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30 ottobre 2006

Per l'Eni Capo Nord si fa rovente

La lunga notte artica sta per scendere sul Mare di Barents, ma al largo di Capo Nord le trivelle non cesseranno di funzionare. Un quarto delle riserve mondiali di idrocarburi non ancora sfruttate potrebbe dormire qui sotto. Finora, però, la corsa all' oro nero ha scoperto solo due vene veramente notevoli. Dalla parte russa del Mare di Barents, a 500 chilometri dal porto di Murmansk, c' è Shtokman, il giacimento di gas più grande del mondo, che Gazprom ha appena reclamato per sé estromettendo tutte le major occidentali finora impegnate nelle prospezioni. Dalla parte norvegese c' è Goliat, un giacimento di petrolio scoperto dall' Eni a neanche 50 chilometri dalla costa, che già fa parlare di sé come il primo assaggio di un nuovo «Mare del Nord». Per ora le riserve di Goliat sono stimate in 250 milioni di barili, per un valore di circa 15 miliardi di dollari. «Ma il giacimento potrebbe essere ben più vasto», precisano al Direttorato norvegese del petrolio. Le stime di varie società di analisi, come la norvegese First Securities o la britannica Wood McKenzie, parlano di almeno 6-700 milioni di barili. Se ne saprà di più quando l' Eni - proprietaria del giacimento al 65%, insieme a due compagnie norvegesi, la Statoil al 20% e la Dno al 15% - avrà completato due nuove trivellazioni, appena iniziate. Per ora la portata delle scoperte è circondata dal massimo riserbo. E non stupisce. La zona di Goliat, infatti, si sta facendo piuttosto affollata. A parte le 400mila pulcinelle di mare che nidificano da quelle parti, c' è Esperanza, la nave di Greenpeace, che ha tentato più volte l' assalto: «La produzione di petrolio offshore contempla sempre un certo rischio, ma questo è inaccettabile in un' area ecologicamente unica come questa», commenta Brad Smith, responsabile di Greenpeace per le campagne nei mari artici. «Il sito di Goliat - spiega Smith - è una delle aree più fragili del Mare di Barents, qui si riproducono e crescono i principali stock di pesce norvegese, qui vivono milioni di uccelli marini e si nutrono nelle acque prospicenti alle scogliere: quest' area è già minacciata dal traffico delle petroliere russe dirette ai mercati europei e richiede maggiore protezione, non un aumento del rischio petrolifero». In sostanza, Greenpeace chiede all' Eni di sospendere immediatamente ogni attività: «Per mantenersi nei principi ambientali inclusi nel suo codice etico, l' Eni deve abbandonare i piani di trivellazione nell' area di Goliat». In realtà è del tutto improbabile che le richieste degli ambientalisti facciano breccia nelle autorità locali, che già oggi impongono regole molto restrittive alle ricerche petrolifere nel Mare di Barents e le mettono completamente al bando nel circondario delle isole Lofoten. «Non è mai successo - precisa Bente Nyland, del Direttorato norvegese del petrolio - che una licenza di esplorazione sia stata revocata dopo aver trovato abbastanza petrolio da giustificare l' avvio della produzione commerciale». E qui abbiamo già superato questo stadio. Anzi, l' Eni deve difendersi da un assalto ben più preoccupante di quello degli ambientalisti. La corsa delle compagnie internazionali che hanno chiesto licenze di trivellazione nella zona si sta facendo travolgente: il Direttorato non rivela i nomi, ma annuncia l' avvio di altri 24 blocchi di esplorazione, nell' area che si estende tra Goliat e il vicino giacimento di gas di Snohvit, geologicamente omogenei. Non potranno mancare alla festa le norvegesi Statoil e Hydro, controllate al 71 e al 44% dallo Stato. Le due cugine, del resto, non si sono ancora riavute dalla mala parata sul fronte russo: dopo aver speso 60 milioni di euro e molto know how nelle trivellazioni per Shtokman, sono state brutalmente estromesse insieme a Chevron, ConocoPhillips e Total dal padrone di casa, Gazprom, che ha deciso di vendicarsi così per le resistenze occidentali all' ingresso della Russia nella Wto. Le trattative per ridurre il nazionalismo russo a più miti consigli sono in corso. Ma nel frattempo a Capo Nord la vita si fa sempre più dura.

