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29 luglio 2010

Con l'acqua di raffreddamento si scaldano le serre



L'acqua è una risorsa limitata e, in alcune aree del mondo, scarsa. La quota di esseri umani a corto di acqua era dell'8% (500 milioni) all'inizio del secolo, ma sarà del 45% (4 miliardi) nel 2050. E anche se questa carenza non è uguale dappertutto, l'Italia non se la passa benissimo: in vaste zone del Meridione le forniture sono spesso erratiche, soprattutto d'estate.


Uno dei punti importanti in qualsiasi processo produttivo attento all'ambiente, quindi, è l'utilizzo sostenibile dell'acqua.


Per chi la usa solo nei processi di raffreddamento, come le compagnie elettriche, il riutilizzo è più semplice: basta convogliarla con dei tubi là dove l'acqua calda può essere utile. Per le aziende che invece la "sporcano" nei loro processi produttivi, si tratta di aggiungere dei sistemi di depurazione e rimetterla in circolo.


Un esempio del primo caso è la centrale Enel di Civitavecchia: Torrevaldaliga Nord preleva l’acqua dal mare per il raffreddamento degli impianti e invece di ributtarla in mare come si faceva un tempo, da anni ormai la riutilizza per altri fini: la centrale fornisce gratuitamente energia termica all'impianto di floricoltura di Pantano, dove vengono coltivati cactus, gerani, rose, garofani, petunie e altre varietà. Tutto avviene in serre che occupano una superficie dl circa 18 ettari, con un'occupazione media di 330 persone. Il riscaldamento delle colture avviene utilizzando l'acqua calda che attraverso apposite tubazioni viene portata dalla centrale alle serre. Ma il calore residuo della produzione di elettricità non è destinato solo ai fiori. Viene utilizzato anche per l'allevamento di orate e spigole. L’impianto di itticoltura è situato sul terreno Enel nella zona Nord Ovest della centrale. E' composto dalle 44 vasche della avannotteria e da altrettante vasche esterne, che occupano circa 18.000 metri quadri e sono dedicate al pre-ingrasso e all'ingrasso finale del pesce, con ricambio continuo di acqua di mare. Questa viene fornita da Enel tramite quattro pompe, di cui due alimentate ad acqua fredda e due da acqua calda prelevata dal circuito della centrale. I pesci vengono allevati fino a raggiungere i 350-500 grammi di peso e poi venduti sul mercato nazionale. L’occupazione media è di circa 35 persone.


Un esempio del secondo caso è la nuova fabbrica che Renault sta costruendo a Tangeri, in Marocco, che sarà operativa dall'inizio del 2012 e a pieno regime sfornerà a 400mila veicoli all’anno. Il nuovo stabilimento, realizzato in partnership con Veolia, ridurrà l'impatto ambientale a livelli mai raggiunti finora per una fabbrica di montaggio carrozzeria: le emissioni di CO2 saranno ridotte del 98% e l'utilizzo dell'acqua verrà tagliato del 70% per cento rispetto agli standard del settore. Questo risultato strabiliante si ottiene alimentando lo stabilimento con energia da fonti rinnovabili e incrementando l'efficienza energetica dei processi produttivi: il fabbisogno di energia termica sarà ridotto del 35% rispetto a una fabbrica con una capacità produttiva equivalente. La quantità di CO2 residua sarà compensata infine con l'acquisto di crediti di carbonio, ottenuti sempre dalla produzione di energia verde.


L’acqua utilizzata nell'impianto, inoltre, sarà riciclata consentendo di ridurre i prelevamenti di risorse d'acqua per i processi industriali del 70 per cento: una quantità equivalente, secondo i calcoli della casa francese, a 175 piscine olimpioniche (430mila metri cubi d'acqua). E nessuno scarico di origine industriale sarà mai riversato nell'ambiente: l'impiego di speciali processi di depurazione consentiranno di trasformare i deflussi industriali in acqua purificata. Renault e Veolia hanno lavorato insieme alla riduzione dei consumi del sito, ridefinendo in profondità tutti i processi di produzione. La combinazione tra l'utilizzo di tecnologie innovative e pratiche migliori in termini di recupero delle risorse si dimostra così ancora una volta essenziale per ridurre l'impatto ambientale di una produzione che di solito ha ricadute pesanti sul territorio circostante.

28 luglio 2010

L'Aie bacchetta la Francia: "Poca concorrenza"

L'Agenzia Internazionale dell'Energia chiede alla Francia di “aumentare la concorrenza nella generazione elettrica e nel mercato al dettaglio, abolendo in una prima fase le tariffe regolate per i clienti non residenziali e quindi arrivare ai prezzi di mercato per tutti i consumatori”. Presentando il rapporto sulla Francia, il direttore esecutivo dell’agenzia, Nobuo Tanaka, ha spiegato che “la concorrenza resta limitata a causa del controllo da parte dell’ex monopolista Edf di un grande parco nucleare, con costi di produzione generalmente più bassi rispetto ai prezzi all’ingrosso: questo dà a Edf un vantaggio competitivo significativo e limita la convenienza dei concorrenti a sviluppare quote di mercato”. Secondo il rapporto, la Francia dovrebbe anche “promuovere lo sviluppo della rete di trasmissione elettrica, sia per quanto riguarda le interconnessioni transfrontaliere che all’interno del Paese”, e “aumentare la flessibilità del sistema al fine di raggiungere un equilibrio strutturale tra la generazione di base e la domanda di picco”.


