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24 gennaio 2005

E' un telefonino, ma anche un portafoglio

Con i cellulari ormai si scattano foto, si naviga in rete, si ascolta musica. Perché non usarli anche come portafoglio digitale? La tecnologia esiste, in Giappone e in Corea si fa già, ma per essere accettato in Occidente il sistema ha ancora molta strada da fare. Alcuni degli ultimi cellulari – in particolare i Sony e i Nokia, due aziende che hanno scommesso da tempo su questo business – sono già dotati di un chip che consente di trasformarli in un portafoglio digitale. Caricati a dovere, questi telefonini possono assolvere al ruolo di una carta di credito semplicemente avvicinandoli a un parchimetro, a un distributore automatico di snack o a un registratore di cassa e dando l'indicazione dell'importo da pagare. Un'abitudine ancora sconosciuta in Occidente, ma il fenomeno merita una certa attenzione: secondo Juniper Research, infatti, il commercio tramite cellulare è destinato raggiungere un giro d'affari da 88 miliardi di dollari nel 2009. Resta il fatto che il chip da inserire nel telefonino è solo un lato dell'equazione: finché i commercianti non si decideranno ad investire nei lettori capaci d'interfacciarsi con questi cellulari e la tecnologia non sarà più diffusa, i consumatori non s'imbarcheranno in quest'avventura. I primi ad avviare un esperimento di massa sono stati i giapponesi di Ntt DoCoMo, che hanno lanciato in luglio diversi telefonini dotati del chip necessario a diventare un portafoglio digitale. Il servizio, chiamato I-Mode FeliCa, consente di registrare una certa cifra sul telefonino, che può essere poi usata per fare acquisti in diverse catene di grandi magazzini, da McDonald's o per comprare i biglietti dei treni e degli aerei di alcune compagnie. In Norvegia, la Telenor ha avviato un sistema analogo poche settimane fa. La tecnologia utilizzata è un'estensione del sistema Rfid (Radio Frequency Identification), un metodo di trasmissione dati a distanze modeste che viene già ampiamente applicato nella logistica della grande distribuzione. Il colosso olandese Philips è l'azienda produttrice più avanzata in questa tecnologia, chiamata Near Field Communication (Nfc) e ha annunciato all'inizio di quest'anno diversi accordi con Samsung, Sony e Nokia per inserire un chip Nfc in tutti i loro nuovi modelli. Oltre al protafoglio virtuale, gli analisti elencano miriadi di altre applicazioni, dalla registrazione della carta d'imbarco per abbreviare i tempi morti negli aeroporti all'archiviazione dei dati sanitari per portarseli sempre dietro. Ma ogni sistema di pagamento comporta una vasta rete di cooperazione fra soggetti diversi: la tecnologia Nfc richiede d'inserire un sistema di lettura specifico nei terminali dei negozi per la trasmissione dati delle carte di credito e quindi il coinvolgimento delle società di emissione delle carte, oltre che dei commercianti. Visa, che sta lavorando da due anni con Philips per sviluppare questo sistema, è il prima colosso del credito che si muove con decisione in questo senso. Secondo Debbie Arnold, vicepresidente di Visa e responsabile per i sistemi non convenzionali di pagamento, il portafoglio virtuale è una logica evoluzione sia per le carte di credito che per i telefonini. “In quest'epoca di trasmissione dati ad alta velocità, di cellulari sempre più potenti e di commercio virtuale sempre più diffuso, è molto strano che le alternative digitali ai contanti stentino ancora a prendere piede”, fa notare Arnold. Una spiegazione potrebbe essere la sicurezza. Che cosa succede quando un telefonino con migliaia di dollari registrati, o con altri dati riservati, va perso o viene rubato? Prima di affidarli al suo cellulare, l'utente vorrà almeno avere la certezza che l'accesso a questi dati non possa essere utilizzato da altri in maniera fraudolenta. Per ottenere questo risultato, alcuni produttori come Ericsson, Intel o Nokia stanno ricorrendo alla sicurezza biometrica e puntano su mini-scanner delle impronte digitali, talmente piccoli da poterli inserire in un telefonino. Così gli utenti saranno in grado di chiudere l'accesso ai dati e renderlo davvero esclusivo. Una soluzione che per ora resta però a livello sperimentale.

