Pagine

26 novembre 2007

De Benedetti prenota un posto al sole

L' energia del sole piace al gruppo De Benedetti. Il braccio energetico del gruppo, Sorgenia, guidato da Rodolfo De Benedetti, è diventato il leader italiano nel fotovoltaico, con quattro megawatt di potenza installata. E dopo i primi quattro impianti entrati in esercizio (due a Villacidro in Sardegna, uno a Benevento e l' altro a Enna), è previsto che altri 11 nuovi entrino in produzione entro marzo 2008, portando la potenza a 15 megawatt. Niente in confronto a una banale centrale a gas (che da sola può mettere assieme 400-800 megawatt) ma pur sempre un quarto del fotovoltaico italiano che, per ora, non supera i 60 megawatt in tutto. «Le ragioni di questo interesse per il fotovoltaico, cui abbiamo destinato un investimento di 85 milioni, sono semplici - spiega Massimo Orlandi di Sorgenia -. Le crescenti difficoltà nello sfruttamento dei combustibili fossili, dovute all' esaurimento del petrolio facile e alle preoccupazioni per l' effetto serra, stanno scatenando una rivoluzione tecnologica e industriale a livello planetario. L' energia del sole è il fronte più caldo di questa rivoluzione: meglio esserci». Il momento in Italia è propizio. Il nuovo sistema di incentivi in conto energia, partito nel 2005 con decreto del precedente governo, ha rovesciato una pioggia di sussidi su questa fonte da noi così abbondante eppure così poco sfruttata. Basta dire che la potenza fotovoltaica della brumosa Germania equivale a 50 volte la nostra, mentre la Spagna ha già raddoppiato rispetto a noi. Proprio per evitare che il Paese del sole perdesse il treno del fotovoltaico, è partito il nuovo sistema di incentivazione, volto a rendere più semplice la remunerazione e ad aumentare la redditività. Con questa spinta, ripresa dal governo attuale con alcune modifiche, si è scatenato il boom. «Ma con l' ultimo decreto, dell' inizio di quest' anno, già si comincia a scoraggiare l' installazione di impianti a terra - obietta Orlandi -. Peccato, perché in una situazione in rapida evoluzione tutte le opzioni tecnologiche vanno presidiate con giudizio». Come l' opzione del solare termodinamico, sistema a concentrazione caro al fisico Carlo Rubbia: che aveva avviato le prime sperimentazioni in Italia ma poi è andato a sviluppare i suoi progetti in Spagna. Ora l' Enel ci sta provando con il progetto Archimede, a Priolo. «Lo faremmo volentieri anche noi, se ci fossero gli stessi incentivi che ci sono in Spagna», conferma Orlandi. Per partecipare alla rivoluzione del sole, infatti, bisogna stimolare gli investimenti in tutta la filiera. «In Italia è mancato il coraggio dei tedeschi, che hanno incentivato per anni eolico e fotovoltaico favorendo investimenti nella produzione e ora hanno una fiorente industria - dice Orlandi -. Per colmare questo vuoto, abbiamo acquisito uno stabilimento di produzione di celle vicino a Roma e una società di progettazione, così da poter fornire impianti chiavi in mano ai clienti». Primi passi.

