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19 gennaio 2004

Peter Eigen

«In alcuni campi le percezioni sono più reali della realtà. La corruzione è uno di questi: quando le imprese si muovono in una società corrotta, temono di perdere i loro mercati a vantaggio dei concorrenti se non si adeguano. Nessuno vuole essere il primo a smettere». Peter Eigen, fondatore e presidente di Transparency International e grande amico dei giudici italiani di Mani Pulite, non è rimasto sorpreso dagli scandali societari emersi recentemente nel nostro Paese. Nel suo Corruption Perceptions Index, l' Italia è incagliata a quota 5,3 (in 35ma posizione insieme al Kuwait), un voto di gran lunga inferiore rispetto a tutti gli altri Paesi europei tranne la Grecia. Surclassata dagli Usa (18° posto, voto 7,5), dal Giappone (21° posto a pari merito con Israele, voto 7), da Francia, Spagna (23° posto, voto 6,9), Portogallo (25° posto, voto 6,6) e perfino da alcuni Paesi arabi, da Cipro, dalla Slovenia, dal Botswana, dall' Estonia e dall' Uruguay, l' azienda Italia vista da Transparency sembra davvero incorreggibile. «Invece non è vero - sostiene Eigen incoraggiante -: l' Italia ha fatto grandi progressi rispetto a qualche anno fa. Solo dal 2000 ha un punteggio superiore al cinque. Prima giocava in una lega diversa, quella dei Paesi sotto quota cinque, cioè seriamente corrotti. Certo anche gli altri nel frattempo sono migliorati, alcuni molto più velocemente dell' Italia». Per Eigen rompere il circolo vizioso della corruzione è stato il pallino degli ultimi dieci anni, da quando ha chiamato a raccolta le truppe irregolari della correttezza per arruolarle nel suo esercito nel ' 93, dopo aver lavorato per 25 anni alla Banca Mondiale senza essere riuscito ad abbattere dall' interno le resistenze dei governi ai tentativi di pulizia. Oggi la sua organizzazione, partita da un modesto ufficetto a Berlino, è rappresentata in oltre cento Paesi e ha un quartier generale dove lavorano sessanta persone. E' sponsorizzata da tutte le grandi multinazionali, da General Electric a Shell, da Siemens a Alcatel, da Ibm a Motorola. In dicembre la sua piattaforma di lotta alla corruzione è stata adottata ufficialmente dall' Onu. E il suo Corruption Perceptions Index - che misura la correttezza di un Paese in base alle percezioni di osservatori indipendenti, non in base a dei dati di fatto che in materia di corruzione difficilmente emergono alla luce del sole - viene letto attentamente da tutte le imprese del mondo prima di mettere mano al portafoglio degli investimenti all' estero. «I problemi che stanno emergendo in Italia in questo periodo non sono isolati - spiega Jermyn Brooks, braccio destro di Eigen ed ex presidente di Price Waterhouse, di cui ha guidato la fusione con Coopers nel ' 98 -. Dopo l' ubriacatura degli ultimi anni ' 90 tutto il mondo industrializzato è stato colpito dalla stessa sindrome. Ma in Italia ci sono alcuni tratti specifici che nell' Europa del Nord sono meno marcati, come la struttura societaria complessa di molte imprese, spesso guidata da holding domiciliate in un paradiso fiscale per evadere le tasse o sottrarre movimenti di capitali e manovre societarie al controllo delle autorità italiane». Brooks è particolarmente critico sul fatto che il sistema bancario italiano sia così disponibile ad accettare senza protestare tale mancanza di trasparenza. «E questo ci riporta a un altro tratto tipicamente italiano - puntualizza Brooks - cioè gli stretti legami personali o addirittura familiari tra banche e imprese, soprattutto a livello locale, che portano con sé grandissimi pericoli per gli investitori di minoranza. In fondo è proprio questo tipo di rapporti troppo intimi fra banche e imprese, al limite della connivenza, che critichiamo tanto nei Paesi del Sud-Est asiatico, ma è precisamente lo stesso modello che si ritrova anche in Italia». Brooks parla con cognizione di causa, data la sua carriera trascorsa tutta in una società di certificazione di bilancio. E proprio sul caso Parmalat il suo passato di contabile torna a galla: «L' Italia - rincara - è l' unico Paese d' Europa dove il certificatore principale può spartirsi il lavoro con un' altra società senza portarne la responsabilità, anche se la fetta dell' altra società sfiora il 50%. Negli altri 14 Paesi dell' Unione questo non è possibile. Ora non voglio dire che se Deloitte avesse messo il naso in quello che faceva Grant Thornton il problema sarebbe emerso in anticipo, ma insomma ». Malgrado le critiche, anche Brooks è convinto che l' Italia abbia fatto grandi progressi, soprattutto sulla scia dell' introduzione dell' euro. «Il nostro indice rispecchia chiaramente questa evoluzione, come viene percepita da un campione molto vasto e composito di uomini d' affari, politici, accademici e giornalisti, sia all' interno del Paese che all' estero. Le differenze fra Nord e Sud Europa con il tempo si assottigliano. E in parte anche fra l' Europa occidentale e gli Stati Uniti, nonostante l' indipendenza della magistratura americana sia molto più pronunciata e la necessità di rinforzare le regole e i controlli sembri molto più sentita. In Europa spesso si tende a chiudere un occhio, pensando di favorire così le imprese strangolate dalla crisi. Ma in realtà questo atteggiamento le danneggia, rendendole meno competitive».