Olanda e Regno Unito collegati da un elettrodotto sottomarino

E’ terminata la posa dell’ultima sezione del BritNed, l’elettrodotto di 260 km tra Olanda e Regno Unito. La posa, spiegano gli operatori National Grid e TenneT, è iniziata a settembre 2009 ed è stata divisa in 6 sezioni. La prossima fase riguarderà la realizzazione di 7 connessioni (4 in terraferma e 3 offshore) e l’interramento delle parti onshore. Il tutto sarà completato a settembre, con l’obiettivo di avviare le operazioni commerciali nel primo trimestre 2011. La capacità di BritNed sarà di 1.000 MW, l’investimento di 600 milioni di euro.

Il progetto è considerato d'interesse europeo, poiché un presupposto fondamentale per un mercato integrato dell’elettricità e del gas è che i Paesi siano sufficientemente connessi e che le interconnessioni siano utilizzate con efficacia. L’aumento degli scambi transfrontalieri che ne deriva aiuterà ad attenuare il potere di mercato degli operatori e con l’aumento della competitività dei mercati i consumatori potranno beneficiare di prezzi e servizi migliori.

21 luglio 2010

No alle scorie nucleari italiane nello Utah

No alle scorie nucleari italiane nello Utah. Energy Solutions, azienda con sede a Salt Lake City che opera in tutto il mondo nel settore nucleare, ha deciso di rinunciare al programma di smaltimento delle scorie italiane nello Utah e ha comunicato che potrebbe dirottare le scorie verso un centro di smaltimento in Italia. Peccato che a un quarto di secolo dalla fine del nucleare italiano non ne abbiamo ancora istituito uno e non siamo ancora riusciti a smaltire nemme lo scorie di allora.

L'azienda dello Utah aveva provato a importare 20.000 tonnellate di rifiuti radioattivi italiani. Dopo il trattamento circa 1.600 tonnellate sarebbero state portate nella discarica dell'azienda nel deserto dello Utah, l'unica discarica di materiali a basso livello di radioattività degli Stati Uniti.

L'idea ha però incontrato la ferma opposizione dei repubblicani dello Utah, che hanno spinto l'approvazione di una legge che vieta l'importazione di scorie radioattive straniere.

Nella stessa Ue, del resto, domina l'orientamento che le scorie nucleari siano un problema della politica nazionale e che quindi ogni Stato dovrebbe stoccarle all’interno dei propri confini. Ne è convinto il commissario Ue all’Energia, Guenther Oettinger, che in una recente intervista rilasciata a Financial Times Deutschland ha definito l’esportazione dei rifiuti nucleari “scandalosa”, chiedendo agli operatori di provvedere al più presto alla creazione di depositi sicuri. Non solo. Secondo il commissario andrebbe esclusa ogni ipotesi di stoccaggio in siti comuni o la loro esportazione al di fuori della Ue (citando come esempio l’ipotesi di un sito in Russia), sottolineando quanto sia pericoloso il commercio di rifiuti in generale e di quelli radioattivi in particolare.


19 luglio 2010

L'acqua a referendum? Pubblica o privata, basta che arrivi!

Acqua pubblica o privata? L'acqua è una risorsa limitata e, in alcune aree del mondo, scarsa. La quota di esseri umani a corto di acqua era dell'8% (500 milioni) all'inizio del secolo e sarà del 45% (4 miliardi) nel 2050. Ma questa carenza non è uguale dappertutto: 9 Paesi hanno la fortuna di controllare il 60% della disponibilità globale di acqua dolce e tra questi solo Brasile, Canada, Colombia, Congo, Indonesia e Russia ne hanno davvero in abbondanza. Cina e India, con oltre un terzo della popolazione mondiale, devono accontentarsi del 10% dell'acqua dolce e stanno esaurendo le riserve presenti nel sottosuolo. Lo stesso accade in molte grandi città: l'acqua di Città del Messico viene al 70% da una falda che sarà esaurita nel giro di un secolo al ritmo di estrazione attuale, tanto che la città sta sprofondando per l'assottigliarsi della falda. Situazioni simili si trovano a Bangkok, Buenos Aires e anche a Barcellona.

In Italia ci si preoccupa di altro: ben due referendum sono in preparazione sul tema, ma nessuno dei due parla di come incentivare l'utilizzo sostenibile dell'acqua con adeguate normative. Oltre un milione di firme sono state raccolte dal comitato Acqua Pubblica e saranno depositate oggi in Cassazione per indire un referendum abrogativo di tutte le norme che hanno sancito l'apertura ai privati nel settore dei servizi idrici, dalla legge Galli in poi. Antonio Di Pietro, da parte sua, sta raccogliendo le firme per un referendum contro il decreto Ronchi, che accentua l'approccio di mercato, imponendo entro il 2013 agli enti pubblici di scendere sotto il 40% del capitale delle società che gestiscono servizi pubblici essenziali, quindi anche le reti idriche.

Tutti e due i referendum ignorano il problema di fondo: gli acquedotti italiani sono un colabrodo e quasi metà dell'acqua che si mette in rete va sprecata nelle perdite (42% in media). In vaste aree del Paese i rubinetti buttano acqua poche ore alla settimana e quindi l'acqua è "privatizzata" per forza: bisogna comprarla dalle autobotti, spesso gestite dalla malavita organizzata, o in bottiglia. Ma nessuno si preoccupa di questa situazione da Terzo Mondo. Anzi, ben vengano le autobotti che portano soldi nelle tasche della mafia. Ben vengano i buchi nei tubi, che spesso servono per attingere abusivamente. Viva l'acqua pubblica, possibilmente gratuita. E continuiamo a farci del male.