16 novembre 2007

La Grande Muraglia di fuoco

Il 9 marzo del 2000, in un famoso discorso pronunciato alla Johns Hopkins University di Baltimora sull'evoluzione politica cinese, Bill Clinton proclamava: “Nel nuovo secolo, la libertà si diffonderà attraverso i cellulari e i modem. E' indubbio che la Cina stia tentando d'imbavagliare Internet. Buona fortuna. E' come tentare d'inchiodare al muro un budino di gelatina”.
UNA STORIA CINESE
Il 24 novembre del 2004, nella città di Taiyuan, nella provincia di Shanxi, il giornalista Shi Tao veniva arrestato dagli uomini della polizia politica, con l'accusa di aver passato segreti di Stato ad agenti stranieri, una formula standard con cui il governo di Pechino usa incastrare i dissidenti. L'accusa si basava su una mail inviata da Shi Tao all'Asia Democracy Foundation, partendo dal suo indirizzo registrato su Yahoo, con cui illustrava nei dettagli le limitazioni imposte delle autorità ai media cinesi sulla copertura dell'anniversario della strage di Tiananmen. Come aveva fatto la polizia politica a trovare Shi? Semplicissimo: aveva chiesto a Yahoo di consegnare tutti i suoi dati personali, compreso l'indirizzo, che Yahoo aveva prontamente rivelato. Il 27 aprile 2005, all'età di 37 anni, Shi veniva condannato a 10 anni di prigione dal tribunale del popolo. Il 2 giugno l'appello presentato da Shi veniva respinto dalla corte di secondo grado senza concedergli udienza. Da allora Shi marcisce in prigione. Insieme ad altri 42 colleghi che hanno fatto la stessa fine in circostanze analoghe. Il 28 agosto 2007 la madre di Shi, Gao Qinsheng, denunciava il comportamento di Yahoo al tribunale di San Francisco. Il 6 novembre 2007 la Commissione Esteri del Congresso convocava il numero uno di Yahoo, Jerry Yang, per chiedergli conto del suo operato, definito da Tom Lantos, il presidente della Commissione, “codardo e irresponsabile”. Lantos chiedeva poi a Yang di scusarsi pubblicamente con la madre di Shi, presente all'audizione. Il 13 novembre Yahoo raggiungeva un accordo extragiudiziale con la famiglia di Shi, i cui termini non sono pubblici. Ma tutti i soldi di Yang non tireranno Shi fuori di prigione.
LA FINE DI UN'UTOPIA
Oggi sappiamo che le speranze di democratizzazione dei regimi totalitari attraverso il web, ottimisticamente riassunte da Clinton nel suo discorso di Baltimora, sono miseramente naufragate in un mare di filtri censori sempre più sofisticati. Il caso cinese prova senza ombra di dubbio che la forza liberalizzatrice della tecnologia può essere inchiodata al muro – se si hanno gli strumenti giusti - molto meglio di un budino di gelatina. E i cinesi li hanno, così come i birmani, i vietnamiti, i sauditi, gli iraniani o i siriani, poiché nessuna azienda occidentale vuole mettersi contro le autorità dei Paesi con cui fa affari, come ha dichiarato recentemente John Chambers di Cisco mentre annunciava l'intenzione di investire 16 miliardi di dollari in Cina nei prossimi cinque anni: “Se c'è una cosa che le aziende tecnologiche non possono fare è lasciarsi coinvolgere nelle controversie politiche di un Paese”. Ha ragione, quindi, Yang a protestare quando i difensori dei diritti umani se la prendono con Yahoo, solo perché è stata beccata con le mani nel sacco. Nel mondo di Yang, quasi nessuno è senza peccato.
LA GRANDE MURAGLIA DI FUOCO
In pratica, la censura è intrecciata nel tessuto stesso del web cinese, un'isola collegata alla rete globale tramite nove accessi attentamente sorvegliati dall'occhio governativo. Questi nove accessi vengono comunemente soprannominati "Great Firewall" o GFW da chi se ne intende. Come il firewall installato sui pc, il GFW si attiva per bloccare minacce specifiche, ma non è dato sapere quali. Dai vari studi sulla complessa materia si deduce che viene eliminata tutta una serie di informazioni "indesiderate", contenute in migliaia di siti, da quello dei Falun Gong ormai inaccessibile da anni alle pagine cinesi della Bbc, spesso impossibili da aprire. La caratteristica particolare della censura cinese è che non avviene mai alla luce del sole. Pechino nega da sempre di esercitare qualsiasi sorveglianza. Le autorità ripetono continuamente che filtrare i contenuti del web è impossibile. Di conseguenza, se le pagine che si cercano sono irraggiungibili non si può mai sapere se è colpa della censura o di un sovraccarico delle linee. Altri regimi totalitari utilizzano delle "pagine di blocco" a cui gli utenti vengono rimandati quando cercano di accedere alle informazioni censurate. La Cina no. Per cui i blocchi sono del tutto imprevedibili e talvolta solo temporanei o parziali. I siti in lingua cinese, ovviamente, hanno più problemi degli altri e quelli che mettono direttamente in discussione il regime comunista sono i più sorvegliati.
