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30 luglio 2009

La rivincita di Thomas Alva: nuova vita per l'incandescenza

Europei e nordamericani sono convinti di poter fare a meno di lui, ma Thomas Alva Edison se la ride in un angolo: il De Profundis per le sua lampadine a incandescenza gli sembra prematuro. E in effetti ha ragione. Da quando il Congresso americano e la Commissione Europea hanno deciso di sostituirle con le lampadine fluorescenti, per migliorare l'efficienza dei rispettivi sistemi di illuminazione e risparmiare energia, la ricerca sull'incandescenza ha moltiplicato i suoi sforzi, producendo rapidamente una serie di risultati mai visti in 130 anni di storia. Il primo prodotto industriale derivato da questa gara all'innovazione è già sugli scaffali dei supermercati: un'alogena disegnata con la stessa forma delle lampadine tradizionali, ma del 30% più efficiente e dalla durata doppia. La nuova nata nella famiglia delle incandescenti, uscita dagli stabilimenti della Philips e della Osram, non riesce a competere, per ora, con l'efficienza delle fluorescenti, che possono ridurre il consumo di energia fino al 75% rispetto alla vecchia lampadina con il filo di tungsteno, ma rientra in una classe di efficienza destinata a sopravvivere ancora a lungo, sia in Europa che in Nord America. Almeno fino al 2016. E le novità in pipeline nei laboratori più innovativi lasciano prevedere che in breve entreranno in produzione lampadine a incandescenza del 50% più efficienti rispetto alle attuali, destinate a competere quasi ad armi pari con le fluorescenti. Quasi. Le nuove lampadine a incandescenza, infatti, hanno qualcosa che le fluorescenti non hanno: una luce calda, identica a quella emessa dai vecchi bulbi di Edison, capace di soddisfare i consumatori e gli architetti che si rifiutano di usare le fluorescenti, per evidenti motivi illuminotecnici. E non contengono mercurio. Due vantaggi di non poco conto. Non a caso la catena americana Home Depot, dov'è entrata recentemente in commercio l'Halogena Energy Saver della Philips, ha registrato in poche settimane il tutto esaurito, malgrado la nuova lampadina costi 5 dollari, dieci volte di più delle incandescenti tradizionali (ma la metà di una fluorescente). Deposition Sciences, l'azienda di Santa Rosa, in California, che ha sviluppato la tecnologia alla base delle nuove lampadine Philips, spiega così il segreto di questo successo: “Normalmente, solo una piccola porzione dell'energia immessa in una lampadina a incandescenza viene convertita in luce, mentre il resto si disperde sotto forma di calore. Noi abbiamo applicato un rivestimento riflettente alla capsula di vetro piena di gas dov'è racchiuso il filamento. Il rivestimento riflette il calore come una specie di specchio e lo rimanda indietro al filamento, che lo trasforma in luce”. In questo modo, la nuova lampadina produce la stessa quantità di luce consumando il 30% di energia in meno. E il processo continua: “Abbiamo costruito in laboratorio una trappola ancora migliore, che aumenta l'efficienza del 50%, ma non abbiamo ancora trovato un produttore disposto a lanciarla sul mercato”. Non ci metteranno molto, visto che tutte le grandi aziende produttrici di lampadine, da General Electric a Toshiba, oltre a Philips e Osram, stanno lavorando in questa direzione. La stessa direzione in cui corrono molti altri ricercatori. David Cunningham, un inventore di Los Angeles che ha già brevettato diverse innovazioni in campo illuminotecnico, sta studiano un nuovo rivestimento riflettente, che potrebbe rendere le lampadine a incandescenza più efficienti del 100%. E Chunlei Guo, un professore dell'università di Rochester, ha annunciato il mese scorso una nuova rivoluzione: la scalfittura con il laser della superficie del filamento di tungsteno, che raddoppierebbe la sua luminosità. Di qui al 2016, c'è da scommetterci, ne vedremo delle belle.