Nessuno valuta che per evitare gli sprechi e far uscire acqua potabile dai rubinetti c'è bisogno di impianti di depurazione, distribuzione e misura funzionanti, che costano. Per coprire questi costi, dare un prezzo adeguato all'acqua consumata è il modo più equo, altrimenti vanno nella fiscalità generale e il poveretto che consuma due litri d'acqua al giorno sovvenziona il riccone che si riempie la piscina. Quindi l'acqua non può essere "gratuita", come blatera da anni Riccardo Petrella, guru dell'acqua libera, chiamato incautamente da Nichi Vendola a presiedere l'Acquedotto Pugliese e ben presto cacciato per manifesta incapacità.

L'acqua, dunque, va pagata. O meglio: le infrastrutture che servono per incanalarla, pulirla e distribuirla vanno pagate. Gli italiani la pagano in media 1,1 euro al metro cubo, contro 2 in Spagna e 5 in Germania. Ma che il sistema sia pubblico o privato è indifferente: basta che funzioni su regole di mercato. Ci sono sistemi gestiti da enti pubblici in giro per il mondo che funzionano benissimo, perfino in Africa. Altri malissimo, come nel disastro dei rifiuti campani. Con i privati di solito ci sono maggiori garanzie di buona gestione, per ovvi motivi economici, ma non è un passaggio obbligatorio.

Per mantenere l'acqua nel sistema pubblico non servono referendum: basterebbe pagare le bollette e vigilare sull'impiego di quei soldi nella manutenzione dei tubi, non per foraggiare le tasche di questo o quel politico, di questo o quel mafioso, così come succede oggi, senza alcuna obiezione da parte dei promotori dei referendum. L'apertura ai privati discende dalla banale constatazione che il pubblico in Italia fa acqua da tutte le parti, per l'appunto. E che il sistema, così com'è adesso, non funziona.

Resta importante chiarire che l'acqua gratuita incentiva sempre lo spreco, non il risparmio, e quindi aggrava il problema delle carenze idriche.


15 luglio 2010

Archimede, fase due: chi c'è dietro al sole di notte

Questa dev'essere la volta buona. Archimede, la prima centrale solare italiana a concentrazione, è stata inaugurata ieri a Priolo alla presenza del numero uno dell'Enel, Fulvio Conti, e del ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo. Ma non è la prima volta. Il primo avvio ufficiale fu celebrato in gran pompa il 19 maggio 2004, alla presenza del suo inventore, Carlo Rubbia, allora presidente dell'Enea, l'ente che grazie a lui detiene il brevetto di questa tecnologia innovativa. Da allora ad oggi l'impianto non ha funzionato, da un lato perché non era ancora perfettamente a punto, dall'altro perché non erano ancora entrati in vigore gli incentivi statali che lo rendono remunerativo. Ora gli incentivi ci sono e Archimede può partire.


La sua particolarità risiede nella capacità di raccogliere e conservare per molte ore l’energia termica del sole per generare energia elettrica anche di notte o quando il cielo è coperto. Grandi impianti solari termodinamici a concentrazione sono già in funzione con successo, in particolare in Spagna e Stati Uniti, ma l'invenzione sviluppata dal fisico italiano durante la sua presidenza dell'Enea ha dato una marcia in più a questo tipo di fonte rinnovabile. Rispetto al metodo "tradizionale" che usa lunghe file di specchi a parabola per concentrare il calore del sole su un tubo dove scorre olio sintetico, la centrale Enel utilizza i sali fusi come fluido termovettore al posto dell'olio. Questi sali raggiungono infatti temperature molto più elevate (550 gradi anziché 400), permettendo all'impianto di restare in funzione quasi a ciclo continuo, senza doversi fermare nelle ore di buio o in caso di nuvole.



Ma le altissime temperature, che presentano grandi vantaggi, hanno dato anche parecchi grattacapi ai tecnici che dovevano realizzare l'impianto. Per questo dietro ad Archimede non c'è solo l'Enea, ma anche l'azienda umbra che produce i tubi di scorrimento dei sali fusi e detiene il brevetto insieme all'Enea. Gianluigi Angelantoni, amministratore delegato dell'omonimo gruppo, crede moltissimo in questa nuova tecnologia. E anche Siemens, che ha appena acquisito il 45% di Archimede Solar Energy, la società del gruppo che si occupa di solare termodinamico. "Con il nuovo stabilimento, che abbiamo appena inaugurato, sforneremo centomila tubi all'anno, adatti sia per i circuiti a olio sintetico che arriva a 350 gradi, sia per scaldare sali fusi fino a 550 gradi", spiega Angelantoni, che ne ha già prodotte alcune migliaia in uno stabilimento più piccolo.


"Già nel 2012 il fatturato generato dal solare termodinamico andrà a superare quello che fatturiamo oggi nel nostro business tradizionale", precisa Angelantoni. Laddove il suo "business tradizionale", del resto, non è nient'altro che la premessa per questo exploit. L'azienda di Massa Martana produce già da decenni macchine estremamente innovative: è tra le imprese leader nel campo dei simulatori per i test e delle apparecchiature biomedicali a basse temperature. Con le sue camere di simulazione ambientale e spaziale, i banchi di collaudo e i sistemi di vibrazione elettrodinamici, serve l'industria automobilistica, aerospaziale, elettronica e della difesa in Italia, Francia, Germania, Cina e India. Non a caso l'8% del fatturato nella sede centrale è dedicato alla ricerca. E questo sforzo innovativo rappresenta un traino non indifferente per tutto il distretto, dove diverse imprese sono state coinvolte nel progetto Archimede. "L'energia solare e fotovoltaica ha enormi prospettive di sviluppo e noi vogliamo essere al centro di questo processo, che potrebbe portare l'Italia all'avanguardia in un campo dove siamo ancora molto indietro", sostiene Angelantoni. La sua azienda, infatti, non è impegnata solo nel solare termodinamico, ma produce anche macchine per fare celle fotovoltaiche a film sottile, un'altra nuova frontiera del solare. "Abbiamo realizzato una linea completa di produzione, lunga 130 metri, per Arendi del gruppo Marcegaglia, la società che produce per prima in Italia moduli al tellururo di cadmio", una tecnologia molto innovativa - sviluppata da Nicola Romeo, docente di Fisica all'università di Parma - che punta a fare a meno del silicio.