15 gennaio 2005

Covey: il segreto sta nella fiducia

Steven Covey racconta spesso questa storiella: "Una volta un padre mi disse: 'Non riesco a capire mio figlio, non mi sta mai ad ascoltare'. Allora io gli chiesi: 'Non riesci a capire tuo figlio perché lui non ti ascolta?' 'Esattamente', rispose. 'Proviamo di nuovo'. E ripetei: 'Non riesci a capire tuo figlio perché lui non ti ascolta?' 'E' quello che ho detto!' mi rispose. 'Pensavo che per capire qualcuno dovessi essere tu ad ascoltare lui', suggerii". La storiella del padre e del figlio illustra bene il quinto dei sette "comandamenti" di Covey: "Prima cerca di capire e poi di farti capire". Per arrivare alla produzione perfetta, una specie di Nirvana per il più noto guru americano della produttività, secondo Covey basta acquisire questa e le altre sei abitudini fondamentali: agisci deliberatamente, comincia sapendo già dove vuoi arrivare, metti le tue azioni in ordine d'importanza, organizzati in modo da beneficiare anche gli altri e non solo te stesso, cerca le sinergie, rinnovati continuamente. Sembrano luoghi comuni, ma per Covey sono sufficienti, se interiorizzati con metodo, a migliorare in maniera sostanziale la performance di chiunque in qualsiasi ambiente di lavoro (per non parlare della vita privata). E a giudicare dai suoi successi il metodo funziona. Covey è stato recentemente inserito dalla rivista Time nella lista dei 25 americani più influenti: fra i suoi clienti non ci sono solo grandi multinazionali come Wal-Mart, Toyota, Shell, Siemens, Nestlè e General Motors, ma anche leader politici come Kim Dae Jung, Vicente Fox, Margaret Thatcher o Bill Clinton. L'incrollabile fiducia di Covey nella capacità di reinventarsi, di rimettersi continuamente in discussione, di collaborare con gli altri, è un tratto tipicamente americano, difficile da applicare in contesti sociali diversi, dove la mobilità sociale e geografica è molto meno spiccata. Ma proprio per l'estrema rigidità degli ambienti di lavoro europei, la sfida di applicare anche da questa parte dell'Atlantico le regole di vita che il guru mormone cerca di insegnare ai suoi clienti diventa particolarmente attraente. Secondo un recente sondaggio di Harris Interactive, meno di metà (44%) dei dipendenti di una grande impresa hanno una comprensione chiara degli obiettivi ultimi della loro società. Solo uno su sei pensa che la società si sia data una meta precisa. Uno su cinque dichiara di sentirsi impegnato a raggiungerli e uno su dieci li condivide completamente. La maggior parte degli intervistati ammette di spendere oltre la metà del proprio tempo a sbrigare incarichi urgenti ma non realmente importanti. "Mettendo insieme questi dati - nota Covey - c'è poco da stupirsi che molte organizzazioni finiscano per perdere di vista le vere priorità e per mancare i propri obiettivi". In un'epoca caratterizzata dalla necessità per le aziende di crescere limitando i costi, liberare il potenziale umano già presente, ma imprigionato dalle carenze strategiche interne, può diventare una formidabile occasione di sviluppo. "Il più grande tesoro di un'azienda - spiega Covey - è quello che ha già: sono i suoi dipendenti. Basta riscoprirli e valorizzarli". Un altro punto fondamentale degli insegnamenti di Covey, l'importanza della fiducia all'interno delle grandi organizzazioni, suona molto attuale di questi tempi, sotto il segno di Enron e Parmalat. "Il costo della mancanza di fiducia in un'azienda è altissimo - commenta Covey - anche se risulta difficile quantificarne le ricadute sui risultati di bilancio". Alla platea del World Business Forum, Covey spiegherà com'è possibile interrompere il circolo vizioso delle emergenze continue, per rimettere a fuoco gli scopi più importanti su cui si deve incentrare l'attività di ogni individuo e di ogni team che faccia parte di una vasta organizzazione. Soprattutto in un'epoca di congiuntura stagnante, come quella che sta vivendo l'Europa in questi anni, si sente davvero il bisogno di rimettere ordine nelle priorità e di creare una cultura aziendale più vibrante. Riposizionare le proprie abitudini e scoprire il potenziale umano nascosto nelle pieghe della routine, che ci intontisce giorno dopo giorno, potrebbe essere un ottimo antidoto per scuotersi di dosso la sensazione di girare in tondo, che ormai opprime l'industria italiana.