18 gennaio 2004

Concorrenza cercasi

Energia: concorrenza cercasi. A tre anni dall'avvio della liberalizzazione, i prezzi salgono invece di scendere, sia sul mercato vincolato che sul mercato libero, e non è prevedibile un'inversione di tendenza in tempi brevi. Anzi. C'è chi ipotizza aumenti ulteriori, anche del 20%. Il nuovo documento dell'Autorità sulle tariffe 2004-2007, che ha rimesso di buon umore il Tesoro, azionista di maggioranza dell'Enel, sta facendo invece preoccupare gli altri operatori. Al più grande gruppo elettrico italiano, che ha archiviato il 2003 con un balzo del 27% del margine operativo lordo, la nuova Autorità di Alessandro Ortis ha regalato un tasso di rendimento del capitale tra il 6,8 e il 6,9% sull'attività di distribuzione e tra il 6,7 e il 6,8% sull'attività di trasmissione (il documento varato dalla gestione precedente, sotto Pippo Ranci, prevedeva un rendimento del 6,4% per la distribuzione e del 6,2% per la trasmissione). Le nuove direttive che stanno entrando in vigore in questi giorni conferiscono dunque a Terna, la società di trasmissione controllata al 100% dall'Enel e prossima alla quotazione, un valore di 5 miliardi, contro i 3,5 miliardi dell'ipotesi precedente. Gli analisti finanziari sono entusiasti della prospettiva. I concorrenti di Enel un po' meno. "Se i margini si concentrano tutti sul settore vincolato, a cui soltanto l'Enel ha accesso, la redditività del mercato libero automaticamente si riduce", spiega Mario Molinari, direttore generale di Energia. "Ormai gli sconti ai clienti liberalizzati si giocano su pochi spiccioli - puntualizza Molinari - e offrire un prodotto concorrenziale senza rischiare l'osso del collo è sempre più difficile". Mentre il mercato vincolato si gode i fasti delle nuove tariffe, sul fronte del mercato libero si corre sul filo del rasoio. Da un lato la domanda cresce molto più dell'offerta, sia perché il consumo annuo pro-capite d'energia degli italiani è il più basso d'Europa (5100 kWh contro una media europea di 6600 kWh) e quindi tende ad aumentare rapidamente per colmare il gap, sia perché la costruzione di nuove centrali continua ad andare a rilento. Dall'altro lato il luogo deputato a far incontrare domanda e offerta in maniera trasparente, cioè la Borsa elettrica, considerata dagli operatori l'unico argine possibile alla lievitazione dei prezzi, continua a collezionare ritardi e rinvia di giorno in giorno il brindisi d'apertura: doveva essere operativa da oggi, ma per adesso l'unica certezza è un nuovo slittamento. "Questo modo di procedere ondivago, in cui manca ogni prospettiva certa e si cambiano continuamente le regole, rappresenta un enorme disincentivo per gli operatori privati a competere con l'Enel sul nuovo fronte dei piccoli e medi consumatori che si sta aprendo. Di conseguenza è probabile che questi nuovi clienti liberalizzati rimangano dove stavano prima e che il mercato italiano dell'energia finisca per assomigliare a quello del gas, dove la liberalizzazione in teoria è ormai completa da oltre un anno, ma in realtà non è mai partita", commenta Molinari. "La vendita dell'energia in Italia è un'attività libera, ma allo stesso tempo è un'attività per cui sono previsti margini di remunerazione assolutamente insostenibili", spiega Antonio Urbano di Dynameeting, operatore specializzato nell'intermediazione. "I soli costi variabili di gestione del cliente, cioè i costi amministrativi, fiscali, di fatturazione e incasso, sono di gran lunga superiori al margine di guadagno contendibile stabilito dal regolatore. Per non parlare dei costi promozionali-commerciali, del rischio di credito e della remunerazione del capitale investito", conclude Urbano. Con l'arrivo dei piccoli consumatori, il mercato liberalizzato si allargherà a circa sette milioni di utenti. Per affrontare un "mass market" di questo tipo ci vogliono offerte standard su tutto il territorio nazionale, mentre in Italia ogni distributore può fare i prezzi che vuole e cambiarli a piacimento: come si fa a impostare un'attività di marketing senza sapere con certezza quale sarà il "pedaggio" da pagare ai distributori per accedere alle loro reti? Non a caso gli sconti medi che si sentono fra gli operatori ormai non superano il 3-4% di ribasso rispetto alla tariffa fissata dall'Autorità, mentre un paio di anni fa sfioravano il 10%. E fra i consumatori, soprattutto le piccole e medie imprese, serpeggia la preoccupazione sull'aggravio della fattura energetica che comporterà questa situazione. Gli industriali della provincia di Treviso, ad esempio, prendono in considerazione i vantaggi dell'autogenerazione e mettono in guardia i loro associati perché si attrezzino in tempo contro il caro-bollette. E Confartigianato conferma: "Il trend purtroppo fa pensare che quest'anno si ridurrà ancora di più il vantaggio di passare al mercato libero". Insomma, nessuno si fa illusioni sulle prospettive luminose di un mercato che per ora lascia tutti, tranne Enel, a bocca asciutta.

