Pagine

28 giugno 2011

Auto elettrica: a Parigi con Pininfarina primo test di massa

La sfida è ambiziosa. Quattromila auto elettriche made in Italy per Autolib, il car sharing di Parigi, verranno realizzate nello stabilimento Pininfarina di Bairo Canavese, poco fuori Torino. Vincent Bolloré ha mobilitato tutto il suo gruppo per il progetto Autolib, con un investimento complessivo di 50 milioni di euro, e ora ha ricevuto il via libera dal consiglio comunale della capitale francese. La delibera, passata a larga maggioranza, ha assegnato al finanziere bretone la concessione di 700 stazioni di parcheggio e ricarica delle vetture, di cui 500 in superficie e 200 in garage sotterranei. Per le prime 236 stazioni, che dovranno essere operative in settembre, i cantieri stanno partendo.
Borne autolib
Le prime 250 vetture, già omologate, saranno in circolazione in ottobre. Il Comune di Parigi verserà una sovvenzione di 50mila euro per stazione nel 2011 e nel 2012, ricevendo in cambio 16,8 milioni di euro come contropartita per la concessione dei terreni. Nelle stesse ore, la Francia ha insignito Paolo Pininfarina, presidente del gruppo Pininfarina, del titolo di "personalità italiana dell'anno", per il suo contributo al successo di Autolib. Blue Car, l'auto elettrica disegnata da Pininfarina, sarà la protagonista assoluta di questo gigantesco programma di mobilità sostenibile, il più grande del mondo con un bacino d'utenza di quattro milioni di clienti, concepito per consegnare alla storia il secondo mandato del sindaco Bertrand Delanoë.
Repartition-des-stations-autolib
Per Bolloré è la scommessa industriale del futuro: i 50 milioni investiti in Autolib senza garanzie sono quelli che gli hanno fatto vincere la gara d'appalto, bruciando concorrenti ben più autorevoli in materia di reti di trasporti, come il consorzio Ratp-Sncf-Vinci-Avis (con dentro le ferrovie francesi) e il gruppo Veolia (che proponeva la Peugeot iOn). E' un grosso rischio, ma il finanziere bretone non scommette a fondo perduto. Nel suo feudo di Finistère ha appena ampliato la produzione di batterie ai polimeri di litio-metallo, una tecnologia alternativa rispetto agli ioni di litio utilizzati comunemente, in grado di memorizzare fino a cinque volte l'energia delle altre e quindi di aumentare notevolmente l'autonomia dei veicoli elettrici. Bolloré la sta sperimentando da dieci anni con la sua società Batscap (partecipata da Edf al 20%) e produce già 7500 batterie all'anno, in due stabilimenti in Bretagna e in Québec. Ora nella fabbrica di Ergué-Gabéric, finanziata con un prestito di 130 milioni dalla Banca Europea degli Investimenti e di 50 dallo Stato francese, ne produrrà altre 15mila, proprio per alimentare le Blue Car destinate al progetto Autolib.
La proposta avanzata da Bolloré a metà giugno, di acquisire il 25% di Pininfarina, con un investimento di 30 milioni, rientra in questo disegno, su cui il finanziere bretone ha puntato complessivamente un miliardo e mezzo di euro. Autolib darà un'enorme visibilità alla Blue Car e se la compatta torinese sarà un successo, l'ultimo arrivato nel mondo dell'auto elettrica potrà dire di avere in mano la tecnologia vincente per il futuro. "Quel che stiamo sviluppando qui non potremmo andare a farlo in Cina o in India e sarà molto importante per il nostro avvenire", ha detto Bolloré posando la prima pietra della sua nuova fabbrica. Ma la scommessa di Autolib, come detto, presenta i suoi rischi. In base all'esperienza di altri servizi analoghi, i costi d'esercizio sono stimati sugli 80 milioni di euro l'anno e i ricavi sui 95 milioni. Per arrivare a un equilibrio finanziario, ci vorrebbero 220mila abbonati per tremila veicoli, cioè 75 abbonati per ogni veicolo. Nei sistemi di car sharing già sperimentati, di solito non si va oltre i 10 abbonati per veicolo. D'altra parte, la platea di utenti potenziali è molto importante: il 58% dei parigini, oltre 2 milioni di persone, non hanno la macchina e il 61% ha dichiarato in un recente sondaggio il suo interesse ad abbonarsi. Da quest'autunno si vedrà se Bolloré stavolta ha scommesso giusto.

24 giugno 2011

Ortis: archiviato il nucleare, ci vuole la scossa

Sgombrato il campo dal futuro nucleare dell'Italia, il sistema elettrico ha bisogno della scossa. "Bisogna trovare un migliore equilibrio delle fonti, ma senza penalizzare le tasche dei consumatori", commenta Alessandro Ortis, ex presidente dell'Authorità per l'Energia.

Come dire la quadratura del cerchio...

"Non c'è niente di troppo complicato, basta applicare le regole che abbiamo ripetuto per tanti anni. Le leve da manovrare sono cinque: l'efficienza energetica, lo sviluppo delle reti, le fonti rinnovabili, il carbone pulito e il gas, che probabilmente farà la parte del leone per rimpiazzare il nucleare in Europa".

Vediamo nel dettaglio.

"L'efficienza energetica è la leva più virtuosa, perché dà risultati immediati, fa bene alle tasche dei cittadini, alla bilancia energetica del Paese e all'ambiente. Bisogna manovrarla tutti assieme con un uso più razionale dell'energia, sfruttando anche i meccanismi di mercato, come i certificati bianchi".

Parliamo di reti elettriche.

"Lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e distribuzione è importantissimo se si vuole far crescere le fonti rinnovabili, che sono distribuite sul territorio e per definizione incostanti. Perciò importanti anche i sistemi di accumulo, come i pompaggi, sfruttando i bacini abbandonati, soprattutto nel Sud".

E le fonti rinnovabili?