UN'ISOLA CON 162 MILIONI DI ABITANTI
Mentre il GFW protegge l'isola cinese dagli assalti esterni, il sistema applicato per la censura interna è completamente diverso. Qui i principali censori sono gli stessi provider, che rischiano la chiusura se non applicano rigorosamente i filtri imposti dalle autorità. Ogni singola pagina presente in rete viene attentamente setacciata dal provider che la ospita, sia un sito o un blog, uno spazio autogestito tipo YouTube o addirittura un videogioco online. Una schiera di controllori da far impallidire la Stasi passa tutto il suo tempo a sorvegliare il materiale immesso in rete per bloccare le informazioni proibite. Che non sempre sono le stesse. Le indicazioni delle autorità sono volutamente vaghe, in modo da indurre all'autocensura. I tabù principali sono incentrati sulle tre T: Tibet, Taiwan e Tiananmen. Su questi tre temi non passa uno spillo. Ma le indicazioni possono diventare anche molto dettagliate nei momenti più delicati, in occasione di anniversari, di grandi happening politici come il Congresso del partito o di eventi internazionali come le Olimpiadi che si avvicinano. Le punizioni per gli utenti che si avventurano ripetutamente fuori dal seminato o per i provider che non filtrano abbastanza variano molto. I blogger possono ritrovarsi disabilitati da un momento all'altro, i post cancellati, i manager di un portale licenziati, il portale chiuso. La sorveglianza si estende agli Internet Café, dove gli operatori sono spinti dalle autorità a controllare attentamente gli utenti usando tecnologie che registrano ogni parola scambiata online. Ma come si vede dal caso iniziale, i censori ricorrono spesso anche a metodi molto più tradizionali, arrestando i trasgressori e condannandoli a lunghe detenzioni.
VARCHI NEL MURO
Gli unici canali di cui ci si può fidare sono quelli che passano attraverso le aziende che non fanno affari con la Cina, spiega Rebecca MacKinnon, ex capo dell'ufficio di Pechino della CNN, fondatrice di Global Voices Online, oggi docente di nuovi media all'Università di Hong Kong e blogger appassionata su RConversation. Dall'alto della sua esperienza cinese, Rebecca sconsiglia a chiunque abbia opinioni poco ortodosse di usare qualsiasi provider, anche americano, che abbia una sede in Cina. Stesso discorso vale per i blogger. Nello specifico, Rebecca consiglia di usare Hushmail per la posta elettronica, mentre per aprire un blog indica Civilblog, che ha sede in Canada ed è molto impegnato sul fronte dei diritti civili. Sul resto non si sente di mettere una mano sul fuoco. Ma sono ben pochi i cinesi tanto gelosi della propria privacy da arrivare così lontano.
UN SISTEMA EFFICACE
Il risultato di quest'opera ciclopica di manipolazione della realtà è sotto gli occhi di tutti: la vasta maggioranza dei 162 milioni di internauti cinesi risulta efficacemente schermata da qualsiasi opinione che le autorità potrebbero considerare politicamente problematica. In pratica, il partito è riuscito a creare una "memoria collettiva", soprattutto fra i giovani, in cui la versione governativa dei fatti non viene mai messa in discussione, anche quando è distante anni luce dalla realtà storica. Un esempio classico è la foto del ragazzo davanti al tank nei disordini di Piazza Tiananmen: quella che per l'Occidente è l'immagine-simbolo del massacro, in Cina è stata accuratamente erasa dal web, tanto che mostrandola a un cinese oggi, nessuno la riconosce. Consciamente o inconsciamente, gli internauti cinesi hanno interiorizzato i limiti oltre i quali è meglio non spingersi e preferiscono tenersi all'interno della linea rossa tracciata dal partito. Questo è uno dei motivi per cui la Repubblica Popolare rimane stabile anche in presenza di enormi problemi irrisolti.

