loro accesso all'acqua potabile nelle scuole e fornendo servizi igienico-sanitari adeguati, è stato lanciato da Coca-Cola nel marzo 2009 con un impegno finanziario di 30 milioni di dollari, per la durata di 6 anni. "Il progetto Rain si fonda sulla lunga e importante storia di Coca-Cola per la tutela mondiale dell'acqua", spiega Rodolfo Echeverria, ad di Coca-Cola Italia. Grazie alla costruzione di pozzi, di servizi igienico-sanitari migliori e a programmi educativi mirati, si prevede di distribuire acqua potabile e impianti igienici ad almeno 2 milioni di persone in Africa entro il 2015. Pepsi, da parte sua, non si tira indietro: PepsiCo Foundation ha impegnato oltre 15 milioni di dollari in diverse iniziative per offrire acqua potabile e servizi igienici a varie comunità nei Paesi in via di sviluppo. Le sue iniziative raggiungeranno entro il 2011 un milione di persone in tutto il mondo, dal Ghana alla Cina, dal Brasile all'India. "Per ogni litro di acqua che utilizziamo - promette Pepsi, come Coca Cola - vogliamo restituirne uno al pianeta". Nestlé Waters, attraverso le controllate Sanpellegrino e Levissima, è particolarmente impegnata in Italia. Con oltre 700 sorgenti, il nostro Paese rappresenta oggi, infatti, il primo produttore al mondo di acqua minerale. Un patrimonio di eccezionale importanza che Sanpellegrino vuole salvaguardare attraverso lo sviluppo di una serie di progetti, finalizzati da un lato alla tutela e valorizzazione della risorsa acqua, dall'altro alla riduzione dell’impatto ambientale nei processi produttivi e distributivi. Così, negli ultimi 3 anni l'azienda è riuscita a ridurre i volumi complessivi di acqua utilizzata nei processi di produzione del 40% e nel frattempo ha promosso in Italia il progetto Wet (Water Education for Teachers) presso le scuole di primo grado, che ha coinvolto complessivamente 192mila studenti, per sostenere i principi di consumo responsabile delle risorse idriche anche presso le nuove generazioni. Dall'estate 2007, inoltre, attraverso il brand Levissima, il gruppo ha intrapreso un progetto di ricerca sulle Alpi Lombarde in collaborazione con la Statale di Milano, finalizzato alla quantificazione delle perdite idriche causate dalla fusione glaciale e alla formulazione di concrete proposte di mitigazione degli effetti del riscaldamento atmosferico sui ghiacciai alpini. La ricerca ha preso avvio dalle cime montuose della Valdidentro in Valtellina, dove nasce Levissima, con particolare attenzione al ghiacciaio Dosdè.

10 aprile 2010

Per fermare l'effetto serra bisogna investire: quanto?

