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29 gennaio 2009

In Israele l'auto elettrica è già arrivata

Herzliya è un elegante sobborgo a Nord di Tel Aviv, con le sue spiagge sul Mediterraneo, la sua marina piena di barche, i centri commerciali e i cinema. Nel parcheggio di uno di questi, Cinema City, il futuro è già arrivato. Ha la forma di una serie di colonnine grigio-azzurre - base triangolare e design minimalista - attrezzate con due prese sicure per ricaricare le auto elettriche che tra poco saranno in circolazione nel Paese. Shai Agassi, il profeta delle reti di distribuzione per l'auto elettrica nel mondo, ha scelto Israele, dov'è nato, come Paese pilota per realizzare il suo progetto Better Place. Non per motivi affettivi, ma logistici: si tratta di un territorio limitato, più piccolo della Lombardia, ma occupato per metà dal deserto del Negev e circondato da vicini ostili, quasi come un'isola. La popolazione è molto concentrata nel corpo centrale del Paese, largo appena 15 chilometri nella fascia più stretta, perciò è raro percorrere in macchina più di 70 chilometri alla volta, il raggio d'azione ideale per una batteria con autonomia ridotta, che per ora non supera i 150 chilometri. Poi sarà la volta della Danimarca, un territorio grande il doppio d'Israele, ma pur sempre delimitato tutto intorno dal mare. Sia in Israele che in Danimarca, per motivi diversi, i governi puntano a emanciparsi in tempi brevi dalla schiavitù del petrolio e hanno risposto molto bene al progetto, defiscalizzando completamente le auto elettriche. "Entro la fine dell'anno, avremo installato un migliaio di punti di ricarica come questo", spiega Tal Agassi, fratello minore di Shai e responsabile dell'infrastruttura di rete per Better Place. Nell'area della grande Tel Aviv ce ne saranno centinaia: i primi nel parcheggio dell'albergo Basel (sul lungomare del centro), sotto l'Europa House (in pieno quartiere degli affari) e nel piazzale davanti al campus Ibm, snodo chiave del Silicon Wadi. "Abbiamo cercato di distribuirli su diverse tipologie di insediamento, dalle case private ai parcheggi degli uffici, dagli spazi pubblici agli autosilo, per gettare le basi di un approccio schematizzato per ciascuna tipologia, sia sul piano tecnico che delle normative di sicurezza o dei contratti di allacciamento alla rete elettrica. In questo modo abbiamo stabilito una procedura standard che ora stiamo replicando rapidamente in tutto il Paese", da Haifa a Gerusalemme, da Kfar Sava a Holon. "L'esperienza sul campo è importante per allineare tutti i passaggi in uno schema generale che ci faciliterà l'approccio con gli altri Paesi". In Israele il progetto procede speditamente: gli accordi con le municipalità sono firmati, l'infrastruttura di base in via di realizzazione, le colonnine in deposito. Renault Nissan ha già fornito alcuni prototipi di auto elettriche, con batterie agli ioni di litio: Renault Mégane e Nissan Rogue. Il primo obiettivo è di avere una cinquantina di macchine in circolazione in Israele e una cinquantina in Danimarca entro la fine di quest'anno. Nel 2010 centomila punti di ricarica in funzione, le stazioni di ricambio delle batterie, la versione definitiva del software gestionale del sistema e il primo gruppo di clienti paganti. Nel 2011 il debutto sul mass market. Il bello dell'impresa è che la tecnologia esiste già. Non c'è niente di nuovo da inventare, ma solo due problemi fondamentali da risolvere: l'autonomia limitata e l'alto costo delle batterie attuali. L'intuizione di Agassi sta tutta nel modello di business, che elimina le batterie dai costi attribuiti al cliente, lasciandone la proprietà nelle mani del gestore del sistema, come nella telefonia cellulare, dove il cliente non compra più l'oggetto ma l'esperienza di comunicazione mobile, sotto forma di minuti di conversazione. Better Place farà pagare ai suoi clienti i chilometri invece dei minuti, offrendo diversi piani tariffari in base alle esigenze dei singoli automobilisti. Chi avrà uno schema di spostamenti regolari potrà lasciare l'auto sotto carica nel parcheggio dell'ufficio o sotto casa. Per chi avrà bisogno invece di viaggiare oltre il limite fatidico delle 150 miglia, ci saranno le stazioni di ricambio, dove un sistema robotizzato estrarrà la batteria scarica e la sostituirà con un'altra carica. I problemi pratici da superare, evidentemente, sono infiniti. Primo fra tutti, l'approccio psicologico al nuovo sistema, che comporta una certa programmazione e incrina il mito dell'auto come strumento di libertà assoluta. Ma Better Place sembra inarrestabile. In pochi mesi ha raccolto 200 milioni di finanziamento e miete consensi in tutto il mondo. Dopo Israele e Danimarca, le tappe successive sono San Francisco e la Bay Area (dove ha sede l'azienda), le Hawaii, l'Australia e la provincia canadese dell'Ontario. In Giappone è appena partita l'alleanza con Subaru e il governo ha chiamato Agassi a realizzare un primo network. L'entusiasmo del quarantenne imprenditore è contagioso: tipico geek israeliano, entrato giovanissimo al Technion di Haifa, è approdato a 34 anni ai vertici di Sap, colosso tedesco del software gestionale, per poi licenziarsi nel 2007 e dedicarsi alla sua seconda vita, il business verde. Il suo mantra è: "Non abbiamo aspettato di avere i migliori chip per mettere sul mercato i pc, né di avere una tecnologia perfetta per lanciare la rivoluzione dei telefonini, dunque perché attendere le batterie ottimali per diffondere l'auto elettrica su vasta scala?"