12 novembre 2007

Sonatrach entra nel mercato italiano

Il colosso algerino Sonatrach entra a pieno titolo nel mercato italiano del gas: figura infatti nell' elenco delle 407 aziende che, al 31 ottobre, hanno ottenuto dal ministero dello Sviluppo economico l' autorizzazione alla vendita diretta del metano ai consumatori finali. Sonatrach Gas Italia, con amministratore unico Mohammed Fouad Koulla, risulta già iscritta al registro delle imprese della Camera di commercio di Milano, con sede in corso Venezia 5. L' azienda energetica dello Stato algerino potrà vendere il suo metano ai clienti italiani dal 2008, quando comincerà ad arrivare in Italia con un comodo biglietto di transito sul gasdotto transtunisino controllato dall' Eni. Per la compagnia algerina, che punta da anni a raggiungere questo obiettivo, è una prima volta quasi insperata: il progetto ufficiale era la commercializzazione della sua quota di metano che arriverà in Italia dal 2011 attraverso il gasdotto Algeria-Sardegna-Italia, ancora tutto da costruire. Con questo escamotage, invece, l' obiettivo è stato centrato molto prima. Il programma di potenziamento dei gasdotti già esistenti, in particolare il Tag dal Nord per il metano russo e il Ttpc dal Sud per il metano algerino - entrambi dell' Eni, come tutto il sistema di trasporto - era stato imposto a colpi di multe dall' Antitrust per far crescere nuovi player su questo mercato, dominato quasi completamente dalla compagnia di San Donato. Ma le modalità di assegnazione della nuova capacità messa in gara dal Ttpc si sono rivelate decisamente sfavorevoli per le rivali italiane, da Hera a Sorgenia, dall' Aem a Iride, giudicate idonee nella prima fase della gara, ma respinte nella seconda. L' anno scorso l' Authority di Antonio Catricalà aveva inflitto all' Eni una megamulta da 290 milioni per abuso di posizione dominante, subito contestata dalla compagnia di San Donato. E le aveva imposto di aumentare la capacità di trasporto sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui in due tranche, cedendo la quota in più a operatori terzi, entro l' ottobre 2008. Della seconda tranche (3,3 miliardi di metri cubi), destinata in origine a essere spartita fra 45 società giudicate idonee, 2 miliardi andranno invece a Sonatrach Gas Italia e il resto all' Enel, in base a un accordo stipulato nel ' 91 con l' Eni, in cui lo Stato algerino si riserva di esprimere il gradimento sui contratti di trasporto firmati dal Ttpc con altri «shipper» di gas, diversi dall' Eni e dall' Enel. In questo modo, si rimette ad Algeri la scelta dei soggetti che possono accedere alla nuova capacità di trasporto messa in gara in Italia. Resta da chiedersi se Sonatrach farà davvero concorrenza a uno dei suoi più affezionati alleati. In Spagna, Sonatrach sta facendo una politica molto aggressiva: il ministro algerino dell' Energia, Chakib Khelil, ha annunciato l' intenzione di vendere il suo gas a prezzi inferiori a quelli degli altri operatori. «È evidente - ha detto il ministro Khelil - che il gas commercializzato direttamente da Sonatrach sarà meno caro per i consumatori spagnoli rispetto allo stesso gas venduto attraverso intermediari». Ma in Spagna Sonatrach è in guerra aperta contro Gas Natural, a cui vuole imporre un aumento del prezzo del 20% su un terzo del fabbisogno di metano della penisola iberica. In Italia non siamo ancora a questo punto. Eni e Sonatrach, qui, sono buone amiche.

Etichette:


Sonatrach entra nel mercato italiano

Il colosso algerino Sonatrach entra a pieno titolo nel mercato italiano del gas: figura infatti nell' elenco delle 407 aziende che, al 31 ottobre, hanno ottenuto dal ministero dello Sviluppo economico l' autorizzazione alla vendita diretta del metano ai consumatori finali. Sonatrach Gas Italia, con amministratore unico Mohammed Fouad Koulla, risulta già iscritta al registro delle imprese della Camera di commercio di Milano, con sede in corso Venezia 5. L' azienda energetica dello Stato algerino potrà vendere il suo metano ai clienti italiani dal 2008, quando comincerà ad arrivare in Italia con un comodo biglietto di transito sul gasdotto transtunisino controllato dall' Eni. Per la compagnia algerina, che punta da anni a raggiungere questo obiettivo, è una prima volta quasi insperata: il progetto ufficiale era la commercializzazione della sua quota di metano che arriverà in Italia dal 2011 attraverso il gasdotto Algeria-Sardegna-Italia, ancora tutto da costruire. Con questo escamotage, invece, l' obiettivo è stato centrato molto prima. Il programma di potenziamento dei gasdotti già esistenti, in particolare il Tag dal Nord per il metano russo e il Ttpc dal Sud per il metano algerino - entrambi dell' Eni, come tutto il sistema di trasporto - era stato imposto a colpi di multe dall' Antitrust per far crescere nuovi player su questo mercato, dominato quasi completamente dalla compagnia di San Donato. Ma le modalità di assegnazione della nuova capacità messa in gara dal Ttpc si sono rivelate decisamente sfavorevoli per le rivali italiane, da Hera a Sorgenia, dall' Aem a Iride, giudicate idonee nella prima fase della gara, ma respinte nella seconda. L' anno scorso l' Authority di Antonio Catricalà aveva inflitto all' Eni una megamulta da 290 milioni per abuso di posizione dominante, subito contestata dalla compagnia di San Donato. E le aveva imposto di aumentare la capacità di trasporto sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui in due tranche, cedendo la quota in più a operatori terzi, entro l' ottobre 2008. Della seconda tranche (3,3 miliardi di metri cubi), destinata in origine a essere spartita fra 45 società giudicate idonee, 2 miliardi andranno invece a Sonatrach Gas Italia e il resto all' Enel, in base a un accordo stipulato nel ' 91 con l' Eni, in cui lo Stato algerino si riserva di esprimere il gradimento sui contratti di trasporto firmati dal Ttpc con altri «shipper» di gas, diversi dall' Eni e dall' Enel. In questo modo, si rimette ad Algeri la scelta dei soggetti che possono accedere alla nuova capacità di trasporto messa in gara in Italia. Resta da chiedersi se Sonatrach farà davvero concorrenza a uno dei suoi più affezionati alleati. In Spagna, Sonatrach sta facendo una politica molto aggressiva: il ministro algerino dell' Energia, Chakib Khelil, ha annunciato l' intenzione di vendere il suo gas a prezzi inferiori a quelli degli altri operatori. «È evidente - ha detto il ministro Khelil - che il gas commercializzato direttamente da Sonatrach sarà meno caro per i consumatori spagnoli rispetto allo stesso gas venduto attraverso intermediari». Ma in Spagna Sonatrach è in guerra aperta contro Gas Natural, a cui vuole imporre un aumento del prezzo del 20% su un terzo del fabbisogno di metano della penisola iberica. In Italia non siamo ancora a questo punto. Eni e Sonatrach, qui, sono buone amiche.

9 novembre 2007

Gary Hamel

L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.

Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?

«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».

Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?

«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».

Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...

«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».

Quindi il suo consiglio è di sfrondare?

«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».

Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...

«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».

Etichette:


Gary Hamel

L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.
Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?
«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».
Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?
«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».
Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...
«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».
Quindi il suo consiglio è di sfrondare?
«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».
Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...
«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».

