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25 febbraio 2010

Reti di dialogo fra Nord e Sud del mondo

Tangeri e Oujda sono le due province africane che generano più emigrazione verso il Nord del Mediterraneo. La fortezza Europa si difende con ogni mezzo: nell'ultimo decennio ci sono stati quasi tremila morti e altrettanti dispersi nel flusso continuo di migranti dal Marocco verso la costa andalusa. Ma ci sono altri modi per difendersi. Un esempio fra i tanti: l'introduzione della fibra ottica, supportata dalle province lombarde, ha consentito a Tangeri e Oujda di realizzare dei servizi di anagrafe telematica, che permettono ai cittadini di ottenere in loco i mille certificati necessari per qualsiasi iniziativa imprenditoriale, senza doversi imbarcare in lunghi viaggi per raggiungere la capitale. "La cooperazione decentrata, che punta a instaurare reti di dialogo fra le popolazioni del Nord e del Sud, promuovendo il protagonismo delle comunità locali per rispondere meglio, con interventi innovativi, alle esigenze delle comunità più svantaggiate, ha avuto un enorme successo negli ultimi anni e sta diventando il modello vincente della cooperazione allo sviluppo", spiega Giovanni Camilleri, coordinatore internazionale dell'iniziativa Art, braccio operativo dell'United Nations Development Programme (Undp) nel multiculturalismo attivo. La cooperazione delle province lombarde con Tangeri e Oujda rientra appunto tra i moltissimi progetti di Art, che sta per Articolazione di Reti Territoriali. "Le province lombarde hanno offerto tecnici e materiali al servizio del decentramento amministrativo, un mestiere che sanno fare benissimo: con una cooperazione concreta, efficace e rapida abbiamo migliorato la vita di queste aree poverissime, senza tante formalità", fa notare Camilleri. Magari non sarà sufficiente per convincerli a restare a casa loro, ma almeno è un piccolo passo per rendere più vivibile la loro condizione. "Ci sono temi, come gli spostamenti di popolazione, l'influenza suina o il riscaldamento globale, che richiedono di operare sulla testa e sulla coda del problema in maniera articolata e spesso bidirezionale, soprattutto se si vogliono applicare soluzioni innovative", commenta Camilleri. In pratica, Art mette in rete i programmi e le attività di diverse agenzie delle Nazioni Unite, in modo da creare contatti diretti Nord-Sud e Sud-Sud a livello di comunità di base. Gli obiettivi sono sempre gli stessi: sradicare la povertà estrema, offrire un'educazione primaria a tutti i bambini, promuovere l'emancipazione delle donne, ridurre la mortalità infantile, aiutare la maternità, combattere l'Aids, promuovere la sostenibilità ambientale, sostenere lo sviluppo. In molti casi l'idea innovativa viene da una comunità del Nord e aiuta lo sviluppo di una comunità del Sud, come nel progetto di depurazione naturale dell'acqua realizzato dall'Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana nel villaggio albanese di Narta. Ma nel programma Art chiamato Ideass (Innovation for Development and South-South Cooperation) rientrano molti progetti innovativi nati nel Sud per il Sud, dalla disidratazione dei limoni sviluppata in Guatemala allo stabilizzatore del latte inventato a Cuba (vedi box qui accanto). "Le invenzioni pensate nel Sud sono più facili da applicare al Sud, dove le risorse sono sempre scarse e i materiali diversi da quelli che usiamo nel Nord del mondo", sostiene Camilleri. Le invenzioni di Ideass si sono misurate nel premio Eco-Innovation, consegnato il 27 gennaio a Bruxelles dall'Undp e dall'European Business and Innovation Network, in occasione del 25° anniversario della nascita di Ebn: hanno vinto le torri agricole di Courtirey - una piccola impresa francese nata dal Centro Europeo d'Impresa e d'Innovazione dell'Alta Savoia - che consentono di coltivare verdure impilate su diversi piani usando pochissima acqua. Il team arrivato alla vittoria verrà assegnato a una delle sedi di Ideass e stipendiato per lavorare alla diffusione del suo progetto. "Un modo per promuovere la disseminazione tecnologica", specifica Camilleri. Così, a quattro anni dalla sua istituzione, Art tira le somme e si propone come modello vincente nel mondo della cooperazione allo sviluppo: sono sempre più numerose le comunità che chiedono agli uffici dell'Undp di poter accedere a questo tipo di programmi, considerati molto più efficaci pur spostando risorse limitate. Sono 33 i Paesi coinvolti nei progetti Art, 15 ne hanno usufruito in passato e 18 continuano a beneficiarne ancora oggi. Gli "attori" italiani coinvolti sono oltre 400 tra Regioni, enti locali, associazioni, organizzazioni non governative e università. "Se il 2009 è stato l'anno del consolidamento dell'iniziativa, il 2010 e il 2011 saranno gli anni del mainstreaming, cioè dell'inserimento delle modalità di azione di Art nelle politiche Onu", prevede Camilleri. Sarà un altro passo avanti per superare la logica assistenziale, in cui i Paesi ricchi danno dei soldi ai Paesi poveri instaurando relazioni fra gruppi ristretti di potere, che creano inevitabilmente corruzione o nella migliore delle ipotesi benefici temporali, spesso annullati nel giro di pochi mesi: è inutile regalare una pompa o un sistema fotovoltaico, se poi nessuno è in grado di farli funzionare o di ripararli se si rompono. "Nel nostro caso invece - precisa Camilleri - le comunità locali restano in contatto e continuano a sostenere le loro iniziative per tutto il tempo necessario".