24 luglio 2009

L'energia del sole taglia il traguardo dei 500 megawatt

Tagliato il traguardo dei 500 megawatt di potenza per il fotovoltaico italiano. Il contatore del Gestore dei servizi elettrici, che indica gli impianti incentivati con il conto energia, ha dato per raggiunta quota 500 a metà giugno, per un totale di 39.753 impianti realizzati. Ma probabilmente siamo già molto oltre, perché il contatore del Gse registra le nuove installazioni con 40-50 giorni di ritardo. Se si guarda al numero di impianti, il primato lo detiene la Lombardia, ma se si considera la potenza in kilowatt, la regione leader è la Puglia. Detto in altri termini, il 25% degli impianti installati in Italia si concentra tra Lombardia e Puglia. Una volta tanto Nord e Sud riescono a camminare insieme. E se verranno superati gli ostacoli burocratici che si frappongono a ulteriori fasi di crescita del settore, il business del fotovoltaico diventerà ancora più interessante sia per il Nord che per il Sud, commentano gli esperti. Nel solo 2008, in Italia si sono registrati 338 megawatt di impianti installati (che hanno spinto il nostro Paese al quarto posto nel ranking internazionale dello scorso anno), due miliardi di euro di fatturato e la conseguente creazione di 15mila nuovi posti di lavoro.Questo risultato, sostengono gli operatori del settore, sarebbe stato ancora migliore se gli impedimenti creati dalle autorità locali per la costruzione di impianti di vaste dimensioni non avessero ritardato e bloccato progetti molto ambiziosi. Il grafico ci dice, ad esempio, che ci sono regioni come l'Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto, dove gli impianti sono anche più numerosi di quelli installati in Puglia, ma se si osserva la potenza complessiva si scopre che la Puglia, con un totale di 2.489 impianti, raggiunge una potenza superiore a quella dei 5.138 impianti installati in Lombardia. In Puglia, quindi, l'estensione di ogni singolo impianto è molto superiore a quella di altre regioni. Questo spesso dipende dalle resistenze di alcune amministrazioni locali nei confronti delle installazioni più grandi. Solo pochi giorni fa, gli imprenditori del fotovoltaico associati al Gifi-Anie hanno sottolineato in una nota come i ritardi nella semplificazione normativa stiano producendo un pericoloso rallentamento proprio nelle regioni più assolate ma più ostiche nella normativa: la Sicilia e la Basilicata. Il governo italiano, del resto, ha da tempo indicato l'obiettivo di raggiungere, entro il 2020, un mix energetico composto per il 50% da fonti fossili e da rinnovabili e nucleare per le due restanti quote del 25%. Quindi ha tutto l'interesse a spingere sull'acceleratore. Oggi la quota di rinnovabili si aggira intorno al 16%. In pratica, per raggiungere lobiettivo del governo, nei prossimi anni si dovranno installare oltre 20mila megawatt di nuovi impianti, il che vuol dire investire qualcosa come 40 miliardi di euro. Per raggiungere il target europeo, che è addirittura superiore, l'investimento lieviterà ulteriormente. Per tradurre in realtà questi obiettivi d'investimento, che le aziende del settore di dicono disponibili a sostenere, occorrono una serie di condizioni, prima tra tutte semplificazione e affidabilità nel tempo della normativa, essenziale per un business con tempi di ritorno decennali. Nell'immediato, quindi, si lavora all'approvazione delle linee guida nazionali per il procedimento di autorizzazione unica, in modo da superare le frammentazioni regionali. Il ministero dello Sviluppo Economico ha appena prodotto una bozza del provvedimento, che è attualmente all'esame delle organizzazioni di settore. Le nuove procedure, stando alla bozza, ruoteranno attorno al principio dell'autorizzazione unica e del silenzio-assenso da parte della Regione e della Provincia interessata. Il punto più problematico, contestato dalle associazioni di settore, è "l’invasione di campo del ministero dei Beni Culturali", la cui partecipazione è prevista in tutti i procedimenti di autorizzazione unica, anche quando i progetti non ricadono in aree vincolate. Altro nodo irrisolto è proprio quello della dimensione degli impianti: la bozza del ministero, infatti, esclude gli impianti superiori ai 20 kilowatt di potenza. Osserva Assosolare: "Ci pare limitativo escludere l’autorizzazione unica unicamente con il criterio delle dimensioni dell’impianto, posto che per altre rinnovabili il tetto è ben superiore".