"Irrinunciabili, stanno già crescendo tantissimo ma pesano ancora troppo sulle tasche dei consumatori, perciò bisogna stare attenti a usare gli incentivi in modo più efficiente. Per attenuare l'onere sulle bollette ho già suggerito tante volte di togliere l'aggravio dell'Iva sugli incentivi e trasferirne almeno parte sulla fiscalità generale. Sarebbe più equo perché ognuno pagherebbe secondo le sue possibilità e non secondo i suoi consumi. Se invece si grava solo sulle bollette, può capitare che una famiglia povera, ma numerosa, sia più penalizzata del single abbiente, che consuma poca energia".

Il carbone?

"Associato alla cattura e al sequestro della CO2, il carbone è una fonte da non trascurare, che noi sfruttiamo pochissimo rispetto agli altri Paesi europei, e invece contribuirebbe a diversificare le importazioni di energia in Italia".

E il gas?

"Nel medio termine sarà il grande vincente del dopo-nucleare, sia in Italia che negli altri Paesi d'Europa dove si vogliono spegnere i reattori. Ma è una fonte preziosa e per non appesantire troppo le bollette bisognerebbe rendere più efficiente il mercato, introducendo maggiore concorrenza nel sistema. Snam Rete Gas dovrebbe diventare indipendente e bisognerebbe costruire altri impianti di rigassificazione per approfittare dei prezzi più favorevoli del gas naturale liquefatto, trasportato via nave, che sta diventando sempre più importante. Invece noi siamo ancora troppo legati, attraverso i gasdotti, a onerosi contratti di lungo termine, stipulati con pochi Paesi fornitori. Una dipendenza molto pericolosa, che dobbiamo attenuare".


20 giugno 2011

Gas e carbone in gara per riempire lo spazio atomico

La battuta migliore sullo scenario post-atomo l'ha fatta il capo economista dell'International Energy Agency, Fatih Birol: "Il gas è stato fortunato, perché tutti i suoi concorrenti hanno avuto qualche problema". Ma nella prospettiva al 2030, la battaglia è ancora aperta. Fonti rinnovabili e combustibili fossili si contendono le spoglie del defunto. Da qui ad allora, nel sistema elettrico italiano mancheranno all'appello circa 100 terawattora di energia, il 25% della produzione, che dovevano arrivare da fonte nucleare, con otto reattori da costruire nei prossimi vent'anni, secondo i piani del governo. Su quei 100 terawattora che ballano, al netto dell'introduzione di misure importanti di efficienza energetica, hanno messo gli occhi in tanti. L'unica certezza è che in ogni caso li pagheremo di più.

"La quota di nucleare che verrà a mancare, secondo le nostre previsioni, sarà ripianata dalle fonti fossili, non dalle rinnovabili. E in particolare dal gas", spiega Davide Tabarelli di NomismaEnergia. Una previsione largamente condivisa fra gli analisti, compreso Birol, alla luce delle riserve di gas non convenzionale a cui oggi è possibile attingere. Di conseguenza, il primo vincitore della partita post-nucleare sarà l'Eni di Paolo Scaroni. L'aumento dei costi, d'altra parte, sembra inevitabile. Non è difficile dimostrare il forte legame fra le quotazioni del greggio e l'andamento delle bollette in Italia, con le note conseguenze negative per il portafoglio di consumatori e imprese. I Paesi con una maggiore esposizione al nucleare mostrano invece una maggiore tenuta dei prezzi, proprio per la minor dipendenza del loro parco di generazione dalle quotazioni del petrolio. "Basta mettere a confronto le tariffe elettriche dei Paesi che ottengono almeno il 25% della produzione da nucleare con le nostre e calcolare la differenza. Dalle nostre simulazioni, emerge che se anche in Italia si producesse il 25% da nucleare, le tariffe sarebbero inferiori del 16% per il settore industriale e del 20% per quello residenziale. In caso di produzione nucleare, dunque, il risparmio potenziale per il sistema elettrico italiano al 2030 si aggirerebbe sui 13 miliardi all'anno", precisa Tabarelli. Tolto il nucleare, questi benefici si tramuteranno in costi.

La Germania, che il vantaggio del nucleare al 25% della produzione elettrica ce l'aveva già, è il laboratorio dove queste dinamiche oggi si possono toccare con mano. "Le prime ricadute dello stop alle centrali tedesche più vecchie, che probabilmente resteranno spente, sono i rincari sul mercato dell'energia e il potenziamento delle centrali a carbone (già al 45% della produzione elettrica tedesca), con relativo aumento delle emissioni di CO2", spiega Simone Mori, responsabile regolamentazione e ambiente dell'Enel e vicepresidente di Assoelettrica. Per adesso, quindi, le fonti fossili sono in prima linea. Ma in Italia, dove l'economico carbone copre solo il 13% della domanda, è tutto più complicato: la riconversione a carbone "pulito" della centrale a olio di Porto Tolle per adesso è bloccata da una sentenza del Consiglio di Stato e rischia di essere rimandata per mesi. L'Enel di Fulvio Conti, in compenso, ha evitato ripercussioni in Borsa controbilanciando la débacle nucleare con la sua massiccia presenza nelle fonti rinnovabili, tramite Enel Green Power.

Sul fronte dell'energia pulita, il no all'atomo risveglia grandi speranze. "La consapevolezza che il nucleare non potrà aiutare l'Italia a centrare i target di riduzione delle emissioni di CO2 al 2020 ora va tradotta in una revisione del decreto che ha bloccato lo sviluppo delle rinnovabili, con una definizione chiara degli incentivi in tempi brevi", chiede il presidente dell'Associazione produttori energie rinnovabili, Agostino Re Rebaudengo. Per Simone Togni, presidente dell'Associazione nazionale energia del vento, tocca alle rinnovabili rimpiazzare il nucleare, non al gas: "Quei 100 terawattora da ripianare al 2030 potranno essere agevolmente coperti con le fonti verdi, assegnando il 90% in parti uguali a eolico, biomasse, idroelettrico e il resto alle altre fonti, compreso il fotovoltaico", propone Togni. In pratica, si tratterebbe di coprire con le fonti rinnovabili il 50% della nostra produzione elettrica da qui al 2030. Ma se già per coprire un quarto della produzione italiana, gli incentivi ci costeranno 10-12 miliardi all'anno in bolletta, quanto ci costerebbe coprirne la metà?