Da Cuba il latte che resiste al sole del Sud

Stabilak è una sostanza che mescolata al latte appena munto permette di conservarlo tra 8 e 24 ore anche ad alte temperature, senza che vada a male e cominci a sviluppare germi nocivi. L'invenzione è semplice e del tutto naturale. Si basa sul lactoperoxidasi, un enzima con proprietà antimicrobiche e antiossidanti che attiva un sistema di difese naturali presenti nel latte di tutti i mammiferi. Il lactoperoxidasi è approvato dal codice alimentare della Fao, che lo considera del tutto innocuo per la salute umana. L'ingegnere cubano Pastor Ponce Ceballo, PhD del Centro Nacional de Sanidad Agropecuaria (Censa) di Cuba, ha trovato il modo di usare questo enzima per farne un prodotto che ha chiamato appunto Stabilak. Si presenta sotto forma di una polverina o di compresse, in entrambi i casi da sciogliere nel latte appena munto. L'uso è semplicissimo e il latte a cui viene aggiunto può essere conservato tra 8 e 24 ore dopo la mungitura a temperature che variano tra 20 e 34 gradi centigradi: quanto basta per trasportarlo dove sarà pastorizzato e consumato, o trasformato in formaggio e altri latticini. L'uso è evidente: nelle economie agricole di zone remote, o comunque dove gli allevatori non hanno accesso alla catena del freddo, mettere questa polverina nel latte appena munto abbassa il rischio di malattie causate da microorganismi patogeni, permette agli allevatori di produrre latticini anche se non dispongono di frigoriferi, diminuisce le perdite (il latte buttato via perchè andato a male), aumentando la quantità di cibo disponibile al consumo. E' efficace con il latte di mucca, pecora, capra, bufalo e cammello. A Cuba è usato dal 1992, ormai un terzo del latte fresco prodotto nell'isola viene trattato con Stabilak. Il costo poi è irrisorio: i cubani lo hanno calcolato in circa 0,5 centesimi di dollaro per 100 litri di latte. La Fao ha sponsorizzato le ricerche e incoraggia la diffusione di questo sistema, che ora è usato in una ventina di Paesi, in gran parte latinoamericani, ma anche in Vietnam.