Codice a barre contro "radio tag": non c'è gara

Il codice a barre può fare molte cose per un tubetto di dentifricio, ma non può rivelare al padrone del negozio la sua provenienza o il suo sapore, né comunicargli quando è stato tirato giù dallo scaffale o se qualcuno sta cercando di rubarlo. Inoltre il codice a barre è capace di dire tutto quello che sa solo se messo faccia a faccia con un lettore, a pochi centimetri di distanza. Mai potrebbe farlo senza tirare fuori il tubetto di dentifricio dal carrello del supermercato e men che meno al buio, cioè attraverso una confezione già incartata o uno strato di ghiaccio, condensa, sporco. Le etichette intelligenti dotate di un minuscolo chip chiamato radio tag, invece, sono capaci di fare tutto ciò. Ecco perché sono avviate a sostituire i codici a barre. Gillette ha già cominciato a inserire queste etichette intelligenti in tutti i suoi prodotti (pare ne abbia ordinate un miliardo al produttore, Alien Technology) e Wal-Mart, il più grande dettagliante del mondo, ha deciso d'imporre ai suoi primi cento fornitori l'uso dei radio tag in tutta la catena logistica entro la fine di quest'anno, mentre gli altri 12mila fornitori avranno tempo fino alla fine dell'anno prossimo per adeguarsi. Anche in Europa le più grosse catene di supermercati, come Tesco e Metro, stanno sperimentando: Metro ha inaugurato qualche mese fa a Rheinberg, vicino a Duesseldorf, un negozio tutto basato su questa tecnologia e Tesco ha fatto lo stesso a Hazel Grove, vicino a Manchester. Non stupisce la previsione dell'istituto di ricerca Vdc, secondo cui il mercato dei radio tag sta crescendo del 25% all'anno. E nemmeno l'ottimismo di Kevin Ashton, direttore dell'AutoID Center del Massachusetts Institute of Technology (punto di riferimento centrale dello studio su questa tecnologia nel mondo), che calcola "venti miliardi di tags in uso entro il 2006 e mille miliardi entro il 2010". In realtà la tecnologia alla base dei radio tag, chiamata Radio Frequency Indentification e abbreviata in RFID, è già in uso da anni a monte dei supermercati, sotto diverse forme di applicazioni industriali. I sistemi anti taccheggio, ad esempio, sono uno degli usi più comuni, ma anche il Telepass si basa sullo stesso concetto: un circuito radio ridotto ai minimi termini che nella sua forma più tipica dispone di un'antenna ricevente, un trasmettitore, una batteria e una memoria. Nati dalla ricerca militare nei primi anni del dopoguerra, questo tipo di apparecchi - molto più voluminosi e costosi di un radio tag - vengono usati in tutto il mondo per identificare oggetti in transito, ad esempio per localizzare vagoni merci sulla rete ferroviaria o colli sui tapis roulant di un centro d'interscambio logistico, per definire con esattezza il contenuto di un container o di un camion anche mentre questo è in movimento, per