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29 settembre 2004

Il nucleare italiano passa per l'Europa

La via italiana al nucleare passa per l'Europa. Con il via libera concesso dalla riforma Marzano, le aziende italiane possono ora gestire e produrre energia nucleare all'estero, riallacciando così quel filo spezzato dal referendum dell'87, che ha portato l'Italia a uscire da un settore dov'era all'avanguardia e alla nota inadeguatezza del sistema di generazione elettrica nazionale. Certo sarà impossibile ritornare nella situazione degli anni Cinquanta e Sessanta, quando l'Italia era il terzo produttore mondiale di energia atomica dietro agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Ma i progetti sono molti: dall'ingresso di Enel nelle attività nucleari del colosso francese Edf alle acquisizioni in Est Europa (dove sta per assumere il controllo dei due reattori di Slovenske Elektrarne), dalla partecipazione di Ansaldo Energia nella costruzione dei tre reattori di Cernavoda in Romania all'appalto per l'assistenza tecnica nella centrale della penisola di Kola, vinto pochi giorni fa dalla Sogin insieme alla spagnola Iberdrola. "In un mercato unico dell'energia come sarà presto quello europeo - spiega Sergio Garribba, direttore generale responsabile per l'energia del ministero delle Attività Produttive - non è più molto importante su quale territorio sono situate le centrali nucleari che verranno gestite da imprese italiane. L'importante è riprendere in mano l'argomento in tempi brevi, in modo da non restare completamente tagliati fuori dalle decisioni comunitarie". Di nucleare, infatti, si sta riprendendo a parlare in tutto il mondo, Europa compresa. Loyola de Palacio, vicepresidente e commissaria all'Energia, sostiene da tempo che il nucleare è l'unica via per contenere i prezzi e tutelare la sicurezza dell'approvvigionamento: "Cinque anni fa nessuno ne parlava, ma oggi il dibattito sull'energia nucleare è sul tavolo... L'Europa è destinata ad aumentare i suoi consumi di energia, specialmente di elettricità, e al momento attuale non ci sono fonti alternative cui ricorrere per coprire questo fabbisogno". L'aumento del prezzo del petrolio, che sembrerebbe strutturale, e l'instabilità politica dei Paesi produttori, insieme alle esigenze ambientali di limitare la combustione di idrocarburi sollevate dal protocollo di Kyoto, che escluderebbero un ritorno massiccio al carbone, ci spingono inevitabilmente verso l'energia atomica, malgrado gli incidenti di percorso, che hanno profondamente eroso il supporto dell'opinione pubblica occidentale a questa fonte di energia generata dalla mente di Enrico Fermi. Ecco perché prima della scadenza del suo mandato, alla fine di ottobre, la commissaria spagnola si è prefissa di arrivare all'approvazione della legislazione comunitaria sulla sicurezza degli impianti nucleari e sulla gestione delle scorie, a suo parere premessa indispensabile per lo sviluppo del nucleare in Europa: la versione riveduta e corretta del trattato Euratom, uno dei punti di riferimento cardinali dell'Unione, è in dirittura d'arrivo. Il ritorno d'interesse per l'energia atomica parte dagli Stati Uniti, dove l'ultima delle 103 centrali attive è entrata in funzione nel '96. L'amministrazione Bush ha avviato un nuovo programma nucleare e ha spinto la Nuclear Regulatory Commission ad alleggerire il pesantissimo regime di permessi introdotto dopo l'incidente del '79 a Three Mile Island: il primo impianto di ultima generazione dovrebbe entrare in funzione nel 2010. Ma anche il resto del mondo si muove. In luglio, al congresso mondiale dell'Aiea a Obninsk, vicino a Mosca, la Russia ha annunciato di voler triplicare la produzione di energia nucleare nel giro di cinque anni. In Cina si stanno costruendo 2 reattori, in India 8, in Sud Corea 6, in Giappone 2, a Taiwan 2, in Sud Africa 1. E l'Europa non è da meno. Nel Regno Unito (con 27 centrali il Paese più "nuclearizzato" d'Europa dopo la Francia e la Lituania) Tony Blair ha espresso in luglio, davanti alla commissione parlamentare competente, l'intenzione di avviare un nuovo programma nucleare per rimpiazzare i reattori che diventeranno obsoleti da qui al 2020. La Francia (che soddisfa con l'atomo il 75% del suo fabbisogno energetico) ha deciso di prolungare di altri vent'anni la vita delle proprie centrali e comunque progetta la costruzione in Normandia di un reattore di ultima generazione in consorzio con la Germania per fornire a Edf una tecnologia nuova quando dovrà rimpiazzare le prime centrali nel 2015. La joint-venture Framatome-Siemens, intanto, sta già costruendo un European Pressurized Water Reactor (Epr) da 1.600 MW a Olkiluoto, in Finlandia: un progetto da 3 miliardi di euro. In Germania, dove il governo Schroeder ha accettato sotto pressione degli alleati Verdi l'uscita dal nucleare entro il 2021, i leader cristiano democratico Angela Merkel e cristiano sociale Edmund Stoiber hanno messo in chiaro l'intenzione di fare marcia indietro, in caso vincessero le elezioni. Perfino in Svezia, uno dei primi Paesi a optare per una moratoria nucleare nell'80, quando decise di chiudere tutti i reattori entro il 2010, l'opinione pubblica sta tornando indietro: un recente sondaggio dell'università di Goteborg ha scoperto che solo l'11% degli svedesi concorda ancora con la decisione presa nell'80, mentre il 46% vorrebbe mantenere in vita gli 11 reattori attivi e il 15% addirittura costruirne degli altri. Ma il nucleare di cui si parla oggi non è più lo stesso di una volta. Dai tempi in cui sono entrate in servizio la prime centrali nucleari utilizzate a scopi commerciali, come quella inglese di Calder Hall nel '56 - o quella di Latina nel '63, di Garigliano nel '64 e di Trino Vercellese nel '65 - la tecnologia si è notevolmente evoluta. Quasi tutti i reattori di prima generazione, costruiti poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stati già chiusi e la maggior parte di quelli ancora in funzione - detti di seconda generazione - risale alla fine degli anni Sessanta. In questo tipo di reattori si utilizza l'acqua come mezzo principale di raffreddamento, il che comporta una quantità di valvole, sensori, pompe e circuiti di grande complessità per rispettare le norme di sicurezza. "Ora l'industria nucleare ha sviluppato dei reattori di terza generazione - spiega William Magwood, responsabile dei programmi nucleari al dipartimento dell'Energia di Washington - che dipendono meno da sistemi di sicurezza meccanici e molto di più da strutture basate sulla forza di gravità o sulla convezione termica naturale: questo li rende più semplici e più sicuri".I primi due reattori di terza generazione, costruiti da un consorzio nippo-americano (General Electric insieme a Hitachi e Toshiba), sono entrati in funzione nel '97 nella centrale giapponese di Kashiwazaki. Il più avanzato è l'AP1000 di Westinghouse, l'impianto più piccolo e semplice mai concepito finora, sul cui modello si stanno costruendo due reattori in Sud Corea, che entreranno in produzione nel 2010. Ma il futuro sta nelle mani della quarta generazione, a cui lavora da anni una partnership di dieci Paesi (inclusi la Francia, il Regno Unito, la Svizzera e il Giappone), guidata dagli Stati Uniti: i sei reattori studiati dal consorzio, che intende arrivare alla fase di realizzazione entro il 2015, opereranno ad altissime temperature (500-1000°), per ottenere la massima efficienza e ridurre al minimo la produzione di scorie, incapsulando le convenzionali pasticche di uranio in sfere delle dimensioni di palle da biliardo e sostituendo all'acqua elio o sale fuso nel circuito di raffreddamento. "L'Italia - precisa Garribba - per ora è esclusa dal gioco perché non ha centrali attive. Ma abbiamo chiesto di partecipare, almeno come osservatori".