Il filtro d'argilla per dare acqua ai Paesi poveri

Nel ‘98, quando l’uragano Mitch lasciò l’America Centrale senza acqua potabile, Ron Rivera, un portoricano nato nel Bronx, si mosse in aiuto delle popolazioni colpite, avviando la produzione di massa di un filtro per l’acqua di concezione semplice e antichissima. Il sistema, già noto ai tempi dei maya, consiste in un vaso di argilla impastata con segatura o bucce di riso, tritate finissime. Quando l’argilla è cotta in forno, la materia organica si brucia, lasciando un reticolo di pori sottilissimi, che fanno passare l’acqua, ma trattengono i micro-organismi nocivi. Infine, il filtro viene rivestito d’argento colloidale, che uccide i batteri residui, responsabili della diarrea, la piaga infantile più letale del Terzo Mondo. Inserito in cima a un bidone dotato di un rubinetto alla base, il filtro depura quattro litri d’acqua all’ora. La produzione è anche una buona iniziativa imprenditoriale, perché un laboratorio con tre o quattro addetti può sfornare venti filtri al giorno, che si vendono al prezzo di pochi dollari ciascuno. Sotto l'insegna di Pottery for Peace, Rivera si pose l'obiettivo di aprire cento laboratori in cento Paesi e si mise all’opera: Africa, Asia, America Latina, ovunque c’era bisogno del suo filtro, dalla Cambogia al Ghana, dal Bangladesh alla Nigeria. Proprio qui la storia di Rivera si è fermata: due anni fa ha contratto la forma più grave di malaria ed è morto all’età di 60 anni. Ma il suo filtro ormai cammina da solo. Diffuso da Pottery for Peace, è stato testato da diverse università americane, è consigliato dal manuale di tecnologia di base delle Nazioni Unite, è adottato da organizzazioni come la Croce Rossa, l’Unicef, Oxfam. Finora almeno trecentomila filtri sono stati fabbricati e vengono usati da un milione e mezzo di persone, contribuendo a salvare ogni giorno vite umane che altrimenti andrebbero perdute.

Bio-pesticida per salvare le olive dai parassiti

La mosca delle olive o mosca olearia (Bactrocera oleae) è presente in tutto il bacino del Mediterraneo ed è responsabile ogni anno di una perdita media del 30-40 per cento dei raccolti, che arriva fino all'80 per cento nelle zone più colpite. Per combattere la diffusione della mosca olearia, negli ultimi decenni sono state spruzzate tonnellate di insetticidi generici, con conseguenze disastrose per l'ecosistema dei territori interessati e senza grande successo nello sterminio della mosca. Un consorzio albanese di coltivatori biologici, invece, ha messo a punto una strategia di difesa da questo parassita, sviluppata dall'Istituto di Protezione delle Piante albanese - in collaborazione con la Penn University, l'università della California e il Virginia Tech - e certificata da Biosuisse, una delle più importanti società internazionali di certificazione di prodotti bio. Produrre secondo il metodo dell'agricoltura biologica vuol dire prima di tutto migliorare la capacità autoregolativa dell'ecosistema nell'area di coltivazione e nel territorio che la circonda. In olivicoltura biologica, un corretto controllo alle avversità non si può fare se non si hanno conoscenze sulla biologia dei parassiti, i loro comportamenti, i nemici naturali, in modo da poter definire con esattezza il momento dell'intervento e la scelta dei prodotti più opportuni. Proprio su queste conoscenze si basa il pacchetto Integrated Pest Management messo a punto dai coltivatori albanesi, che consiste in tre fasi: un monitoraggio molto attento della presenza di parassiti; un intervento mirato appendendo alle piante delle esche piene di bicarbonato d'ammonio che le attrae e spalmate di piretro che le uccide; un timing attento per il raccolto, che non deve avvenire troppo tardi perché le mosche amano le temperature più basse. L'utilizzo del metodo albanese mantiene la presenza delle mosche a livelli accettabili, con grandi benefici per l'ambiente e offre ai coltivatori il vantaggio di produrre olio biologico, con un rendimento ben superiore.

Dal Guatemala limoni disidratati senza chimica

Il metodo naturale per disidratare i limoni è stato messo a punto in Guatemala da una cooperativa di produttori di agrumi chiamata Coelmon. Far essiccare i piccoli limoni tropicali - là li chiamano limòn criollo, un frutto che ha caratteristiche del limone e del bergamotto, originario dell’Asia ma adattato da tempo al Centro America - è una tradizione della zona. Ma il sistema inventato dalla cooperativa e certificato come biologico, permette di disidratare completamente in modo naturale, senza additivi chimici, e impacchettare un prodotto che poi serve per la cucina - dalle minestre ai piatti di carne - o per preparare tisane e bevande, per uso domestico o per l’industria. Ora la cooperativa esporta i suoi limoni disidratati negli Stati Uniti e in molti Paesi del Golfo Persico. Il processo di produzione messo in piedi da Coelmon ha portato all'introduzione di nuove tecnologie in un'area marginale, alla promozione dell'export e allo sfruttamento sostenibile di risorse locali. La diffusione della coltivazione di limoni tropicali rappresenta una risposta sostenibile alla necessità di generare lavoro e reddito in zone semiaride, dov'è difficile trovare altre opzioni produttive. L'esperienza del Guatemala dimostra che lo stesso sistema può essere applicato dovunque ci sia molto sole e poca umidità. Il clima ideale deve avere temperature di 28-40 gradi e non oltre 500 millimetri di pioggia all'anno. Il processo di disidratazione dura diversi mesi, ma non ha bisogno di strutture complesse, per cui può essere replicato in comunità povere. Chi ha i mezzi per investire di più, può usare i moderni essiccatori alimentati a energia solare, che sono altrettanto ecologici e accorciano i tempi. La cooperativa Coelmon li ha sperimentati e garantisce l'ottima qualità del prodotto. Ma continua a preferire l'esposizione diretta dei frutti al sole tropicale.