21 luglio 2009

Gli investimenti nell'energia pulita resistono alla crisi

Sicurezza energetica e minore dipendenza dall'estero. Salvaguardia ambientale. Ma anche buoni affari: il business dell'energia pulita, in tempi di crisi, viene ormai indicato come settore anticiclico che può rappresentare la base e l'opportunità per un nuovo modello di sviluppo economico. Non a caso gli investimenti nelle fonti rinnovabili si sono moltiplicati per quattro dal 2004 al 2008 e l'anno scorso hanno superato per la prima volta quelli nelle fonti tradizionali. È il ritratto di un mondo avviato decisamente sulla strada del low-carbon quello che emerge dall’ultimo report dell'Unep (United Nations Environment Program) sugli investimenti nel settore. Le fonti pulite hanno attirato nel 2008 capitali per 140 miliardi di dollari, contro i 110 delle fonti tradizionali. Nonostante la crisi, il giro d’affari delle energie pulite non ha interrotto la sua crescita, registrando un +5% rispetto al 2007, anche se gli investimenti hanno visto un calo del 17% dal primo al secondo semestre. La frenata si è fatta sentire anche nel primo trimestre del 2009, ma i dati sul secondo trimestre, appena diffusi da New Energy Finance, dimostrano che la battuta d'arresto per le rinnovabili è durata giusto lo spazio d'un mattino: con 24,3 miliardi di dollari investiti da aprile a giugno, il settore può considerarsi già in ripresa. E' un terzo in meno rispetto ai 36,2 miliardi di un anno fa, ma ben l’82% in più rispetto ai 13,3 miliardi del primo trimestre. Una ripresa che si è sentita più forte al di qua dell’oceano, in Europa, Africa e Medio Oriente. Qui - complice anche l’approvazione di alcuni maxi progetti come quello eolico off-shore del London Array - questo secondo trimestre 2009 è stato il più fruttuoso di sempre, con 14,4 miliardi di dollari investiti nelle fonti pulite. Meno investimenti invece negli Usa, dove il low-carbon ha raccolto capitali per soli 1,6 miliardi di dollari, il 66% in meno rispetto all’anno scorso. Ma qui si tratta solo di aspettare un po': gli investimenti sono rimasti congelati, in attesa che il Dipartemento del Tesoro e quello dell’Energia rendano note le nuove regole per i fondi di garanzia, cosa che dovrebbe avvenire nel mese in corso. Insomma, il settore delle rinnovabili è sulla buona strada per superare questa battuta d'arresto. "Ma non è ancora il caso di festeggiare", sottolinea Michael Liebreich, direttore di New Energy Finance. Secondo gli analisti, a fine 2009 gli investimenti del settore arriveranno al massimo a 115 miliardi di dollari, contro i 140 del 2008, anno record. Nel 2008, infatti, su un totale di 250 miliardi di dollari investiti complessivamente in energia, 35 miliardi sono andati a grandi progetti idroelettrici e 105 miliardi è andato alle tecnologie solari, eolico, mini-idroelettrico, biomasse e geotermia. L’eolico si è confermato il settore in cui si investe di più a livello assoluto: 51 miliardi di dollari e una crescita dell’1% rispetto al 2007, mentre il solare è la fonte che è cresciuta maggiormente in quanto a investimenti: +49%, per un totale di 33,5 miliardi di dollari. Crescita esponenziale anche degli investimenti in geotermia +149% per 1,3 gigawatt di nuova capacità installata, mentre l’unica fonte rinnovabile in cui gli investimenti sono diminuiti sono i biocarburanti: -9% a 16,9 miliardi di dollari.Il futuro degli investimenti nell’energia pulita, sottolinea il rapporto dell'Unep, dipende soprattutto dai pacchetti di stimolo e dal prossimo accordo internazionale sul clima. Per una ripresa economica sostenibile, dal 2009 al 2011 nel mondo si dovrebbero stanziare almeno 750 miliardi di dollari, cioè l’1% del prodotto interno lordo mondiale o il 37% del totale delle misure anticrisi adottate dai vari Paesi. "Ma il più grande pacchetto stimolo per le rinnovabili – ha sottolineato Achim Steiner, direttore dell’Unep, nel presentare il rapporto – può arrivare dal vertice sul clima di Copenhagen. È lì che i governi devono chiudere un accordo che porti certezze ai mercati della CO2 e che possa dare il via a investimenti trasformativi nelle tecnologie pulite ed efficienti".