27 settembre 2004

L'Ue spinge, l'America frena, la Russia rinvia

Chi si è trovato sull' itinerario dell' uragano Ivan lo sa: l' effetto serra fa male. Ma un milione di case distrutte dalla Florida alla Louisiana e centinaia di vittime sono solo il modesto bilancio di uno degli innumerevoli eventi catastrofici che una parte degli scienziati attribuisce al riscaldamento del clima. L' anno scorso ne sono stati contati oltre 700, fra cui gli uragani caraibici che non sono i peggiori. Che il mondo sia destinato a diventare un luogo sempre più caldo e dal clima sempre più imprevedibile, è un dato ormai assodato: secondo i meteorologi dell' Intergovernmental Panel on Climate Change, sponsorizzato dalle Nazioni Unite, l' aumento della temperatura potrebbe variare fra 1,4° e 5,8° entro il 2100, a seconda dello scenario di sviluppo, con conseguenze più o meno catastrofiche. La consistenza del riscaldamento dipenderà dalla concentrazione di anidride carbonica e degli altri gas serra nell' atmosfera: potrebbero variare da un minimo di 540 a un massimo di 970 parti per milione. Per 5 o 6 milioni di anni, cioè da quando l' uomo abita la Terra all' inizio del secolo scorso, la concentrazione media di anidride carbonica nell' atmosfera si è mantenuta attorno a 270 ppm. Solo negli ultimi cento anni, con la rivoluzione industriale, ha cominciato a salire, arrivando alle 378 ppm attuali. La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, approvata dalle Nazioni Unite il 9 maggio 1992, è la risposta pensata a livello internazionale per contrastare e ridurre al minimo gli effetti negativi di questo processo. La convenzione, ratificata da 178 Paesi, ha come obiettivo la stabilizzazione a livello planetario della concentrazione dei gas serra a 550 ppm entro il 2100. Il protocollo di Kyoto, firmato nel dicembre 1997, rappresenta lo strumento attuativo della convenzione e impegna i Paesi industrializzati a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 5,2% rispetto ai valori del 1990. Un risultato minimo, ma considerato positivo perché crea la consapevolezza che sia venuto il momento di tirare il freno, creando incentivi agli investimenti in tecnologie pulite e meccanismi di mercato virtuosi. I Paesi soggetti a vincoli sono 39 e includono l' Europa, il Giappone, la Russia, gli Stati Uniti, il Canada, l' Australia e la Nuova Zelanda. Gli obiettivi specifici di riduzione delle emissioni, diversi per ogni Paese, sono stati quantificati per il periodo 2008-2012. Oltre il 2012, saranno negoziati nuovi obiettivi che potrebbero ampliare il numero dei Paesi vincolati. Il protocollo di Kyoto entrerà ufficialmente in vigore quando sarà ratificato da un numero di Paesi le cui emissioni totali, al 1990, rappresentino almeno il 55% di tutte quelle soggette a vincoli. In altri termini, il programma globale non può diventare obbligatorio senza l' adesione degli Usa o della Russia. Ma nel frattempo le interpretazioni di Washington e di Bruxelles si sono talmente divaricate, che nel 2001 gli Usa hanno deciso di non ratificarlo. Mosca invece ha più volte dichiarato di volerlo ratificare, senza mai arrivare al dunque. Nonostante la quota minima di adesioni non sia ancora stata raggiunta, l' Unione Europea, il Giappone e il Canada si sono decisi ad applicare comunque le restrizioni previste da Kyoto e di partire con un programma a tappe forzate già dall' inizio del 2005. Non bisogna dimenticare, infatti, che il protocollo prende come punto di riferimento il 1990, ma da allora a oggi le emissioni globali sono già aumentate del 10%. Attendere ancora significherebbe quindi sottoporsi a tagli più dolorosi in seguito. Bruxelles ha un obiettivo complessivo di riduzione dell' 8%, nell' ambito del quale l' Italia si è impegnata a un taglio del 6,5%, che ridurrebbe le nostre emissioni annuali a 487 tonnellate metriche di anidride carbonica. In pratica, però, considerando la crescita delle emissioni avvenuta nel frattempo, lo sforzo reale richiesto al nostro Paese è del 16% circa. In termini assoluti ciò equivale a una riduzione di circa 93 milioni di tonnellate di anidride carbonica, sulle 580 previste per il 2010 (oggi siamo a 550), mantenendo i ritmi di crescita attuali. Il programma complessivo per raggiungere quest' obiettivo è già stato delineato dal governo, con un costo netto stimato fra i 120 e i 300 milioni di euro all' anno per otto anni, ma l' Italia è arrivata in ritardo nella consegna a Bruxelles del piano nazionale di assegnazione delle quote di emissione ai singoli impianti del settore energetico e industriale - inoltrato in luglio invece che in marzo come previsto dalla direttiva europea dell' ottobre 2003 - per cui la Commissione ha aperto una procedura d' infrazione nei nostri confronti (insieme alla Grecia). Inoltre è già chiaro che il piano italiano, tutto incentrato sulla flessibilità per difendere l' autonomia del nostro sistema industriale, non potrà essere approvato dalla Commissione così com' è. Il negoziatore italiano Corrado Clini (vedi l' articolo sotto), del ministero dell' Ambiente, ha avviato da qualche giorno la fase cruciale delle trattative con Claus Sorensen, il direttore generale alle dipendenze della severa commissaria svedese, Margot Wallstroem. Ma in realtà Roma non fa mistero di sperare in un atteggiamento più morbido da parte del prossimo commissario all' Ambiente, il greco Stavros Dimas (la Wallstroem resta in Commissione, ma è stata promossa a vicepresidente e sarà responsabile delle relazioni istituzionali). Al momento attuale sono otto i piani già approvati dalla Commissione: Irlanda, Olanda, Danimarca, Svezia, Slovenia, più Germania, Austria e Regno Unito passati con riserva. Sugli altri 14 presentati (compreso quello italiano) la Commissione non si è ancora pronunciata. In complesso, sono oltre cinquemila gli impianti europei già ammessi al trading delle emissioni, su un totale di circa dodicimila complessivi. La Borsa europea delle emissioni, la cui partenza ufficiale è fissata al 1° gennaio 2005 (quella mondiale all' inizio del 2008, ma in realtà un vivace «mercato dei fumi» esiste già tra Chicago, Londra e New York), è stata appunto pensata per ridurre le emissioni di anidride carbonica senza strozzare le imprese. Posto il suo tetto massimo di emissioni, un' azienda si troverà di fronte a due possibilità: adottare misure di risparmio energetico tali da rientrare nei limiti previsti, oppure acquistare alla Borsa dei fumi crediti di emissioni da un' azienda che si trova a disporre di quote in eccedenza. Gli inglesi lo chiamano cap and trade, ovvero fissare una soglia e commerciare al suo interno. «L' idea - spiega Pierfrancesco Federici, responsabile della pratica ambientale dello studio legale Baker & McKenzie - è di stimolare le imprese ad assumere un comportamento virtuoso attraverso la pressione del mercato piuttosto che con i divieti. Il sistema di emissions trading originato da Kyoto sta mettendo in moto una molla economica con cui dovremo inevitabilmente fare i conti».

26 settembre 2004

Cinema, dal maxischermo al cellulare

Se sui telefonini si possono riversare le immagini erotiche della fidanzata lontana o le mappe in 3D del navigatore Gps, perché non i cartoni animati di Topolino o di Nemo? E' quello che stanno pensando le multinazionali americane dell'entertainment, come Time Warner o Walt Disney, che cercano d'inserirsi nel grande mercato della telefonia mobile passando dalla finestra dei contenuti. Ed è quello che pensa Victoria Weston, fondatrice della casa di produzione indipendente Zoie Films, che ha appena lanciato il primo festival del cinema su cellulare del mondo. Mano a mano che la velocità di trasmissione aumenta, la qualità dei contenuti, offerti dai vari operatori mobili, diventa più importante. Il mercato della telefonia cellulare rischia così di diventare la nuova frontiera di scontro fra le società che offrono servizi via cavo e le compagnie telefoniche. Negli Stati Uniti, i due rivali Time Warner e Cox Communications hanno deciso di aggiungere i servizi wireless nelle loro offerte a pacchetto, che includono servizi di telefonia fissa, di Internet veloce e tv via cavo. Don Logan, il capo di Time Warner Cable, ha recentemente dichiarato la sua intenzione di arrivarci entro l'anno, sollevando non poca agitazione tra i sei operatori mobili che si spartiscono la torta mobile nordamericana. C'è invece chi preferisce la strada di fornire i propri contenuti agli operatori mobili già esistenti. Disney, ad esempio, ne sta parlando con Sprint, che però ha già un fornitore eccellente: il gruppo Virgin, del miliardario britannico Richard Branson, che ha una sua etichetta discografica e una catena di megastore musicali molto conosciuti. Virgin Mobile sta attirando una vasta audience, soprattutto fra i giovani nordamericani, con l'offerta sui cellulari di servizi musicali targati Virgin o Mtv via Sprint. Usando tattiche analoghe, il gruppo Disney potrebbe rivolgersi agli appassionati di sport, trasmettendo sui cellulari i contenuti del principale network di tv sportive degli Stati Uniti, Espn, oppure ai bambini, passando dai cartoni animati. Da qui a mettere il proprio marchio su un telefonino, che potrebbe essere offerto ai piccoli clienti con un menu incorporato di video adatti alla loro giovane età, il passo è breve. Si può star certi che le famiglie americane preferiranno delimitare chiaramente l'accesso dei propri figli ai servizi video offerti dagli operatori mobili. E cosa c'è di più sicuro di Topolino? Disney sta realizzando un modello di questo tipo in Giappone, dove ha cominciato a vendere i suoi contenuti in partnership con NTT DoCoMo già dal lontano 2000. Ma la battaglia della telefonia mobile negli Stati Uniti sarà molto più sanguinosa. Anche Fox si è avviata sulla strada degli accordi con gli operatori mobili, quando ha chiesto ai suoi abbonati di votare via cellulare per il concorso alla base di American Idol. Ma per ora il network televisivo di Rupert Murdoch non ha ancora una partnership definitiva e non sembra avere fretta di entrare nell'arena. Il segreto, secondo gli esperti del mercato americano, sarà di offrire un servizio molto focalizzato a un target molto preciso, come già accade nel mondo della tv via cavo. Ma non è escluso che prima o poi il telefonino diventi addirittura un veicolo per trasmettere dei veri e propri film. Sarà difficile che l'aggeggio tanto amato dagli italiani mostri in tempi brevi epopee della portata di "Via col vento", ma Victoria Weston - una pasionaria della cinematografia digitale indipendente e dei festival online - è convinta che anche su uno o due pollici si possa lavorare di fantasia. "L'importante è tenere bene a mente il tipo di audience e le dimensioni dello schermo con cui si ha a che fare: il ritmo dev'essere rapido e le inquadrature molto ravvicinate", commenta Weston. Meglio evitare storie complicate o elaborate scene di guerra: un pesciolino che sfreccia in un acquario stile Pixar o un'animazione da videogioco vanno benissimo. "Se si può seguire un videogioco su quella macchinetta, si potrà anche seguire un breve filmato", sostiene Weston. Certo è che il festival, di cui sono già aperte le iscrizioni, porterà i creativi a cimentarsi su un nuovo territorio, ancora del tutto inesplorato. I clip, da inoltrare entro la fine d'ottobre, non possono superare la durata di cinque minuti, ma Weston incoraggia i mini-registi a sbizzarrirsi componendo serie da cellular-soap o da cellular-sitcom su diverse puntate, da un minimo di 8 a un massimo di 13. La società di Atlanta si attende un centinaio di proposte (www.zoiefilms.com/cellularcinema), da cui verranno selezionate le più sofisticate. Il festival comincia all'inizio di dicembre e il vincitore sarà premiato con un viaggio di una settimana nei mari del Sud, ma soprattutto con la soddisfazione di salire su un podio da pioniere assoluto.