"Sono bei sogni", replica Tabarelli, numeri alla mano. Nel 2010 le rinnovabili hanno coperto il 23,4% della produzione elettrica italiana: 70 terawattora su 300 complessivi. Nelle previsioni di NomismaEnergia, al 2030 queste fonti potrebbero arrivare, a fatica, a coprire il 28% della domanda, 121 terawattora su 438 complessivi, con l'idroelettrico e il geotermico costanti (dati i limiti oggettivi delle risorse), l'eolico quintuplicato, le biomasse raddoppiate, il fotovoltaico moltiplicato per otto. "E' impensabile uno sviluppo più estremo - rileva Tabarelli - a meno di non credere nelle favole". O di aumentare a dismisura la bolletta elettrica degli italiani.


14 giugno 2011

Smart grid: servono 150 miliardi di euro da qui al 2020

Far crescere le reti per dare fiato al vento. Renderle più intelligenti per consentire il bilanciamento dei flussi elettrici provenienti da fonti per loro stessa natura incostanti, parcellizzate e lontane dai centri di consumo. Questa è la sfida a cui deve rispondere l'Europa, che al 2020 si troverà a gestire un 20% di produzione elettrica da fonti rinnovabili, ma forse anche di più, a giudicare dai tassi di crescita attuali.

Il Mare del Nord, con il fortissimo sviluppo dell'eolico, è al centro di questa sfida. Qui la rivoluzione delle reti intelligenti è già partita, con un accordo fra i nove Paesi che vi si affacciano per costruire la North Sea Offshore Grid, inserita da Bruxelles nelle prime sei priorità europee in materia d'infrastrutture energetiche. La super-rete, che comporterà un investimento stimato in 30 miliardi di euro, dovrà connettere in un unico sistema i campi eolici eolici offshore, che stanno sorgendo come funghi lungo le coste della Germania e del Regno Unito, con gli impianti che sfruttano le maree in Belgio e Danimarca, le centrali idroelettriche norvegesi e la produzione solare continentale, per poi distribuire tutta questa energia ai consumatori. Le prime gare sono in corso: l'Authority britannica ha messo in palio il sistema di trasporto, da oltre 2 miliardi di euro, che collegherà sei impianti eolici offshore alla rete nazionale. Altre commesse sono già state assegnate, tra cui anche una da 250 milioni all'italiana Prysmian, per il collegamento di impianti eolici offshore alla terraferma tedesca. Ma il piano Ue per le infrastrutture di rete prioritarie va ben al di là di questo.

Bruxelles stima che per centrare gli obiettivi comunitari sulle fonti rinnovabili dovranno essere realizzati o ammodernati nel prossimo decennio 50mila chilometri di reti elettriche e dovrà essere realizzata una super-grid ad alto voltaggio in grado di trasportare l'energia attraverso tutto il continente, bilanciando l'eolico del Nord con il solare del Sud. La rete elettrica, oggi, ha una struttura prevalentemente nazionale, con interconnessioni limitate ai confini. In più, è stata costruita su un modello a stella e a senso unico: centrali elettriche a produzione costante e programmabile da cui partono, come bracci, le linee di alta tensione verso i consumatori. Ora, invece, il flusso dell'energia elettrica non è più unidirezionale, dalla centrale all'utente: con i pannelli solari su ogni tetto, è l'utente stesso a fornire energia alla rete. I consumi, a loro volta, si evolvono: mentre ora i picchi della domanda sono concentrati nelle ore diurne della produzione industriale, con la diffusione dell'auto elettrica potrebbero spostarsi verso le ore notturne e con l'avanzare dei cambiamenti climatici il raffrescamento diventerà sempre più necessario, spostando i picchi stagionali dall'inverno all'estate. L'intelligenza delle reti sarà lo strumento principale per gestire questa complessità, con dei sensori nei punti nodali, che consentano il bilanciamento automatico del sistema, migliorando al tempo stesso il monitoraggio dei consumi, con conseguenti risparmi. Le nuove reti, inoltre, dovranno essere costruite su un modello completamente diverso dalle vecchie: dovranno assomigliare a una rete con diversi nodi più che a una stella. E la revisione comporterà costi notevoli.

Per realizzare una smart grid europea, più intelligente, magliata e interattiva di quella attuale, Bruxelles ha stimato un investimento complessivo di 154 miliardi di euro al 2020, in uno studio comunitario curato da Cambridge Econometrics. Gli investimenti serviranno alle reti dedicate all'eolico offshore per 32,8 miliardi di euro, alle interconnessioni fra gli Stati membri dell'Ue per 27,7 miliardi e ai necessari adeguamenti nei centri di produzione a garanzia dell'affidabilità del sistema per 17,9 miliardi. Al 2030, a seconda della crescita delle fonti rinnovabili nel prossimo decennio, l'investimento necessario potrebbe salire rispettivamente a 120,2 miliardi di euro nell'ipotesi di sviluppo minimo e a 253,8 miliardi nell'ipotesi di massima. Quanto al fabbisogno di nuove interconnessioni transfrontaliere, oltre a quelle già programmate, lo studio le quantifica in 4.812 megawatt al 2020 e 8.245 megawatt al 2030.

Per l'Italia, al 2020 si stima un investimento di 1,1 miliardi per le reti eoliche offshore, di 1,5 miliardi per le interconnessioni transfrontaliere e di una cifra analoga al 2030. Nello scenario di massima al 2030 servirebbero invece 3,15 miliardi per gli ulteriori investimenti nella generazione. Ma il vero nodo, secondo Aper, è quello delle autorizzazioni. "Gli investimenti, qui, sono già in programma nel piano di Terna, ma non si riesce a realizzare le linee per le lentezze delle Regioni", spiega Fabrizio Tortora, vicepresidente di Aper. "Ci sono campi eolici, ad esempio in Campania, che funzionano a mezzo servizio perché manca 1 chilometro e mezzo di linea aerea", denuncia Tortora. Terna chiede di realizzarla da 8 mesi, ma non riesce a ottenere l'autorizzazione.