12 gennaio 2005

La storia infinita delle scorie nucleari

Scanzano ha vinto la sua battaglia contro le scorie nucleari: non finiranno sepolte nelle miniere lucane di salgemma le migliaia di barre radioattive ancora stipate a Caorso, nel Piacentino, e nei depositi piemontesi di Saluggia. Dopo quasi vent'anni di “sonno”, la decisione di trasferire in Francia e in Gran Bretagna per il riprocessamento tutto il materiale fissile che ci è rimasto in eredità dall'esperienza nucleare, al modico prezzo di 300 milioni di euro, rappresenta una vittoria clamorosa per gli attivisti che hanno animato un anno fa la rivolta popolare contro la designazione di Scanzano Ionico come sito ideale per lo stoccaggio. Dopo la Sardegna, prima sede scelta dal governo per smaltire i 70 mila metri cubi di scorie radioattive prodotte dalla stagione italiana dell'atomo, la ribellione localistica contro i rifiuti scomodi è passata in Basilicata, per toccare anche Sicilia e Toscana, sull'onda delle voci che le vedevano come probabili localizzazioni alternative. Eppure l'energia atomica, fin che c'era, veniva utilizzata da tutti. Ma oggi è l'Italia intera, in ordine sparso, a rigettare l'ipotesi di ospitare sul proprio territorio le scorie derivate da quella produzione elettrica. Salvo poi riporsi il problema fra vent'anni, quando il materiale residuo verrà rispedito al mittente, a conclusione del riprocessamento. Con l'ordine impartito alla fine di dicembre dal commissario alla sicurezza nucleare Carlo Jean, che ha affidato alla Sogin il compito di svuotare i depositi italiani per dare avvio all'operazione, si dà per la prima volta ufficialmente ragione a chi punta sulla rissa per anteporre i veti locali all'interesse nazionale: la sindrome Nimby, acronimo inglese per "not in my backyard" (non nel mio cortile), ha colpito ancora. E non sarà l'ultima volta. Secondo il censimento del Nimby Forum, un progetto di monitoraggio promosso da Allea, oggi in Italia gli impianti fermi a causa di proteste di piazza sono 130, in aumento rispetto ai 92 casi contati sei mesi fa. Fra i più contestati sono i progetti nel campo dello smaltimento dei rifiuti: una trentina di impianti d'incenerimento ("termovalorizzatori" secondo la nuova definizione), destinati a bruciare i rifiuti ottenendo energia elettrica da vendere alla rete nazionale, sono bloccati dall'opposizione locale in giro per l'Italia. Quello di Acerra è il caso più eclatante: il cantiere avviato dal gruppo Impregilo alle porte di Napoli è fermo da anni grazie alle contestazioni e alle minacce personali, culminate alla fine dell'estate scorsa con l'occupazione delle strade e i blocchi dei collegamenti Roma-Napoli, con le posizioni barricadere del sindaco Espedito Marletta e con il blitz delle forze dell'ordine. Il commissario straordinario per l'emergenza rifiuti in Campania, Corrado Catenacci, aveva assicurato che in settembre avrebbe imposto la ripresa dei lavori, ma a tutt'oggi il cantiere è fermo, presidiato dalla polizia, e nessuno crede veramente che il termovalorizzatore si farà. "La malavita - sostiene Catenacci - è fortemente impegnata nel business delle discariche: se calcoliamo il valore degli appalti in tutta la regione, il giro d'affari su cui può contare il circuito malavitoso è di 500 milioni di euro l'anno, una cifra che la costruzione di termovalorizzatori prosciugherebbe". Ma la sindrome non colpisce solo il Sud: gli attivisti del comitato Nimby (niente a che fare con il Nimby Forum) hanno accumulato ormai quasi trecento giorni di digiuno per protestare contro la costruzione di un termovalorizzatore a Ischia Podetti, in Trentino. Problemi analoghi si riscontrano sulla costruzione di altre infrastrutture, dalle centrali elettriche agli elettrodotti, dai ripetitori telefonici ai porti turistici, dalle strade alle ferrovie. E' della settimana scorsa l'ennesimo appello degli enti locali contro la riconversione a carbone della centrale Enel di Civitavecchia, un'altra storia infinita che non accenna a risolversi, mentre 12mila megawatt di energia a basso costo restano bloccati a Nord delle Alpi dall'opposizione a 41 linee d'interconnessione transfontaliera. Un quarto di queste linee ad alta tensione attraverserebbero la Val Chiavenna e la Valtellina, dove gli elettrodotti si abbattono a colpi di cheddite, l'esplosivo da cava che la scorsa primavera ha abbattuto un pilone lungo la linea che scende dalla Svizzera, rischiando di colpire uno stabilimento Vallespluga. Nel campo della viabilità, i progetti colpiti e spesso affondati dalla sindrome Nimby non si contano: ultima vittima è la BreBeMi, la direttissima Milano-Brescia pensata per sgravare il tratto dell'A4 tra i due centri lombardi, congelata in dirittura d'arrivo, dopo cinque anni di dibattito, dalla nuova giunta provinciale perché presenterebbe problemi d'impatto ambientale. Fioriscono le proteste locali, con allegre grigliate sul tracciato autostradale e presidi in ogni paesino, contro le varie pedemontane in Piemonte, Lombardia e Veneto. E una discarica che non si vuole spostare blocca da sei mesi i lavori dell'alta velocità ferroviaria in Emilia-Romagna, su un tratto di 800 metri a Modena, dove le opere per la Tav sono già quasi ultimate.Resta da chiedersi: ha senso condurre le diatribe sulle opere pubbliche a colpi di risse, piazzate, manifestazioni e blocchi ai pubblici servizi? La vittoria di Scanzano dimostra di sì.