19 luglio 2009

Rinascita nucleare? Location, location, location...

Rinascita nucleare. E' la parola d'ordine lanciata a livello globale dall'Economist nel 2007, la stessa ripresa dal Ddl Sviluppo appena approvato dal Senato italiano. Ora ci sono 45 reattori in costruzione in giro per il mondo, mentre nel nostro Paese il governo si è dato sei mesi per decidere dove mettere le nuove centrali e il sito di stoccaggio delle scorie. Ma emergono subito i primi ostacoli. In Europa, il primo reattore di terza generazione, in costruzione in Finlandia, subisce un ritardo dopo l'altro. In Italia, la collocazione delle centrali non sarà affatto semplice. Dopo una prima apertura, sia il presidente veneto Giancarlo Galan che il siciliano Raffaele Lombardo, si sono fatti più cauti. Il Veneto ne parlerà solo dopo una dettagliata anamnesi tecnico-scientifica e la Sicilia si appellerà in ogni caso a un referendum popolare. Gli esperti, intanto, puntano il dito su Montalto di Castro, al confine tra Lazio e Toscana, come primo sito da prendere in considerazione: lì stava sorgendo l'ultima centrale nulceare italiana, mai terminata a causa dello stop all'atomo dopo il referendum dell'86 e poi riconvertita dall'Enel alla tecnologia policombustibile, ora datata e antieconomica. Sul problema stanno lavorando i dieci "saggi" incaricati dal governo, da Adriano De Maio a Luigi De Paoli, da Giuseppe De Rita ad Alberto Lina. Vedremo che cosa ci diranno. Nell'attesa, sono le imprese interessate a esporsi di più. A2A, insieme a Edison, è fra le più attive. "In Italia esistono le condizioni per una ripresa - spiega Silvio Bosetti, direttore di EnergyLab e molto vicino a Giuliano Zuccoli, oltre che a.d. delle ex municipalizzate di Como e Monza - ma occorre che queste siano concretizzate attraverso immediate, intelligenti e ponderate azioni di governance del sistema: integrare l’assetto normativo e legislativo, costituire l’Agenzia per la sicurezza, gestire le ricadute sul mercato elettrico, garantire i profili di competitività, allinearsi negli accordi internazionali sulle tecnologie e sulla gestione del ciclo dei rifiuti, favorire la diffusione e crescita delle competenze, aprire e garantire opportunità per l’industria e l’ingegneria nazionale, facilitare un'adeguata attività di divulgazione pubblica e individuare delle compensazioni per il territorio". Come dire, bisogna ricostruire un sistema industriale che non c'è più. Ma il punto più dolente sono gli aspetti economico-finanziari. Se serviranno, come dicono gli analisti, almeno 10 reattori per centrare l'obiettivo del 25% di produzione elettrica tracciato dal governo, chi li finanzierà? E con quali effettive convenienze per gli investitori? "Per gli aspetti economici - fa notare Bosetti - sono disponibili i primi studi, che documentano la percorribilità degli investimenti e la competitività del kilowattora da fonte nucleare con quello prodotto da altre fonti, in particolare dalle centrali a combustibile fossile. Gli operatori industriali europei sono pronti a entrare sul mercato nazionale. Il recente accordo tra Enel e Edf apre sicuramente la strada, con la presenza annunciata del maggior player mondiale del settore". Il credit crunch, però, non aiuta. "Altro discorso riguarda l’impegno finanziario, essendo iniziative di investimento ad altissima intensità di capitale. Qui occorre un approccio adeguato ai finanziamenti, che sono oggettivamente ingenti. Il costo del denaro è una variabile molto significativa e determinante i risultati degli investimenti. Un possibile modello economico e industriale è quello dei consorzi, un modello utile anche a valorizzare le principali aziende energetiche locali (Acea, A2A, Hera, Iride...) così come già accade in Finlandia o Germania". In pratica, le municipalizzate lombarde vorrebbero replicare il modello seguito in Finlandia, dove si è costituita una società senza scopo di lucro, la Tvo, per costruire la nuova centrale di Olkiluoto. La Tvo è un consorzio fra sessanta azionisti, operatori elettrici e industriali della carta, che si sono impegnati a ritirare a prezzo di costo tutta l'energia prodotta, per soddisfare il proprio fabbisogno. Così hanno abbattuto il rischio di mercato e sono riusciti a farsi finanziare l'investimento dalle banche all'80%, con un tasso molto contenuto. Ma anche lassù non tutto sta filando liscio, tanto che l'entrata in funzione della centrale continua a slittare. Ora si parla, forse, del 2012.

