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28 marzo 2009

Vuoi cambiare gestore? Aspetta il Trova Offerte

Con il petrolio a 140 dollari al barile, l'estate scorsa, andavano di moda le offerte di energia elettrica a prezzo bloccato, che hanno portato ai penosi strascichi di due settimane fa, quando l'Antitrust ha distribuito oltre un milione di euro di multe a nove società elettriche, dall'Eni (260mila euro) a Enìa (95mila), passando per Enel, Acea e altre, che avrebbero indotto in errore i consumatori sull'entità degli sconti. Ora che il barile è sceso sotto i 50 dollari, le mode sono altre. Enel, ad esempio, ha appena lanciato una “tariffa scommessa”, capace di regalare ottimi sconti sull'elettricità se si è capaci di prevedere con sufficiente precisione i propri consumi medi, ma con il rischio di pagare ben di più se i consumi, nella pratica, risultano del 30-40% superiori o inferiori al previsto. L'offerta prevede tre taglie, dalla Small (100 kilowattora mensili, 12 euro al mese fissi per due anni, escluse le imposte) alla Large (300 kWh a 44 euro mensili). E' difficile, però, metterla a confronto con altre offerte correnti, finché non verrà lanciato, fra un paio di settimane, il Trova Offerte sul sito dell'Autorità dell'Energia, uno strumento che permetterà di chiarificare i termini e confrontare le offerte di energia elettrica (non di gas) presenti nella propria zona di residenza, sul modello dell'Energy Watch gestito dalla britannica Ofgem. Il servizio, che renderà consultabili sul web delle schede annuali di prezzo divise per categorie (ad esempio tutte le forniture di energia verde verranno separate dalle altre), consentirà di mettere a confronto le offerte del mercato libero con i prezzi regolamentati dall'Authority, già scesi nel primo trimestre dell'anno e presumibilmente ancora in discesa a fine marzo, dato l'andamento delle quotazioni petrolifere.