dialogare con le componenti di una catena di montaggio nell'industria automobilistica… Il salto di qualità che sta segnando il passaggio dell'RFID dalle applicazioni industriali a quelle retail dipende dalla progressiva miniaturizzazione del chip, che ora non ha più nemmeno bisogno di una batteria perché sfrutta direttamente il segnale radio inviato dal lettore per attivarsi. L'assenza di batterie garantisce ai radio tag passivi una durata illimitata, un peso irrisorio e un costo minimo (dai 5 ai 50 centesimi di euro a seconda della capienza). Il chip, non più spesso di un capello, viene incastonato tra due fogli di carta insieme a un'antenna sottilissima - avvolta a spirale attorno al microprocessore - per produrre un'etichetta non più grande di quella del codice a barre. Anzi, al momento attuale viene spesso incastonato nella stessa etichetta del codice a barre, per consentire una doppia lettura. Ma in teoria potrebbe venire immesso direttamente nel ciclo produttivo, ad esempio inserendolo nel tessuto dei capi di abbigliamento (come ha fatto Prada nel suo famoso megastore interattivo di Soho, a Manhattan). E' proprio questo che preoccupa le associazioni impegnate sul fronte della tutela della privacy, che temono scenari alla "Grande Fratello" con milioni di chip inseriti in tutti i prodotti di consumo, capaci di comunicare alle case di produzione tutti i nostri movimenti, gusti e abitudini. Katherine Albrecht, fondatrice e presidente di Caspian (Consumers Against Supermarket Privacy Invasion and Numbering), ha lanciato una vera e propria crociata contro i radio tag negli Stati Uniti, sostenendo (forse a ragione) che non solo Gillette ma molti altri produttori la utilizzano già da tempo in gran segreto per controllare meglio i propri canali di vendita e scatenando una profonda diffidenza nei consumatori per questa nuova tecnologia. "Una lattina di aranciata sarà il nuovo volto nascosto del Grande Fratello", ammonisce la Albrecht. La risposta di Ashton e compagni alle critiche della vestale della privacy sono prudenti, ma ferme: "I chip più pervasivi saranno quelli più economici, cioè quelli senza batteria, il che riduce drasticamente a meno di cinque metri la distanza da cui un oggetto può essere tracciato. Sarà quindi impossibile per i produttori seguire i loro prodotti fin dentro le nostre case. Ma anche se fosse possibile, come potrebbero seguire miliardi di tag e riuscire a dare un senso a questa enorme massa d'informazioni?" Malgrado ciò, l'AutoID Center consiglia ai suoi clienti, cioè a tutte le grandi multinazionali dei prodotti di consumo, da Procter & Gamble a Unilever, di informare sempre con accuratezza in quali prodotti è inserito un radio tag e di offrire alla gente la possibilità di neutralizzarli con un apparecchio che potrebbe essere collocato all'uscita di ogni supermercato.