"Se vogliamo innovare, in questo Paese - commenta Angelantoni - dobbiamo dare più soldi ai ricercatori, nelle università e negli istituti di ricerca. Poi ci vorrebbe anche un miglior rapporto delle università con le imprese, ma il problema fondamentale sono i mezzi finanziari alla ricerca di base, che mancano". In pratica, i suoi tubi rappresentano l'anima delle grandi centrali solari a concentrazione, dov'è cruciale l'immagazzinamento del calore, per continuare a produrre energia anche con diversi giorni di tempo coperto: nei sistemi utilizzati fino ad oggi, i grandi specchi parabolici concentrano il calore su un tubo sottovuoto dove scorre olio sintetico, che a sua volta deve scaldare con uno scambiatore di calore un grande serbatoio pieno di sali fusi. Nelle centrali di nuova generazione, come Archimede, tutto il circuito è pieno di sali fusi, che raggiungono temperature impossibili per l'olio sintetico e non hanno bisogno dello scambiatore. Angelantoni si muove su un confine oltre il quale fino ad oggi non è andato nessuno: i suoi tubi, spalmati internamente di un coating chiamato Cermet, sono gli unici al mondo capaci di contenere un fluido a temperature così elevate. Questa tecnologia nuova migliora molto l'efficienza del solare termodinamico, tanto che Angelantoni ha già ricevuto diverse ordinazioni, soprattutto dall'Estremo Oriente. Il mercato, infatti, è in piena esplosione, con 12 centrali in costruzione in Spagna e decine di altre in tutto il mondo, dall'India agli Stati Uniti.


14 luglio 2010

Nasce il polo dell'acqua italiana, da Torino a Reggio Emilia

E' partita questa settimana e si conclude il 6 agosto l'Opa totalitaria su Mediterranea delle Acque promossa dalla neonata utility piemontese-ligure-emiliana Iren e il fondo F2i, che fa capo a Vito Gamberale, per acquisire il controllo congiunto della società (60% Iren e 40% F2i), che sarà poi delistata.

Con la nuova partnership Iren-F2i nasce un polo che si candida a diventare protagonista nell'ambito del settore idrico in Italia, dopo la svolta impressa dal decreto Ronchi, che impone entro il 2013 agli enti pubblici di scendere sotto il 40% del capitale delle società che gestiscono servizi pubblici essenziali. Il mercato idrico italiano vale circa 6 miliardi e si stima possa crescere entro il 2020 a 8 miliardi, con margini che sfiorano il 30-40% e garanzie di stabilità in termini di sviluppo e redditività grazie al sistema regolatorio, ma con una struttura ad alta intensità di capitale, che richiede investimenti alti e di lungo periodo: la sola Mediterranea delle Acque sarà chiamata a un impegno per manutenzione e nuovi depuratori di oltre 740 milioni.

Le tariffe nel nostro Paese oggi sono pari, in media, a 1,1 euro al metro cubo (contro 2 in Spagna e 5 in Germania) e le perdite di rete, in media, sono del 42%. Il che significa che quasi metà dell'acqua messa in rete in Italia va sprecata. Si stima che le tariffe possano salire a 1,5-1,6 euro e si spera che nel contempo vengano anche tappati i buchi. Ecco dunque la necessità di aggregazioni e di investitori finanziari che affianchino stabilmente quelli industriali. Gamberale punta a entrare con il suo fondo (al quale partecipano Cdp, Intesa, Unicredit, Merrill Lynch, sette fondazioni e due casse di previdenza) nelle grandi reti infrastrutturali, come Enel Rete Gas, di cui ha il 60%.


13 luglio 2010

Sicilia-Calabria, via libera all'elettrodotto sottomarino

Ci siamo: l’elettrodotto Sicilia-Calabria ha ottenuto il via libera definitivo dal Minambiente e dal Mse. Ora non ci saranno più scuse per nessuno. Terna dava la colpa al ministero dell'Ambiente che non rilasciava la valutazione di impatto ambientale. Il ministero di Stefania Prestigiacomo ce l'aveva con la regione Sicilia che bloccava tutto per i possibili danni all' avifauna. Ieri, invece, con la firma del ministero dello Sviluppo (interim del premier, ma a cura del sottosegretario Stefano Saglia) gli ostacoli al benedetto elettrodotto Sicilia-Calabria paiono essere spazzati via. Il cavo elettrico più invocato d'Italia potrà ora essere finalmente posato tra Sorgente (Messina) e Rizziconi (Reggio Calabria): sarà la più lunga linea elettrica sottomarina in corrente alternata del mondo, con un tratto di 38 chilometri sotto le acque del Tirreno che aggira lo stretto di Messina. Ma soprattutto, legando l'isola al continente, permetterà di farla finita con quei «giochetti» che facevano salire il prezzo dell'energia elettrica a livelli esagerati. A spese non solo delle imprese e dei cittadini locali, ma anche di quelli nazionali, visto che il prezzo dell'area siciliana «fa media» con le altre zone d'Italia e quindi contribuisce a far salire il Pun, il prezzo unico nazionale.