23 marzo 2009

James Lovelock, ultimo appello del profeta di Gaia

La domanda non è quella giusta. Per James Lovelock, il biofisico inglese padre della teoria di Gaia, la questione non è più come bloccare l'effetto serra, ma come attrezzarci per affrontare al meglio l'inevitabile processo di riscaldamento del pianeta, che è già in atto. "Ormai è troppo tardi per fermare questo processo", spiega flemmatico il novantenne scienziato, che da mezzo secolo dispensa previsioni dal suo laboratorio, in un antico mulino in Cornovaglia, e ha appena pubblicato il suo ultimo libro, "The Vanishing Face of Gaia" (Penguin). Lovelock, Fellow della Royal Society e del Green College di Oxford, è noto soprattutto per aver messo a punto un metodo per lo studio dei clorofluorocarburi, che ha consentito di identificarli come principali responsabili del buco nell'ozono e ha portato al bando di questi gas dall'industria del freddo. Già negli anni Sessanta, indagando per la Nasa sulle possibili forme di vita su Marte, Lovelock cominciò a rendersi conto del riscaldamento della Terra e a denunciarne le conseguenze. "Se ci fossimo mossi allora - smettendo di bruciare combustibili fossili, per bloccare subito le emissioni umane di anidride carbonica - forse avremmo potuto ottenere qualche risultato. Invece non è stato fatto nulla: malgrado Kyoto, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera ha continuato ad aumentare. Arrivati a questo punto, non ha più senso parlare di sviluppo sostenibile. C'è un sacco di gente che viene da me per chiedermi di non dire queste cose, perché ci toglierebbero la volontà di agire. E' vero il contrario. Dire la verità sul riscaldamento del pianeta ci impone un'enorme mole di lavoro. Ma non è lo stesso lavoro che vorrebbero fare loro". Lovelock conserva fino in fondo la verve polemica di sempre. Per decenni, la sua decisione di avallare l'energia nucleare pur di combattere l'effetto serra, gli ha alienato le simpatie dei compagni ambientalisti. Ma questo non lo ha fatto recedere. Oggi, man mano che le sue previsioni sul riscaldamento del pianeta si rivelano vicine alla realtà, questa posizione attrae sempre maggiori consensi. Tranne che ormai lui stesso l'ha superata. Sembra quasi che le sue teorie nascano dalla passione per l'eresia a tutti i costi. “Neanche per idea”, ribatte reciso. “La mia principale aspirazione è vivere in pace con tutti, ma non posso impedirmi di vedere le cose che accadono”. Nella sua ultima provocazione, Lovelock sostiene che nulla potrà più impedire alla Terra di diventare largamente inabitabile e quindi non si vede l'utilità di puntare tanto sulle fonti alternative: “E' come passare il tempo a sistemare le sedie sdraio sul ponte, mentre il Titanic affonda”. Le vere emergenze, invece, sono altre: il cibo e l'acqua. "Entro la fine di questo secolo, vaste zone del pianeta diventeranno desertiche. Questo porterà a enormi migrazioni di massa verso le aree più abitabili, nelle zone artiche, dalla Groenlandia alla Siberia. L'umanità, decimata dalla fame e dalle epidemie, finirà per ridursi a un quarto di quello che è oggi, forse meno". Una catastrofe. “Veramente, mi sembra già tanto che l'umanità sopravviva. E credo che sarà così. Eventi di questo tipo sono accaduti altre volte: fra le diverse glaciazioni ci sono state delle strozzature in cui l'umanità si è ridotta a non più di duemila esemplari. Oggi è più evoluta e quindi dovrebbe esserle più facile resistere. E' la prima volta nella vita della Terra che una specie si dimostra capace di capire come funziona e perfino di modificare il corso delle cose”. I dati forniti dall'ultimo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change – fa notare lo scienziato - coincidono sostanzialmente con le sue previsioni, dando come probabile un innalzamento della temperatura media fra 1,1 e 6,4 gradi entro la fine di questo secolo. "Siamo tutti consapevoli di cosa comporti questo per l'umanità, solo che non tutti lo dicono chiaramente". Già un aumento di due gradi - concordano i climatologi - porterebbe alla desertificazione di buona parte delle superfici coltivabili, compresa la Corn Belt americana e il Sud dell'Europa. Lo scioglimento dei ghiacciai europei e andini causerebbe gravissime siccità. “Questa è la vera emergenza: per affrontarla bisognerebbe puntare molto sul cibo sintetico, sulla desalinizzazione e sullo sviluppo di tecnologie nuove in campo alimentare”. Per Lovelock, la logica è chiara: la nostra unica possibilità di sopravvivenza non verrà dal ritorno alla natura, ma dal sempre maggiore ricorso alla tecnologia. Non a caso, dopo la pubblicazione della sua ultima fatica, il padre di Gaia si sta dedicando con entusiasmo al progetto di un viaggio nello spazio offertogli da Richard Branson, fondatore della Virgin Galactic, per il suo novantesimo compleanno, che festeggerà in luglio. “Così finalmente potrò osservare Gaia dall'esterno”, si rallegra, entusiasta delle prove in assenza di gravità a cui si sta sottoponendo.