25 ottobre 2006

Blog aziendali, dal marketing al knowledge management

Quanto può contare un blog a supporto delle strategie di comunicazione e delle campagne di marketing è facilmente immaginabile. Ormai quasi tutte le grandi aziende ne fanno ampio uso per arricchire i propri rapporti con il pubblico. Ma l'uso dei blog come strumenti di knowledge management interni alle organizzazioni è ancora poco conosciuto, pur essendo di pari se non maggiore importanza. Moltissime corporation, da Sun Microsystems a Ibm, da Gm a Hewlett Packard, hanno un sistema di blog accessibili solo dall'interno, protetti da un firewall, per condividere i progetti con i colleghi. Altre, come GE, utilizzano addirittura blog aperti anche per gli scambi aziendali. Su Edison's Desk, il blog del dipartimento di ricerca e sviluppo di GE, i ricercatori mettono in rete di tutto, dai nuovi progetti in materia di energie rinnovabili alle promesse dei materiali autopulenti. Si tratta di una rivoluzione, non solo sul fronte del concetto di proprietà intellettuale, ma anche sul fronte della governance in senso lato. Vedi il caso di Mark Jen, diventato una cause célèbre l'anno scorso, quando fu licenziato da Google dopo aver riferito nel suo blog qualche dettaglio di troppo sulla sua vita aziendale. Già oggi un caso simile sarebbe impensabile. Ma viene da chiedersi: perché i blogs stanno soppiantando le intranet aziendali? E come possono contribuire alla gestione della conoscenza interna? La risposta alla prima domanda è banale: sono facili da avviare, molto convenienti nella gestione quotidiana e inducono al dialogo continuo e informale. Tutta un'altra cosa rispetto alla rigidezza paludata delle intranet aziendali. La seconda risposta necessita di una piccola introduzione: a cosa serve il cosiddetto knowledge management? Serve a preservare l'expertise dell'organizzazione anche quando i depositari di queste conoscenze se ne vanno in pensione (l'attuale curva demografica rappresenta una grave preoccupazione per le multinazionali del mondo industrializzato) e a mettere in comune queste risorse per addestrare le nuove leve. Serve a fornire informazioni che esulano dal loro campo specifico d'attività a tutti i dipendenti. Serve ad evitare di perdere tempo per reinventare soluzioni a problemi già risolti. Per ottenere questo risultato bisogna superare una serie di barriere. La prima è indurre gli esperti a mettere in comune la propria expertise, a meno che la comunicazione non faccia già direttamente parte del loro mestiere. Se è vero che tutto il valore di un lavoratore sta in quello che sa (e che gli altri non sanno), perché dovrebbe improvvisamente metterlo in comune? Il rischio di perdere parte del proprio valore rende la maggior parte degli esperti riluttanti ad aprire i propri forzieri, a maggior ragione se si tratta di conoscenze tecniche strategiche per l'azienda. Di conseguenza, il primo passo sulla strada del knowledge management parte sempre da un cambiamento complessivo di prospettiva nella cultura aziendale. Il passaggio dalla mentalità da "cane da guardia" del proprio sapere alla cultura della condivisione, comporta un incoraggiamento esplicito da parte dell'azienda a mettere in comune le proprie conoscenze. Un'altra barriera è la diffidenza degli altri a riconoscere un oscuro collega come esperto di qualcosa. La terza barriera è individuare la collocazione dei flussi del sapere all'interno dell'organizzazione e intercettarli. Per superare questi tre ostacoli, di non poco conto, è molto più adatto un sistema flessibile, informale e facile da aggiornare tutti i giorni piuttosto che un database rigido e suddiviso per argomenti, come quelli che sono stati usati fino ad oggi. Ecco la risposta alla seconda domanda. I blogs stanno trasformando in maniera radicale e dando sostanza a tutti i sistemi di knowledge management del mondo. Il nuovo software consente agli esperti di integrare perfettamente questa attività nel loro ambiente naturale di lavoro, come se fosse un nuovo browser, annotando in tempo reale i siti da segnalare come parte della loro area di expertise. Supera i formalismi e le gerarchie dei sistemi tradizionali. Polverizza le normali classificazioni per categorie, introducendo una maggiore flessibilità nella ricerca delle informazioni, reperibili anche direttamente attraverso i nomi degli esperti, una volta riconosciuti come tali. In questo modo offre alle organizzazioni la possibilità di attingere non solo a un banale archivio di documenti già creati, ma direttamente alla conoscenza dei propri dipendenti - passati e presenti - rinnovata in tempo reale dagli scambi e dalle discussioni interne. L'ultimo passo, che già si vede spuntare in qualche blog aziendale fra i più avanzati, è la certificazione del valore delle informazioni fornite, attraverso il "voto" degli utenti o addirittura attraverso un processo di "peer review" nel caso di contenuti scientifici. Un buon indirizzo per approfondire l'argomento o semplicemente dare un'occhiata a qualche blog aziendale, è http://www.eu.socialtext.net/bizblogs/index.cgi, la directory più completa dei blog delle aziende Fortune 500. La lista è partita da una polemica avviata da Chris Anderson, direttore di Wired e autore di "The Long Tail" (http://www.thelongtail.com), sulla scarsa attenzione delle grandi multinazionali al femonemo dei blog: dalla lista risulta che solo l'8% di queste aziende utilizzano ad oggi dei blog aziendali aperti al pubblico. Un mese fa era il 4%.