13 giugno 2011

Maxi-turbine da fantascienza per catturare il vento del mare

L'eolico offshore pensa in grande. Turbine da 6 megawatt sono ormai già in uso per le installazioni in mare e il mercato punta deciso verso i 10 megawatt, oltre il triplo delle pale normalmente installate oggi a terra. Aerogenerator X, una turbina da 10 megawatt di forma radicalmente nuova e dal diametro totale di 275 metri, è stata ingegnerizzata dalla britannica Arup e inizierà ad essere prodotta dal 2013-2014, per iniziativa di un consorzio che comprende il governo di Londra, diverse università britanniche e una serie di grandi nomi dell'industria come Caterpillar, Edf, E.on, RollsRoyce e Shell. Il modello concorrente, Britannia, sempre da 10 megawatt, assomiglia molto di più a ai generatori attuali, ad asse orizzontale, ed è stato progettato dall'americana Clipper: alto 180 metri, con pale da 72 metri, sarà ancorato direttamente sul fondo del mare, a differenza dell'Aerogenrator X che poggerà su di una piattaforma semi-sommersa simile a quelle usate per l'industria petrolifera. Tutte e due cercano di risolvere un problema di costi: considerando che tirare su una pala in mare costa dieci volte tanto rispetto ai campi eolici di terra, aumentando la potenza della turbina si riducono le differenze. La norvegese Sway, invece, affronta un'altra questione, molto sentita in Italia: per superare la difficoltà di collocare campi eolici su fondali profondi, la sua nuova turbina sarà galleggiante come una bottiglia mezza piena, grazie a una torre immersa per cento metri e riempita di zavorra, ancorata sul fondo del mare.

Questi prototipi e altri ancora rappresentano il futuro dell'eolico, a giudicare dalla rapidità con cui cresce l'offshore, ultimo arrivato sul mercato del vento, praticamente inesistente fino al 2007. In Europa, nel 2010 sono state installate 308 nuove turbine in mare, il 51% in più rispetto al 2009, per un totale di 883 megawatt distribuiti su nove parchi in 5 Paesi europei, tutti affacciati sul Mare del Nord o sul Baltico. Gli investimenti complessivi si sono aggirati sui 2,6 miliardi di euro. I dati 2010 portano la capacità eolica offshore europea a 2.964 megawatt. Per il 2011, l'European Wind Energy Association prevede nuove installazioni offshore per una capacità compresa tra i 1.000 e i 1.500 megawatt. In Italia, invece, i vari tentativi di installare turbine offshore si sono scontrati con le resistenze locali: famoso è il caso del parco progettato da Effeventi al largo delle coste molisane, bloccato a suo tempo da Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture, e mai più decollato.

Per ora il Paese leader è la Gran Bretagna, con una capacità di 1.341 megawatt, seguita da Danimarca e Olanda. E proprio dal Regno Unito ci viene una previsione di crescita stratosferica sul medio periodo: di qui al 2050 la capacità eolica offshore mondiale aumenterà fino a 1.150 gigawatt, secondo il centro studi governativo Carbon Trust, con ritmi di crescita media del 10% l'anno nel periodo considerato. Il segreto di questo sviluppo sta soprattutto nell'estensione dei parchi progettati, grazie ai bassi fondali comuni nel Mare del Nord: il Dogger Bank, ad esempio, è un colossale banco sabbioso che si estende per 18mila chilometri quadrati, a cento chilometri delle coste inglesi, con profondità fra i 15 e i 30 metri, su cui si sta costruendo un gigantesco parco eolico che arriverà in una prima fase a una potenza di 9.000 megawatt e in una seconda fase a 13mila (oltre il doppio di tutto l'installato italiano). L'appalto è stato vinto dal consorzio Forewind, costituito da Sse, Rwe, Statoil e Statkraft, attraverso una gara bandita dall'agenzia demaniale britannica Crown Estate. Il banco è tutto ciò che rimane di un grande territorio conosciuto come Doggerland, sommerso dopo l'ultima glaciazione, ma non è l'unico caso: formazioni geologiche analoghe sono sparse in tutto il Mare del Nord e potranno essere sfruttate in base al piano eolico del governo di Londra, che punta a un totale di 32.000 megawatt, per coprire un quarto della domanda elettrica britannica.


10 giugno 2011

Per l'eolico italiano le pale restano ferme

Sarà un anno d'oro per il vento, ma non in Italia. Nel 2011 saranno avviati a livello mondiale nuovi impianti eolici per 45 gigawatt, un record assoluto, che porterà il totale in funzione a 240 gigawatt, coprendo il 2,5% della domanda elettrica globale, con picchi in Europa del 9% in Germania, 16% in Spagna o 21% in Danimarca. L'energia del vento, quindi, comincia a diventare una forza molto rilevante nella produzione di energia, soprattutto in Europa, in base alle previsioni della World Wind Energy Association.

In Italia, invece, il taglio degli incentivi ha quasi completamente paralizzato il mercato: nei primi sei mesi dell'anno è stato inaugurato solo un campo eolico, quello realizzato da Falck in Sardegna, un progetto che era già in ballo da otto anni. "Ora attendiamo i decreti attuativi della riforma Romani, che dovrebbero uscire a settembre, ma c'è il rischio che l'incertezza normativa blocchi qualsiasi nuovo progetto: è probabile che prima di quella data non si tirerà più su una pala", spiega Simone Togni, nuovo presidente dell'Associazione nazionale energia del vento. Il mercato eolico italiano, fino all'anno scorso uno dei più floridi del mondo, quest'anno verrà dunque scalzato dal sesto posto nella graduatoria globale, con l'avanzata della Francia e soprattutto del Regno Unito. La flessione era già cominciata nell'ultima parte del 2010: l'anno si era concluso in calo rispetto al 2009, per la prima volta nella storia dell'eolico italiano, con 900 megawatt installati contro i 1200 previsti, a causa del primo taglio all'incentivazione. Quest'anno, poi, il crollo: in tutto fino a giugno sono stati realizzati 280 megawatt di pale, contro gli oltre 500 degli ultimi anni nello stesso periodo. Un taglio secco del 50%, che rischia di farci perdere il treno per centrare gli obiettivi 20-20-20.