20 febbraio 2010

Vancouver sul podio delle Olimpiadi verdi

Vancouver ha vinto la sua sfida. Aveva annunciato con orgoglio che le sue olimpiadi invernali sarebbero state le più sostenibili di sempre, con una proiezione di 118.000 tonnellate di CO2 nei sette anni dal progetto iniziale alla fine dei giochi. Quattro anni fa Torino si fermò a 160.000, nel 2002 Salt Lake City non scese sotto le 248.000 tonnellate. E malgrado le temperature primaverili, che hanno costretto gli organizzatori a trasportare la neve con i camion nei siti olimpici per sopperire alle scarse nevicate, il bilancio resta positivo. Linda Coady, che nel comitato olimpico si occupa di sostenibilità, ha spiegato che la carenza di neve influirà molto poco sull'impatto ambientale dei giochi. Fosse anche necessario utilizzare gli elicotteri per trasportare la neve in città ogni giorno fino alla fine dei giochi, le emissioni di CO2 crescerebbero al massimo di un modesto 1%. Lo testimonia il premio consegnato al comitato olimpico dalla Fondazione David Suzuki, che finanzia progetti sostenibili in onore del noto genetista e ambientalista nippo-americano. E lo ricordano i fatti. Accorpare è stata la prima parola d'ordine, perché razionalizzare significa pure risparmiare. Grazie a questo approccio compatto, solo 5,9 chilometri quadrati di territorio sono stati modificati in totale, per ben 11 posti di gara, con annessi servizi e centri stampa. Il raddoppio da due a quattro corsie della strada Vancouver-Whistler è stato condotto con raro buonsenso: le rocce fatte brillare con la dinamite sono state riutilizzate per realizzare massicciate e il fondo del nuovo percorso. Qua e là si scoprono poi autentiche chicche di ecologia applicata: per deviare un ruscello è stato seguito un criterio teso a tutelare le abitudini delle rane che lo abitano. Dicono con orgoglio al comitato organizzatore: "Altri, per costruire un impianto, avrebbero preso un'area e l'avrebbero spianata. Noi, invece, abbiamo fatto il ragionamento contrario: abbiamo edificato attorno o a fianco degli alberi o di una zona verde da preservare". Il segreto del successo sta tutto nell'impegno di lungo periodo: il comitato olimpico si è impegnato, per la prima volta nella storia, a ridurre al minimo tutte le emissioni nocive fin dal 2003, compiendo scelte oculate circa i luoghi in cui costruire gli impianti, i materiali impiegati, i mezzi di trasporto, l’approvigionamento energetico, i metodi di riscaldamento e la gestione organizzativa. Per tutte le emissioni impossibili da ridurre, inoltre, ha stipulato un accordo con l’agenzia canadese Offsetters, che si occupa di neutralizzare le emissioni residue grazie a progetti che sviluppano le fonti rinnovabili, interventi di risparmio energetico e di riforestazione, anche fuori dal Canada. Gli sport invernali, del resto, dipendono dalle condizioni della neve e del ghiaccio: è naturale che gli organizzatori siano particolarmente sensibili all'effetto dei cambiamenti climatici, che rischiano di far sparire la neve dalle montagne e creano sbalzi sempre più imprevedibili nelle condizioni atmosferiche, come quello che quest'inverno ha lasciato Vancouver all'asciutto.