5 novembre 2007

Il vento del business verde soffia verso Sud

È febbre da energia verde anche in Italia. I cantieri si moltiplicano e i big del settore energetico, dopo aver snobbato a lungo il business delle fonti rinnovabili, hanno iniziato a investire massicciamente per non perdere il treno. I Moratti, i Brachetti, i Garrone, i Falck e naturalmente l' Enel, per citare solo i principali operatori, sono in corsa per accaparrarsi le postazioni migliori: là dove il vento soffia a 15 metri al secondo, sulle aspre montagne irpine o sulle serre della Sila. Ma anche nella Sicilia occidentale, o sulle preziose coste della Sardegna, emissari di banche internazionali annusano l' aria, per vedere se si muove. Tutti pronti a convincere i contadini a cedere il loro avamposto più turbinoso, a intercettare i «facilitatori» di pratiche meglio inseriti con le amministrazioni locali, a prospettare piogge di royalties sulle comunità. Paradossalmente, più del sole è il vento che sta facendo calamitare l' interesse sul Sud Italia. Eppure l' eolico, la più remunerativa delle energie pulite, è ancora al centro di bisticci fra ambientalisti. Da un lato c' è chi lo considera la nuova panacea per affrancare l' Italia dalla schiavitù del petrolio, sporco e sempre più caro. Dall' altro c' è chi lamenta i danni paesaggistici, con quelle pale «brutte» sullo sfondo delle dolci colline toscane o sulle coste della Sardegna. A inizio 2007 la potenza totale delle fattorie eoliche italiane ha toccato i 2.123 MW. Di questi, solo nel 2006 ne sono stati installati 417, soprattutto in Sicilia, Puglia, Basilicata, Toscana e Molise. Un dato ancora inferiore rispetto agli altri Paesi europei, ma che colloca l' Italia al settimo posto nella classifica mondiale dei produttori di energia elettrica generata dal vento. E il meglio deve ancora venire. Le richieste arrivate al gestore della rete elettrica nazionale per connessioni con i parchi eolici, infatti, sono 458 che - salvo blocchi ambientalisti - andranno nei prossimi anni ad aggiungersi ai 168 già esistenti. Quasi cinquecento nuovi impianti, già autorizzati, che permetteranno di far fare un enorme balzo in avanti al settore eolico in Italia. La potenza complessiva che le turbine di prossima installazione sarebbero in grado di generare è pari a 23.124 GW, quasi dieci volte la potenza attuale e più di tutte le fattorie del vento della Germania, leader mondiale dell' eolico, che arriva a 20.622 GW. Il grosso delle richieste viene dal Sud: delle 458 nuove installazioni, 225 sono sparse fra Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e altre 162 fra Sicilia e Sardegna, là dove il soffio di Eolo è più potente. L' Enel, campione mondiale della rinnovabili con oltre 19.000 MW di potenza idroelettrica, eolica, geotermica e solare, va a caccia di pale sia in Italia sia all' estero, dalla Francia alla Grecia. Per la conquista di Enertad - una piccola società di energia eolica che adesso ha 132 MW ma punta a raggiungere i 350 in due anni - è scesa in campo la Erg dei Garrone, impegnandosi in una partita molto combattuta contro la Alerion di Giuseppe Garofano. Nell' eolico hanno investito i Moratti con la Sardeolica, la Api dei Brachetti Peretti, il gruppo Falck, che sogna di installare una «dorsale del vento» dall' Inghilterra all' Italia fino al Marocco, e anche il gruppo De Benedetti con Sorgenia, la sua società per la produzione elettrica. Le spagnole Endesa e Iberdrola hanno già iniziato lo shopping da noi e hanno opzionato centrali in costruzione in Basilicata e Calabria dalla Gamesa, secondo gruppo continentale nella produzione di torri e pale. E come primo operatore eolico italiano si sono appena piazzati gli inglesi di International Power, che hanno rilevato la proprietà di gran parte degli impianti eolici ex-Ivpc, la società dell' avvocato avellinese Oreste Vigorito, il re dell' eolico «made in Italy», più grande di Enel ed Edison messe insieme. Del resto, si tratta di un trend internazionale: in Europa, Germania e Spagna guidano la classifica di nuovi impianti e la Francia si sta aprendo, ma in tutto il mondo la crescita dell' energia da fonti rinnovabili è guidata dal vento. Certo, anche se aumenteranno tutte insieme di cinque volte in quantità, le nuove fonti rinnovabili (sole, vento e biomasse) nel 2020 non soddisfaranno più del 2 per cento della domanda mondiale. Ma, considerando il punto di partenza, è comunque un boom.