I cambiamenti climatici possono fare anche questo: far rientrare i cervelli. Ma un cervello rientrato non fa primavera. Valentina Bosetti, master all'University College of London in Environmental Economics e dottorato alla Statale di Milano in matematica computazionale applicata alle dinamiche ambientali, è appena tornata in Italia dopo un periodo a Princeton come visiting fellow, portandosi dietro un prestigioso grant da un milione di euro dell'European Research Council, che utilizzerà a Milano, appoggiandosi alla Fondazione Eni Enrico Mattei. I grant Erc, come noto, offrono una grande libertà di movimento allo scienziato che ne vince uno, ma obbligano a condurre il progetto di ricerca per cui sono stati assegnati in un laboratorio europeo. Bosetti, che nella Fondazione Mattei dirige il gruppo di Climate Modelling, è rientrata proprio per sfruttare i fondi vinti con Erc per il progetto Icarus (Innovation for Climate Change mitigation: a study of energy R&D, its Uncertain effectiveness and Spillovers), che durerà tre anni. "Non ho scelto tanto di tornare in Italia, quanto alla Fondazione Mattei, che rappresenta un'assoluta eccezione nel panorama italiano della ricerca nel mio settore", precisa Bosetti. "La Feem - spiega - è un centro di eccellenza piccolo, veloce, snello, senza grande burocrazia. Offre una grande libertà di ricerca, un elemento essenziale per portare avanti il mio progetto. Invece non avrei mai offerto il mio grant a un'università italiana, perché la carriera universitaria in Italia non mi attira". Bosetti, quindi, è un cervello tornato ma non si fermerà in Italia per molto tempo, anche se di solito chi vince un Erc assume una tale visibilità che nel giro di due-tre anni diventa professore. Il suo futuro lo vede più probabilmente in qualche ateneo europeo. Per adesso, si dedicherà appieno a Icarus, studiando aspetti cruciali della ricerca su energia e clima: il progetto si propone infatti di esplorare i meccanismi che portano all'innovazione nel settore energetico, investigando il ruolo degli investimenti, sia pubblici che privati, in ricerca e sviluppo, gli effetti di spillover degli investimenti fra Paesi e settori, e simulando le strategie ottimali in funzione degli obiettivi delle politiche internazionali su energia e clima. "All'inizio della mia carriera ero molto dominata dall'idealismo, ma poi ho capito che gli aspetti economici sono fondamentali per la salvaguardia dell'ambiente e del clima", ragiona Bosetti. "In pratica, ci focalizzeremo su tre aspetti: sulle strategie politiche, sugli incentivi pubblici e sugli investimenti privati che muovono il cambiamento tecnologico in questo settore". Per capire quali sono gli elementi chiave del cambiamento, Bosetti dovrà scavare nel passato per identificare quali sono state le mosse vincenti, ma anche ricercare nel futuro, parlando con gli esperti delle tecnologie di cui sappiamo ancora poco, come i biocombustibili di seconda o terza generazione, il solare più innovativo, il nucleare di quarta generazione. Un'impresa impegnativa, che potrebbe portare finalmente un po' più di chiarezza in una materia finora affidata spesso al caso.