12 gennaio 2004

Prove di Borsa elettrica

Una sala operativa spoglia, di pochi metri quadri, con un grande tabellone elettronico alla parete e cinque computer su un bancone a ferro di cavallo. La Borsa elettrica parte in sottotono, ma segna una svolta radicale nel mercato italiano dell' energia: «D' ora in poi gli operatori avranno uno sbocco sicuro su cui contare per mettere in vendita la propria produzione, un mercato che premia il merito economico e quindi chi vende al prezzo più basso». Giorgio Szegö, di origine ungherese, presidente del Gestore del mercato elettrico e docente di Economia dei mercati finanziari alla Sapienza, è convinto della centralità della Borsa per dare una forte spinta agli investimenti nel settore dell' energia e non ha nessuna intenzione di tirare per le lunghe la fase sperimentale: «Fino alla fine del mese le contrattazioni saranno solo virtuali, in attesa che tutti gli operatori interessati si siano dotati degli strumenti per partecipare. Da febbraio cominceranno le vere offerte, seppure senza la partecipazione attiva della domanda, che resterà limitata al Gestore di rete e all' Acquirente unico, gli unici soggetti che non hanno bisogno di un deposito di garanzia per partecipare agli scambi. La partenza completa, con l' ammissione piena alle contrattazioni di tutti i soggetti liberalizzati, è prevista in primavera, entro il primo aprile, ma per quanto mi riguarda potremmo anche partire a febbraio. I nostri terminali sono già pienamente operativi». Per imparare a nuotare, commenta Szegö con filosofia, bisogna buttarsi in acqua: «Gli esercizi sul tappeto servono a niente». In realtà è chiaro a tutti che una Borsa non può arrivare alla piena funzionalità da un giorno all' altro. Un mercato organizzato su base volontaria come quello appena avviato in Italia (e come tutti i grandi mercati esteri dell' energia, dal Nord Pool scandinavo al Powernext francese), ha bisogno di tempo per guadagnarsi il favore degli operatori, dimostrando di essere il punto d' incontro più efficiente tra la domanda e l' offerta. «Il nostro obiettivo - spiega Szegö - è attrarre il maggior numero possibile di scambi nella nostra orbita, in modo da ridurre al massimo le differenze fra i due mercati, quello delle negoziazioni pubbliche e quello dei contratti bilaterali. Agli operatori offriremo anche un servizio di contratti bilaterali standardizzati, come ci è stato richiesto da molti produttori. Quando il prezzo dell' energia fissato in Borsa diventerà la stella polare a cui guarderanno tutti, anche chi contratta all' esterno, avremo vinto la nostra scommessa». Del resto, se davvero l' Acquirente unico sarà costretto ad approvvigionarsi in Borsa, i volumi verranno assicurati «per decreto»: questo nuovo soggetto, che dall' inizio dell' anno ha finalmente assunto le funzioni di garante della fornitura del mercato vincolato, cui fa capo circa la metà dei consumi nazionali, sarà un gigante da oltre 100 miliardi di chilovattora. Per adesso, l' energia destinata al mercato vincolato confluisce in un sistema dedicato di vendita, il cosiddetto Stove, che continuerà a funzionare fino alla partenza completa della Borsa elettrica, con alcune modifiche sostanziali introdotte dall' inizio dell' anno, tra cui l' obbligo di partecipazione per tutte le centrali di grandi dimensioni e la possibilità per l' Acquirente unico di usufruire dei benefici derivanti dalle importazioni di energia dall' estero a prezzi più convenienti rispetto alla produzione nazionale. Se anche l' Acquirente unico dovesse procurarsi solo l' 80 per cento del suo fabbisogno in Borsa, comunque, il suo peso si farà sentire sul lato della domanda. Dall' altro lato, quello dell' offerta, si farà invece sentire il peso dell' Enel, che malgrado le dismissioni resta ancora di gran lunga il principale produttore di energia in Italia. «Terremo d' occhio il ruolo dell' Enel, cercando di evitare che abusi della sua posizione dominante - precisa Szegö - ma non bisogna fasciarsi la testa prima di essersela rotta: in tutti i mercati che si aprono alla liberalizzazione bisogna fare i conti con un incumbent che nei primi tempi ha un peso schiacciante. Nella Borsa spagnola dell' energia hanno avuto lo stesso problema, di dimensioni ben superiori alle nostre. A mano a mano che si costruiranno nuove centrali la quota Enel sulla produzione nazionale calerà in percentuale e i rapporti di forza diventeranno più equilibrati». La Borsa, del resto, non è altro che uno specchio del mercato: se il mercato è molto concentrato l' avvio degli scambi non modificherà questo dato di fatto. Ma la negoziazione pubblica, chiamando a produrre le centrali a partire da quelle che praticano i prezzi più bassi, introdurrà un elemento di concorrenza dinamica che finirà per privilegiare gli impianti più efficienti e per comprimere il livello dei prezzi. Prima che questi effetti positivi si concretizzino nelle tasche degli utenti, però, ci vorrà tempo.