"Non siamo neanche a metà della strada, visto che abbiamo appena superato i 6000 megawatt installati e l'obiettivo governativo minimo concordato con Bruxelles è a 13.800 megawatt, ma noi contavamo di realizzare un potenziale anche superiore, andando avanti al ritmo del 2009", precisa Togni. Nel frattempo, il target per il fotovoltaico è stato innalzato da 8000 a 23mila megawatt, con un esborso complessivo previsto di 7 miliardi di incentivi al 2020. "Per l'eolico, non raggiungeremo un miliardo di incentivi al 20202", fa notare Togni. In pratica, aprendo i cordoni della borsa per il fotovoltaico, il legislatore ha completamente dimenticato l'energia del vento, a fronte di una produzione più che doppia, che già oggi con meno megawatt installati copre il 2,5% della domanda italiana e il 30% della produzione da fonti rinnovabili. Come noto, infatti, l'eolico è la fonte più efficiente e più competitiva fra le "nuove" rinnovabili, cioè escludendo l'idroelettrico.

"Niente di male a finanziare abbondantemente tutte le fonti rinnovabili - specifica Togni - ma ci vuole anche un certo equilibrio: oggi gli incentivi all'eolico sono in rapporto di 1 a 5 rispetto al fotovoltaico". I tagli del decreto Romani, per di più, sono retroattivi sull'eolico e hanno mandato tecnicamente in default tutti gli impianti esistenti, per cui rischiano di distruggere una filiera già consolidata, con quasi 30mila occupati e un giro d'affari di 3 miliardi e 700 milioni l'anno, senza contare il valore dell'energia prodotta. Le imprese del settore non possono ripagare l'investimento con un ritorno di 150 euro a megawattora, derivato dal taglio del 22% agli incentivi, per cui non emettono più dividendi e gli investitori ci stanno rimettendo di tasca propria.

Per quanto riguarda gli impianti futuri, invece, è chiaro che le banche non finanzieranno nulla finché non si conoscerà il nuovo modello d'incentivazione (che cambierà parecchio rispetto all'attuale, introducendo il sistema delle aste competitive) e le nuove tariffe. "A breve formuleremo al governo una proposta unitaria insieme alle altre fonti rinnovabili dell'Aper, in cui chiederemo l'applicazione dei meccanismi di asta solo per gli impianti sopra i 45-50 megawatt e sotto questa dimensione una tariffa incentivante non inferiore ai 160 euro a megawattora, che però dovrebbe essere applicata anche ai vecchi impianti, altrimenti il settore resterà in default". In pratica, i signori del vento chiedono una riduzione del taglio dal 22 al 15%, tenendo anche conto del fatto che gli incentivi all'eolico durano solo 15 anni contro i 20 del fotovoltaico e quindi molti vecchi impianti stanno uscendo dal periodo d'incentivazione. Da qui a settembre, la discussione è aperta.


9 giugno 2011

La Cina è in pole position nell'energia del vento

Turbine sempre più potenti, nuove tecnologie, costi in diminuzione. E la Cina che costruisce senza sosta. Per l'eolico mondiale è tempo di svolta: la forza del vento può fare ormai concorrenza alle fonti fossili. Nel 2010, malgrado la crescita frenata dalla crisi del credito, l'eolico ha fatto girare 40 miliardi di euro e ha dato lavoro a 670mila persone, triplicando il numero degli addetti rispetto a cinque anni fa. Il 2011 andrà ancora meglio e sul medio termine la World Wind Energy Association (sempre molto prudenziale nelle stime) prevede una capacità eolica mondiale di 600 gigawatt al 2015 e di 1.500 gigawatt al 2020, quindi superiore sia all'idroelettrico che al nucleare.

Quest'anno le nuove turbine installate dovrebbero arrivare a 45 gigawatt, rispetto ai 36 gigawatt dell'anno scorso, che hanno portato la potenza eolica mondiale a sfiorare i 200 gigawatt complessivi. Di questi 36, la metà sono stati realizzati in Cina, che in un solo anno ha avviato una quantità di pale equivalente a tre volte l'installato complessivo italiano. Il colosso asiatico è ora il primo Paese eolico del mondo con 45 gigawatt, seguito dagli Usa a quota 40, Germania a 27 e Spagna a 20. Facendo le debite proporzioni, però, è la Germania che vince la gara, unico degli otto grandi Paesi industrializzati del mondo a coprire il 9% del suo gigantesco fabbisogno elettrico con la forza del vento. La Spagna riesce a coprire ancora di più, ma su un fabbisogno molto più modesto: in marzo, per la prima volta nella storia energetica spagnola, l'eolico è risultato la prima fonte di generazione, coprendo il 21% della domanda.

In prospettiva, il risveglio del gigante asiatico è destinato a cambiare parecchio il mercato: nel 2010, per la prima volta, oltre la metà dei nuovi parchi è stata avviata in Asia (54%), con l'Europa al 27% e il Nord America al 16%. Questo spingerà molto i costruttori cinesi, che infatti si stanno espandendo in Europa, a partire dalla Grecia: Sinovel - primo fabbricante di turbine cinese e secondo o terzo al mondo, dopo la danese Vestas e testa a testa con l'americana General Electric - ha appena firmato con l'azienda elettrica di Stato ellenica Public Power Corporation un accordo strategico che prevede la realizzazione di parchi eolici fino a 300 megawatt e di uno stabilimento produttivo di aerogneratori.