21 settembre 2004

Kyoto ama l'ambiente ma fa soffrire il Pil

Kyoto ama l'ambiente, ma fa soffrire il Pil. Le stime del suo impatto sui prezzi dell'energia e sulla crescita economica si sprecano. Secondo uno degli studi più recenti (condotto dalla società di analisi Global Insight per l'International Council for Capital Formation, noto think tank d'impostazione liberista basato a Bruxelles), la riduzione delle emissioni del 6,5% imposta dal protocollo potrebbe decurtare di mezzo punto percentuale il Pil italiano da qui al 2010 e di quasi 2 punti da qui al 2020. La stessa commissaria europea all'Energia e ai Trasporti, Loyola De Palacio, ha ammesso che "l'Italia ha un problema, se vuole mantenere la sua crescita e nel contempo rispettare gli impegni di Kyoto: già oggi deve importare parte dell'energia che usa". Secondo la commissaria le uniche due strade percorribili sono "le fonti rinnovabili o il nucleare". La De Palacio, com'è noto, propende per il nucleare. O meglio, considera l'opzione nucleare l'unica alternativa ai combustibili fossili fruibile nell'immediato. E non è l'unica: Tony Blair ha appena manifestato l'intenzione di ampliare il parco nucleare britannico (secondo in Europa solo a quello francese), proprio per rispettare i parametri di Kyoto senza rinunciare alla crescita. Ma l'Italia non può premere sul pedale del nucleare e quindi si trova di fronte a un dilemma: come ridurre le emissioni di anidride carbonica senza danneggiare l'economia? Un dilemma valido per tutti i Paesi industrializzati, ma particolarmente acuto nel contesto italiano, caratterizzato da una dipendenza dal petrolio molto più marcata e da un grave deficit di generazione elettrica, che già oggi causa bollette più alte del 20% rispetto alla media europea. Ecco perché Roma sta trascinando i piedi sul piano di allocazione nazionale delle quote di emissione, l'elemento fondamentale su cui si baserà l'applicazione in Europa del protocollo di Kyoto. "Se non ci si metterà d'accordo entro ottobre - commenta il direttore generale del ministero dell'Ambiente Corrado Clini, negoziatore italiano a Bruxelles - si potrebbe anche arrivare a una rottura e tutta la materia potrebbe tornare all'esame del Parlamento europeo". Non è la prima volta che Clini punta i piedi su Kyoto: nel maggio 2001, quando l'Unione Europea si apprestava a decidere l'applicazione unilaterale del protocollo e il governo Amato stava per passare la mano al governo Berlusconi, l'artefice della diplomazia ambientale italiana causò un mezzo incidente diplomatico, formalizzando a Bruxelles le riserve italiane - in netto contrasto con la posizione del ministro in carica Willer Bordon - e allineandosi in pieno con il programma elettorale della CdL, che definiva "devastanti per l’economia e l’occupazione" gli accordi di Kyoto. La stessa visione del governo Bush, contrario alla ratifica del protocollo firmato da Clinton nel '97. Ma subito prima di cedere la sua poltrona ad Altero Matteoli, Bordon diede la piena adesione dell’Italia al documento predisposto dall’Ue, con cui si sanciva la volontà dell’Unione di procedere unilateralmente all'applicazione di Kyoto. E infatti il protocollo è stato ratificato da tutti i Paesi europei entro il 2002 e nel 2003 è passata la direttiva sull'Emissions Trading, da cui discendono i piani nazionali di allocazione dei permessi di emissione. Oggi il ministero italiano dell'Ambiente ha una posizione formalmente diversa: "Non pensiamo di mettere in discussione - spiega Clini - l'obbligo dell'Italia di tagliare il 6,5% delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo status quo del '90, come vuole Kyoto". Ma Roma ha sempre mantenuto le sue riserve, coalizzandosi con la Spagna e la Finlandia per tirare il freno sull'applicazione unilaterale del protocollo. A questo punto, l'Italia spera nell'avvicendamento ai vertici dell'Unione per evitare l'obbligo di applicare i tetti rigidi richiesti dalla direttiva sull'Emissions Trading, come risulta chiaro anche dal piano di allocazione delle quote che Clini ha presentato in luglio a Bruxelles. "E' necessario - puntualizza Clini - che vengano riconosciute le diverse condizioni di partenza dell'Italia rispetto agli altri Paesi europei: da un lato abbiamo un sistema industriale che ha già raggiunto un'elevata efficienza energetica, dall'altro lato abbiamo un grave gap da colmare tra domanda e offerta di energia, che gli altri Paesi non hanno. Non possiamo pianificare il blackout elettrico del Paese". Sui possibili aumenti della bolletta elettrica legati a Kyoto si è appena pronunciata anche l'Autorità dell'energia, difendendo il piano italiano presentato a Bruxelles e minacciando rincari nell'ordine del 5% o più, se si seguisse "una mera interpretazione letterale della direttiva europea". In pratica, l'Italia chiede all'Unione maggiore flessibilità: "Vogliamo evitare ad ogni costo che tutto si riduca a interventi unilaterali di sapore dirigistico". E non fa mistero di un certo scetticismo nei confronti del meccanismo su cui dovrebbe basarsi in mercato interno delle emissioni: "Posto un tetto di emissione - descrive Clini - ogni sito produttivo disciplinato dalla direttiva otterrà un certo numero di permessi, misurati in tonnellate metriche di anidride carbonica, che potranno essere scambiati con altri sotto forma di quote. I settori più coinvolti sono quello energetico, minerario, siderurgico, cartario, le raffinerie, i cementifici, le vetrerie, i prodotti ceramici e i laterizi. Se a fine anno un'azienda oltrepasserà il numero di permessi che le è stato assegnato, sarà passibile di sanzioni di 40 euro a tonnellata nel periodo 2005-2007 e di 100 euro dal 2008. Ma dove sono finiti i meccanismi di mercato?"Per di più Roma non vuole perdere di vista il contesto internazionale, anche per motivi economici: "Preferiamo puntare sui crediti derivanti da progetti realizzati in cooperazione con i Paesi dell'Europa orientale o con quelli in via di sviluppo - insiste Clini - dove i costi sono molto più contenuti. Il costo intereuropeo di una tonnellata di anidride carbonica varia dai 15 ai 40 dollari, mentre nei Paesi meno industrializzati si aggira sui 5 dollari. Abbiamo già aperto un fondo presso la Banca Mondiale, l'Italian Carbon Fund, fatto apposta per comprare crediti fuori dall'Europa. E abbiamo già chiarito a Bruxelles che il pieno recepimento in Italia della direttiva sull'Emissions Trading è fortemente legato all’approvazione della cosiddetta Linking Directive, che regolamenterà l’uso di questi crediti, favorendo il processo di internazionalizzazione delle imprese".