Il vento olimpico soffia da Vipiteno

In cima a Grouse Mountain svetta una gigantesca pala eolica made in Italy, che dà energia all'intera stazione sciistica ospite dei giochi olimpici invernali. Viene da Vipiteno e in tutto il Nord America non ce n'è altre come questa. In primo luogo perché è una pala straniera: finora il vento del grande Nord faceva girare solo pale americane. E poi perché è la prima di queste dimensioni a osare così in alto. "Le nostre macchine sono più leggere delle altre e facilmente smontabili: sono state progettate da ingegneri specializzati nella costruzione di impianti di risalita e quindi molto sensibili alle problematiche del trasporto ad alta quota", spiega Anton Seeber, responsabile di Leitwind, il braccio operativo nelle rinnovabili del gruppo Leitner. Il gruppo è leader mondiale nel mercato degli impianti di risalita, con 147 impianti installati nel 2009 e grandi progetti in questo campo, come il villaggio alpino costruito a 250 chilometri da Pechino per soddisfare la voglia di sciare dei cinesi. Anton è figlio del patron del gruppo, Michael Seeber. E giustamente rappresenta il futuro dell'azienda: su un fatturato complessivo di 620 milioni nel 2009, il business del vento rappresenta già il 20%. "Ma quest'anno conteremo ancora di più, perché nel mondo servono più pale eoliche di impianti di risalita e si possono piantare ovunque, non solo dove c'è neve", sostiene Anton.Il gruppo Leitner ha spiccato il volo da poco, ma è già nel drappello di testa delle aziende che servono il mercato globale degli aerogeneratori, dominato dalla danese Vestas. Unico produttore italiano di macchine così grandi, i suoi generatori senza moltiplicatori di giri convincono per l'elevato rendimento, la semplicità d'installazione e la minima usura, in particolare nel mercato asiatico. "L'anno scorso ne abbiamo installati 15 in India. Quest'anno potremo usufruire dell'impianto di produzione appena avviato a Chennai e abbiamo già un'ottantina di ordini", fa notare Seeber. Ma la testa dell'azienda rimane a Vipiteno: "Qui abbiamo creato il nostro particolare sistema a presa diretta e qui stiamo sviluppando i nuovi generatori da 2 megawatt e da 2 e mezzo, progettati in modo tale da poterli trasportare anche su strade di montagna". L'Asia rappresenta invece il mercato di sbocco del futuro: "In India la domanda energetica cresce al ritmo del 16 per cento l'anno, è chiaro che la risposta a questa domanda non potrà venire solo dai combustibili fossili, altrimenti in breve l'aria si farà irrespirabile. La stessa Cina, la Mongolia e altri Paesi asiatici stanno dimostrando grande interesse per le nostre proposte". Ma Leitwind ha il vento in poppa anche in Europa, dalla Francia alla Bulgaria, con l'Italia in testa: quest'anno ha già in ordine una ventina di pale da installare in tutta la penisola, dalla Liguria alla Puglia.