La competizione tra i costruttori per entrare nei mercati emergenti - dall'Egitto all'Argentina - è ormai al calor bianco. Ma sarà sulla capacità tecnologica dei singoli che si giocherà la leadership del futuro. La dimensione delle turbine, rapportata al costo, sarà determinante per prevalere in questa gara. Le turbine più grandi attualmente installate onshore sono di 3 megawatt e quindi ce ne vogliono 180 per raggiungere una potenza equivalente a quella di una tipica centrale a gas: un impatto di non poco conto per il territorio. In Italia, ad esempio, difficilmente si può riuscire a installare più di 60-70 pale in una volta. Se le turbine fossero più grandi o più potenti, ovviamente ne basterebbero di meno per produrre la stessa quantità di energia elettrica, con vantaggi evidenti nelle procedure autorizzative e nei conflitti con la popolazione locale. E' in questa direzione che puntano tutti i costruttori. Il discorso vale ancora di più per il mercato offshore, di cui parliamo qui accanto.

La gara è aperta e il premio è il dominio di un mercato che dovrebbe raddoppiare nel giro di 3 anni. Ma non è detto che vinca un costruttore occidentale. L'esperienza di Vestas o di General Electric è incontrovertibile, ma si tratta di aziende ormai consolidate, che devono confrontarsi con la straordinaria agilità dei concorrenti cinesi. Basta paragonare il numero di dipendenti, per capire dove sta il problema: Vestas ne ha 23mila contro i 2000 di Sinovel, che ormai le sta con il fiato sul collo. E' chiaro che i costi di produzione non saranno mai gli stessi. Non a caso, nella top ten delle aziende produttrici, le prime due cinesi, Sinovel (seconda o terza) e Goldwind (sesta) hanno già scavalcato le due rivali tedesche, Enercon (quarta) e Siemens Wind Power (ottava). Per non parlare di REpower, terzo produttore tedesco e decimo della top ten, che l'anno scorso è stato direttamente acquisito dall'indiana Suzlon, a sua volta in fortissima ascesa, al quinto posto in graduatoria. La battaglia, quindi, si sposta sul valore aggiunto dell'innovazione. Ma anche qui, gli asiatici ormai si stanno attrezzando. Sarà un bel match.


6 giugno 2011

Acqua pubblica o privata? Non è la privatizzazione la causa dei rincari

Acqua pubblica o privata? Giocando sull'equivoco tra la materia prima acqua, che ovviamente appartiene per legge al demanio pubblico, e la gestione più o meno appropriata delle infrastrutture che la trasportano, la puliscono e la fanno uscire dai rubinettti, si può arrivare molto lontano. Ad esempio al referendum del 12-13 giugno, dove si decideranno i destini delle ex-municipalizzate italiane, molte quotate in Borsa, che si occupano di acquedotti. Ne parleranno oggi a Roma InConTra tutti i principali attori del mercato, dal presidente di Federutility Roberto Bazzano all'amministratore delegato di F2i Vito Gamberale, dall'ex presidente dell'Autorità elettrica Sandro Ortis al docente di Politica Economica Antonio Massarutto, autore di 'Privati dell'acqua?'. "Ci dicono che è la privatizzazione del bene comune a far aumentare i prezzi: via i privati, via il profitto e l'acqua tornerà a sgorgare gratis", s'interroga Massarutto. In realtà, "non è la privatizzazione a far aumentare i prezzi, ma la defiscalizzazione della spesa". "Pagavamo anche prima - sostiene Massarutto - ma non ce ne accorgevamo. E quel che non pagavamo, lo stavamo impacchettando perché lo pagassero i nostri figli. Con le eventuali gare i prezzi potranno semmai scendere, rispetto agli incrementi già programmati".
Il vero problema, però, è un altro: il sistema di distribuzione in Italia fa acqua da tutte le parti e in vaste aree del Sud i Comuni non sono nemmeno in grado di farla uscire dai rubinetti. I livelli di dispersione media si aggirano attorno al 35% dell'acqua immessa nelle tubature, con picchi del 50% a Sud, e ci vorrebbero circa 50 miliardi per riportarci a livelli di dispersione accettabili, attorno al 20%. "Qualunque sia l'esito del referendum, il 14 giugno i problemi resteranno quelli di sempre: un settore che fa una fatica enorme a mobilitare le risorse necessarie per adeguarsi a standard moderni, soprattutto sul versante della depurazione. Tutti parlano di aggettivi (pubblico vs. privato), e invece si dovrebbe parlare di sostantivi: aziende, ossia soggetti guidati da una razionalità economica, e non enti erogatori privi di vincolo di bilancio, come le gestioni dell'acqua sono state per decenni".