20 settembre 2004

Varese Ligure, campione di ecologia

Nella battaglia contro l'effetto serra, l'Italia ha già una schiera di vincitori: da Aosta a Siena, da Rimini a Jesolo, da Cavriago a Laigueglia, tutte amministrazioni locali che hanno ottenuto una certificazione ambientale riconosciuta a livello europeo, con cui si attesta il loro spiccato impegno sul fronte dello sviluppo sostenibile. Negli enti locali certificati, in tutto una quarantina di Comuni e Provincie, vivono un milione e mezzo di fortunati italiani, che si godono il talento dei propri amministratori nella raccolta differenziata dei rifiuti, nell'ottimizzazione delle risorse idriche, nella prevenzione del dissesto geologico, ma soprattutto nella generazione di energia da fonti rinnovabili. La loro associazione si chiama Qualitambiente ed è presieduta da Maurizio Caranza, ex sindaco del primo Comune europeo a ottenere una certificazione ambientale: Varese Ligure. Oggi Maurizio Caranza è l'assessore all'Ambiente di Varese Ligure, il borgo rurale più virtuoso dell'Unione europea. In dieci anni il Comune dell'entroterra spezzino, che attinge il proprio fabbisogno energetico unicamente da fonti rinnovabili, ha fermato lo spopolamento, triplicato il turismo, creato 140 nuovi posti di lavoro, raggiunto il 95% di agricoltura biologica ed è diventato il simbolo di una Liguria "pulita" che cerca d'invertire la rotta dopo anni caratterizzati da una disordinata crescita turistica e urbanistica. "Varese Ligure era un paese che stava morendo, ora è risorto", spiega Caranza, che pochi mesi fa ha ricevuto a Berlino dalle mani della commissaria Loyola De Palacio il premio dell'Unione europea Promote 100, riservato al comune rurale europeo che ha eseguito il più completo e originale progetto di sviluppo sostenibile. La storia recente del borgo spezzino, dove gli abitanti vivono sparsi in 27 frazioni dediti a pastorizia, agricoltura, commercio e turismo, è segnata da premi e certificazioni: Iso 14001, Emas e Promote 100 i più recenti. "Dieci anni fa - racconta Caranza - Varese non lo conoscevano neppure alla Spezia, era destinato a morire per spopolamento. Ci siamo dati da fare e puntando tutto sull'ambiente abbiamo ribaltato la situazione. Oggi la popolazione è stabile, con 15 nascite l'anno, e c'è anzi un piccolo afflusso di famiglie e aziende agricole attirate dall'aria buona e dalla natura incontaminata. Il turismo vive 6 mesi su 12, produciamo latticini, carne e verdure in eccedenza, tutto rigorosamente biologico". Per di più oggi Varese Ligure detiene anche il record di "supernonni": sono otto gli anziani di età compresa tra i 100 e i 103 anni e ben trenta quelli che oscillano tra i 90 e i 100, su un totale di 2.400 abitanti. Da qui i riflettori puntati sul borgo dell'alta Val di Vara da parte dei ricercatori dell'università di Bologna impegnati, per conto della Commissione Europea, in uno studio su undici paesi dell’Unione con alto tasso di longevi. L’immunologo Claudio Franceschi, che sta studiando i supernonni varesini, ritiene che la longevità sia determinata per il 75% dall’ambiente e per il 25% da fattori genetici.E qui l'ambiente è davvero ideale per vivere a lungo. Oggi Varese Ligure produce 4 milioni di Kw con due generatori eolici e ne sta installando altri due per raddoppiare le capacità dell'impianto. Un sistema fotovoltaico produce altri 23.000 Kw. E tutte insieme le installazioni consentono un taglio alle emissioni di ben 9,6 tonnellate di anidride carbonica. Solo l'impianto eolico fa risparmiare 8 tonnellate di anidride carbonica (presto saranno raddoppiate). "Inoltre con l'eolico - spiega Caranza - guadagnamo 30.000 euro l'anno grazie a un accordo con l'azienda pubblica Acam che gestisce l'impianto". Tutta la popolazione è coinvolta in questa sorta di esperimento virtuoso: i negozi, le locande, le piccole aziende e le cooperative hanno tutte la certificazione ambientale di qualità. Facendo gioco di squadra sotto l'attenta regia di Caranza, il paese ha così ridotto la produzione di rifiuti a 350 kg a testa contro i 530 di media della provincia, e ha incrementato la raccolta differenziata fino al 25% del totale. Inoltre 1.600 ettari di terre sono dedicati alla produzione biologica di carni e latticini, grazie all'allevamento di 2000 capi tra bovini e caprini. "Sono stato fortunato - racconta Caranza - perché da quando abbiamo ottenuto i primi risultati, tutti hanno cominciato a cercarmi per fare da cavia, dalla Regione al ministero dell'Ambiente. Abbiamo sperimentato il biologico, varie raccolte differenziate di rifiuti, il risparmio energetico, la produzione di energia da fonti rinnovabili". E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

16 settembre 2004

Slovacchia atomica per l'Enel

La Slovacchia è terra di montagne drammatiche, dai Tatra ai Carpazi, e di fiumi maestosi, come il Danubio. E' anche la patria di Slovenske Elektrarne, principale azienda azienda elettrica del Paese, con una produzione complessiva che sfiora i 7.000 MW tra gas, carbone, idroelettrico e nucleare: uno dei bocconcini più appetitosi del risiko energetico in corso nell'Europa dell'Est e nei Balcani, dove le privatizzazioni cavalcano spedite. Su Slovenske Elektrarne la partita è già quasi chiusa. La settimana scorsa Enel ha ottenuto il placet del ministro dell'Economia Pavol Rusko, che si è detto "deliziato" dall'offerta italiana di 840 milioni di euro per una quota del 66%, contro i 691 milioni messi sul tavolo dalla cugina ceca Cez e i 548 milioni della joint venture russa Rao-Ues. Dicono che alla Cez, potente società pubblica praghese in piena campagna acquisti, si stiano mangiando le mani. Anche se la prudenza è d'obbligo, infatti, l'assenso del ministro competente dovrebbe essere determinante per la scelta, che dipende dal governo e verrà comunicata alla fine di settembre. Superato questo scoglio, gli uomini di Enel si metteranno a discutere con l'advisor di Bratislava, Peter Mitka di PwC, per chiarire i dettagli. E se tutto andrà bene fra qualche mese la compagnia guidata da Paolo Scaroni sarà la felice proprietaria di due bei reattori nucleari, oltre a tutto il resto. "Sarà un'ottima occasione - dicono all'Enel - per ricostruire quel know-how che abbiamo perduto, dopo quasi vent'anni di astensione dall'energia atomica". E sarà anche una buona occasione per accedere a una generosa fonte di energia a buon prezzo, così diversa da quella che è costretta a produrre in Italia. Ma Slovenske Elektrarne non è la prima preda che l'Enel mette in carniere da queste parti. In Bulgaria si è aggiudicata una centrale termoelettrica, Maritza Est, e ha preso parte alla gara per la rete di distribuzione, che è stata divisa in tre pacchetti ed è finita invece nelle mani della ceca Cez, dell'austriaca Evn e della tedesca E.on. Entro la fine di quest'anno i bulgari dovrebbero mettere in vendita altri tre impianti termoelettrici e hanno ripreso la costruzione della centrale nucleare di Belene, sul Danubio. Sofia punta chiaramente a diventare il centro principale di produzione e distribuzione elettrica nei Balcani - dov'è già oggi il primo esportatore di energia - ma anche oltre il Bosforo, verso la Turchia. Secondo stime del governo, sono previsti 6 miliardi di euro d'investimenti in progetti energetici entro il 2007. E quindi la presenza su questo mercato è altamente strategica. In Romania Enel ha acquisito due società di distribuzione: Banat, nella regione occidentale di Timisoara tanto cara agli italiani, e Dobrogea, agli antipodi, sul Mar Nero. Ma Bucarest sta per mettere in vendita entro la fine di quest'anno le tre centrali di Rovinari, Craiova e Turceni - raggruppate nella società Energy Complex, che include anche le vicine miniere di lignite - e il resto della rete di distribuzione. Tutti affari attraenti per Enel, che si trova di fronte sempre meno concorrenti occidentali, dopo l'abbuffata degli scorsi anni che ha aperto buchi notevoli nelle finenze di diverse compagnie elettriche europee, Edf in testa. Ma anche dove la privatizzazione è già a uno stadio molto avanzato, come in Ungheria, resta qualche preda interessante. Qui sono già stati ceduti diversi impianti di produzione al colosso tedesco Rwe e ai francesi di Edf, così come tutta la rete di distribuzione, che si sono spartiti in tre: Rwe, Edf e E.on. Rimane ancora in mano allo Stato, però, la principale compagnia elettrica magiara, il gruppo Mvm (Magyar Villamos Művek), su cui molti stanno mettendo gli occhi. Anche nella Repubblica Ceca il colosso Cez dev'essere prima o poi privatizzato, ma dopo un tentativo di metterlo all'asta due anni fa, cui parteciparono Enel e Edf, si sta trasformando da preda in rivale. Sotto la guida dell'aggressivo Martin Roman, Cez sta puntando a diventare la principale potenza elettrica della regione con una campagna acquisti poderosa e ha saputo tener testa ai rivali occidentali su diverse piazze importanti. E' già la maggiore esportatrice di energia dell'area e in futuro potrebbe giocare un ruolo importante anche a livello continentale. Prima o poi ce la potremmo trovare di fronte come fornitrice. A maggior ragione si è molto risentita davanti al successo di Enel in Slovacchia, un Paese che si è staccato dalla Repubblica Ceca solo dieci anni fa e dove Cez si sente quasi a casa propria. Invece non è riuscita a mettere le mani nemmeno sulla rete di distribuzione, che è stata spartita fra Rwe, E.on e Edf.In Polonia, il mercato più grande fra i nuovi membri dell'Unione, il processo di privatizzazione va a rilento, anche perché il 97% dell'energia prodotta viene dal carbone e di solito le centrali sono strettamente legate alle miniere circostanti. La svedese Vattenfall, la belga Tractabel, la spagnola Iberdrola e la francese Edf hanno già messo a segno qualche acquisto, ma di piccole dimensioni. Poco più su, in Lituania, ci troviamo invece in un mondo completamente diverso: la piccola repubblica baltica è una delle principali esportatrici di energia del mercato est europeo, che produce quasi esclusivamente con reattori nucleari, su cui ha in piedi un contenzioso con Bruxelles per questioni di incompatibilità tecniche. Quando avrà superato queste difficoltà, i suoi impianti potrebbero diventare una delle prede più ambite del continente.