16 luglio 2009

Prezzi ai minimi, ma dietro l'angolo è in arrivo lo shock

La crisi attanaglia le imprese, calano i consumi di energia, si riduce il prezzo del kilowattora. A giugno la quantità di energia elettrica richiesta in Italia, pari a 26,3 miliardi di kilowattora, è calata del 7,6% rispetto ai volumi richiesti a giugno dell'anno precedente. Un calo in linea con quelli registrati nei mesi precedenti: -7,3% a maggio, -8,8% ad aprile, -9% a marzo e via così. Nel primo semestre del 2009, il fabbisogno complessivo di energia elettrica ha registrato un calo dell'8,2% rispetto allo stesso periodo del 2008. Di conseguenza, scende ancora il prezzo di acquisto dell'elettricità, scambiata in media a 51,82 euro al megawattora, l'11,4% in meno rispetto al mese precedente. Si tratta dell'ottavo calo congiunturale consecutivo e porta il prezzo vicino al minimo storico. Dividendo per tecnologie, però, si nota una crescita delle vendite per l'energia prodotta da fonti verdi (eolico +42,4% e idroelettrico +9,5%), mentre perdono terreno gli impianti termoelettrici e i cicli combinati a gas (rispettivamente -19% e -24,4%). Così va anche nel resto del mondo e, per adesso, gli utenti si fregano le mani. Ma il grande guaio - ammoniscono gli analisti dell'Agenzia internazionale per l'energia - potrebbe venire, paradossalmente, dopo. Sotto forma di una crisi energetica da rimbalzo, che potrebbe mettere al tappeto le ambizioni di nuova crescita. Il fenomeno trainante di questo scenario non è nuovo: la crisi deprime gli investimenti, strozza la ricerca, smobilita gli impegni. Poi, una volta agganciata la ripresa, l'effetto boomerang: la richiesta riprende a decollare, le emissioni (calate grazie alla crisi) tornano a gonfiarsi, gli approvvigionamenti faticano a tenere il passo. E i prezzi dell'energia, inevitabilmente, s'impennano. Il presente, insomma, inganna, perché dietro l'apparente abbondanza di energia a prezzo calmierato c'è soltanto la crisi. Tant'è che il 2009 si chiuderà per la prima volta con una discesa dei consumi elettrici globali: -3,5 per cento. Difficile, con questo trend, pretendere la salvaguardia dei piani d'investimento. "Le compagnie petrolifere - si legge nell'ultimo rapporto dell'Agenzia - hanno