10 gennaio 2005

Sean Meehan

Sean Meehan è il Mike O'Leary del marketing: ai clienti – dice - non va dato un prodotto diverso da quello della concorrenza, ma migliore. E migliore in molti casi significa più semplice. In un'epoca senza fiato come la nostra, la gente ama chi le semplifica la vita. “Un servizio che funziona davvero, un'auto che non ti lascia in panne, un telefono facile da usare, un piano tariffario comprensibile a colpo d'occhio, sono questi i prodotti che fanno guadagnare quote di mercato”, spiega Meehan, di passaggio a Milano per presentare alla business community il suo libro Simply Better, in un forum promosso dall'Imd di Losanna in collaborazione con Gea. Pubblicato in settembre dalla Harvard Business School Press, Simply Better è scoppiato come una bomba nel mondo del marketing, dove da cinquant'anni si cerca di ammaliare la clientela presentando ogni novità come unica e inimitabile. “Ma la gente non cerca soluzioni rivoluzionarie, si accontenta di soluzioni migliori: un operatore che offre tariffe telefoniche al secondo invece che al minuto, una compagnia automobilistica che dà sei mani di vernice invece di cinque, un supermercato che ti fa fare la spesa online come se fossi nel negozio”. Back to basics è il mantra di Sean Meehan, docente di marketing all'Imd, e del suo co-autore Patrick Barwise, che insegna alla London Business School. Basta trattare i clienti come dei bambini, da affascinare con un branding mirabolante e con promesse fantasmagoriche, che spesso non vengono mantenute. “Smettiamo – martella Meehan – di puntare al colpo di fulmine, alla killer application, perché di occasioni così ne capitano davvero raramente. Cerchiamo invece di battere la concorrenza con un'offerta un po' migliore, rispondendo alle esigenze di base del cliente”. Un appello contro l'innovazione tecnologica? No, risponde Meehan, l'innovazione ci vuole. Ma bisogna aggiungere tecnologia solo lì dove serve, non tanto per fare. E soprattutto bisogna essere capaci di aggiungerla senza complicare la vita all'utente. “Altrimenti – chiarisce Meehan – meglio lasciar perdere”. Negli esempi che cita, da Toyota a Tesco, da Unilever a Cemex, la corsa alla semplicità ha sempre un impatto evidente sul conto economico. A differenza delle grandi strategie di marketing, i cui effetti sono spesso difficili da quantificare, Meehan si sforza di mettere sul tavolo numeri chiari: in questo senso il caso più emblematico è Orange. Nella storia della liberalizzazione britannica delle tlc, Orange e One2One hanno avuto contemporaneamente una licenza, sono state soggette alla stessa autorità regolatrice, hanno avuto entrambe una casa madre generosa alle spalle e capacità tecnologiche analoghe. Dieci anni dopo, sono passate di mano a distanza di sei mesi l'una dall'altra: Orange, quella delle tariffe al secondo, valeva 28 miliardi di euro e One2One neanche 10.L'attenzione alle necessità del cliente evidentemente paga. Ma come si fa a sapere che cosa vuole? “Basta mettersi nei suoi panni – suggerisce Meehan - provare i propri prodotti o i propri servizi mettendosi in fila con gli altri: in questo modo non sarà difficile scoprire le assurdità che gli vengono propinate tutti i giorni dai nostri stessi dipendenti”. Un esperimento scomodo e difficile, che evidentemente i grandi manager praticano sempre di meno: Michael O'Leary, il fondatore di RyanAir, è famoso per la sua mania di mischiarsi con la gente agli sportelli. E' lì che ha capito cosa volevano i passeggeri europei: volare a buon prezzo, senza tanti orpelli. Una constatazione banale, ma vincente. Come quelle di Meehan, un altro irlandese che rischia di fare epoca.