13 settembre 2004

I nuovi lobbisti non operano nell'ombra

C' era una volta il faccendiere, che prendeva sottobraccio l' onorevole in Transatlantico per mettere in moto la leggina di spesa in favore del suo business o per saltare sul decreto omnibus di turno. La vigilia della finanziaria era una festa, un tripudio per il veterolobbismo di stampo pre-Tangentopoli. Poi c' è stata l' inchiesta di Mani pulite, la fine delle partecipazioni statali, l' indebolimento dei potentati familiari. Le cose si sono complicate. La finanziaria attira ancora grande interesse, ma il Parlamento non è più un astro così centrale nel firmamento del potere. Il vincolo di stabilità e la sentenza della Corte Costituzionale del 1996, che ha imposto l' omogeneità dei decreti legge, ha fatto venir meno la pratica dei decreti omnibus, che erano un buon terreno per i lobbisti. Le deleghe legislative comportano un lavoro a monte più importante, dove i contenuti sono sempre più complessi, fuori dalla portata dei faccendieri vecchio stampo. L' ondata delle privatizzazioni ha portato alla ribalta le esigenze di trasparenza del mercato. Con la creazione di autorità indipendenti, si è aperto un nuovo fronte istituzionale, chiamato a regolare interessi molto rilevanti. E i primi passi del federalismo hanno ulteriormente moltiplicato gli interlocutori. Per i lobbisti italiani è un mal di testa dietro l' altro. Ma anche un' occasione di crescita. «Il pregiudizio nei confronti dell' attività di lobbying come forma di corruzione è duro a morire, anche perché manca in Italia una consapevolezza diffusa del ruolo sociale delle imprese. Ma questa consapevolezza sta crescendo e così anche il mestiere del lobbista. Certo è importante che la tutela degli interessi delle imprese si svolga in un contesto istituzionale chiaro, che sia governata dalla trasparenza e dalla correttezza dei comportamenti e delle relazioni fra i decisori e i corpi sociali», spiega Massimo Romano, responsabile delle relazioni istituzionali di Enel dopo una lunga esperienza in Federacciai, Ilva e Lucchini. Romano fa parte di quella categoria di lobbisti «privilegiati», che possono permettersi di dedicarsi anima e corpo a una sola causa e di conseguenza conoscono fin nei minimi dettagli le esigenze che rappresentano. Si tratta di un gruppo piuttosto ristretto, composto da personaggi del calibro di Eugenio Palmieri di Eni (ex direttore dell' Agi), o Silvio Sircana di Ferrovie (già capo ufficio stampa dell' Iri e portavoce di Romano Prodi), Gina Nieri, capo delle relazioni istituzionali e consigliere d' amministrazione di Mediaset, o Giuseppe Sammartino di Farmindustria (già Tim e H3G). Accanto a questa categoria di lobbisti «tradizionali» ne emerge un' altra, sempre più attiva: quella delle società di consulenza specializzate nelle relazioni istituzionali, che rappresentano di volta in volta interessi diversi, ma sempre con un approccio molto professionale. «Questo fiorire di professionisti rappresenta la novità più significativa degli ultimi anni, una novità che segnala un progresso della cultura d' impresa italiana verso una maggiore trasparenza», commenta Ruben Razzante, docente di Diritto europeo dell' informazione e della comunicazione all' Università Cattolica di Milano. Scottate dal lobbismo alla Calisto Tanzi e dai guai dell' antico clientelismo, le imprese apprezzano sempre di più la possibilità di portare le proprie istanze all' attenzione dei decisori in maniera serena e documentata, alla luce del sole. «Il mestiere del lobbista non è più quello di un intermediario con le entrature giuste, ma del professionista che fornisce tutte le informazioni del caso a chi deve decidere», spiega Massimo Micucci, fondatore insieme a Claudio Velardi e Antonio Napoli di una delle società italiane più aggressive su questo fronte, Reti, che si occupa soprattutto di piccole e medie imprese, si muove in un mercato sempre più affollato: da Pms di Patrizio Maria Surace a Fb Communications di Fabio Bistoncini, da Barabino di Luca Barabino (che si occupa principalmente di comunicazione, ma ha anche qualche professionista a Roma e a Bruxelles impegnato sul fronte delle relazioni istituzionali), a Sec di Fiorenzo Tagliabue, la fioritura è rigogliosa. Nel loro sito, Micucci e compagni citano una frase di John Fitzgerald Kennedy: «I lobbisti mi fanno comprendere un problema in tre minuti, i miei collaboratori in tre giorni». Dalla mediazione all' informazione, quindi. «Chi fa le leggi - insiste Licia Soncini, ex Montedison, fondatrice di Nomos, una società particolarmente attiva sui temi dell' energia e dell' ambiente - non può essere onnisciente. Il compito del lobbista è appunto di spiegare nei dettagli le ricadute di un provvedimento, chiarendo preventivamente quali interessi rappresenta». L' attività di documentazione e la conoscenza approfondita delle procedure sono due punti chiave di questo lavoro. «I nuovi lobbisti - chiarisce Razzante - si studiano i dossier, approfondiscono gli aspetti critici, si presentano con una conoscenza delle regole e con una capacità d' intrecciare rapporti nel rispetto di codici etici ben precisi, tipici dei sistemi economici maturi». Non a caso a questa categoria in forte crescita appartengono anche le grandi società anglosassoni che dominano il settore, come l' americana Weber Shandwick (del gruppo Interpublic), la più grande società di pubbliche relazioni del mondo, o Burson-Marsteller (del gruppo britannico Wpp, che schiera anche Hill & Knowlton), sempre più attive in Italia. «La necessità d' intrattenere anche un dialogo con Bruxelles, dove hanno origine le linee guida più importanti per quasi tutti i settori, porta molte aziende a scegliere una multinazionale come la nostra, che nella capitale europea ha un ufficio dove sono rappresentate 21 nazionalità diverse», spiega Eric Gerritsen (ex Procter & Gamble e Armando Testa), l' olandese ormai italianizzato che guida Burson Marsteller Italia. «Ma sempre più spesso il nostro ruolo è complementare a quello di chi si occupa di relazioni istituzionali all' interno delle imprese, che ci affida dei progetti specifici o delle aree più difficili da coprire», precisa Furio Garbagnati, amministratore delegato di Weber Shandwick. La crescente complessità del panorama decisionale, la perdita di peso di centri di lobbismo istituzionale - come i sindacati o le associazioni di categoria - e la moltiplicazione dei nuovi gruppi di pressione, insomma, creano esigenze sempre più articolate di rappresentanza anche nel tessuto economico del Paese. «Non mi stupirei - sogna Razzante - di veder sorgere ben presto anche qui delle scuole di specialità, simili alle grandi scuole del mondo anglosassone».