cancellato o rinviato investimenti per circa 170 miliardi di dollari, che nel futuro prossimo sottrarranno alla disponiblità mondiale almeno 2 milioni di barili di petrolio al giorno. E se il trend rimarrà quello attuale, nei prossimi 18 mesi si aggiungeranno ulteriori tagli per 4,2 milioni di barili". Non meno marcato - sottolinea il rapporto Iea - il taglio dei progetti nel gas: i 28 milioni di metri cubi al giorno di tagli alla nuova capacità programmata potrebbero arrivare a fine anno a 100 milioni e oltre. Una frenata, nei piani per incrementare l'upstream di petrolio e gas, di oltre il 20 per cento. E per il carbone potrebbe andare anche peggio: la contrazione degli investimenti raggiungerà a fine anno il 40 per cento. Le nuove previsioni di medio termine dell'Agenzia non brillano dunque per ottimismo, anche se riservano uno spiraglio di fiducia alla possibilità che il mondo abbia finalmente imboccato in modo definitivo la via del risparmio e dell'efficienza energetica. "Forse è troppo presto per parlare di un cambiamento strutturale verso un minore impiego di petrolio – si afferma nel rapporto – ma ci sono indizi che questo accadrà". La nascita di una nuova coscienza ecologica in Paesi come gli Stati Uniti resta comunque sullo sfondo. L'Agenzia ritiene ora che tra il 2008 e il 2014 la domanda globale di petrolio crescerà in media di appena lo 0,6% l'anno, portandosi da 85,8 a 89 milioni di barili al giorno. Solo nel 2012, a 86,8 milioni di barili al giorno, i consumi saranno più alti che nel 2008. Ma fare previsioni attendibili, avverte il direttore dell'Agenzia, Nobuo Tanaka, è difficilissimo: "Nel 2013 o nel 2014 potremmo avere di nuovo una crisi da carenza di offerta, come quella dell'anno scorso, quando il prezzo del greggio superò i 147 dollari al barile. Se invece la ripresa sarà lenta, potremmo ritrovarci con un'ampia capacità produttiva di riserva". Le previsioni base dell'Aie indicano in effetti che l'anno prossimo avremo un cuscinetto più che confortevole, di 7,7 milioni di barili al giorno, pari all'8% della domanda. Ma è bene non sentirsi troppo rassicurati, perché in mancanza di un'inversione di tendenza sul fronte degli investimenti, un nuovo shock petrolifero sembra essere solo rinviato.