12 gennaio 2009

Rigassificatori: Spagna batte Italia 2 a 0 (o 6 a 1)

Spagna batte Italia 2 a 0. Dall'ultima crisi del gas, scoppiata nell'inverno 2005-2006, a oggi gli spagnoli hanno acceso due rigassificatori, a Sagunto (2006) e El Ferrol (2007), entrambi con la partecipazione dell'Eni. Noi italiani nemmeno uno. L'unica novità qui è il terminale quasi pronto al largo di Rovigo, di Edison, ExxonMobil e Qatar Petroleum. Ma non ci aiuterà in questa crisi: a differenza di quanto sostenuto dal ministro Claudio Scajola, non sarà operativo prima del secondo trimestre dell'anno. Per realizzarlo, ci sono voluti 12 anni: 2 per la costruzione, 10 di carte bollate. In realtà, il divario è ancora più grande. Nel '69 Italia e Spagna erano alla pari: qui un rigassificatore a Panigaglia, nel golfo di La Spezia, laggiù uno a Barcellona. Tutti e due nuovi di zecca. Il gas naturale liquefatto - che può essere trasportato come il petrolio su navi gasiere da qualunque impianto di liquefazione nel mondo a qualunque terminale di rigassificazione - era agli inizi della sua storia. Nessuno sapeva ancora che in pochi decenni questo modello alternativo al tubo, molto più flessibile e poco adatto ai sistemi monopolistici, avrebbe avuto uno sviluppo straordinario, con oltre sessanta terminali operativi e una ventina in costruzione. Sono stati i Paesi periferici, come gli Usa, il Giappone, la Corea, l'India e la Cina, a spingere su questa tecnologia, più rapida e semplice dei gasdotti, che come si vede in questi giorni sono soggetti alle intemperanze di tutti i Paesi che attraversano. L'Italia, collocata in mezzo al Mediterraneo, era abbastanza centrale da non porsi il problema. Infatti oggi, a quarant'anni dalla costruzione del terminale di Panigaglia e nel bel mezzo della seconda crisi del gas, siamo esattamente allo stesso punto di allora. Nel frattempo, gli spagnoli ne hanno costruiti cinque: Huelva ('88), Cartagena ('89), Bilbao (2003), Sagunto (2006) e El Ferrol (2007). Gli ultimi rientrano nel serrato programma d'investimenti spinto dal governo di Madrid, che ha portato le società energetiche iberiche a stanziare 2,7 miliardi complessivi in questa direzione, pianificati su un decennio. Entro il 2011 dovrebbero essere completati altri due terminali alle Canarie, oltre a un potenziamento degli esistenti con il raddoppio dei serbatoi.