12 settembre 2004

Dan Ahrens

Alcool e gioco d'azzardo, tabacco e armi: per molti sono strumenti di perdizione, in cui non investirebbero mai i propri soldi. Ma il vizio paga. E le aziende che lo promuovono non conoscono crisi. Ne sa qualcosa Dan Ahrens, un vivace texano che ha fondato due anni fa insieme a Eric McDonald il Vice Fund, proprio nel momento in cui diventava di moda la "finanza etica". Negli ultimi dodici mesi terminati con il 31 agosto, il Vice Fund ha messo a segno una crescita del 21%, contro l'11,45% dell'indice S&P 500.
Dopo i fondi socialmente responsabili, ecco un fondo davvero irresponsabile. Perché ha deciso di andare controcorrente?
"Non abbiamo niente contro la finanza etica, in via di principio. Ma nel momento in cui i mercati andavano male, fra il 2001 e il 2002, ci siamo accorti che i titoli delle aziende attive negli alcolici, nel gioco d'azzardo, nel tabacco e nelgli armamenti, continuavano a mettere a segno performance soddisfacenti, in netta controtendenza. Così abbiamo deciso di approfondire l'argomento e da questo studio è nato il Vice Fund".
Quattro settori soltanto rappresenta un universo piuttosto limitato da cui scegliere. Saranno poche centinaia di titoli…
"Non lo considero uno svantaggio. Questo ristretto numero di titoli da cui scegliere ci consente di identificare e investire nelle idee migliori sul lungo periodo. Non siamo interessati a perseguire la crescita fulminea, ma seguiamo un po' la filosofia di Warren Buffett. Siamo molto concentrati nella ricerca di aziende solide che ci sembrano sottovalutate e quando investiamo in un titolo, di solito lo teniamo per molto tempo. Al momento attuale ne abbiamo soltanto 45, distribuiti abbastanza equamente tra i quattro settori, anche se il tabacco pesa un po' meno degli altri tre".
E il sesso?
"Investiremmo volentieri anche in questo settore, ma è povero di grandi aziende quotate. Molti ci hanno suggerito di comprare azioni Playboy: è un'dea divertente, ma non è un buon titolo. Quando investiamo, non andiamo mica alla ricerca del vizio in quanto tale. Anche in questo settore si puo restare con il cerino in mano se non si sta attenti. In generale il vizio è un business fiorente, ma non tutto quello che è vizio paga".
Il settore più rappresentato nel vosto fondo è la difesa, che non rientra precisamente nell'area del vizio…
"Abbiamo incluso molte aziende della difesa nel nostro portafoglio proprio perché i fondi socialmente responsabili le evitano e noi puntiamo a essere identificati come un'alternativa a questi fondi. Per di più con tutti i conflitti in corso si tratta di un settore molto remunerativo. Fra i primi dieci titoli del Vice Fund ci sono ben quattro aziende di questo comparto: L-3 Communications, Northrop Grumman, United Technologies e United Defense Industries. Il nostro investimento più consistente in assoluto è L-3 Communications, un'azienda molto all'avanguardia sul fronte della guerra tecnologica. La sua specialità sono i sistemi informativi e di riconoscimento, le attrezzature per la sorveglianza e le scatole nere degli aerei, tutti dispositivi che saranno al centro di ogni azione militare nei prossimi anni. Infatti L-3 è un titolo molto dinamico".
Anche Anheuser-Busch, un'azienda molto più tradizionale, è fra i vostri investimenti principali…
"E' il secondo, dopo L-3. E' un titolo che ci piace molto: stabile, remunerativo in ogni contesto. Che i mercati vadano bene o male, i tassi d'interesse siano alti o bassi, la gente continua a bere in ogni caso. Fra i nostri primi dieci titoli abbiamo anche Fortune Brands (produttore di Absolut, ma anche di altri liquori molto conosciuti negli Usa) e Constellation Brands, che produce e distribuisce 200 marche di birra. Non sono titoli molto dinamici, ma crescono sempre in maniera costante. Anheuser-Busch è il più grande produttore di birra del mondo, ha il 50% del mercato americano e sta crescendo molto all'estero con una serie di acquisizioni. Gli analisti erano convinti che avesse raggiunto il suo apice già qualche anno fa e quindi il titolo era un po' sottovalutato. Invece ha continuato a guadagnare quote di mercato, con l'aiuto di un ottimo marketing, e sta dando grandi soddisfazioni agli investitori, sia in anni di crisi che di prosperità".
Si continua anche a fumare, malgrado i rischi alla salute sempre più evidenti?
"Mentre il mercato del tabacco è in declino negli Usa, nel resto del mondo sta crescendo rapidamente. Le aziende di questo settore sono sempre più ricche e pagano alti dividendi. Fra i primi dieci titoli del nostro portafoglio abbiamo sia Altria (la casa madre di Philip Morris) che British American Tobacco".
Malgrado i problemi legali e le campagne anti-fumo in tutto il mondo occidentale, lo considera un business in crescita sul lungo periodo?
"I rischi legali sono già inclusi nel prezzo di questi titoli. Anzi, sono decisamente sottovalutati proprio per paura delle multe, che ormai mi sembrano vicende del passato. Non bisogna dimenticare che i problemi legali e la forte ostilità nei confronti del fumo sono concentrati perloppiù negli Stati Uniti. Il mercato globale, al contrario, cresce e i marchi più noti - come Marlboro o Davidoff - si espandono, spesso rimpiazzando marchi locali all'estero. Quindi non vedo perché considerarlo un business di corto respiro".
Il terzo titolo nel vostro portafoglio, dopo L-3 e Anheuser-Busch, è Harrah's Entertainment, il gigante dei casinò. Anche questo è un settore in crescita?
"Fenomenale. Da un lato l'avvento del gioco d'azzardo online, dall'altro le leggi favorevoli ai casinò promulgate negli ultimi anni da vari Stati americani, hanno generato un boom senza precedenti. Harrah's, con 28 casinò in 13 Stati diversi, è un colosso. Ma c'è un'enorme fioritura d'iniziative in questo campo, anche piccole ma molto remunerative: scommesse sui cavalli e sui cani, giochi reali e virtuali. Tutti in grande crescita".
Ma queste attività non hanno più successo in tempi di crisi?
"E' un vecchio cliché che non trova riscontri nella realtà: il vizio non è un settore difensivo. E' semplicemente scorrelato con l'andamento dei mercati. I titoli in cui abbiamo investito hanno messo a segno ottime performance nel 2000, 2001 e 2002, in tempi di crisi, ma anche nel 2003, quando i mercati andavano benissimo. Tant'è vero che nel 2003 il nostro fondo ha superato sia l'S&P 500 che il Dow Jones".