10 febbraio 2010

Mille green jobs tra nucleare e rinnovabili

Crisi o non crisi, l'energia elettrica gira sempre. Crescono soprattutto le fonti rinnovabili e il nucleare, ma anche gli altri impianti e le reti elettriche si sviluppano di continuo. Per dare energia alle case degli italiani e al sistema industriale, servono ingegneri, tecnici e anche economisti destinati alle strutture commerciali. Assumono sia i grandi operatori che le piccole aziende specializzate nell'energia distribuita, dal fotovoltaico alle pompe di calore. Nelle fonti rinnovabili, il solo settore fotovoltaico avrà bisogno di 20mila addetti quest'anno, secondo uno studio dell'università di Padova, per usufruire degli incentivi in scadenza. Nel nucleare, il piano atomico italiano potrebbe creare almeno duemila posti di lavoro, senza contare l'indotto. Ma i tecnici più specializzati mancano all'appello, soprattutto nell'impiantistica nucleare: l'università italiana non riesce a star dietro alla domanda. “Il nostro candidato ideale ha conseguito la laurea con ottimi voti, ha una buona conoscenza della lingua inglese, una spiccata propensione all'innovazione e una buona capacità di muoversi in contesti multiculturali e in evoluzione”, spiega Monica Procaccianti, responsabile dell'Enel per la selezione e i rapporti con le università. “Nel 2009 sono state assunte circa 1000 persone in azienda, per i tre quarti giovani neolaureati e neodiplomati. Quest'anno prevediamo numeri analoghi. Il nostro obiettivo è continuare a inserire forze giovani, con la finalità di avviarli alle diverse professioni, offrendo loro l'opportunità di confrontarsi con un business sfidante in un contesto multinazionale”. Il gruppo Enel ha 85mila dipendenti a livello globale, di cui 38mila in Italia. I titoli di studio più gettonati sono, per le lauree, prevalentemente quelle in ingegneria ed economia, mentre per i diplomi quelli a indirizzo tecnico (periti elettrici, elettronici, meccanici). “Verosimilmente – aggiunge Procaccianti - gli inserimenti andranno a rafforzare alcune aree tecniche su cui abbiamo già investito significativamente in termini di capitale umano, in particolare quella nucleare, dell'impiantistica e delle energie rinnovabili, dove prevediamo di ricercare anche persone con skill professionali consolidati da esperienze lavorative svolte tanto in Italia quanto all'estero”. I professionisti senior, esperti di macchinari specifici o di impiantistica nucleare, sono i più difficili da trovare per l'ex monopolista elettrico. Su 11mila laureati in ingegneria sfornati ogni anno dai nostri atenei, gli ingegneri elettrici o nucleari sono una frazione minuscola, poche centinaia. Di conseguenza, l'Enel cerca di spingere gli universitari in questa direzione, con borse di studio e premi di laurea per giovani studenti in ingegneria nucleare ed energetica con un ottimo curriculum, provenienti dai Politecnici di Milano e Torino, dalla Sapienza di Roma e dalle università di Pisa e di Palermo. “Proseguiranno inoltre le ricerche sia nelle altre funzioni legate al nostro core business, come l'energy managment, le aree tecniche della generazione e della distribuzione dell'energia, sia in funzioni di staff, soprattutto in ambito amministrazione, pianificazione e controllo”, precisa Procaccianti. Tra gli altri operatori, continuano le assunzioni in Edison, dove entrano forze nuove al ritmo di 280-300 all'anno, anche qui prevalentemente ingegneri, su quasi 4mila dipendenti complessivi. In formazione, Edison investe oltre 2 miliardi all'anno. Edf, che in parte controlla Edison, ma ha anche una presenza autonoma in Italia, assume prevalentemente sviluppatori di parchi eolici, l'area in cui sta crescendo di più. Sorgenia, che nel 2009 ha fatto una cinquantina di assunzioni, avvicindandosi a quota 400 dipendenti, inserisce forze nuove soprattutto nelle fonti rinnovabili e in nuove aree di business come l'estrazione e produzione di idrocarburi, oltre che nel potenziamento della divisione commerciale. In considerazione della crescita della società, Sorgenia ha creato da pochi mesi la funzione di direttore del personale: il responsabile, Luigi Maienza, arriva dall'Eni.