8 gennaio 2005

La dieta sul palmare

Dopo le feste, è tempo di rimettersi in forma. Per chi ha uno smart phone in tasca, può essere più facile. Una delle ultime novità in materia di diete tecnologiche è il programma prodotto della Weight Watchers in alleanza con Palm, che consente l'accesso via cellulare a tutti i dati relativi alla propria dieta, depositati in un elaboratore centrale. Weight Watchers On-the-Go, lanciato a metà dicembre, permette agli abbonati di consultare la lista dei cibi e di utilizzare una serie di strumenti interattivi per non perdere il conto dei punti mentre sono in giro. I fan della dieta Atkins, invece, dovranno attendere ancora qualche giorno. Atkins2Go, una guida ai carboidrati che misura anche l'aderenza alla tabella di marcia pasto per pasto, partirà alla fine di questo mese, con due versioni diverse sviluppate da NoviiMedia, una per i cellulari tradizionali e una più adatta agli smart phone. Atkins si sta mettendo d'accordo con i vari operatori mobili per consentire agli abbonati di pagare il servizio con un semplice sovrappiù sulla bolletta telefonica. E la mossa di Weight Watchers sta smuovendo tutto il mercato: anche South Beach Diet, una società specializzata in consigli nutrizionali meno famosa ma molto seguita negli Stati Uniti, si sta mettendo sulla stessa strada. Per gli appassionati di diete che sono spesso fuori casa, dunque, la vita si fa più facile. "Così non è più necessario portarsi dietro il solito libretto con la tabella di marcia e i valori nutrizionali dei vari cibi", spiega Scott Parlee, il responsabile del programma Weight Watchers On-the-Go. "Al ristorante o in palestra, ora gli abbonati possono controllare direttamente quanti punti ha perso o ha guadagnato e quali sono i cibi compatibili con il suo regime. Questo li spinge a non eccedere anche quando sono lontano da casa”, precisa Parlee. Soprattutto per chi viaggia molto, il cellulare o lo smart phone sono diventati compagni inseparabili: con il nuovo sistema non ci sono più scuse per uscire dai binari. La risposta delle “cavie” usata nel periodo dei test è stata entusiastica. Manager, viaggiatori di commercio o inviati, abituati a mangiare quasi sempre al ristorante, ora possono navigare in un database di 25mila voci, che classifica alimenti, ristoranti e cibi confezionati, in base al programma dell'abbonato. In pratica, è come avere un sistema di posizionamento veloce sul terreno accidentato del mangiare sano. Ma Weight Watchers non è la prima azienda a offrire contenuti di questo tipo sulle antenne dei telefonini: Handango, una società che vende applicazioni per cellulari e palmari, ha già venduto negli ultimi mesi 400mila programmi per maniaci della forma. Scaricare Diet & Exercise Assistant costa 20 dollari ed è ormai uno delle applicazioni più vendute: è specializzato nel monitoraggio della calorie assunte, che mette in relazione con quelle bruciate facendo del movimento. “Tutti i grandi consumatori di diete ormai sono sempre in giro con un cellulare o uno smart phone in tasca: un mercato gigantesco per questo tipo di contenuti”, commenta Clint Patterson, vice presidente di Handango. “Un cellulare – aggiunge Patterson - può gestire la tua dieta molto meglio di una moglie o un marito, perché è sempre con te”. Weight Watchers ha capito dal successo di Fandango che era ora di muoversi: uno degli scogli principali della dieta, infatti, è il lavoro di contabilità che si deve fare per seguirla. Un avido misuratore di calorie farebbe di tutto per liberarsi da questo lavoro e delle applicazioni capaci di svolgerlo al suo posto rappresentano un ottimo motivo per mettersi in linea con il cellulare. Lo stesso concetto si può applicare agli strumenti per facilitare l'esercizio fisico, come i vari apparecchi che aiutano gli appassionati dello jogging a misurare la propsia performance con un sistema di posizionamento satellitare Gps. La Nike ne ha lanciato uno qualche mese fa in partnership con Philips: MP3RUN, che misura i chilometri percorsi e anche il battito cardiaco. Tutti sistemi che potrebbero essere facilmente integrati in un cellulare e in alcuni casi sperimentali lo sono già. L'ampia area dei contenuti salutistici non è ancora diffusa in Europa, ma prima o poi lo sarà: non a caso il 60% dei decessi nel mondo industrializzato, secondo i dati dell'Oms, dipendono da malattie legate a una dieta poco sana o alla mancanza di esercizio.