5 giugno 2011

Acqua pubblica o privata? Nell'idroelettrico siamo già oltre

Acqua pubblica o privata? Nell'idroelettrico abbiamo già superato il dilemma. Tanto che ci siamo meritati una lettera di messa in mora da Bruxelles, il primo passo della procedura d'infrazione, sulla proroga delle concessioni - senza gara - agli operatori già presenti sul territorio.
Con quasi 30 gigawatt di potenza installata, l'idroelettrico è uno dei pilastri fondamentali del sistema energetico italiano. Enel è il principale operatore a godere i frutti di questa straordinaria risorsa naturale, con circa metà della capacità disponibile, ma anche Edison, A2A, Acea, Hera e Iren la sfruttano con dighe e turbine in varie regioni d'Italia. Con la finanziaria 2011, il governo ha esteso di cinque anni i diritti di sfruttamento dei bacini idrici per gli operatori tradizionali e in un pugno di province dell'Alta Italia di sette anni aggiuntivi (totale: dodici anni), a patto che le società elettriche cedano le dighe a società miste controllate dalle province. In pratica, così si ripubblicizza il settore. E già i primi effetti si vedono: in Valtellina, patria di Giulio Tremonti, dove si concentra il 13% dell'idroelettrico nazionale, le concessioni sono scadute da poco, ma sono state automaticamente prorogate a Edison, A2A ed Enel, senza gare.
L'Antitrust aveva criticato questo provvedimento, segnalando le distorsioni. Ma la legge - pur essendo stata già dichiarata incostituzionale un'analoga disposizione di proroga contenuta nella finanziaria 2006 - è rimasta tale e quale. Così ora è intervenuto il commissario europeo al Mercato Interno, Michel Barnier, con una contestazione ufficiale: perché l'Italia ha prorogato le concessioni, invece di bandire nuove gare, come previsto dalla normativa varata nel 2005? Proprio grazie a quella legge il nostro Paese aveva fatto chiudere la procedura d'infrazione avviata da Bruxelles nel 2002. Stavolta sarà più difficile convincere Barnier, anche se al ministero dello Sviluppo Economico è stata già formulata la risposta, inviata a fine maggio, con cui si sostiene la necessità di garantire il recupero degli investimenti da parte del concessionario uscente. Dopo otto anni di contestazioni, però, stavolta l'Ue potrebbe decidere di andare fino in fondo.
La messa in mora di Barnier va a rafforzare il parere dell'Antitrust di Antonio Catricalà, secondo cui "il meccanismo delle proroghe per le concessioni nel settore idroelettrico rischia di avere effetti distorsivi della concorrenza". Quello che piace di meno al garante è la super-proroga limitata a Como, Sondrio, Brescia, Verbania e Belluno, per le società elettriche disposte a cedere le centrali alle province: un dispositivo che "attraverso il meccanismo delle società miste, risulta fortemente discriminatorio tra operatori localizzati in diversi contesti geografici, con effetti distorsivi e restrittivi della concorrenza in quanto potrebbe rintrodurre fittiziamente una preferenza per il concessionario uscente e gli enti locali". Su questo punto ha protestato anche il Partito Democratico, che nel caso dell'idroelettrico si è schierato contro l'acqua pubblica, in opposizione ai deputati della Lega, autori del provvedimento: "Di fatto nella produzione di energia il governo vuole ritornare alla proprietà pubblica degli impianti, visto che le società a proprietà maggioritaria degli enti pubblici locali potranno godere degli affidamenti diretti da parte degli stessi enti pubblici".
La ri-pubblicizzazione dell'idroelettrico, intanto, procede spedita: a Bolzano, la Provincia autonoma ha da poco conquistato definitivamente il controllo dell'idroelettrico in Alto Adige, affidando 27 delle 28 grandi derivazioni prima in possesso di Enel e Edison alla sua controllata Sel. Sarà questo, se rimane in vigore la legge contestata da Bruxelles, il destino di tutto l'idroelettrico italiano, che copre oltre un quinto della domanda energetica del Paese ed è considerato dagli operatori una risorsa preziosissima, capace di soddisfare rapidamente le punte di domanda.

3 giugno 2011

Fonti rinnovabili sugli scudi dopo la scelta di Berlino

Rinnovabili sugli scudi dopo gli ultimi sviluppi sul nucleare in Europa. La decisione dei governi di Berlino e di Berna di spegnere progressivamente tutti i propri reattori ha messo il turbo ai titoli delle fonti pulite, con in testa, in Italia, Enel Green Power, Falck Renewables e Kerself. Il solare, l'eolico, l'idrico, le biomasse, ma anche i sistemi clean-tech, che favoriscono l'efficienza energetica e il risparmio dei consumi, sono diventati ancora più attraenti dopo Fukushima, tanto che lo European Renewable Energy Council ha lanciato la sfida per portare al 45%, entro il 2030, la quota di energia prodotta in Europa da fonti pulite. Oggi l'obiettivo Ue è del 20% entro il 2020, ma è già in discussione a Bruxelles l'ipotesi di alzare il target al 30%, visto l'andamento positivo in questi anni.

Resta il fatto che la scelta dei tedeschi e la frenata generale del nucleare in Europa, compresa l'Italia, sarà molto costosa per i contribuenti e per i consumatori di energia. E' chiaro che non tutta la capacità produttiva persa nel nucleare sarà sostituita con le rinnovabili. Ma anche se la gran parte verrà rimpiazzata con il gas e il carbone, un massiccio ricorso alle fonti pulite comporterà comunque un esborso di non poco conto in termini di incentivi statali, visto che le fonti rinnovabili hanno ancora bisogno di essere sussidiate per diventare competitive con le fonti fossili: la "bolletta verde", secondo a un recente rapporto dell'Onu, potrebbe arrivare a 12mila miliardi di dollari nei prossimi due decenni, a livello globale, quasi quanto il buco di bilancio degli Stati Uniti.

In Italia, in base alle ultime previsioni dell'Authority, l'energia pulita ci costerà cento miliardi di euro per il decennio in corso. Una botta da 10-12 miliardi in bolletta al 2020, nell'ipotesi che i consumi finali siano pari a 374 terawattora, come indica il piano del governo. In pratica, si tratta di una cifra compresa fra i 2,7 e i 3,3 centesimi di euro al kilowattora, il 17-20% dell'attuale costo dell'elettricità, al lordo delle imposte. Dopo la fine del decennio il peso degli incentivi sulle bollette comincerà a scendere, fino ad azzerarsi. Ma ne vale la pena? "Non si tratta di un aiuto a noi, ma di un aiuto al Paese", risponde il nuovo presidente dell'Associazione dei produttori di energia da fonti rinnovabili (Aper), Agostino Re Rebaudengo. "Questi incentivi servono per far decollare un sistema più sostenibile di produzione elettrica, sotto tutti i punti di vista: le fonti rinnovabili non inquinano, alleggeriscono la bolletta petrolifera italiana, riducono la nostra dipendenza dall'instabilità dei prezzi delle materie prime e da fornitori esteri che spesso si sono dimostrati inaffidabili", spiega Re Rebaudengo.