Biodiesel, dazi e sussidi nel mirino

C' è chi li considera affamatori di popoli e traditori della vera anima ecologista, ma i biocombustibili ormai sono già decollati: il barile a cento dollari e le fosche previsioni sul futuro del petrolio sono argomenti sufficienti per alimentare il boom. Quest' anno la coltivazione di campi destinati a fini energetici in Europa ha superato tutte le attese: per la prima volta, la produzione europea ha interessato 2,84 milioni di ettari, superando così l' obiettivo dei due milioni di ettari fissato dalla Commissione. Tanto che Bruxelles sta meditando di ridurre gli aiuti, previsti per avviare un mercato ormai lanciato. Anche il Fondo monetario internazionale e le Nazioni Unite insistono per fermare i sussidi, che inducono gli agricoltori del mondo industrializzato a utilizzare i raccolti di cereali a fini energetici e spingono in alto il prezzo del pane o della tortilla, mettendo in difficoltà le popolazioni più povere. In Europa, l' obiettivo è quello di «tagliare» tutto il carburante per i veicoli con un 5,75% di biodiesel o bioetanolo entro il 2010, per poi raddoppiare al 10% entro il 2020. Gli Stati Uniti non sono così precisi, ma vanno nella stessa direzione. Il disegno è chiaro: affrancarsi dalla schiavitù del petrolio e dare una spinta all' agricoltura. Ma essendo i biocarburanti molto più cari da produrre dei combustibili fossili, per tenere in piedi il mercato c' è bisogno dei sussidi. Il supporto pubblico per il bioetanolo va dai 30 centesimi al litro negli Stati Uniti a un dollaro nell' Ue, passando dai 60 centesimi della Svizzera, mentre per il biodiesel va dai 60 centesimi negli Usa ai 70 centesimi di Bruxelles. Considerando che la benzina, a pari rendimento, costa 34 centesimi e il diesel 41, si finisce per spendere di più per il sussidio che per la produzione del corrispondente combustibile fossile. Se i conti per ora non tornano sul piano dei costi, il discorso cambia sul piano delle politiche energetiche e ambientali. Secondo il World Energy Outlook 2006 dell' Agenzia Internazionale dell' Energia, infatti, la domanda mondiale di energia primaria è destinata a crescere, tra il 2005 e il 2030, di oltre il 50%. Le economie emergenti, Cina, India, Brasile, Messico, Indonesia, Sud Africa, contribuiranno per due terzi al boom. Se i combustibili fossili copriranno, com' è prevedibile ai ritmi di crescita attuali, oltre l' 85% dell' aumento della domanda di energia, le emissioni globali di anidride carbonica sono destinate a crescere del 55% rispetto al livello attuale, con immaginabili conseguenze sull' effetto serra. Per l' esplorazione dei giacimenti e la costruzione delle infrastrutture, saranno investiti oltre 20.000 miliardi di dollari, in gran parte nelle economie emergenti. «È chiaro che questi investimenti decideranno il futuro energetico e ambientale del pianeta», spiega Corrado Clini, presidente della Global Bio-Energy Partnership, l' azione lanciata dal G8 per non lasciare al caso il futuro del pianeta. «La possibilità di modificare il trend energetico globale verso una minore intensità di carbonio - spiega Clini nella proposta del Gbep, in via di presentazione il 13 novembre al World Energy Congress, che quest' anno si svolge a Roma - è legata allo sviluppo e all' uso, entro il 2030, di fonti energetiche alternative ai combustibili fossili e di tecnologie ad alta efficienza». Non si tratta, naturalmente, di affamare il pianeta per dare energia alle macchine. Ma semplicemente di spostare le colture a fini energetici verso le aree tropicali, dove crescono piante molto più adatte rispetto a quelle coltivate nei climi temperati. Già oggi, il combustibile ricavato dalla canna da zucchero coltivata in Brasile - secondo produttore mondiale di bioetanolo dopo gli Stati Uniti - è perfettamente competitivo con la benzina, mentre quello prodotto negli Usa costa di più e rende di meno. Per fermare la concorrenza brasiliana, Washington e Bruxelles usano l' arma dei dazi, distorcendo il mercato. «È assolutamente chiaro - fa notare Clini - che l' Unione Europea non potrà rispettare l' impegno del 10% di biocombustibili nel portafoglio energetico entro il 2020 senza ricorrere alle importazioni dai Paesi della fascia tropicale. Ma l' importazione è limitata sia dalle barriere tariffarie che dai sussidi ai produttori agricoli europei». Eliminarli potrebbe riequilibrare la situazione e compensare gli aumenti dei prezzi alimentari.