11 gennaio 2004

ICT: da vantaggio competitivo a commodity

Il primo a gettare il sasso nello stagno è stato Nicholas Carr, esperto di strategia aziendale ed ex-direttore di Harvard Business Review, la Bibbia dei top manager americani: in un articolo su HBR ha sostenuto qualche mese fa che gli investimenti aziendali in tecnologia non assicurano più alle imprese un vantaggio competitivo, perché l'Ict ormai è diventata un'infrastruttura di base come l'energia elettrica o il telefono. "Per un breve periodo - scrive Carr - quando non erano ancora state incorporate completamente nel sistema, tutte queste tecnologie avevano fornito reali vantaggi alle aziende più lungimiranti che le utilizzavano, ma appena la loro diffusione è aumentata e il loro costo è diminuito, si sono trasformate in materie prime: da un punto di vista strategico, sono diventate invisibili, hanno perso la loro rilevanza. Lo stesso sta succedendo oggi anche all'information technology e le implicazioni di questa svolta sono molto profonde". La sua tesi, che sta per uscire in forma di libro ("Does IT Matter?" verrà pubblicato in aprile dalla Harvard Business School Press), ha suscitato una vera e propria tempesta nell'industria informatica americana: da Bill Gates a Carly Fiorina, tutti i grandi del settore hanno lanciato i loro strali sul capo del povero Carr. Ma nel mondo del management non sembra aver lasciato grandi tracce: gli investimenti in tecnologia delle imprese americane sono aumentati dai 385 miliardi spesi nel 2001 ai 445 miliardi del 2003 e i pronostici più modesti prevedono un'ulteriore crescita del 16% nel 2004, a 532 miliardi. E' dunque sbagliato dire che l'information technology non offre più un vantaggio competitivo? Qualche risposta alla provocazione di Carr si può trovare in due studi appena usciti, uno di Erik Brynjolfsson, professore alla Mit Sloan School, e l'altro di Bart van Ark, dell'università di Groningen in Olanda. Entrambi gli studi tentano di fare luce sul crescente gap che allontana gli Usa dall'Europa in materia di produttività: il rendimento dei lavoratori americani, infatti, è cresciuto del 2,8% nel 2002 (oltre il doppio rispetto all'1,2% degli europei) e dovrebbe sfiorare il 3% nel 2003. E' opinione comune fra gli economisti che la corsa della produttività americana sia alla base delle migliori performance dell'economia Usa rispetto a quella europea, pur limitando le prospettive di un ritorno alla piena occupazione. Ma non è sempre stato così: dal '73 al '95 i lavoratori yankee erano i fanalini di coda del mondo, con un tasso di crescita della produttività dell'1,4%, contro una media europea del 2,3%. Nel '95 si è verificata la famosa svolta che ha portato la macchina economica americana a girare con un'efficienza senza precedenti: la media '95-2000 è del 2,5% e negli anni successivi migliora ulteriormente, fino ad arrivare