17 marzo 2009

Produrre energia in proprio dà fiato alle imprese

Investire in un impianto a energie rinnovabili, con gli incentivi attuali, può dare dei rendimenti che vanno dall'8% del fotovoltaico al 37% delle biomasse. E' un investimento ideale per un piccolo imprenditore, sia che abbia bisogno dell'energia prodotta per far andare i suoi impianti, sia che preferisca venderla alla rete elettrica nazionale. Alessandro Nova, docente di Finanza Aziendale alla Bocconi, ha fatto un po' di calcoli e li ha messi nello studio "Investire in energie rinnovabili – La convenienza economica per le imprese", realizzato in collaborazione con Centrobanca.
Mi faccia un esempio.
"Prendiamo un piccolo impianto idroelettrico, in grado di produrre 2 milioni di kilowattora l’anno e con una vita utile di 30 anni. Un impianto così, da sempre tipico di zone molto ricche d'acqua come la Lombardia, è capace di assicurare un tasso interno di rendimento ben superiore al costo del capitale investito, sia che l’energia sia completamente utilizzata per i processi produttivi industriali, sia che parte di essa (o al limite, tutta) sia venduta alla rete nazionale. In questo tipo di investimento, nel caso del 100% di autoconsumo, il tasso interno di rendimento raggiungerebbe il 18,3%. Anche calcolando un costo del capitale alto, al 7,5%, si ottiene una rilevante generazione di valore. Il periodo di rientro dell’investimento sarebbe di 8 anni. Se invece l'energia va in rete, tutta o in parte, il rendimento scende leggermente e il periodo di rientro si allunga di un anno".
E per il fotovoltaico, che si può installare su qualsiasi capannone, o anche sul tetto di casa?
"Il fotovoltaico è un impianto molto più costoso e quindi ha periodi di rientro più lunghi, nell'ordine dei 17-19 anni, ma anche per l'energia del sole c'è un rendimento notevole, che si aggira sull'8-9%, sempre superiore al costo del capitale. Se poi si vende alla rete il rischio è nullo e quindi il finanziamento può essere anche meno caro, nell'ordine del 5%. In questo caso il rendimento aumenta al 10% o anche oltre".
Perché il rischio è nullo?
"Grazie alla legislazione vigente, la rete è obbligata a ritirare tutta l'energia rinnovabile prodotta dai privati, pagandola a un prezzo di favore giù prefissato. Si tratta di una condizione particolarmente favorevole, sempre più rara nel panorama industriale contemporaneo: di solito quando un'azienda costruisce un impianto elettrico non sa a che congiuntura andrà incontro e quindi non ha la certezza di vendere l'energia prodotta, né a che prezzo la venderà. Oggi, ad esempio, i prezzi stanno scendendo. Ma questo non penalizza in alcun modo i produttori di energia da fonti rinnovabili, che sono protetti dall'incentivazione per tutta la vita dell'impianto".
Perché il rendimento è più alto in caso di autoconsumo?
"Quando l'impresa vende a se stessa c'è anche un dato di costo evitato. L'imprenditore paga in media l'energia 12,5-13 centesimi al kilowattora, il costo più alto d'Europa, escluse le tasse che sono equivalenti per tutti. Vende l'energia alla rete per 8 centesimi al kilowattora. Se invece di venderla la consuma in casa, evita quel costo in più di 4-5 centesimi al kWh. Se questo tipo di impianti fossero più diffusi, il sistema industriale italiano recupererebbe quel gap di competitività che ora lo distanzia dalle imprese estere sul costo dell'energia".

13 marzo 2009

Green Jobs, 20 milioni di posti di lavoro

Non ci sono solo tagli all'occupazione. Le previsioni, è vero, sono negative: il numero dei disoccupati in Italia aumenta, entro fine anno potrebbero essere due milioni. Ma in questo panorama c’è chi va controcorrente: il settore dell'energia, ad esempio, con le fonti rinnovabili in pole position nelle assunzioni. L'Enel, ad esempio, ha pianificato ben tremila assunzioni nei prossimi treanni, di cui mille nel 2009. A livello globale, il mercato del "lavoro verde" è destinato a espandersi oltre il limite di 20 milioni di lavoratori entro il 2020, di cui circa mezzo milione solo in Italia. Il business delle energie verdi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, "Green Jobs: Towards Decent Work in a Sustainable, Low-Carbon World", avrà un impatto sostanziale sull’orizzonte professionale dei vari Paesi. Dalla filiera di produzione delle bioenergie - intese come energia ottenuta dalla combustione di biomasse o di biocarburanti - l'Onu si attende l'apporto maggiore: 12 milioni di posti di lavoro (rispetto ai 2 milioni attuali), di cui quasi 300mila in Italia. Nella fabbricazione, installazione e manutenzione di pannelli solari saranno impiegati, entro il 2020, circa 6,3 milioni di lavoratori (rispetto ai 170mila attuali). Due milioni, invece, saranno coinvolti nel settore dell’eolico (oggi 300mila). E poi c’è la strada dell’efficienza energetica nell'edilizia, del riciclaggio dei rifiuti e quella dello sviluppo di veicoli ecologici. Alla fine dell'elenco, 20 milioni di lavoratori sembra addirittura una cifra riduttiva. Così alle tute blu, ai colletti bianchi, ai colletti grigi di chi non vuole andare in pensione, alle quote rosa e alle tute arancioni degli esploratori della net economy, oggi bisogna aggiungere un colore nuovo all'arcobaleno del mercato del lavoro: quello dei "colletti verdi", che ormai si aggirano in modo trasversale in diversi settori, dall’agricoltura all’impiantistica industriale, dall’architettura a impatto zero fino al managment ambientalista. Il problema, semmai, è la mancanza di skill professionali dedicati. "Nel mondo delle energie alternative c'è molto bisogno di manodopera specializzata e di manager con un'esperienza nel settore, ma abbiamo grandi difficoltà a trovare le competenze giuste", spiega Pietro Valdes, cacciatore di teste per Michael Page, specializzato nel mondo dell'engineering. I "colletti verdi", infatti, spaziano fra diverse figure professionali, dall’ingegnere meccanico che si dedica alla progettazione di impianti a biomasse, all’operaio eolico addetto alla manutenzione delle turbine. Cresce anche il numero di aziende che assumono figure in grado di provvedere alla razionalizzazione dei consumi e all’efficienza energetica, ricoprendo il ruolo di energy manager o di esperti del riciclo. I liberi professionisti, a partire dall’agronomo fino al consulente "verde", si stanno attrezzando per riuscire a rispondere efficacemente alle esigenze del settore, con competenze specifiche. Nasce un vero e proprio sistema verde, dunque, che in alcuni casi arriva a comprendere perfino l’idraulico ambientalista, che decide di specializzarsi nelle caldaie a biogas, o l’elettricista che installa pannelli solari, abbandonando il vecchio scaldabagno. Anche fra gli artigiani, dunque, c'è chi sceglie di legare i propri affari alla diffusione delle fonti alternative.