Energia liberalizzata, ma niente sconti

Pronti, via. Dal primo luglio è partito il supermarket dell' energia elettrica in Italia. Da allora ogni minuto dieci utenti vincolati diventano clienti liberi: quasi 300mila famiglie hanno approfittato della liberalizzazione per cambiare fornitore. Con l' effetto paradossale di pagare di più, non di meno, per la stessa fornitura. I contratti che si sono rivelati più popolari, infatti, sono quelli che danno la certezza del prezzo bloccato sul lungo periodo, in cambio di un lieve aumento immediato. E quelli che offrono energia verde, derivata da fonti rinnovabili, quindi lievemente più cara. In realtà, dal punto di vista puramente quantitativo, il grosso del mercato era già liberalizzato prima di luglio: al contrario del mercato del gas, sull' energia elettrica l' Italia ha scelto la strada di una vera apertura alla concorrenza. Dal ' 99 - quando il decreto Bersani ha segnato l' inizio di questo processo - la maggioranza dei clienti industriali ha cambiato fornitore. Meglio di noi hanno fatto soltanto il Regno Unito e la Scandinavia. Di conseguenza, su un fabbisogno complessivo di 300 terawattora l' anno (escluse le perdite di rete e l' autoproduzione), 150 erano già «liberi». In questo segmento la quota dell' Enel negli ultimi anni si è ridotta a meno del 15%. La fedeltà delle partite Iva Da luglio possono cambiare fornitore anche le famiglie, che rappresentano un parco consumi di 60 TWh l' anno. I restanti 90 TWh fanno capo al cosiddetto popolo delle partite Iva, che è già libero di cambiare fornitore da oltre due anni, ma finora l' ha fatto solo in misura irrisoria. Dal punto di vista numerico, invece, il parco clienti in palio per chi li saprà conquistare è immenso: 27 milioni di famiglie, più 7 milioni di partite Iva, sono ancora legate al loro fornitore originario. Su questo mercato, l' Enel mantiene una quota dell' 80%. Il resto è suddiviso fra le varie municipalizzate, in primis Acea di Roma, Aem Milano, Aem Torino, Hera di Bologna. Concorrenti alla carica Dall' altro lato della barricata, i contendenti si chiamano Eni, Edison, Sorgenia (gruppo Cir), le varie estere Rezia, Egl, Eon, aziende come Multiutility o Lumenenergia nate per rifornire i consumatori industriali, la grande distribuzione che si sta affacciando in questi giorni al mercato e una vasta costellazione di trader che comprano e vendono alla Borsa elettrica cercando così il loro profitto: ne sono registrati un centinaio. Per ora, però, i giochi sono limitati ai grandi player. Dei nuovi clienti «liberi», circa 250mila sono targati Enel, ma solo in minima parte si tratta di utenti nuovi: in maggioranza sono clienti a tariffa pubblica («vincolati») che hanno lasciato l' Enel Distribuzione per passare al contratto Enel Energia («liberi»). L' altra grande società sul mercato libero è l' Eni: si può stimare che da luglio il Cane a sei zampe abbia conquistato qualche decina di migliaia di clienti, avvicinandosi in Italia a quota 300mila. In questo caso clienti nuovi, sfilati dal portafoglio dell' Enel e delle municipalizzate. La battaglia dei servizi Per quanto riguarda più in dettaglio l' offerta messa a punto dagli operatori in questi primi mesi, si può dire che di grandi ribassi e conseguenti risparmi non se ne sono visti. Più che sugli sconti, la partita tra i vari fornitori si gioca sulla possibilità di sviluppare offerte integrate di prodotti e servizi aggiuntivi o su contratti che possano riunire in un' unica fattura «dual-fuel» i costi per l' approvvigionamento dell' energia elettrica e del gas. Vanno di moda anche le soluzioni che forniscono solo energia verde, ottenuta cioè da fonti rinnovabili, come quella offerta da La220 del bresciano Giuseppe Zanardelli, un po' più cara ma «politically correct». L' opzione bioraria è disponibile anche per chi rimane nel mercato vincolato, a patto che gli sia già stato installato un contatore elettronico e telegestito. Per trarre veramente beneficio da questa soluzione, però, è necessario concentrare i consumi durante le ore più convenienti, cioè dalle 19 alle 8 dei giorni feriali, sempre nei fine settimana e nei festivi. In base ai calcoli dell' Autorità, affinché la bioraria risulti più conveniente della monoraria si deve spostare almeno il 68% del consumo nelle fasce meno care. A prescindere da sconti o aumenti, va detto che le offerte non si distinguono per trasparenza. Nell' era di Internet dovrebbe essere possibile trovare tutte le informazioni utili per il confronto, la valutazione e magari un preventivo senza fornire alcun dato personale, come avviene nel sito del regolatore inglese Ofgen. In rete si trovano messaggi promozionali più che documenti informativi e chi vuole saperne di più deve inviare i propri dati personali per poi ricevere una proposta commerciale.