all'incredibile balzo del 9,4% nel terzo trimestre 2003 (ultimi dati disponibili). Sia secondo Brynjolfsson che secondo van Ark il segreto di questa crescita sta nell'information technology: non solo la quantità, ma anche la qualità degli investimenti in Ict delle imprese americane è profondamente diversa rispetto alle imprese europee. Un sondaggio di Morgan Stanley presso i manager responsabili degli acquisti identifica nei servizi di sicurezza, nel potenziamento delle capacità di memoria e nei software di pianificazione strategica le aree prioritarie su cui queste spese si concentreranno nel 2004. Le imprese americane sono dunque focalizzate sui sistemi più adatti per conservare e inviare informazioni, ma anche per organizzare la produzione. E' qui che Brynjolfsson individua il punto essenziale: "La stessa quantità di denaro spesa per un medesimo sistema può fornire un vantaggio competitivo a un'impresa e diventare soltanto carta straccia per altre. Questo perché un fattore chiave per estrarre un elevato ritorno economico dall'innovazione nell'IT, è l'efficace utilizzo delle informazioni che riguardano le performance dell'organizzazione". Solo combinando l'introduzione di nuovi sistemi informatici con l'innovazione nell'organizzazione aziendale si ottengono risultati soddisfacenti: "Le aziende che hanno investito in IT senza cambiare le loro pratiche di lavoro non hanno avuto grandi vantaggi". Brynjolfsson, che ha setacciato ben 1.167 aziende americane per arrivare a queste conclusioni, porta l'esempio di Wal-Mart, il più grande innovatore nel settore del commercio al dettaglio: l'inventario gestito direttamente dai fornitori, la catena di approvvigionamento "intelligente", le tecniche just in time sono tutte innovazioni realizzate tramite la tecnologia, ma nate dalla visione strategica dei manager. "Kmart - dice Brynjolfsson - non eguaglierà mai il suo rivale semplicemente installando un nuovo sistema informatico". Secondo lo studio di van Ark è proprio il commercio, in Europa, il settore più arretrato nell'utilizzo delle nuove tecnologie rispetto ai concorrenti americani. E in complesso tutto il terziario - proprio dove l'uso dell'information technology è più importante - sembra molto restio all'innovazione: mentre negli Usa è responsabile del 26% della torta tecnologica, in Europa solo del 20%. Nel suo studio Van Ark non esclude che si tratti di un gap temporaneo: forse l'Europa si trova oggi in quel periodo iniziale di utilizzo delle nuove tecnologie che gli Stati Uniti hanno attraversato nei primi anni Novanta, quando la spesa delle imprese in innovazione tecnologica era altissima, ma non si vedevano ancora le ricadute sui profitti e sulla produttività. "La diffusione dell'Ict in Europa - scrive van Ark - segue modelli analoghi a quelli già visti negli Usa, ma a un ritmo molto più lento". E i danni alla competitività si vedono.