Si confida, ora, che i lavori possano procedere speditamente. Il collegamento Sorgente-Rizziconi, che richiede 700 milioni di investimenti, avrà 2.000 MW di potenza, 105 km di lunghezza (38 km di cavo sottomarino) e porterà 800 milioni annui di risparmio per il sistema elettrico italiano.

Ma il problema è che per vedere realizzato il cavo ci vorranno comunque “3-4 anni”, come ha sottolineato  lo stesso gestore. E in questo lasso di tempo l’impatto degli altissimi prezzi siciliani sul prezzo unico nazionale dell'energia non verrà meno, mentre i margini degli operatori con impianti nel Sud Italia, Sorgenia in testa, rischiano di essere erosi irrimediabilmente.

Per questo lo sblocco dell’opera non ha fermato il dibattito su una soluzione che anticipi i benefici del cavo. Domani ci sarà una riunione del tavolo tecnico tra Assoelettrica e i rappresentanti della domanda. Le parti presenteranno le rispettive proposte, utilizzando come base di partenza l’emendamento Piscitelli al Dl manovra, bocciato in commissione al Senato (insieme alla proposta del senatore Tancredi sull’elettrodotto virtuale). Nella sua formulazione originaria il testo non soddisfaceva pienamente né i consumatori, né Enel, né Sorgenia. Ma l’idea della compensazione da attribuire ai produttori sulla base della differenza tra il Pun e il prezzo zonale potrebbe trovare un accordo comune. Gli energivori chiedono di beneficiare anche loro della misura, l’ex monopolista vuole rassicurazioni sul fatto che non dovrà sobbarcarsi tutti gli oneri, mentre a Sorgenia e agli altri operatori attualmente penalizzati potrebbero essere riconosciuti dei diritti particolari in base all’efficienza degli impianti. Un compromesso, quindi, è fattibile ma non facile.


7 luglio 2010

La rete mobile rischia il collasso: bella scoperta!

«E’ tre anni che lo ripeto: la rete mobile rischia il collasso».

Maurizio Decina, docente di telecomunicazioni al Politecnico di Milano e principale esperto di tlc in Italia, è stato il primo a lanciare l’allarme.

Adesso sembra che anche l’Authority venga sulle tue...
«Per forza: il traffico su banda larga in Italia raddoppia ogni anno. Era già chiaro da anni che prima o poi ci saremmo trovati in un’emergenza. Gli altri Paesi ci hanno pensato prima: francesi, inglesi e americani hanno già messo all’asta le frequenze tv inutilizzate per darle alla banda larga. Il governo tedesco ha appena incassato 4,4 miliardi di euro per 72 megahertz di banda larga, le stesse risorse di spettro che avevo proposto anni fa di mettere a disposizione della rete mobile».
Un bel vantaggio per le casse dello Stato.
«E’ quello che dico anch’io. Con la crisi che c’è, perché non mettere in vendita le licenze? Già allora avevo previsto un incasso analogo a quello messo a segno dai tedeschi. Sarebbe un guadagno per lo Stato e un vantaggio per i cittadini, che con l’attuale saturazione non riescono a navigare. Ora sembra che il vento stia girando, ma bisogna vedere che tempi ci sono. I tedeschi hanno fatto le gare in sei mesi e avranno a disposizione le nuove risorse di spettro entro la fine di quest’anno. In Italia, quanto ci metteremo?»
E’ così urgente?
«Bisogna farcela entro l’estate del 2012, se non si vuole andare al collasso. Abbiamo due anni, non dovrebbe essere difficile. Ma se si continua a rimandare per non togliere alla tv nemmeno le frequenze che le emittenti non riescono a utilizzare...»
Ora però Calabrò propone qualcosa di più rispetto a quello che avevi proposto tu anni fa.
«Calabrò ha detto che il governo potrebbe mettere a gara una banda molto più larga: parla addirittura di 300 megahertz entro il 2015. In pratica, propone di assegnare alla banda larga mobile le frequenze tv liberate con il passaggio al digitale terrestre. Alcune, già nel breve periodo. E le altre entro il 2015, come richiesto anche dalla Commissione Europea».
E’ fattibile?
«Tecnicamente si può fare tutto, se c’è la volontà politica. Non c’è dubbio che sarebbe un gran vantaggio per il Paese dare fiato alla banda larga mobile, dove il traffico cresce in maniera esponenziale».

6 luglio 2010

Fatih Birol denuncia i sussidi alle fonti fossili: 440 miliardi nel mondo, 4 in Italia

Oltre 440 miliardi di euro all'anno: è questa la "tassa" pagata dall'economia mondiale per sovvenzionare le fonti fossili. Non l'eolico o il fotovoltaico, famigerati divoratori di sussidi statali. Non il nucleare, da sempre accusato di pesare surrettiziamente sui bilanci pubblici. Ma il petrolio, il gas o il carbone, materie prime già ampiamente remunerate dal mercato. "L'Iran è il Paese che spende di più in questa corsa dissennata contro il prezzo del petrolio: 101 miliardi, un terzo del suo bilancio, più dei fondi destinati all'istruzione", spiega Fatih Birol, capo economista dell'International Energy Agency, il cane da guardia dei consumi mondiali di energia. Ma nelle casse delle compagnie petrolifere non si riversano fondi pubblici solo dal terzo mondo, succede anche da noi: nel 2008 gli italiani hanno speso quasi 4 miliardi in sussidi alle fonti fossili.