6 settembre 2004

Ma c'è anche un'Italia pulita

Ad Acerra le tammurriate e gli scontri di piazza. A Montecorvino i blocchi ferroviari. A Rapolla le carte bollate. Per le infrastrutture italiane non c' è pace: dovunque si voglia costruire un termovalorizzatore o un elettrodotto, ma anche un collegamento ferroviario, una bretella autostradale o un parco eolico, c' è chi grida «no». E alla fine vince quasi sempre chi grida più forte, mentre i comuni cittadini si tengono gli ingorghi, le immondizie per strada e l' energia elettrica più cara e inquinante d' Europa. Gli americani la chiamano sindrome Nimby («Not in my backyard», Non nel mio cortile), o nella sua variante più perniciosa, Banana («Build absolutely nothing anywhere near anyone», Non costruire assolutamente nulla da nessuna parte vicino a nessuno) e i militanti del rifiuto vengono gratificati dal nomignolo Cave People («Citizens against virtually everything», Cittadini contro virtualmente tutto). Ma c' è chi non ha voglia di fare l' uomo delle caverne. Da Brescia a Trezzo sull' Adda, da Trieste a Piacenza, anche in Italia gli impianti modello non mancano, sostenuti dalla popolazione o addirittura richiesti a gran voce come sta succedendo in questi giorni a Giffoni Valle Piana, un paese del Salernitano a 13 chilometri da Montecorvino, che sta cercando in tutti i modi di far installare un termovalorizzatore sul proprio territorio, allettato dalla prospettiva di una pioggia di tre milioni di euro l' anno nelle casse del Comune, con cui costruire nuove strutture per i cittadini. «A Milano - spiega Andrea Gilardoni, docente alla Bocconi e direttore scientifico del Nimby Forum - quando abbiamo avviato la rivoluzione della raccolta differenziata e la costruzione del termovalorizzatore Silla 2, siamo stati "aiutati" dall' emergenza rifiuti. Nel ' 94, quando sono diventato presidente dell' Amsa, c' erano i sacchi neri per le strade e la gente era scioccata. Allora il grosso delle immondizie milanesi finiva nella discarica di Cerro Maggiore e solo il 5% veniva raccolto in maniera differenziata. Sviluppare la raccolta differenziata e costruire il termovalorizzatore significava togliere affari alle discariche. Ma davanti all' emergenza il "partito della discarica" è stato sconfitto rapidamente. Già all' inizio del ' 96 un terzo delle immondizie veniva raccolto in maniera differenziata. In pochi mesi abbiamo costruito due impianti di separazione e compostaggio e avviato la costruzione di Silla 2, un termovalorizzatore ancora oggi all' avanguardia». Rivoluzioni di questo tipo non mancano. A Brescia, dove dal lontano ' 72 funziona un sistema di teleriscaldamento simile a quello di Vienna (che descriviamo qui sotto), dal ' 98 un terzo del fabbisogno di elettricità e calore necessari agli abitanti viene dal termoutilizzatore che ingoia i rifiuti della città. «Per di più, i 55 euro che servono a smaltire una tonnellata di rifiuti nel nostro impianto, contro gli 85 euro necessari a smaltirli in una discarica, rappresentano un notevole risparmio», spiega Renzo Capra, presidente di Asm Brescia. L' impatto ambientale è bassissimo (le emissioni annuali sono inferiori a quelle di un camion), l' impatto visivo molto piacevole (le pareti di pannelli di vetro si confondono con il blu del cielo) e i rifiuti da fonte di problemi sono diventati una fonte di energia e di ricchezza. Non a caso gli abitanti di Brescia sono fieri del loro termoutilizzatore. «In queste vicende è essenziale instaurare un rapporto corretto con la popolazione», spiega Guido Berro, presidente di Federambiente, che riunisce circa 250 aziende d' igiene urbana in tutta Italia. «Bisogna illustrare bene - insiste Berro - le caratteristiche dell' impianto, senza nascondere nulla. Molto spesso è l' autorità che bara e questo crea sfiducia e malcontento. Quando invece s' instaura un rapporto decente, la popolazione capisce. A meno che non ci sia dietro chi attizza la rivolta per interessi poco chiari, come succede in questi giorni in Campania. Allora il braccio di ferro diventa molto più duro». «La trasparenza dell' impresa costruttrice - conferma Salvatore Giammusso, a.d. di Actelios, la società del gruppo Falck che fa termovalorizzatori - è cruciale. Ma anche la fermezza delle autorità. Nel caso della Campania mi pare che si percepisca un atteggiamento nuovo, che non premia chi grida di più. E questo è un notevole passo avanti». «Per vincere la diffidenza degli italiani, però, è fondamentale che la comunità scientifica assuma un ruolo più importante e avvii un' azione educativa su queste tematiche, inquinate da una coscienza ambientale terribilmente confusa», sostiene Alessandro Beulcke, presidente della società di comunicazione Allea, che ha lanciato il Nimby Forum mettendo attorno a un tavolo le maggiori aziende italiane impegnate sul fronte delle infrastrutture, dalle Ferrovie all' Aem, la comunità scientifica e i ministeri dell' Ambiente e delle Attività produttive, per analizzare il fenomeno e affrontarlo con coerenza. La sindrome Nimby nasce dunque dalla scarsa conoscenza, dalla diffidenza e dal limitato interesse per la cosa pubblica degli italiani. E il risultato si vede. In Italia ci sono 47 termovalorizzatori, di cui solo tre al Sud. In Germania e Francia oltre il doppio. In Italia ci sono 74 metri di cavi ad alta tensione per ogni chilometro quadrato. In Germania 110. La nostra rete idrica perde il 40% di quello che trasporta e al Sud 7 persone su 10 devono fare i conti con forniture a singhiozzo. L' elenco potrebbe continuare a lungo. «Allo sviluppo di un sistema infrastrutturale pensato oltre mezzo secolo fa si oppongono di solito tre fattori: problemi finanziari, burocratici e di Nimby - spiega Gilardoni - . Ma i tre fattori sono molto legati fra loro: le questioni burocratiche sono influenzate dalla sindrome di Nimby, perché spesso è l' opposizione locale il granellino di sabbia che inceppa l' ingranaggio burocratico». E gli investimenti tardano a farsi vedere nei luoghi dove i meccanismi sono perennemente inceppati.

2 settembre 2004

Vienna: rifiuti trasformati in calore

Sotto le strade di Vienna corre un labirinto lungo quasi mille chilometri, fatto di tubature interrate fino a 15 metri di profondità. E' il sistema di teleriscaldamento più grande d'Europa e funziona più o meno come qualsiasi circuito interno a un edificio: l'acqua che parte calda dai produttori si raffredda nelle case degli utenti e torna ai produttori per essere nuovamente riscaldata. In questo modo nella fredda Vienna si scaldano 200mila nuclei familiari e cinquemila clienti istituzionali (scuole, ospedali, ministeri…). Fatti i conti, circa metà della popolazione, in una città di 1.600.000 abitanti, risolve così il problema del riscaldamento. "Un quarto del calore che circola in questo sistema - spiega Philipp Krobath, l'ingegnere responsabile del termovalorizzatore di Spittelau - è generato con l'incenerimento delle immondizie". Spittelau macina 250mila tonnellate di rifiuti all'anno. Si tratta naturalmente di "Restmuell", cioè delle immondizie che restano dopo la raccolta differenziata di vetro, metallo, carta e compost (rifiuti organici adatti a essere trasformati in terriccio), destinati invece al riciclaggio. Bruciando questi rifiuti a 800 gradi, come richiesto dalla legge, le due linee dell'inceneritore producono ciascuna 90 tonnellate di vapore all'ora, che vengono condensate e trasferite alla rete del teleriscaldamento. "L'efficienza dell'impianto - fa notare Krobath - è molto alta, supera l'80%, ma naturalmente ci sono periodi dell'anno in cui tutto questo calore non serve. Perciò stiamo studiando la possibilità di produrre freddo invece di caldo, trasformando così il teleriscaldamento in un impianto di climatizzazione durante l'estate. Dal punto di vista tecnico non ci sono problemi, abbiamo già avviato alcune sperimentazioni con successo. Staremo a vedere". L'impianto di Spittelau e il labirinto di tubature sotterranee sono nati insieme: nel '69 il Comune di Vienna ha varato il piano complessivo di smaltimento dei rifiuti, da utilizzare come fonte per il teleriscaldamento. Il sistema ha cominciato a funzionare nel '71 solo per i grandi clienti istituzionali, allargandosi poi via via a tutti i cittadini interessati. "Ancora oggi - precisa Krobath - si continuano a interrare nuovi tubi per servire la città in maniera sempre più capillare". Nel frattempo si è aggiunto un secondo impianto di termovalorizzazione e un terzo sta per essere costruito. Ma Spittelau è il più centrale, a un tiro di schioppo dal Ring e dal "salotto buono" della capitale. "L'impianto di Spittelau - commenta Krobath - è sorto così in centro perché inizialmente si voleva utilizzarlo soprattutto per riscaldare il nuovo ospedale generale, che sta qui accanto. Poi il progetto è stato gradatamente ampliato, fino all'estensione attuale". Non è mancata qualche resistenza da parte della popolazione locale a costruire un inceneritore in una zona così abitata. "Ma i progressi della tecnologia fanno sì che le nostre emissioni nocive siano ormai talmente ridotte, da risultare inferiori a quelle del tubo di scappamento di un camion", puntualizza Krobath. Lo testimonia un grande display che riporta in tempo reale, ad uso e consumo dei passanti, tutti i valori dei gas inquinanti esalati in quel momento dal camino del termovalorizzatore, mettendoli a confronto con i valori consentiti dalla restrittiva legge austriaca (in genere il rapporto è di uno a cento).In più, la multiutility viennese Wiener Stadtwerke, proprietaria dell'impianto, si è sempre sforzata di mantenere vivo il dialogo con la popolazione. Nell'86, sotto il sindaco Helmut Zilk, figura leggendaria della politica austriaca, il termovalorizzatore è stato profondamente rinnovato dal punto di vista tecnologico e ristrutturato dall'architetto Friedensreich Hundertwasser, famoso per i suoi edifici in rigorosa sintonia con l'ambiente, che sembrano usciti da una fiaba di elfi e folletti. "Anche l'occhio vuole la sua parte", si entusiasma Krobath in uno slancio di riconciliazione universale. Così Spittelau non è più una brutta ciminiera puzzolente da cui difendersi e tenersi alla larga, ma attira fra le sue cupole d'oro visitatori dalla città e da tutto il mondo, offre ai bambini le strutture del suo piccolo parco giochi e funge ormai da piacevole luogo d'incontro di quartiere.