9 luglio 2009

Un futuro verde: dev'essere un sogno, non un incubo

Se la chiamano carbon tax non piace. E’ un balzello ingiusto. Se invece la chiamano carbon offset, diventa subito più simpatica. E’ sempre una tassa, che alza il prezzo del biglietto aereo o della bolletta elettrica. Ma il nome è cambiato e non ce ne accorgiamo più. Il motivo per cui ci viene richiesta, in fondo, è poco rilevante. Le temperature globali aumentano, la calotta artica si scioglie, gli scienziati sono concordi nell’attribuire all’economia del carbonio la responsabilità delle devastazioni future, ma l’umanità non sembra interessata a correggere il tiro. I climatologi hanno un bel dire che il livello dei mari sta già salendo e New York sarà sott’acqua entro la fine del secolo se non riduciamo le emissioni di anidride carbonica del 50%. L’umanità da quest’orecchio non ci sente. Perché? La risposta è sepolta nei nostri geni: l’evoluzione ci ha attrezzati per reagire correttamente a una minaccia immediata, che vediamo o sentiamo. “La percezione fisica di un pericolo, come il ringhio di un animale o l’odore di bruciato, ci provoca una reazione emotiva di paura, che ci induce ad agire immediatamente”, spiega Elke Weber, una psicologa della Columbia University. “Ma i pericoli che minacciano oggi l’umanità non sono di questo tipo. Possono essere ben più gravi di un pitbull che ringhia, ma sono lontani nel tempo e nello spazio. Di conseguenza, anche se razionalmente ci rendiamo conto che bisogna fare qualcosa contro l’effetto serra, ci manca il classico campanello d’allarme per metterci davvero in moto”. Le nostre emozioni, dunque, si sono formate in base alle esperienze passate della specie: ma la specie umana, dall’origine a oggi, non aveva mai portato il pianeta al punto di “cottura” in cui è adesso. Weber, insieme a una manciata di altri ricercatori sparsi fra gli Usa e l’Europa, sta cercando di risolvere questo gap cognitivo: “Se il riscaldamento del clima dipende dal comportamento degli uomini, e il mondo scientifico è più o meno concorde su questo punto, bisognerà cambiare questo comportamento per risolvere il problema, no?” Partendo da questo ragionamento, Weber ha fondato qualche anno fa, insieme al collega David Krantz, il Center for Research on Environmental Decisions, pioniere di una disciplina che si colloca all’incrocio fra psicologia ed economia e trae le proprie origini dagli studi del Nobel Daniel Kahneman sulle decisoni finanziarie. Dai suoi test, sappiamo che la gente non segue la logica, ma altri tipi di considerazioni quando è messa di fronte a semplici scelte quotidiane: installiamo i pannelli solari sul tetto perché l’hanno fatto i vicini, non per salvare il pianeta, oppure compriamo l’auto ibrida perché è uno status symbol, non per il bene delle generazioni future. E sappiamo anche che le nostre risposte sono spesso dipendenti dal modo in cui la domanda viene posta. Chi si sottoporrebbe a un’operazione chirurgica che ha un tasso di mortalità del 20%? Ma con un tasso di successo dell’80%, la questione cambia, anche se l’operazione è la stessa.Se le politiche ambientaliste hanno poco seguito, dunque, vuol dire che il messaggio è sbagliato, così come spiegano anche Cass Sunstein e Richard Thaler nel loro libro “Nudge”, uscito l’anno scorso ma già un classico della psicologia applicata alla politica: Sunstein, un giurista, è stato chiamato da Obama alla Casa Bianca per applicare le sue teorie alla legislazione promossa dalla nuova amministrazione. “Il messaggio centrale del movimento ambientalista va ristrutturato”, spiega Tony Leiserowitz, direttore dello Yale Project on Climate Change. “Gli ambientalisti – precisa - hanno fatto un ottimo lavoro descrivendo il problema in termini di perdita: l’estinzione delle specie, la deforestazione… E questo è un bene, perché l’umanità è marcatamente contraria alle perdite. Ma non sono stati bravi a descrivere le soluzioni, che sembrano a loro volta delle perdite: disfatevi dell’auto, tagliate i consumi… In questo modo la gente si scoraggia e non fa più nulla”. Le soluzioni, invece, vanno presentate in termini positivi, parlando prima dei benefici e poi dei costi. La natura umana chiede alternative piacevoli, come nel caso delle British Transition Towns, dove si propone uno stile di vita sostenibile, ma pieno di significato e perfino di felicità, alla faccia dell’effetto serra. Martin Luther King non ha detto ai suoi seguaci “ho un incubo”, ma “ho un sogno”. E’ questo che li ha portati a marciare in prima linea per un futuro migliore.