23 ottobre 2006

Solare? In Italia incentivati solo i furbi

Esempio pratico: «Per un impianto fotovoltaico da 50 KW: energia prodotta annualmente circa 65 mila kwh (Centro Italia); guadagno complessivo circa 36 mila euro/anno, cioè 700 mila euro in 20 anni; costo dell' impianto "chiavi in mano" 260/300 mila euro. Si metta in contatto con noi per avere un' offerta individuale che rispecchi le Sue esigenze. Le facciamo avere, in tempi brevi, un preventivo per la realizzazione della Sua centrale fotovoltaica». Questa è Suneon, una delle imprese che hanno fatto man bassa degli incentivi al fotovoltaico messi in palio dal Gestore del sistema elettrico, che dovevano far decollare il mercato italiano del solare. L' azienda bolzanina è nata in marzo, sull' onda dei nuovi contributi in conto energia, e ha già 50 progetti in pipeline - dicono i due soci Alexander Berger e Reinhold Gabloner - per 49,5 MW in tutto, ben più dell' attuale parco solare complessivo italiano. Ma neanche uno realizzato. A un anno dalla partenza del nuovo sistema d' incentivazione, in effetti non si è mossa foglia: su 185 MW di progetti incentivati, finora non c' è nemmeno 1 MW in funzione. E solo per 27 MW è stato notificato l' inizio dei lavori. «Se non arriviamo neanche a 10 MW installati entro la fine del 2006, l' Italia ci fa davvero una figuraccia e rischia di perdere gli investimenti delle grandi aziende del settore», spiega Gianni Chianetta di Bp Solar, uno dei giganti mondiali dell' energia del sole. Chianetta - che è anche presidente di Assosolare, la neo costituita associazione dell' industria fotovoltaica - punta il dito da un lato su un sistema decisamente mal congegnato, dall' altro su un assalto di incompetenti attratti dal guadagno facile. «Il punto dolente sta nei tetti annuali di potenza, che hanno spinto le aziende a fare incetta di autorizzazioni», precisa Chianetta. Ma da qui a realizzare i progetti autorizzati, ce ne passa. Suneon, ad esempio, ha rastrellato insieme alla siciliana Ste.da decine di autorizzazioni nella gara tenuta in marzo dal Gestore del sistema elettrico sui progetti più grossi, di potenza superiore a 50 KW. Il meccanismo era quello dell' asta al ribasso: i progetti che potevano essere realizzati con il minore esborso per lo Stato sono stati autorizzati. Con il risultato di assegnare tutta la quota annuale a un paio di aziende che si offrivano di realizzare gli impianti anche accontentandosi di un incentivo ventennale di 30 centesimi a kwh, contro una base d' asta di 49 centesimi. Un bel risparmio del 40%. Ma così l' impianto non è remunerativo. Hai voglia di tentare di rivendersi l' autorizzazione a chi era rimasto fuori: nessuno ci è cascato. Di conseguenza, al momento di presentare le fidejussioni bancarie (un milione di euro a MW), per realizzare i progetti, tutti si sono tirati indietro. Risultato: alla fine di settembre, al Gestore del sistema elettrico non è rimasta altra scelta che andare a riaprire la graduatoria e ammettere altri trenta progetti. E via a scalare. Finché alla fine, prima o poi, si troverà qualcuno che si accolla il rischio. Ma intanto si è perso un anno. «Ora si riparte con prospettive solide e obiettivi ambiziosi», annuncia il consigliere del ministro Bersani, Gianni Silvestrini, che sta disegnando il nuovo decreto d' incentivazione, destinato a sostituire il vecchio sistema dal 1° gennaio. «Puntiamo a semplificare al massimo l' accesso all' incentivo, per evitare ogni tipo di speculazione - puntualizza Silvestrini -. Toglieremo il tetto annuale ed elimineremo il sistema delle fidejussioni, spostando la concessione dell' incentivo al momento dell' entrata in esercizio dell' impianto». In sostanza l' impianto sarà automaticamente ammesso all' incentivazione, con diversi livelli di incentivo a seconda della tipologia: più alto per gli impianti piccoli e integrati negli edifici, più basso per quelli grandi a terra. Ma se è vero che cadranno i tetti annuali, nel testo attuale del nuovo decreto si parla comunque di un tetto complessivo, che non è stato ancora fissato. La cifra più accreditata, 1.500 MW al 2012, è già un obiettivo ambizioso: in pratica, darebbe via libera all' installazione di 250 MW di pannelli all' anno, quando fino ad oggi in Italia non si supera una potenza installata di 40 MW in tutto. «Se riusciremo a raggiungere questo ritmo di crescita sarei davvero molto soddisfatto - commenta Silvestrini -. Il nostro obiettivo è dare vita anche qui a un' industria del solare, che nel resto del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre in Italia, il Paese del sole, è ancora ferma». In Germania, con un milione di pannelli solari installati, sono nate 5 mila aziende che danno lavoro a 25 mila addetti. Nel futuro del Belpaese, Silvestrini vede la nascita di un «Italian Solar Design», capace di incidere sui nuovi standard architettonici mondiali, dove ormai la sostenibilità ambientale degli edifici è diventata un must. «Ma per fare questo dobbiamo muoverci in fretta - fa notare Chianetta - e liberarci dalle pastoie delle autorità locali, che trattano gli impianti fotovoltaici come se fossero centrali nucleari e impongono mille pareri prima di concedere la licenza edilizia: nel nuovo decreto questo problema non viene risolto». Altrimenti l' Italia rischia ancora una volta di restare al palo.