5 gennaio 2005

Un bosco italiano sull'Orinoco

Lungo il basso corso dell'Orinoco, là dove le acque dell'immenso fiume venezuelano scorrono in mezzo alla savana dopo generazioni di deforestazione, sta nascendo un bosco italiano. "Per ora sono 1.500 ettari, su cui abbiamo avviato l'estate scorsa un progetto pilota di riforestazione, ma ci sono altri 10.000 ettari disponibili, dove incominceremo a piantare in primavera", spiega Luca Cidonio, finora l'unico imprenditore italiano sceso in campo sui "meccanismi flessibili" del protocollo di Kyoto, che con la ratifica del Parlamento russo sta per entrare in vigore. Uno dei meccanismi flessibili previsti dal protocollo, il Clean Development Mechanism (Cdm), consente alle imprese dei Paesi industrializzati di realizzare progetti che mirano alla riduzione delle emissioni di gas serra nei Paesi in via di sviluppo. Le emissioni tagliate grazie alla realizzazione dei progetti generano dei crediti, che possono essere utilizzati per l'osservanza degli impegni di riduzione assegnati a ogni impianto produttivo. Ma il requisito essenziale per partecipare a questo meccanismo è la definizione di un piano delle quote di emissione da assegnare a ogni stabilimento, che in Italia non è ancora finalizzato: il nostro piano, presentato a Bruxelles in luglio con tre mesi di ritardo, giace all'esame della Commissione europea, che la settimana scorsa ne ha autorizzati altri otto arrivando a quota sedici, corrispondenti a oltre 7.000 impianti produttivi (sui 12.000 europei). Il piano italiano è considerato molto controverso dalla direzione generale dell'Ambiente, perché sfora di circa cento milioni di tonnellate di anidride carbonica (575 milioni di tonnellate contro i 475 previsti) gli obiettivi prefissati. L'unico mezzo per rientrare nei limiti senza prendere la multa, sarà l'acquisto di quote di emissione all'estero. Ma non è ancora chiaro se e quando le imprese italiane potranno accedere agli scambi europei, che partiranno il 1° gennaio 2005 per i Paesi in regola con i piani di allocazione. I progetti di riforestazione sono fra i più tipici utilizzati per mettere in moto questo meccanismo e nei Paesi in via di sviluppo - dal Brasile alla Tanzania, dall'Indonesia all'Ecuador - ne sono già partiti parecchi. "Naturalmente l'impresa che si occupa della riforestazione – spiega Cidonio - deve rispettare una serie di parametri per generare crediti validi: da un lato la quantità di gas serra, in questo caso anidride carbonica, abbattuta nel corso del progetto dev'essere precisamente misurata e dall'altro lato dev'essere chiaro che il progetto, senza l'incentivo dei crediti, non sarebbe realizzabile”. In pratica, non si possono generare crediti semplicemente come effetto collaterale di una riforestazione che avverrebbe comunque per altri scopi commerciali. Per Cidonio, un ingegnere meccanico cresciuto nel gruppo Cir, la decisione di dedicarsi completamente a questo progetto è arrivata nel 2002, quando si sono chiariti i dettagli operativi per l'utilizzo della riforestazione nella generazione di carbon credits e si è cominciata a vedere una certa vitalità nello scambio di emissioni a livello mondiale. Appoggiandosi sulle attività del padre Pierfilippo a Caracas, dove opera da tempo nel settore alberghiero, Cidonio ha fondato in loco la Carbon Sinks de Venezuela e ha cominciato nel giugno 2003 a piantare i primi alberi vicino a Mapire, sull'Orinoco. “Qui la savana ha rimpiazzato ormai da anni le foreste, ricacciate indietro dalla pressione dell'uomo che taglia gli alberi per usarli come combustibile o per far pascolare il bestiame: ora noi abbiamo avviato la riforestazione con metodi molto diversi dalle piantagioni commerciali, cercando di rispettare la biodiversità. L'arco di crescita di queste piante sono 15 anni, nel corso dei quali vengono assorbite annualmente 400 tonnellate di anidride carbonica per ettaro, che generano 400 crediti di emissione”, precisa Cidonio. In accordo con la Banca Mondiale, che ha creato quattro diversi fondi per sostenere questo tipo di progetti (fra cui l'Italian Carbon Fund, finanziato dal governo italiano con 40 milioni di euro), la Carbon Sinks de Venezuela allargherà fra qualche mese la sua piantagione a circa 12mila ettari complessivi, un progetto di dimensioni ragguardevoli in confronto agli altri già in corso. L'anidiride carbonica assorbita da questi alberi, alle quotazioni attuali, costa circa 5 dollari a tonnellata. “Ma nei prossimi anni – sostiene Cidonio, confortato dal parere degli esperti in materia – le quotazioni sono destinate a salire parecchio”.Già oggi in Europa una tonnellata di anidride carbonica costa circa il doppio (10 dollari), mentre il governo russo ha più volte dichiarato di voler vendere i propri diritti di emissione a 70-100 dollari la tonnellata. Basta fare due conti per rendersi conto che lo sforamento previsto dal governo italiano potrebbe costare alle nostre imprese attorno ai 5 miliardi l'anno. Per i pionieri come Cidonio, tanto di guadagnato.