11 marzo 2009

La crisi del gas vista da Kiev

La crisi del gas fra Russia e Ucraina è scoppiata, come al solito, all'inizio di gennaio, quando i prezzi e il costo del transito, ridiscussi ogni anno, finiscono ostaggio del clima politico tra i due Paesi. In pochi giorni, il blocco delle forniture russe mette in ginocchio mezza Europa, fortemente dipendente dal metano che arriva dai confini orientali. Il 9 gennaio Roberta Merlo, responsabile del dispacciamento del gas per Edison, è a Kiev, nella delegazione di 18 rappresentanti delle industrie del gas europee, inviata sul posto da Bruxelles per sbloccare la situazione. “La missione doveva durare pochissimo, perché tutti credevamo che appena avviato il monitoraggio, russi e ucraini si sarebbero messi d'accordo”, spiega Roberta, 38 anni, che lavora in Edison da un decennio e si è occupata soprattutto di logistica. Ma non è stato così. Le pressioni del Cremlino sulle repubbliche ex-Urss che godono ancora di un prezzo di favore per le forniture di gas, non sono uguali per tutti. E l'arbitrarietà di queste decisioni non aiuta il dialogo. Bielorussia e Armenia, rimaste fedeli a Mosca, sono ancora sussidiate dal Cremlino. L'Ucraina no. La determinazione di Gazprom di alzare il prezzo scatta, guarda caso, con la vittoria della Rivoluzione Arancione di Viktor Yushchenko, nel 2005. All'epoca l'Ucraina pagava solo 50 dollari per mille metri cubi di gas. Al rinnovo del contratto, a fine anno, la nuova richiesta di Aleksej Miller, capo di Gazprom, lascia Kiev senza fiato: 230 dollari. Il 1° gennaio 2006, davanti alle resistenze dell'interlocutore, Gazprom passa alle vie di fatto. Siamo al primo taglio delle forniture. Ma le proteste dell'Europa, che riceve l'80% del gas russo attraverso l'Ucraina, convincono Gazprom a più miti consigli: l'accordo fissa il nuovo prezzo a 95 dollari per mille metri cubi. Seconda puntata. Nel corso del 2008, il Cremlino accusa l'Ucraina, nel frattempo sull'orlo della bancarotta, di non pagare il gas. A fine anno, il dramma si ripete. Taglio delle forniture, salvo quelle destinate all'Europa. Così dice Gazprom. L'Ucraina invece sostiene di non ricevere nulla, causa la caduta di pressione nei gasdotti, che blocca completamente il flusso. In un modo o nell'altro, gli europei sono a secco. Il Cremlino accusa Kiev di “rubare” il gas destinato all'Europa. Bruxelles di mette di mezzo e manda gli osservatori. “Una volta a Kiev – racconta Roberta – abbiamo avuto accesso ai dati del traffico, in entrata al confine russo-ucraino e in uscita verso l'Europa. Non abbiamo potuto far altro che constatare che il gas non passava. Il sistema, infatti, era già sbilanciato e mancava la pressione”. Fino al 15 gennaio, non accade nulla. I colloqui politici continuano, ma l'accordo non c'è. “Dal 15 – ricorda Roberta – abbiamo avuto accesso alle richieste di transito da parte di Gazprom per il gas da inviare all'Europa, che gli ucraini respingevano, adducendo motivi tecnici”. L'accordo politico arriva il 20. “Verso le 12 – spiega Roberta – è entrato il primo gas al confine”. Già il giorno dopo tutto il sistema funziona regolarmente. Ora non resta che aspettare la terza puntata.