5 febbraio 2010

Dalla monnezza napoletana a Piazza Affari

Dalla "monnezza" napoletana a Piazza Affari: il percorso virtuoso della famiglia Colucci, capitanata oggi dai due fratelli Pietro e Francesco, copre in vent'anni una vasta parabola ascendente, pur restando sempre nello stesso settore, lo smaltimento dei rifiuti. "Crediamo nella possibilità di quotazione per crescere e creare un polo aggregante in un mercato molto frammentato, dove le aziende private che si occupano di gestione dei rifiuti sono una miriade, ma in realtà i sistemi di smaltimento corretti sono pochi", spiega Francesco Colucci, presidente e amministratore delegato del gruppo Unendo, la holding di famiglia condivisa al 50% con il fratello Pietro. Il gruppo, con 250 milioni di fatturato e 80 milioni di margine operativo lordo, è cresciuto negli anni a colpi di acquisizioni e risulta oggi fra i principali attori privati nella gestione e nell'impiantistica dello smaltimento dei rifiuti. L'ultimo riassetto risale al 2008, quando i Colucci si sono separati dai Fabiani, soci di antica data, spartendo i diversi business del gruppo: ai Fabiani sono rimasti gli asset energetici e ai Colucci i servizi ambientali. Ora le attività del gruppo Unendo sono divise in due rami: rifiuti urbani e industriali. Sul fronte industriale c'è la candidata a quotazione, Waste Italia, leader italiana nella gestione dei rifiuti speciali non pericolosi. Waste Italia è partecipata al 32% dal fondo Synergo di Gianfilippo Cuneo e presieduta da Pietro Colucci, che è anche presidente di Assoambiente e controlla a titolo personale un'altra azienda quotata, Kinexia (ex Schiapparelli), impegnata nelle energie rinnovabili. Sul fronte dei rifiuti urbani c'è Daneco, ex Danieli e poi Montedison, specializzata nell'impiantistica per la selezione, il trattamento e la termovalorizzazione. Daneco ha appena presentato un'offerta formale per rilevare Greenvision, il ramo d'azienda più profittevole del gruppo Burani, a sua volta quotata in Borsa e controllata da Greenholding (80% Burani, 20% Mittel). "Unire le forze con Greenvision - spiega Pietro Colucci - ha senso perché Greenvision controlla Ladurner, una società gemella di Daneco nella progettazione e costruzione di impianti. La fusione ci permetterebbe di aumentare il nostro peso specifico in Italia e di competere meglio sul piano internazionale". Daneco, con 100 milioni di fatturato e 27 di margine operativo lordo, ha realizzato e gestisce una ventina di impianti di selezione e smaltimento in Italia, quattro centrali elettriche da biogas estratto dalle discariche ed è impegnata in vari progetti in Cina, in Moldavia, in Croazia e in Lituania, ma ha perso, insieme a Falck, la grande scommessa dei termovalorizzatori siciliani. "Non abbiamo condiviso, ovviamente, la scelta della Regione Sicilia di risolvere la concessione, ma ci dispiace osservare che dopo il blocco del nostro progetto non si è più mosso nulla e Palermo sta precipitando nell'emergenza", rileva Francesco Colucci. "Credo che il caso Campania abbia insegnato a tutti - commenta - a cosa porta l'immobilismo delle istituzioni". Malgrado la battuta d'arresto, Daneco ha forti prospettive di crescita, soprattutto dopo la recentissima riforma delle utility, che obbliga gli enti locali a cedere ai privati il controllo delle società miste di gestione dell'acqua, dei rifiuti e del trasporto locale su gomma. "Finora il pubblico occupava l'85 per cento del mercato e i privati dovevano competere per spartirsi la fetta rimanente, ma con la nuova legge la quota pubblica dovrà scendere sotto il 40% entro il 2013 e sotto il 30% entro il 2015", ragiona Colucci. E' chiaro che questa fetta aggiuntiva scatenerà una rivoluzione nel business dei servizi locali, attirando i colossi europei, in parte già attivi sul mercato italiano, finora poco liberalizzato. "Questa sarà per noi la sfida centrale dei prossimi anni", prevede Colucci. Una prospettiva non da poco, per un mercato che oggi vale complessivamente 40 miliardi di euro e occupa oltre 170mila addetti.