"Se questi incentivi fossero eliminati, la domanda globale di petrolio si ridurrebbe di 6 milioni e mezzo di barili al giorno, equivalenti a un terzo dei consumi americani", precisa Birol. Lo studio dell'Agenzia, che il Corriere ha potuto leggere, sarà al centro del G20 di Toronto a fine mese, dove si annunciano provvedimenti severi contro questa pratica, che ha un enorme impatto sul consumo globale di combustibili fossili. L'analisi punta il dito in particolare contro 37 Paesi in via di sviluppo, che nel 2008 hanno buttato 557 miliardi di dollari in tutto, incentivando lo spreco delle materie prime e distorcendo il mercato mondiale: 312 miliardi per il petrolio, 204 per il gas e 40 per il carbone. In testa alla lista, dopo il caso eclatante dell'Iran, ci sono Russia, Arabia Saudita, India e Cina.


E in Europa? "Qui abbiamo di solito sussidi che incidono più sul lato dell'offerta che sulla domanda, mirati a difendere certi settori industriali", fa notare Birol. Come in Italia, dove il salasso del Cip6 drena ogni anno, attraverso le bollette, miliardi di euro dalle tasche degli utenti elettrici verso le casse dei produttori di energia. Nel 2008, ben 3,9 miliardi sono andati a 46 centrali che bruciano principalmente scarti di raffineria, mentre solo 1,48 miliardi sono finiti a 300 piccoli impianti alimentati da fonti rinnovabili. "E' un caso tipico", commenta Birol. "In generale il pubblico crede che siano le fonti rinnovabili o il nucleare a ricevere il grosso del denaro pubblico, invece dai nostri studi sta emergendo il contrario", rileva Birol. "Certo l'Italia - aggiunge - spicca fra i Paesi europei per la dimensione del sussidio alle fonti fossili". E anche per quanto la nostra economia sia dipendente da queste fonti. Nel 2008 la bolletta petrolifera dell'Italia è stata di 32,6 miliardi di euro (il 2% del Pil) per importare 165 milioni di tonnellate di petrolio o equivalenti, l'86,8% del fabbisogno complessivo di energia, contro una media europea del 53,8%: solo Malta, Cipro e il Lussemburgo sono più dipendenti di noi. "Certi Paesi avanzano motivi di giustizia sociale o di difesa di un settore che ha rilevanza nazionale - fa notare Birol - ma non mi sembra che l'Italia possa avere motivi di questo tipo".


Uno sforzo per eliminare l'incentivazione alle centrali alimentate da fonti fossili era stato fatto alla fine del 2009, quando l'ex ministro Claudio Scajola aveva varato un sistema per la risoluzione anticipata delle convenzioni con gli operatori di questi impianti. La risoluzione è volontaria, a fronte di un risarcimento: i produttori non si sono tirati indietro, ma ora il ministero sta cercando di quantificare i corrispettivi da riconoscere per la chiusura anticipata e la questione è ancora in alto mare. I primi decreti potrebbero essere pronti per la fine di giugno, ma interesseranno solo pochi impianti a gas, i più omogenei fra loro. Per gli altri, che usano prevalentemente scarti di raffineria, ci vorrà qualche mese. Ma la materia è ingarbugliata anche dall'ammissione ai benefici Cip6 di impianti recenti, come alcuni termovalorizzatori nell'ambito dell'emergenza rifiuti campana.


Birol è convinto che siamo alla fine di questi sussidi anche a livello globale: "Il vento soffia nella direzione giusta". In base alle stime dell'Agenzia, il G20 potrebbe tagliare dalle emissioni globali di CO2 l'equivalente dei fumi tedeschi, francesi, inglesi, italiani e spagnoli in un colpo solo, se riuscisse a imporre un'eliminazione graduale delle sovvenzioni da qui al 2020. Sarebbe un brutto colpo per le compagnie petrolifere. "Certamente, se l'intervento del G20 avrà successo, i fondamentali del business petrolifero cambieranno parecchio", commenta Birol. "D'altra parte, sarebbe una buona notizia per le fonti rinnovabili, ma anche per il nucleare".


5 luglio 2010

Via alla rete euromediterranea Transgreen

Il ministro dell’Ecologia e dell’Energia francese, Jean-Louis Borloo, ha sancito oggi la nascita di Transgreen, consorzio d’imprese voluto da Parigi che svilupperà una rete di elettrodotti sottomarini nel Mediterraneo per portare in Europa l’energia rinnovabile prodotta in Africa. Nella capitale francese, 12 aziende tra cui l’italiana Prysmian hanno firmato l’accordo costitutivo della partnership industriale che studierà la fattibilità e realizzerà la super-rete.

Oltre a Prysmian, a Transgreen hanno aderito Abengoa, Alstom, Areva, Atos, Origin, Cdc Infrastructure, Edf, Nexans, Ree, Rte, Siemens e Veolia. I 12 partner, cui potranno unirsi altre aziende europee e della sponda sud del Mediterraneo, faranno capo a un’entità giuridica comune, che avrà per obiettivo lo studio degli aspetti tecnici, industriali, economici, finanziari, regolatori e istituzionali del progetto.

Inizialmente costituito per 3 anni, Transgreen si inserisce nel quadro del Piano Solare Mediterraneo  - che include tra l’altro il progetto Desertec - e lavorerà a stretto contatto con le autorità dei Paesi coinvolti, la Commissione europea, la comunità scientifica, le banche di sviluppo e le organizzazioni non governative.

La milanese Prysmian (ex Pirelli Cavi), leader mondiale dei sistemi in cavo interrato e sottomarino per la trasmissione di energia, è anche tra i fondatori del gruppo industriale per la super-rete europea per l’eolico offshore Friends of the Supergrid.