In prosepettiva, poi, le cose dovrebbero cambiare. L'energia del sole, del vento e delle biomasse, per ora, ha bisogno di un incentivo statale per competere con le fonti fossili, che hanno un costo a kilowattora ben più basso. Ma la crescita del mercato, che in tutto il mondo procede di pari passo con la qualità dell'incentivazione, crea economie di scala e nuovi sviluppi tecnologici che abbattono i costi di produzione, come ad esempio nel caso dei pannelli solari, il cui prezzo si è dimezzato nell'ultimo decennio. "E non dimentichiamo che i sussidi alle fonti rinnovabili non rappresentano un caso isolato: dalla rottamazione delle auto a quella degli elettrodomestici, non siamo certo gli unici a ricevere un aiuto statale per promuovere l'efficienza energetica del Paese", fa notare Re Rebaudengo. In più, le fonti rinnovabili creano molti posti di lavoro, che in un quadro di ripresa senza occupazione non fa mai male: oggi un milione e mezzo di europei lavora per l'energia pulita, secondo le stime della Commissione Ue. E si prevede che se ne aggiungeranno altri 3 milioni, di qui al 2020, per alimentare questa industria nascente. Di conseguenza, secondo Re Rebaudengo, non è giustificata la "vera e propria campagna di scorrettezze" che si è scatenata contro le fonti rinnovabili negli ultimi mesi. Sembra quasi che "la crescita della produzione di energia da fonti pulite stia dando fastidio a qualcuno, per il solo fatto che si sta affermando come un'alternativa plausibile alle fonti tradizionali". E' vero, insomma, che alle fonti rinnovabili resta ancora appiccicata la brutta fama di mercato assistito, ma è anche vero che gli scenari dell'energia stanno cambiando e non tutti se ne avvantaggeranno allo stesso modo: le fonti pulite, con tutta probabilità, saranno quelle che ne approfitteranno di più.


1 giugno 2011

Solare italiano in ripresa, ma perderemo qualche pezzo

Per i big del solare, l'Italia è il secondo mercato mondiale, dopo la Germania. E' qui che pioveranno nei prossimi mesi gli investimenti più consistenti del settore, dopo la battuta d'arresto della prima parte dell'anno, dovuta alle incertezze normative. Come quello di 360 milioni di euro, in joint venture fra Sharp, Enel e StM, per realizzare a Catania il più grande stabilimento di moduli a film sottile d'Europa. "L'interruzione dei sussidi decisa dal governo italiano in marzo ci aveva fatto dubitare della bontà di quell'investimento, ma adesso che gli incentivi sono stati ripristinati, siamo decisi ad andare avanti", spiega Barbara Rudek, responsabile delle relazioni istituzionali di Sharp Europa. E anche gli altri giganti internazionali del settore, come Suntech e First Solar, hanno ripreso vigore a quasi un mese dal varo delle nuove tariffe. Avranno vita più dura, invece, i piccoli operatori, perché le banche stanno ancora alla finestra: è prevedibile quindi un processo di consolidamento, con la sparizione degli operatori meno strutturati, soprattutto tra quelli che si occupavano prevalentemente dei grandi impianti a terra.

"Malgrado un taglio medio del 30% entro fine anno, i nuovi incentivi restano molto appetibili, in particolare se inseriti nel contesto europeo", commenta Paolo Rocco Viscontini, uno dei pionieri del solare italiano, con la sua Enerpoint. Viscontini, sceso in campo in prima persona, come consigliere del Gruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane, insieme al presidente Valerio Natalizia, nel tentativo di intavolare un dialogo costruttivo con il ministero dello Sviluppo Economico, è molto soddisfatto dei risultati. "Già l'innalzamento dell'obiettivo da 8mila a 23-24mila megawatt di potenza fotovoltaica installata al 2016, da solo, ci ha ripagati di tutte le difficoltà", precisa. Certo, le severe limitazioni poste agli impianti a terra, che non potranno superare il 10% dell'estensione complessiva del terreno su cui insistono, hanno danneggiato anche lui, come molti altri, che avevano investito in base alla normativa precedente. Assosolare, guidata da Gianni Chianetta, è decisa a dare battaglia e c'è già chi annuncia cause contro il decreto, che ha cambiato le regole in corsa. "Ma di fronte ai 2500 megawatt di richieste già arrivate dal giorno dell'apertura, il 20 maggio, del registro per i grandi impianti, ci siamo resi conto di quanto sia stato saggio mettere un limite alle mega-installazioni, che con le nuove norme quest'anno non potranno superare i 700 megawatt", ammette Viscontini. "Senza questi limiti, il mercato sarebbe stato monopolizzato dai grandi impianti, con un costo insostenibile per il sistema, mentre invece il fotovoltaico non deve perdere la sua caratteristica di generazione distribuita per eccellenza, con cui può risolvere diversi problemi nella gestione della rete, a patto di pianificarne una distribuzione strategica, il più possibile vicina ai centri di consumo".

Con tutte queste potenzialità di crescita, ora manca solo la costruzione di una filiera italiana del settore, che dipende ancora quasi completamente dall'estero. Questo è uno degli aspetti che la riforma ha voluto prendere di mira, con una clausola che concede un bonus del 10% in più agli impianti realizzati per almeno il 60% con forniture europee. "Ma con questo meccanismo, in realtà, non si promuove la nascita di un'industria italiana di celle e pannelli, che è la parte più remunerativa della filiera e quella che ci manca", critica Viscontini. I fondi in più andaranno a premiare prodotti solo apparentemente europei: basterà che gli operatori assemblino moduli cinesi o giapponesi e rivendano il prodotto finito per farlo risultare italiano. In questo modo i sussidi pubblici non andranno a finanziare la crescita di una filiera locale, ma continueranno a prevalere i big internazionali, attraverso gli operatori locali che si occupano semplicemente di assemblaggio. Se si vuole far crescere la filiera locale, quei fondi non vanno dati all'utilizzatore finale, ma direttamente alle imprese produttrici di celle e pannelli, finanziando la ricerca e l'innovazione. Solo così riusciremo a tenere in Italia la gran parte dei sussidi pagati dai consumatori all'industria del solare, con le nostre bollette energetiche sempre più salate.