7 gennaio 2009

L'Italia appesa a quattro tubi

L'Italia divora gas naturale al ritmo vertiginoso di quasi 300 milioni di metri cubi al giorno, più di tutti gli altri partner europei. Ma per approvvigionarsi si basa solo su quattro tubi: dall'Algeria, dalla Libia, dalla Russia e dell'Olanda. I rigassificatori, unica alternativa ai gasdotti per diversificare i fornitori, da noi non si costruiscono. O meglio, si costruiscono con grandissima fatica. Il rigassificatore al largo di Rovigo (Edison, ExxonMobil, Qatar Petroleum) sarà il primo a tagliare il traguardo dell'operatività dopo il piccolo dinosauro di Panigaglia (Eni), che risale agli anni Sessanta. Ma non ci aiuterà in questa crisi del gas: "Le verifiche sul consolidamento meccanico della struttura sono ancora in corso - spiega un portavoce di Edison - e poi ci vorrà il collaudo". In breve, l'impianto non sarà operativo prima del secondo trimestre dell'anno, quando la crisi tra Russia e Ucraina sarà ampiamente conclusa. Per realizzarlo, ci saranno voluti ben 12 anni: i primi studi sono stati avviati nel '97, la valutazione d'impatto ambientale è stata ripetuta tre volte e nel maggio 2005 finalmente sono partiti i lavori, interrotti da diversi bracci di ferro con le autorità locali fino alla conclusione quest'autunno. Ora siamo al collaudo. Eppure, fanno notare all'Edison, si tratta di una struttura piuttosto banale, che in media ha bisogno di 24-30 mesi per essere realizzata. Un rigassificatore non è una centrale nucleare: se è onshore, si tratta di uno scatolone cilindrico di trenta metri per trenta, con uno scambiatore di calore per restituire il gas liquido alla sua forma gassosa e poi immetterlo in rete. Se è offshore ci vuole anche una piattaforma di cemento armato per sostenerlo (nel caso di Rovigo i serbatori sono due). In altri casi, come quello in via di realizzazione al largo di Livorno, si tratta semplicemente una nave gasiera riadattata. Ancora più semplice. In teoria, se venisse realizzata la quindicina di rigassificatori proposti da diversi operatori, l'Italia potrebbe godere di un import aggiuntivo di circa cento miliardi di metri cubi di gas l'anno, pari a tutti i consumi attuali. E diventare l'hub del gas del Mediterraneo, come vorrebbe l'Authority. Ma le resistenze locali mettono talmente tanti bastoni fra le ruote alle procedure autorizzative, che gli impianti non giungono mai a realizzazione. Basta prendere in considerazione la storia del terminale di Brindisi: un impianto già autorizzato e i cui lavori di costruzione erano già stati avviati, che si è arenato sulle contestazioni dei brindisini e le inchieste della magistratura, finite con il sequestro del sito nel febbraio 2007. British Gas, uno dei primi operatori mondiali nel mercato del gas, ha già speso 200 milioni di euro sui 500 previsti inizialmente: per sbloccarlo era dovuto intervenire anni fa addirittura Tony Blair, ma invano. Gli altri due investimenti proposti in Puglia sono di Sorgenia (Gruppo Cir) a Trinitapoli (Foggia) e della catalana Gas Natural a Taranto. Nessuno di questi trova un forte consenso locale.Alcuni progetti sono molto avanti. È il caso di Gioia Tauro (primo proponente, di nuovo Sorgenia), un impianto colossale da 12 miliardi di metri cubi. Hanno ottime speranze anche l'Enel a Porto Empedocle (Agrigento) e il progetto che E.on ha ereditato dalla madrilena Endesa al largo di Livorno. In altri casi si delineano alleanze possibili per dare più forza all'investimento. Si parla ad esempio di una possibile alleanza con l'Eni sul rigassificatore che Gas Natural vuole costruire a Trieste, per il quale a fine giugno il ministero dell'Ambiente ha dato la Via libera. Tra le proposte più recenti ci sono quelle dell'Api davanti alla sua raffineria di Falconara (Ancona) e l'innovativo progetto Tritone della Gaz de France, per una nave rigassificatrice da ormeggiare a una trentina di chilometri al largo di Recanati. Ma ben pochi della quindicina di progetti riusciranno a vedere la luce.