4 gennaio 2005

Bill Gross

Scommettere poco quando le probabilità di vincere sono basse, molto quando diventano più alte: nel lontano 1966, ai tavoli del blackjack dei casinò di Las Vegas, Bill Gross metteva in pratica, da giocatore professionista, le stesse tecniche che usa oggi per battere il mercato con i fondi obbligazionari di Pimco (Pacific Investment Management Company), una delle società di gestione del risparmio più grandi del mondo, con un patrimonio di quasi 400 miliardi di dollari.
Facile a dirsi, più difficile a farsi: può spiegare la sua tecnica un po’ più nei dettagli?
“Un portafoglio obbligazionario ha sempre una frontiera di efficienza strutturale e il tentativo di raggiungerla è allegoricamente imparentato con la ricerca della pietra filosofale, laddove il gestore invece di trasformare piombo in oro, cerca di aumentare il valore aggiunto sull’indice di riferimento, ma senza aumentare il rischio (qualificazione importantissima)”.
Come?
“Quando si vuole investire su un determinato mercato è molto importante basarsi su analisi approfondite dei trend macroeconomici: esaminare l’evoluzione demografica, il livello di globalizzazione, le attitudini dell’opinione pubblica. In questo modo di solito si riesce a battere la concorrenza. Ma la possibilità di compiere un errore c’è sempre. In particolare dopo l'11 settembre la scena internazionale è diventata molto più instabile e rischiosa. Qui entrano in gioco le capacità di innalzare una serie di difese, con cui sia possibile proteggere i risultati acquisiti e aumentare il valore aggiunto di un investimento anche quando i mercati sono fermi o quando il tocco magico sembra avervi abbandonato”.
Lei parla di struttura dell'investimento, un aspetto a cui solitamente si dà poca attenzione...
"Ma è un errore. E' chiaro che fa più notizia quando Pimco acquista 35 miliardi di Treasuries ed è più divertente parlare della visione lungimirante di Warren Buffett piuttosto che della struttura dei suoi investimenti. Ma il segreto di Warren Buffett non sta nel suo naso per i buoni affari, sta nella sua struttura. Scommettere sul cavallo vincente è solo la seconda parte di un investimento: identificare una struttura vincente, invece, è la prima parte, ma non se ne parla mai. La struttura di Warren Buffett è brillante, anche se a lui non piace pubblicizzarla. Ne ha gettate le basi quando ha cominciato a comprare compagnie assicurative, che offronco il vantaggio di utilizzare riserve non proprie sostanzialmente senza interessi. Quando Buffett ha comprato Geico e General Re stava comprando una struttura, cioè la possibilità di prendere a prestito a interessi zero e di utilizzare quei fondi dall'interno del bozzolo di una compagnia assicurativa. Combinando il suo fiuto con la sua struttura, non c'è da stupirsi che quell'uomo faccia i miliardi".
Anche Pimco ha una sua struttura...
"Naturalmente. La spiccata capacità di Pimco di battere il mercato viene in parte dalla nostra filosofia d'investimento, ma soprattutto dalla struttura. La mia struttura, in un certo senso, include l'abilità di vendere liquidità o volatilità di corto raggio e di aggiungere questi profitti al risultato finale. Dei 100 o 150 punti base che guadagnamo sul nostro punto di riferimento e che promettiamo ai clienti, almeno 30 o 40 vengono dalla struttura. Probabilmente la più importante decisione strutturale che un consulente può prendere per un cliente ha a che fare con le commissioni. In quest'epoca di rendimenti bassi, un 1% di commissioni può fare un'enorme differenza sul risultato finale. Se ci si muove in un ambiente finanziario dove azioni e obbligazioni non offrono rendimenti superiori al 5% l'anno, una commissione dell'1% rappresenta il 20% del rendimento. E' gigantesco".
Lei ha parlato di struttura anche come strategia difensiva. Quali sono le sue difese preferite?
“Le difese di Pimco si sono evolute nel corso degli anni, aggiungendo un tocco qui e uno là, man mano che si dimostravano capaci di generare profitti con continuità, per ottenere una struttura basata su principi fondamentali, quasi permanenti, capaci di andare oltre i cicli di 3-5 anni su cui si concentrano le nostre previsioni. La magia di una struttura davvero efficiente viene dalla sua capacità di restare valida nel tempo. Negli anni Cinquanta il premio Nobel Harry Markowitz ha tentato di estendere la frontiera dell’efficienza di un portafoglio azionario con la diversificazione. Noi stiamo facendo lo stesso con un portafoglio obbligazionario”.
Nella pratica?
“Reinventare la ruota non serve, ma la nostra struttura si basa sulla formazione nel tempo di tutta una serie di nuove ruote, fatte di materiali più moderni invece che di pietra. Alcune innovazioni finanziare ci sono sembrate inutili o persino dannose e infatti si sono ben presto schiantate, altre invece ci sono sembrate delle buone difese, dai futures agli swaps, da un moderato uso delle opzioni e della volatilità all’ingresso in un settore molto liquido come quello dei mercati emergenti".
Non può essere più preciso?
"No. Da un lato si tratta di aggiustamenti minimi affinati nel corso degli anni che sarebbe difficile descrivere, dall'altro i miei clienti non sarebbero contenti se andassi a raccontare a tutti i miei segreti. Posso dire solo questo: per aggiungere profitti permanenti senza aumentare i rischi bisogna individuare all'interno dell'indice stesso quegli elementi strutturali che assicurino nel tempo i risultati migliori in relazione al rischio e accentuarli, riducendo d'altro canto le strutture che vanno nella direzione opposta. In un certo senso è lo stesso sistema che usavo al tavolo del blackjack quando facevo il giocatore professionista, alla fine degli anni Sessanta: mi limitavo a piccole giocate quando le probabilità erano in favore del banco e le raddoppiavo, triplicavo o quadruplicavo quando le carte che erano rimaste nel mazzo mi favorivano..."