8 aprile 2010

Una rete di città per salvare il clima

Dopo Copenhagen e la delusione della grande diplomazia internazionale, la spinta verso un'economia low carbon riparte dalle politiche locali. Le città, dove abita ormai oltre il 50% della popolazione mondiale, sono in prima linea nella battaglia per la difesa del clima e dell'ambiente: l’impegno locale per le energie rinnovabili, per l’efficienza energetica, per la mobilità sostenibile e per un uso misurato del suolo forma la base su cui si costruisce tutto il resto. "Il processo internazionale deve continuare e continuerà, ma non sarà all'avanguardia, piuttosto seguirà iniziative nazionali, regionali e anche locali", ragiona Carlo Jaeger, del Potsdam Institute for Climate Impact Research, che la settimana prossima parteciperà a Perugia alla conferenza internazionale dell'Alleanza per il clima, la rete europea di 1500 enti locali impegnati nella crescita sostenibile. Jaeger, che si occupa proprio della traduzione in pratica degli obiettivi salva-clima, è ottimistico sulle prospettive del processo iniziato nel '92 a Rio de Janeiro: "C’è stato un accordo importante sulla soglia massima dei 2 gradi di riscaldamento, condiviso da tutti". Ora bisogna solo tradurlo in pratica. Ma per Jaeger è importante uscire da una prospettiva di scontro fra interessi contrastanti: "Oggi l’ottica prevalente è che bisogna affrontare dei costi nel presente per evitare i rischi futuri, così ognuno cerca di pagare il meno possibile e tutto si blocca. Invece sarebbe più corretto identificare delle situazioni win-win, in cui si possa fare qualcosa di utile per il clima senza imporre dei costi, ma anzi con dei benefici ulteriori". In alcuni Paesi, dice Jaeger, ci siamo già arrivati: "La Germania ha cominciato a inquadrare la situazione in questi termini, sviluppando ad esempio l’industria dell’eolico e del fotovoltaico. Le imprese tedesche che si occupano di fonti rinnovabili fanno un’ottima figura anche in termini di fatturato. Di conseguenza ci sono larghe fasce non solo dell’opinione pubblica, ma anche del mondo finanziario e industriale che cominciano a focalizzarsi sull’individuazione di situazioni win-win. Un’ottica un po’ simile si vede in California, in parte anche in Cina. Siamo solo all'inizio, ma è già un cambiamento di prospettiva importantissimo". In questo senso la spinta dal basso degli enti locali è fondamentale. "A Monaco abbiamo fissato una roadmap verso un sistema a bassa intensità di carbonio in termini molto stringenti e siamo già a buon punto: se manterremo questo ritmo, entro il 2030 la città avrà tagliato del 50% le sue emissioni rispetto al 1990", spiega Joachim Lorenz, assessore all'Ambiente della metropoli bavarese e presidente dell'Alleanza per il clima. "I progressi verso un'economia low carbon delle città europee sono molto importanti, per dimostrare a grande scala che benessere, prosperità e innovazione possono andare insieme con una forte regressione del volume di emissioni". I membri dell'Alleanza per il clima si sono posti obiettivi ambiziosi: tagliare le emissioni pro capite del 10% ogni cinque anni, dimezzandole appunto entro il 2030 rispetto all'anno base, il 1990. Non tutti ci riusciranno, ma alcune grandi metropoli del mondo tedesco, da Monaco di Baviera a Vienna, stanno rispettando la tabella di marcia. Il traguardo finale sarà di ridurre stabilmente le emissioni sui rispettivi territori a 2,5 milioni di tonnellate di CO2 pro capite. Un traguardo difficile da raggiungere, se si considera che la media europea è 8 milioni di tonnellate pro capite e quella dei Paesi più industrializzati può arrivare ai 10 milioni di tonnellate dei tedeschi o ai 15 milioni degli olandesi. Ma non impossibile, visto che gli svedesi, ad esempio, sono riusciti a ridurle del 15% negli ultimi dieci anni (in Italia invece sono cresciute del 10%). "I campi d'azione più importanti su cui abbiamo investito sono tre: produzione energetica più pulita, efficienza energetica e traffico", spiega Lorenz. "Da un lato la riconversione delle centrali elettriche: le abbiamo rese più efficienti, utilizzando anche il calore per il teleriscaldamento, e meno inquinanti bruciando gas invece del carbone. Per aumentare lo sfruttamento delle fonti rinnovabili, invece, abbiamo spinto con una serie di incentivi tutti i grandi proprietari immobiliari a installare tetti fotovoltaici e pompe di calore. Poi abbiamo messo in piedi un vasto programma edilizio per l'isolamento termico degli edifici: con un investimento comunale di 10 milioni di euro all'anno abbiamo innescato un investimento privato di 110 milioni su questo fronte. Infine abbiamo introdotto un sistema di divieti e pedaggi per scoraggiare il più possibile l'utilizzo dell'auto nelle due cerchie interne della città, che sarà ulteriormente allargato in ottobre, comprendendo metà del territorio comunale. Abbiamo già 800 chilometri di piste ciclabili e continuiamo a estendere questa rete. Stiamo anche sviluppando una serie di prototipi elettrici di camioncini per le consegne, che poi imporremo gradatamente ai fornitori che vogliono accedere al centro cittadino". Un altro fronte importante è la misurazione e il benchmarking delle emissioni. "Su questo stiamo lavorando già da anni", precisa Karl-Ludwig Schibel, responsabile per l'Italia dell'Alleanza per il clima e coordinatore da vent'anni a Città di Castello della Fiera delle utopie concrete. "Abbiamo adottato ECORegion, un sistema nato su impulso di comuni e cantoni svizzeri proprio per rispondere a queste esigenze". ECORegion è un software online che non richiede alcuna installazione ma solo il semplice acquisto di una licenza-account, consentendo di calcolare con cadenza annuale il bilancio di CO2 e di consumi energetici del proprio territorio. In pratica è una macchina di calcolo, che utilizza per l’elaborazione sia dati di default desunti dal modello nazionale, sia dati locali calcolati o reperiti in proprio dagli utenti, e permette la ricostruzione della serie storica dal 1990, con la possibilità di elaborare scenari per gli anni futuri. Uno strumento prezioso per chi fa sul serio nella salvaguardia del clima, perché se non si quantificano le emissioni del proprio territorio è impossibile ridurle sul lungo periodo.