2 luglio 2010

La corsa all'oro nell'Italia Saudita



Li chiamano wildcatters. Spuntano come funghi dopo la pioggia quando il prezzo del petrolio sale e la ricerca di nuovi giacimenti diventa remunerativa anche per i piccoli esploratori, che non possono usufruire di economie di scala, ma hanno la flessibilità del mordi e fuggi. Di solito è gente del mestiere, che ha fatto esperienza nelle grandi compagnie petrolifere e ora cerca la fortuna in proprio, come ai tempi della corsa all'oro. In Europa, il loro Eldorado è l'Italia, molto meglio del Mare del Nord, dove la trivellazione in acque profonde ha costi proibitivi. Sono prevalentemente australiani, britannici, canadesi o texani, ma sempre coadiuvati da una quinta colonna locale. Le loro società si chiamano Northern Petroleum o Petroceltic, Mediterranean Gas o Po Valley, a seconda delle zone in cui operano. In Italia ce n'è una cinquantina, che trivellano allegramente sotto i nostri piedi senza che nessuno se ne accorga. Nel 2006 sono stati perforati ben 49 pozzi, di cui 34 per raggiungere giacimenti già scoperti e 15 per cercare nuove riserve. Nel 2007 37, di cui 10 in località non ancora sfruttate, su un centinaio di concessioni di ricerca. Nel 2008 altri 40. E malgrado la marea nera sulle coste della Louisiana, le trivellazioni continuano.


Basta scorrere l'elenco dei titolari di concessione nel bollettino ufficiale della Direzione Generale Energia e Risorse Minerarie del ministero dello Sviluppo Economico, per scoprire anche qualche wildcatter locale. Tra le 52 ditte esploratrici, accanto a Eni, Edison, alle municipalizzate e a multinazionali come Shell, Total, Esso e Bp, figura il geometra Paolo Bonucci, che scava su un terreno di 3 chilometri quadrati a Lizzano in provincia di Bologna, o il signor Maurizio Turchi, che oltre a gestire la sua lavanderia industriale perfora un'area di 670 metri quadri a Trignano nel Modenese. Sono loro i Glenn McCarthy della nuova corsa all'oro all'italiana, anche se assomigliano poco al leggendario texano che tra il '30 e il '40 ci ha preso ben 38 volte, costruendo un impero sul petrolio per poi sperperarlo al gioco. Il mitico capostipite dei wildcatters fu interpretato da James Dean nel film “Giant”, con Elizabeth Taylor e Rock Hudson, uscito nel '56 quando ormai il povero Jimmy si era già schiantato con la sua Spider.


Più somiglianti al capostipite della categoria sono i suoi conterranei di Panther Gas, che hanno tentato per anni di sfruttare un giacimento di metano in una delle zone più trivellate d'Italia, fra Noto e Ragusa, dove l'Eni estrae petrolio. Jim Smitherman, rampollo di una dinastia di petrolieri texani, aveva ottenuto nel marzo 2004 una concessione dalla Regione Sicilia per esplorare un'area di 700 chilometri quadrati, contigua ai campi dell'Eni fra Modica e Ragusa. Ma l'esploratore yankee ha estratto solo guai dal territorio siciliano, cui era stato introdotto da Guglielmo Moscato, ex presidente dell'Eni e ora consulente indipendente con la sua GM&P, una società di studi d'ingegneria attiva anche in Kazakhstan. La sua vasta e articolata esperienza non è stata sufficiente ad appianare le resistenze incontrate dalle attività di esplorazione in prossimità dei tesori del barocco siciliano, difesi da Andrea Camilleri con un appello che ha raccolto 70mila firme. Il caso del Val di Noto non è un'eccezione assoluta. C'è il blocco allo sfruttamento dei giacimenti di metano in Alto Adriatico. E ci sono altre opposizioni sparse lungo la penisola, spesso dovute alla cronica incapacità di comunicazione fra le aziende e gli enti locali. Ma tra un blocco e l'altro il clima da corsa all'oro resta vivo: non stupisce, con i prezzi che corrono...


Pozzi se ne trovano nelle zone più impensate. Basta un po' d'occhio e si scoprono facilmente: dal terreno esce un tubo d'acciaio alto un metro e mezzo con un paio di grosse valvole, di solito recintato in qualche modo per difenderlo dalle macchine agricole o dai vandalismi. Come nel caso del giacimento di Villafortuna, sotto il Parco del Ticino, che è stato raggiunto perforando orizzontalmente per sbucare lontano dalle zone protette. Ma non ne mancano neanche nel pieno degli insediamenti urbani: nel quartiere milanese di Lambrate ci sono quattro pozzi di metano trivellati dall'Agip, che arrivano fino a 1.700 metri di profondità. Due sono considerati ancora validi e attingono a un giacimento di gas che si estende sotto i piedi dei milanesi, fra il quartiere dell'Ortica, lo stabilimento dell'Innocenti e la tangenziale. A Roma, a due passi dal Vaticano, ci sono due pozzi di petrolio che si spingono fino a 3mila metri. E di lato al Viale Cristoforo Colombo, non lontano dal raccordo anulare, è stato avviato un pozzo esplorativo dall'Italmin. I britannici di Ascent Resources stanno trivellando alla ricerca di gas accanto all'aeroporto di Fiumicino: il loro obiettivo sono gli strati sabbiosi del Pliocene a circa mille metri di profondità. In complesso, il territorio italiano è sbucherellato da quasi settemila pozzi alla ricerca di metano e di greggio. Al momento attuale ce n'è una sessantina in attività, per un'area complessiva di quasi ventimila chilometri quadrati.


Sotto all'Italia ci sono riserve sicure e documentate ancora da estrarre di 800 milioni di barili di greggio e 150 di metano. Altre, tutte da scoprire, tra i 400 e gli 800 milioni di barili di petrolio e da 120 a 200 miliardi di metri cubi di gas, dicono i geologi. Non sono giacimenti da nababbi del Golfo Persico, ma sufficienti a mettere il Belpaese tra i produttori più rilevanti.