3 gennaio 2005

Aria di rifondazione all'Enea

Aria di rifondazione all'Enea. Sulla scia del riordino più generale della ricerca pubblica, l'Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente guidato dal fisico Carlo Rubbia, ridotto in pochi anni da cinquemila a tremila persone, riparte dalle applicazioni industriali e riarticola la sua attività su cinque dipartimenti: i progetti speciali, l'ambiente e lo sviluppo sostenibile, le tecnologie fisiche e la fusione, le tecnologie energetiche, i nuovi materiali. Ma soprattutto, affianca alla gestione scientifica di Rubbia un manager come Paolo Savona, appena nominato presidente del Comitato d'indirizzo e coordinamento dei progetti di industrializzazione dal ministro delle Attività produttive Antonio Marzano. Sarà questo comitato, composto da sette membri in rappresentanza di tutto il tessuto industriale e artigianale del Paese, a fare da cerniera di trasmissione con il mondo delle imprese e a indirizzare l'attività dei ricercatori a partire dal mercato. Con la conferma, dopo un lungo interim, di Giovanni Lelli a direttore generale dell'ente, l'ultimo consiglio d'amministrazione, tenutosi subito prima di Natale, può dire di aver varato la nuova navicella, sperando in un futuro meno conflittuale del passato. L'Enea, nato per guidare l'Italia nel mondo dell'energia atomica e più tardi riconvertito allo studio e alla diffusione delle energie alternative, ora affiancate dalle nuove tecnologie e dall'ambiente, negli ultimi quattro anni ha cambiato tre direttori generali. E da quando il Nobel per la fisica Carlo Rubbia si è insediato alla sua guida, nel '99, a più riprese ha rischiato lo smembramento in tre tronconi diversi, da accorpare in parte al ministero dell'Ambiente e in parte alle Attività produttive. Sullo stesso Rubbia, nominato presidente dal governo di Massimo D'Alema e confermato commissario dell'ente nel 2001 dal governo attuale, si sono abbattute diverse bufere politiche: prima con la bocciatura (non vincolante) della sua riconferma a presidente - concluso il commissariamento a fine 2003 - da parte della commissione Attività produttive della Camera, presieduta da Bruno Tabacci, e poi con la recente lettera di protesta "bipartisan" di tutto il parlamentino dell'Enea per chiedere la sua sostituzione. Non si sollevano dubbi, ovviamente, sulla statura scientifica del professore, ma sulle sue capacità manageriali. E' anche per questo che nel nuovo assetto si pone molto l'accento sulla necessità di mettersi in collegamento con il mercato e con le esigenze delle imprese. "Per un buon funzionamento dell'ente, è essenziale incentivare il processo di trasferimento tecnologico verso le imprese", spiega Cosimo Dell'Aria, rappresentante del ministro Marzano nel cda dell'Enea. "Con il nuovo regolamento - precisa Dell'Aria - che entrerà in vigore in gennaio dopo il parere del ministero, verranno modificati in maniera sostanziale i processi interni, introducendo un momento di decisione comune e una serie di scambi d'informazioni fra i vertici dell'ente, il Comitato d'indirizzo e il Consiglio scientifico, di cui dev'essera ancora completata la composizione". Entro le prime settimane dell'anno la nuova geografia dei poteri dell'Enea dovrebbe essere perfezionata con la nomina dei responsabili dei cinque dipartimenti e delle tre direzioni centrali. "Non appena la nuova struttura si sarà stabilizzata, procederemo alla costituzione di una holding, cui sarà affidata la gestione delle partecipazioni dell'Enea in aziende industriali", precisa Dell'Aria. A questa holding, di diritto privato, potranno essere trasferiti, anche dagli stessi ricercatori, titolarità e diritti di sfruttamento dei brevetti conquistati con le attività di ricerca. Ad oggi, l'Enea detiene quote in 14 società italiane e una estera, l'Eurodif, che ha sede in Francia e si occupa della produzione di uranio arricchito, oltre alle partecipazioni in una dozzina di consorzi.Malgrado la lunga fase di transizione, l'ente si è lanciato in questi anni in una serie di progetti all'avanguardia sul fronte delle fonti alternative: dal grande progetto Archimede sull'energia solare, recentemente avviato a Priolo (Sicilia) in partnership con Enel, al progetto Trade (Triga Accelerator Driven Experiment), un tentativo pilota di sperimentare l'incenerimento delle scorie nucleari, che Rubbia sta cercando di avviare al Triga, il piccolo reattore sperimentale della Casaccia, vicino a Roma. Sempre nei laboratori Enea della Casaccia, Rubbia ha avviato un altro progetto importante, il cui punto di partenza è è sempre l'energia solare concentrata per mezzo di specchi, come per Archimede, mentre quello di arrivo è l'idrogeno, ricavato direttamente dall'acqua, attraverso un processo termodinamico ad alta efficienza, brevettato recentemente. Questo processo permette di produrre e accumulare idrogeno a costi non molto più alti rispetto a quelli del gas naturale. L'opzione dell'idrogeno solare è la pietra filosofale del ventunesimo secolo: ricavare grandi quantità del prezioso gas direttamente dall'acqua, infatti, ci metterebbe a disposizione una fonte inesauribile di energia perfettamente pulita. E' lì che il Nobel Rubbia punta da molti anni.