Quattro test per scoprire quant'è verde la mente

David Hardistry, un ricercatore della Columbia, ha offerto due biglietti aerei da 385 e 392 dollari a due gruppi omogenei. Nel costo del secondo biglietto era incluso il finanziamento di un programma per il sequestro della CO2, ma era definito in maniera diversa per ciascun gruppo: carbon tax o carbon offset. Nel primo caso la maggioranza ha optato per il biglietto più economico, nel secondo caso per l'altro.
Anthony Leiserowitz, direttore dello Yale Project on Climate Change, ha esaminato sul campo la percezione dell'effetto serra negli abitanti dell'Alaska, gli unici americani che possono toccare con mano lo scioglimento della calotta artica, constatando un enorme divario fra gli abitanti del Nord Ovest più estremo e i cittadini di Anchorage, che non si discosatano molto dai concittadini più meridionali.
A Hood River, in Oregon, l'amministrazione locale ha sollecitato i cittadini a migliorare l'isolamento delle case per ridurre i consumi di energia, senza alcun incentivo economico. La campagna procedeva per zone, in modo da ottimizzare il lavoro degli operai. Era prevista un'adesione del 20-30%, ma l'influenza sociale dei vicini ha contribuito ad alzare la quota fino al 90%, con enormi risparmi di energia.
Peter H. Kahn, dell’università di Washington, ha messo a confronto tre gruppi di 30 persone, che lavoravano in uffici analoghi: il primo poteva osservare un bel paesaggio dalla finestra, il secondo aveva degli schermi al plasma con l’immagine di quel paesaggio, il terzo pareti bianche. Monitorando il battito cardiaco emerge che solo la finestra vera allevia lo stress: schermo e parete bianca sono egualmente inefficaci.

8 luglio 2009

Natura contro tecnologia, un dilemma virtuale

Natura contro tecnologia. E’ questo il dilemma che l’umanità si trova ad affrontare oggi, a quanto sembra. In realtà, si tratta di un dilemma apparente. Da un lato, è ormai superato, perché la tecnologia prevale. Già nel 1988 Don Norman, un neuroscienziato e informatico dell’università della California a San Diego, calcolò che l’americano medio incontra ben 20mila manufatti nella sua vita quotidiana, molti di più degli animali e delle piante che sarebbe in grado di distinguere. Le specie catalogate sulla Terra, del resto, sono un milione e mezzo in tutto, contro i 7 milioni di brevetti registratti solo negli Stati Uniti. La tecnosfera, quindi, supera di gran lunga la biosfera. Dall’altro lato, però, la natura è talmente ingranata nella psiche dell’uomo, che non c’è gara. La nostra specie ha trascorso gran parte della sua esistenza nella savana africana. C’è dibattito sui dettagli, ma è certo che la nostra mente non si è formata per vivere in un mondo popolato da miliardi di individui: la vita di un milanese o di un newyorkese, circondati da una moltitudine di estranei, è una novità assoluta nella storia dell’evoluzione. Migliaia di anni fa non c’erano la televisione, i McDonald’s, la pillola, la chirurgia plastica, gli orologi o la luce artificiale. C’erano solo alberi, torrenti, animali, il sole e la luna. Questo lungo passato ha lasciato un’impronta indelebile nella nostra mente. La gente ama stare vicina al mare, alle montagne e alle piante. Basta consultare i prezzi degli appartamenti che danno su Central Park o cercare una casa con “vista mare” per rendersene conto. Nei palazzi più lussuosi l’atrio è pieno di verde. Se vogliamo fare un piacere a qualcuno, gli portiamo dei fiori. Teniamo degli animali da compagnia nelle nostre case, un pezzo di natura, per quanto selezionata e “costruita” dagli uomini. E molti di noi fuggono dagli ambienti artificiali non appena possibile, per camminare, remare o andare a vela nella natura. Edward Osborne Wilson, un biologo di Harvard, ha condensato queste considerazioni nel concetto di “Biophilia”, su cui ha scritto un libro uscito nell’84. Non a caso, questo concetto sta alla base di vere e proprie terapie: è noto da innumerevoli test che un bel panorama aiuta la convalescenza e il contatto con gli animali serve per superare certi disturbi nervosi. In pratica, la natura ci fa bene alla salute. Non c’è verso di sostituirla con la tecnologia: ce ne accorgiamo istintivamente. Da questa consapevolezza deriva l’ansia che proviamo di fronte alla sua distruzione. Ci fa star male, ma non è ancora abbastanza acuta per portarci ad agire.