Le riserve scoperte finora dormono nel sottosuolo di una specie di mezzaluna che percorre l'area padana, la costa adriatica per poi tagliare la Puglia e l'Appennino Lucano (dov'è nascosto l'Eldorado italiano, la Val d'Agri e Tempa Rossa) fino alla Sicilia. Il grosso dei giacimenti sta in Basilicata, dove si estraggono quasi 80mila barili al giorno sugli oltre centomila della produzione italiana complessiva. In base agli accordi con la Regione, entro il 2012 dai campi di Pisticci e Viggiano si estrarranno 150.000 barili al giorno. Di questi, 20.000 barili proverranno dallo sviluppo delle attività di Agip nei campi già attivi in Val d’Agri e circa 50.000 dal secondo centro oil, quello di Tempa Rossa, operato da Total (50%), Esso e Shell (25% ciascuna).


Ma dall'Italia Saudita stanno emergendo nuove zone interessanti: le più appetitose per le future scoperte di giacimenti sono al largo della costa ionica della Calabria, la Sicilia occidentale, il braccio di mare tra la Sicilia e Malta. La maggior parte delle perforazioni esplorative attualmente si concentra in Emilia Romagna, Basilicata, Abruzzo, Lombardia e Piemonte. In mare, si cerca soprattutto in Adriatico, Ionio e nel Canale di Sicilia.


L'anno scorso, stando ai dati del ministero, la produzione domestica di petrolio si è attestata a 42,6 milioni di barili. La Basilicata continua a farla da padrone, arrivando a coprire il 74% della produzione petrolifera nazionale con i suoi 3,2 milioni di barili. A seguire, i campi offshore (con un peso del 13%), la Sicilia (9%) e il Piemonte (2%). Considerando un prezzo medio annuo di 51 euro a barile per il greggio italiano, il valore complessivo del bottino supera i 2,17 miliardi. Quanto al gas naturale, la produzione italiana è stata di 9,6 miliardi di metri cubi. Considerando un prezzo medio di 24,5 eurocent al metro cubo, il valore complessivo arriva a 2,33 miliardi di euro. Il bilancio dell'anno in corso sarà ovviamente molto più interessante, visto l'aumento delle quotazioni del greggio.

1 luglio 2010

Le reti elettriche a Piazza Affari: Tesmec ipo dell'anno



Le reti elettriche sfidano le turbolenze e vanno in Borsa. La prima e probabilmente unica matricola di quest'anno, che affronterà oggi la prova della Borsa, sarà il gruppo Tesmec, uno dei primi player mondiali nella posa delle reti elettriche ad alto voltaggio. Mentre tutte le altre Ipo continuano a slittare, il gruppo bergamasco ha deciso di tener fede agli annunci e ha concluso venerdì scorso il collocamento di oltre 53 milioni di azioni, più gli 8 milioni della greeenshoe.


"La quotazione in Borsa fa parte di un progetto di lungo periodo, è un passaggio obbligato per competere sul piano globale, su appalti miliardari dove la solidità finanziaria e la credibilità del fornitore sono molto importanti", spiega il presidente e amministratore delegato Ambrogio Caccia Dominioni. Al termine dell'operazione, la capitalizzazione oscillerà fra 75 e 107 milioni di euro, ma solo 16,5 milioni derivano da un aumento di capitale, mentre il resto verrà dalla vendita della partecipazione del socio finanziario, Gianluca Vacchi, che scende dal 40 al 2%. In pratica, considerando che così andrà sul mercato oltre il 57% del capitale e la società diventerà contendibile, lo sbarco in Piazza Affari rappresenta per la famiglia anche un modo per facilitare alleanze di ampio raggio e per gestire meglio, in futuro, la successione. Ecco perché lo scorso autunno Caccia Dominioni lasciò cadere l'offerta del fondo di private equity di Giuseppe Tronchetti Provera, Ambienta, che sarebbe entrato a un prezzo superiore di quello oggi pagato dal mercato.


"Il nostro settore è al centro di una rivoluzione epocale, le reti diventano internazionali e sempre più intelligenti, devono reggere la produzione incostante delle fonti rinnovabili e sviluppare funzioni di misurazione che una volta non avevano, si parla di smart grid e di generare energia in luoghi sempre più lontani dai centri di consumo", spiega Caccia Dominioni. Non a caso il gruppo bergamasco, che può contare su trecento dipendenti e su un fatturato superiore a 86 milioni di euro e utili oltre i 7 milioni, fa il 95 per cento del suo giro d'affari all'estero. Ha contribuito ad esempio alla posa della prima linea ad altissimo voltaggio del mondo, appena completata in Cina, capace di reggere una tensione fino a 1000 kilovolt e lunga 623 chilometri, su tralicci alti quanto la Tour Eiffel.


L'asso nella manica di Tesmec sono le sue macchine. I bestioni, sfornati dai tre stabilimenti lombardi e da una fabbrica ad Alvarado, in Texas, sono specializzati da un lato nella tesatura di linee elettriche (anche ferroviarie) e cavi in fibra ottica, dall'altro negli scavi in linea per la posa di reti e di tubi interrati. Nei due settori, complementari e fondamentali per le opere infrastrutturali, il gruppo ha il 17 e il 16 per cento del mercato globale. L'obiettivo, ora, è crescere nei Paesi dove le infrastrutture sono al centro dello sviluppo, dall'India alla Cina al Medio Oriente, tutte economie che godono di ampie riseve di liquidità, con cui i governi pianificano importanti investimenti. Lo sbarco in Borsa aiuterà a finanziare l'espansione e a ottenere maggiore visibilità a livello internazionale.