9 marzo 2009

Gas, una liberalizzazione finita in farsa

L'Italia consuma quasi 90 miliardi di metri cubi di metano l'anno, di cui 80 importati dall'estero. E la domanda cresce: ogni anno partono nuove centrali elettriche alimentate a gas, che nell'ultimo decennio hanno ingigantito i consumi di metano del Paese. Il fabbisogno di queste centrali inghiotte oltre il 40% di tutto il gas che arriva in Italia, i consumi civili solo il 35%. A fronte di questa crescita, le infrastrutture di approvvigionamento restano sempre le stesse. Pur con i dovuti potenziamenti, il mercato italiano continua a dipendere essenzialmente da quattro tubi, che fanno capo all'Eni: per un terzo dalla Russia, per un altro terzo dall'Algeria e per il resto dal Mare del Nord e dalla Libia. L'unica novità è il rigassificatore di Rovigo, che entrerà in funzione nel giro di un paio di mesi, con una capacità di 8 miliardi di metri cubi l'anno: un apporto notevole, in capo a Edison, che introdurrà un minimo di flessibilità e di concorrenza in un mercato sostanzialmente bloccato. Malgrado la liberalizzazione introdotta quasi dieci anni fa, infatti, per i consumatori finora si sono visti ben pochi vantaggi. Lo dimostra lo Yellow Book, uno studio sul mercato del gas naturale, realizzato dal centro di ricerca Utilitatis in collaborazione con FederUtility, la federazione delle imprese dei servizi locali. Dallo studio si evince che ben pochi utenti hanno sfruttato la libertà di cambiare operatore, semplicemente perché le differenze di prezzo sono talmente minime da non valere la pena. Il problema, dunque, sta alla fonte: l'alto costo della materia prima da Russia e Algeria, le pretese dei Comuni nei confronti dei gestori e le tasse italiane sul gas, fra le più alte d'Europa (incidono sul prezzo finale per il 31,1% contro una media Ue del 20,5%), contribuiscono a spingere in alto i prezzi, senza consentire una reale concorrenza fra gli operatori. Per un consumo standard di 1400 metri cubi all’anno, nel Lazio si spendono 1.320 euro (seguite da Sicilia e Calabria) e in Trentino 1.123 euro (seguito da Abruzzo e Basilicata). I 200 euro di differenza, spalmati nell’arco di un anno, non sono uno stimolo sufficiente per indurre i consumatori ad avviare un cambiamento di gestore, mettendo a confronto le varie offerte. In dieci anni soltanto il 3,1% degli utenti domestici ha cambiato gestore. Le cose vanno meglio per le grandi industrie, che potendo negoziare sul prezzo hanno approfittato di più (nel 35% dei casi) della libera concorrenza. Ma il tasso complessivo di cambiamento del gestore (chiamato "tasso di switch") nel mercato italiano, al 3,4%, resta comunque fra i più bassi d'Europa.Fra le cause più evidenti dei prezzi ingessati c'è il "canone" che i Comuni chiedono ai gestori, che toglie mediamente il 53% degli incassi all’operatore. I 140 esiti delle gare presi in esame dallo studio dimostrano chiaramente che nel decidere quale offerta scegliere tra quelle presentate, per i Comuni conta molto la cifra che possono incassare dal gestore (l’offerta economica pesa per il 63% della decisione e circa metà della voce è rappresentato dal valore del canone), mentre conta poco la qualità tecnica e gestionale del servizio (pesa per il 37%) e conta pochissimo il prezzo all’utente che il gestore dichiara di voler applicare (pesa appena per lo 0,5% sulll’offerta economica). Il rischio di questo meccanismo - fa notare Adolfo Spaziani, direttore generale di Federutility - è la morte della concorrenza: "Non c’è da attendersi grandi economie per i consumatori, se l’unica leva resta la competizione tra i distributori, che pesano in piccola percentuale sulla bolletta al consumatore. Solo rendendo molto più liquido il mercato del gas, attraverso la realizzazione di infrastrutture strategiche e una politica energetica europea più efficace, si potrà evitare che l’elevato costo di questo servizio sia un vincolo allo sviluppo economico".