1 settembre 2004

Varese Ligure, campione di ecologia

Nella battaglia contro l'effetto serra, l'Italia ha già una schiera di vincitori: da Aosta a Siena, da Rimini a Jesolo, da Cavriago a Laigueglia, tutte amministrazioni locali che hanno ottenuto una certificazione ambientale riconosciuta a livello europeo, con cui si attesta il loro spiccato impegno sul fronte dello sviluppo sostenibile. Negli enti locali certificati, in tutto una quarantina di Comuni e Provincie, vivono un milione e mezzo di fortunati italiani, che si godono il talento dei propri amministratori nella raccolta differenziata dei rifiuti, nell'ottimizzazione delle risorse idriche, nella prevenzione del dissesto geologico, ma soprattutto nella generazione di energia da fonti rinnovabili. La loro associazione si chiama Qualitambiente ed è presieduta da Maurizio Caranza, ex sindaco del primo Comune europeo a ottenere una certificazione ambientale: Varese Ligure. Oggi Maurizio Caranza è l'assessore all'Ambiente di Varese Ligure, il borgo rurale più virtuoso dell'Unione europea. In dieci anni il Comune dell'entroterra spezzino, che attinge il proprio fabbisogno energetico unicamente da fonti rinnovabili, ha fermato lo spopolamento, triplicato il turismo, creato 140 nuovi posti di lavoro, raggiunto il 95% di agricoltura biologica ed è diventato il simbolo di una Liguria "pulita" che cerca d'invertire la rotta dopo anni caratterizzati da una disordinata crescita turistica e urbanistica. "Varese Ligure era un paese che stava morendo, ora è risorto", spiega Caranza, che pochi mesi fa ha ricevuto a Berlino dalle mani della commissaria Loyola De Palacio il premio dell'Unione europea Promote 100, riservato al comune rurale europeo che ha eseguito il più completo e originale progetto di sviluppo sostenibile. La storia recente del borgo spezzino, dove gli abitanti vivono sparsi in 27 frazioni dediti a pastorizia, agricoltura, commercio e turismo, è segnata da premi e certificazioni: Iso 14001, Emas e Promote 100 i più recenti. "Dieci anni fa - racconta Caranza - Varese non lo conoscevano neppure alla Spezia, era destinato a morire per spopolamento. Ci siamo dati da fare e puntando tutto sull'ambiente abbiamo ribaltato la situazione. Oggi la popolazione è stabile, con 15 nascite l'anno, e c'è anzi un piccolo afflusso di famiglie e aziende agricole attirate dall'aria buona e dalla natura incontaminata. Il turismo vive 6 mesi su 12, produciamo latticini, carne e verdure in eccedenza, tutto rigorosamente biologico". Per di più oggi Varese Ligure detiene anche il record di "supernonni": sono otto gli anziani di età compresa tra i 100 e i 103 anni e ben trenta quelli che oscillano tra i 90 e i 100, su un totale di 2.400 abitanti. Da qui i riflettori puntati sul borgo dell'alta Val di Vara da parte dei ricercatori dell'università di Bologna impegnati, per conto della Commissione Europea, in uno studio su undici paesi dell’Unione con alto tasso di longevi. L’immunologo Claudio Franceschi, che sta studiando i supernonni varesini, ritiene che la longevità sia determinata per il 75% dall’ambiente e per il 25% da fattori genetici.E qui l'ambiente è davvero ideale per vivere a lungo. Oggi Varese Ligure produce 4 milioni di Kw con due generatori eolici e ne sta installando altri due per raddoppiare le capacità dell'impianto. Un sistema fotovoltaico produce altri 23.000 Kw. E tutte insieme le installazioni consentono un taglio alle emissioni di ben 9,6 tonnellate di anidride carbonica. Solo l'impianto eolico fa risparmiare 8 tonnellate di anidride carbonica (presto saranno raddoppiate). "Inoltre con l'eolico - spiega Caranza - guadagnamo 30.000 euro l'anno grazie a un accordo con l'azienda pubblica Acam che gestisce l'impianto". Tutta la popolazione è coinvolta in questa sorta di esperimento virtuoso: i negozi, le locande, le piccole aziende e le cooperative hanno tutte la certificazione ambientale di qualità. Facendo gioco di squadra sotto l'attenta regia di Caranza, il paese ha così ridotto la produzione di rifiuti a 350 kg a testa contro i 530 di media della provincia, e ha incrementato la raccolta differenziata fino al 25% del totale. Inoltre 1.600 ettari di terre sono dedicati alla produzione biologica di carni e latticini, grazie all'allevamento di 2000 capi tra bovini e caprini. "Sono stato fortunato - racconta Caranza - perché da quando abbiamo ottenuto i primi risultati, tutti hanno cominciato a cercarmi per fare da cavia, dalla Regione al ministero dell'Ambiente. Abbiamo sperimentato il biologico, varie raccolte differenziate di rifiuti, il risparmio energetico, la produzione di energia da fonti rinnovabili". E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

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Nimby e così sia

Ad Acerra le tammurriate e gli scontri di piazza. A Montecorvino i blocchi ferroviari. A Rapolla le carte bollate. A Scanzano Jonico le occupazioni. Per le infrastrutture italiane non c'è pace: dovunque si voglia costruire un termovalorizzatore, un elettrodotto, un deposito di scorie, ma anche un collegamento ferroviario, una bretella autostradale o un parco eolico, c'è chi grida "no". E alla fine vince quasi sempre chi grida più forte, mentre i comuni cittadini si tengono gli ingorghi, le immondizie per strada e l'energia elettrica più cara e inquinante d'Europa. Gli americani la chiamano sindrome Nimby ("not in my backyard"), o nella sua variante più perniciosa, Banana ("build absulutely nothing anywhere near anyone") e i militanti del rifiuto vengono gratificati del nomignolo Cave ("citizens against virtually everything") People. Ma c'è chi non ha voglia di fare l'uomo delle caverne. Da Brescia a Trezzo d'Adda, da Trieste a Piacenza, anche in Italia gli impianti modello non mancano, sostenuti dalla popolazione o addirittura richiesti a gran voce come sta succedendo in questi giorni a Giffoni Valle Piana, un paese del Salernitano a 13 chilometri da Montecorvino che sta cercando in tutti i modi di far installare un termovalorizzatore sul proprio territorio, allettato dalla prospettiva di far entrare nelle casse del Comune tre milioni di euro l'anno con cui costruire nuove strutture per i cittadini. "A Milano - spiega Andrea Gilardoni, docente alla Bocconi e direttore scientifico del Nimby Forum - quando abbiamo avviato la rivoluzione della raccolta differenziata e la costruzione del termovalorizzatore Silla 2, siamo stati 'aiutati' dall'emergenza rifiuti. Nel '94, quando sono diventato presidente dell'Amsa, c'erano i sacchi neri per le strade e la gente era scioccata, pronta a reagire. Allora il grosso delle immondizie milanesi finiva nella discarica di Cerro Maggiore di Paolo Berlusconi e solo il 5% veniva raccolto in maniera differenziata. Sviluppare la raccolta differenziata e costruire il termovalorizzatore significava togliere affari alle discariche. Ma davanti all'emergenza il 'partito della discarica' è stato sconfitto rapidamente. Già all'inizio del '96 un terzo delle immondizie veniva raccolto in maniera differenziata. In pochi mesi abbiamo costruito due impianti di separazione e compostaggio e avviato la costruzione di Silla 2, un termovalorizzatore ancora oggi all'avanguardia". Rivoluzioni di questo tipo non mancano in giro per il Paese. A Brescia, dove dal lontano '72 funziona un impianto di teleriscaldamento simile a quello di Vienna che descriviamo qui sotto, dal '98 un terzo del fabbisogno di elettricità e calore necessari agli abitanti viene dal termoutilizzatore che ingoia i rifiuti della città. "Per di più, i 55 euro che servono per smaltire una tonnellata di rifiuti nel nostro impianto contro gli 85 euro che servono per smaltirli in una discarica rappresentano un notevole risparmio", spiega Renzo Capra, presidente di Asm Brescia. L'impatto ambientale è bassissimo (le emissioni annuali sono inferiori a quelle di un camion), l'impatto visivo molto piacevole (le pareti di pannelli di vetro si confondono con il blu del cielo) e i rifiuti da fonte di problemi sono diventati una fonte di energia e di ricchezza. Non a caso gli abitanti di Brescia sono fieri del loro termoutilizzatore. "In queste vicende è essenziale instaurare un rapporto corretto con la popolazione", spiega Guido Berro, presidente di Federambiente, che riunisce circa 250 aziende d'igiene urbana in tutta Italia . "Per partire con il piede giusto - precisa Berro - bisogna spiegare bene le caratteristiche dell'impianto, senza nascondere nulla. Molto spesso è l'autorità che bara e questo crea sfiducia e malcontento, perché la gente non vuole essere presa in giro. Quando invece s'instaura un rapporto decente con la popolazione, la gente capisce. A meno che non ci sia dietro chi attizza la rivolta per interessi finanziari o politici poco chiari, come succede in questi giorni in Campania. Allora il braccio di ferro diventa molto più duro". In Italia ci sono 47 termovalorizzatori, di cui solo tre nelle regioni del Sud. In Germania e Francia oltre il doppio. In Italia ci sono 74 metri di cavi ad alta tensione per ogni chilometro quadrato. In Germania 110 e in Francia 86. La nostra rete idrica perde il 40% di quello che trasporta e al Sud 7 persone su 10 devono fare i conti con le forniture a singhiozzo. L'alta velocità ferroviaria per ora si limita alla tratta Firenze-Roma. E l'elenco potrebbe continuare a lungo.