1 febbraio 2010

La casa del futuro? Sarà in legno

La casa del futuro? Sarà in legno. Un materiale leggero, veloce ed economico, capace di sopportare terremoti e incendi, comodo da lavorare come la plastica, resistente per millenni immerso nell'acqua. E non si tratta di copiare le tecniche costruttive americane, dove il 90% dell'edilizia residenziale è realizzata in legno. “La tecnologia americana delle case a telaio ha un rapporto costi-benefici molto interessante, ma non può reggere oltre i 3-4 piani”, spiega il presidente di Assolegno Paolo Ninatti. La novità che sta mettendo il turbo alle costruzioni in legno, invece, è tutta italiana e si chiama X-Lam: una specie di “supercompensato” sviluppato dall'Istituto per la valorizzazione del legno del Cnr nel quadro del progetto Sofie, il Sistema costruttivo Fiemme. “Sono pannelli che possono arrivare anche a 30 centimetri di spessore, realizzati incrociando assi di abete di due centimetri e incollandole assieme: con questi si costruiscono palazzi sempre più alti, dopo due anni di utilizzo si parla già di 14 piani”, specifica Ninatti. Il sistema, realizzato dalla Rasom Holz di Predazzo, in provincia di Trento, verrà utilizzato a Milano nell'ambito del progetto Social Main Street della Bicocca, promosso dalla Compagnia delle Opere. Per l'Italia si tratta di una novità assoluta, anche se metà della periferia di Londra è costituita da case in legno. “Qui è davvero difficile vendere edifici di questo tipo, la gente ha una paura atavica degli incendi e dei crolli, pensando che il legno sia meno resistente del calcestruzzo”, fa notare Ninatti. In realtà, gli edifici in legno possono essere molto più tosti del cemento: un palazzo di sette piani, interamente costruito in legno made in Italy, ha resistito senza fare un plissé a un test sismico dell'istituto Miki di Tokio, che ha simulato gli effetti del devastante terremoto di Kobe, di magnitudo 7,2. Grazie alla sua flessibilità. “Quando costruiamo in zona sismica con il legno, non dobbiamo fare nulla di diverso dal solito, mentre il calcestruzzo va armato con tonnellate di ferro”, commenta Ninatti. Un altro test, realizzato nel laboratorio dell'Ivalsa di Trento, ha dimostrato una resistenza al fuoco ben superiore a quella del cemento armato: l'incendio scatenato in una stanza, con temperature superiori ai mille gradi, ha intaccato le pareti interne, ma non si è propagato al resto della casa. Una casa in legno, pur bruciacchiata, resta in piedi, mentre una con le travi d'acciaio, colpita da un incendio, cede di schianto quando l'acciaio raggiunge una temperatura critica oltre la quale perde la capacità portante. Per di più, il legno è molto più leggero da trasportare, veloce da assemblare ed economico: un metro cubo di legno lamellare pesa meno di 500 chili, mentre uno di acciaio oltre 7.500. “Per costruire un edificio in calcestruzzo – precisa Ninatti - bisogna tenere aperto un cantiere almeno un anno e mezzo, con tutti gli azzardi del caso. Per il legno bastano 30 giorni e la costruzione è completamente a secco”. Questa è una delle ragioni della rapida crescita del suo utilizzo, anche in Italia, dove pure resta la Cenerentola dei materiali da costruzione. “In Germania il 20% degli edifici è di legno e in Francia il 15%, da noi non si va oltre lo 0,4%. Eppure – concede Ninatti – negli ultimi dieci anni il consumo pro capite di legno da costruzione è più che raddoppiato in Italia. L'industria della lavorazione sta crescendo moltissimo e al di là della crisi attuale ha grandi prospettive di sviluppo”. All'origine del boom ci sono anche i vantaggi ambientali. Il legno è il materiale eco-sostenibile per eccellenza: tagliando un albero maturo si creano le condizioni per farne crescere tre nuovi. Basta gestire le foreste in maniera oculata per ottenere tutto il legno di cui abbiamo bisogno senza danneggiare neanche un metro quadro di bosco. Anzi, rinnovando le foreste, si aumenta la loro capacità di assorbire anidride carbonica, il più diffuso gas serra. Grazie alla fotosintesi clorofilliana, l'albero assorbe CO2 ed emette ossigeno. In un metro cubo di legno, equivalente a 5 metri quadri di parete, sono imprigionati 900 metri cubi di CO2, che restano stoccati lì dentro per l'eternità, a meno che non venga bruciato naturalmente. Ma non c'è motivo di bruciarlo: a fine vita può essere tritato e riciclato all'infinito, evitando la combustione.

In Abruzzo vince il legno: è antisismico

La terra trema, il legno ondeggia ma non crolla. Non a caso in Abruzzo, dopo il disastro dello scorso aprile, di legno se n'è usato tantissimo. Le prime case di Onna, regalate dal Trentino e consegnate da Silvio Berlusconi a 94 famiglie il 15 settembre, sono di legno. Non si tratta di baracche provvisorie, come si tende a credere, ma di vere case che possono durare per la vita. I produttori di strutture in legno per l'edilizia hanno fatto a gara per offrire il loro know-how alla ricostruzione. Dalle imprese trentine, come il gruppo Perini con Cosbau e Damiani Legnami, alla modenese Sistem Costruzioni, hanno fornito centinaia di abitazioni ai terremotati in tempi brevissimi. “Per una palazzina di 3 piani con 29 appartamenti, ci bastano 12 giorni di cantiere per completare il grezzo e 80 giorni al massimo dal progetto alla consegna chiavi in mano”, spiega Emanuele Orsini, uno dei soci di Sistem Costruzioni. La realizzazione a secco, con pareti e solai in pannelli di legno a cinque strati incrociati, rende tutto più rapido. “Devo dirlo con orgoglio - racconta Orsini - siamo stati i primi a completare i lavori, tanto che Palazzo Chigi ci ha aumentato il lavoro, da 5 a 7 palazzine, con 200 appartamenti, nella cittadella di Cese, il nuovo quartiere della ricostruita L’Aquila”.