4 marzo 2009

L'eolico fa gola anche alla mafia

Il vento non sente la crisi. Per l'eolico italiano, il 2008 è stato un anno record: con oltre 1.000 megawatt di nuova installazione e un tasso di crescita del 35%, il Belpaese ha conquistato il sesto posto come potenza cumulata (3.736 MW) nella classifica dei top ten mondiali. Con 6 miliardi e mezzo di kilowattora prodotti, pari al consumo domestico di 6,5 milioni di italiani, la produzione elettrica dell'eolico supera ormai il 2% dei consumi nazionali. In un periodo di recessione, difficile trovare performance del genere in altri settori industriali. Non a caso tutte le grandi compagnie energetiche, da Enel a Edison, passando per Sorgenia, Falck, Api, Erg e Saras, sono impegnate alla grande su questo segmento delle rinnovabili, finito recentemente anche al centro delle mire della mafia, come emerge dalla indagini siciliane, fra Palermo e Mazara del Vallo. Un episodio sinistro, che però dimostra quanto l'energia del vento stia diventando attraente, perfino per la malavita organizzata. Certamente il quadro è radicalmente mutato rispetto a qualche anno fa, quando di eolico si occupavano solo pochi idealisti. Oggi l'azienda leader del vento italiano è il gruppo britannico International Power: possiede 1.199 MW di impianti eolici, di cui 550 MW in Italia, dove alla fine del 2008 la sua quota di mercato era di poco inferiore al 15%. A seguire, con un 10% del mercato ciascuna, si trovano quasi appaiate Enel GreenPower e la Fri-EL dei fratelli altoatesini Thomas, Josef e Ernst Gostner. In particolare la Fri-EL ha avuto un notevole sviluppo nel 2008, mettendo in esercizio oltre 150 MW, per un totale di 386 MW. Seguono con il 9% Edison Energie Speciali e la Ivpc di Oreste Vigorito, uno dei pionieri del vento italiano, con oltre 1000 MW di pale in gestione, di cui più di un terzo di sua proprietà. Ma la corsa all'energia del vento è solo all'inizio e deve superare ancora molti ostacoli. Anev, Aper, Enea e Gse, che hanno diffuso i dati dell'anno passato, sottolineano il persistere di ostacoli relativi "agli iter autorizzativi e alle lungaggini necessarie per la connessione dei nuovi impianti". Per non parlare dei blocchi ricorrenti nelle regioni più ventose d'Italia, a partire dalla Sardegna. Per vedere l'autorizzazione di un parco eolico, ci vogliono in media cinque anni. Prima c'è la valutazione ambientale, poi la conferenza dei servizi, dove decine di enti devono dare il proprio assenso, infine la rilevazione anenometrica per verificare che la zona sia adatta, quando è evidente come la società proponente abbia già valutato la ventosità della posizione, altrimenti l'impianto non sarebbe remunerativo. Malgrado la crescita degli ultimi anni, quindi, la potenza eolica italiana resta un decimo di quella tedesca e un quinto di quella spagnola. Il nostro potenziale è ben lungi dall'essere esaurito. Uno studio dell'Anev calcola un potenziale di 16.200 MW installabili, escludendo le aree protette, dove le pale eoliche non possono trovare applicazioni: se il libro dei sogni venisse realizzato, il settore che oggi impiega 15mila persone, arriverebbe a 66mila addetti e coprirebbe i consumi di oltre 23 milioni di italiani. Senza contare le installazioni offshore - considerate dagli operatori l'eolico del futuro - che in Italia non sono ancora nemmeno cominciate. Sta iniziando a muoversi, invece, il mini-eolico, cui è stato recentemente esteso un meccanismo d'incentivazione simile al conto energia fotovoltaico: la tariffa, che durerà 15 anni, sarà di 30 centesimi per kWh. In Italia, per la verità, il movimento è partito prima dell'incentivazione: esistono già diversi produttori, come Ionica Impianti, Terom, Bluminipower, Siper, Ropatec e Tozzi Nord. Ma l'energia del vento, che sulla grossa taglia è ormai competitiva con le fonti fossili e presenta tassi di crescita molto attraenti, è ancora nella culla per quanto riguarda la microgenerazione. Bisognerà attendere anni per una diffusione di massa.

1 marzo 2009

Fotovoltaico, ogni anno si radoppia

Sorpresa: l'Italia dell'energia solare sta diventando attraente per gli stranieri. Questo perché, dopo il taglio in Germania e Spagna delle tariffe per l'incentivazione all'installazione degli impianti fotovoltaici, il nostro è diventato il Paese del Vecchio Continente che può contare sugli aiuti pubblici più elevati. E nonostante gli effetti della crisi, si prevede un forte aumento della potenza installata, con tassi almeno a due cifre per i prossimi cinque anni, quando già nel 2008 la crescita si è attestata al 170%, passando dai 120 megawatt di fine 2007 ai 327 di fine 2008. Per quest'anno, Gianni Silvestrini del Kyoto Club ha appena rivisto al rialzo le sue stime, prevedendo che le installazioni sorpasseranno complessivamente la soglia dei 1000 megawatt e quella dei 2000 già nel 2010. "Il consenso fra gli operatori parla di almeno altri 400 megawatt per quest'anno, ma è una stima prudenziale e quindi l'obiettivo del Kyoto Club non sembra affatto campato per aria", conferma Gualtiero Seva, responsabile per il fotovoltaico di Mitsubishi in Italia e consigliere di Assosolare. Mitsubishi è uno dei leader mondiali di celle, che produce tutte in Giappone. L'Italia è stata il primo mercato europeo dove ha insediato una filiale. "Da quando abbiamo aperto nel 2004, ogni anno raddoppiamo le vendite: così siamo arrivati a un fatturato di 80 milioni e prevediamo di raddoppiare ancora nel 2009", commenta Seva. Ha fatto scalpore, tra gli addetti ai lavori, uno studio della McKinsey che indica l'Italia, insieme alla California, come il Paese più vicino al mondo, oggi, alla "grid parity" fotovoltaica. Ovvero a quel punto di pareggio in cui una cella solare, sotto un cospicuo irraggiamento, riesce a produrre elettricità a costi uguali o persino inferiori a quelli prevalenti di mercato, modulati sulle fonti fossili. Già l'estate scorsa, sulla Borsa elettrica del Gme vi sono stati numerosi casi di richieste spot di picco diurno giunte a 50-60 centesimi per kilowattora, soddisfatte da forniture via rinnovabili. C'è da chiedersi però quanto di questo valore rimanga in Italia, andando quindi a remunerare gli investimenti delle nostre imprese e indirettamente – attraverso l'imposizione fiscale e la creazione di posti di lavoro – il denaro pubblico messo sul piatto dagli incentivi di Conto Energia (finora 50 milioni di euro). In base a uno studio dell'Energy & Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano, nelle tasche del Belpaese rimarrebbe poco, perché le aziende nostrane si concentrano là dove il margine è più basso (dal 7 al 17%), cioè a valle della filiera, nella distribuzione e nell'installazione degli impianti. Mentre a monte – cioè nella produzione e vendita del silicio e dei pannelli, dove i margini superano il 50% – l'import raggiunge quota 98% e il restante 2% è rappresentato da imprese estere con filiale italiana. Bisognerebbe allora concentrarsi sulla sezione a monte della filiera, dove finora si è mosso ben poco in Italia. Non esiste una produzione nazionale di silicio policristallino, la materia prima di base dei pannelli fotovoltaici. La Silfab di Franco Traverso, insieme a due investitori asiatici, punta alla creazione di un polo produttivo italiano a Borgofranco d'Ivrea, che dovrebbe partire all'inizio del 2010. E anche sulla produzione di pannelli non siamo messi molto meglio. Ora ci sta investendo Sorgenia con un impianto in Sardegna, a Villacidro. Enel ha stretto un'alleanza con la giapponese Sharp per la realizzazione di una fabbrica in Sicilia, operativa dal 2010. Il gruppo Marcegaglia sta montando uno stabilimento ad alta tecnologia nel Varesotto. L'Electrolux di Scandicci sta per essere riconvertita a questa produzione. Solarday, che sforna già i moduli, vuole entrare nella produzione di celle su vasta scala. Poi c'è chi punta sulle tecnologie più innovative: il gruppo Moncada sta investendo nella produzione di pannelli di film sottile e la Esco Energy si sta cimentando nel solare “organico”. Ma sono successi ancora tutti da vedere.