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28 aprile 2008

Dove investono i sette big europei dell'energia

I grandi gruppi elettrici europei ci credono. Con un investimento di oltre 50 miliardi di euro, la loro capacità produttiva da fonti rinnovabili sarà quadruplicata nel 2015: da 13 a 50 GW, se si esclude l' idroelettrico tradizionale, che fornisce una base di partenza notevolissima di quasi 90 GW, ma ha ormai esaurito il suo potenziale di crescita. Gli investimenti dei 14 big dell' energia - di cui vediamo i primi sette nella tabella qui accanto - si concentrano sull' eolico, l' unica fonte pulita davvero competitiva rispetto agli idrocarburi. Fotovoltaico e biomasse restano terreno di caccia per le aziende più piccole o per la generazione diffusa. Il quadro emerge da un' indagine di Agici, la società di consulenza diretta da Andrea Gilardoni, economista della Bocconi. Spicca fra gli altri lo sforzo di Enel, leader mondiale delle rinnovabili, che nei prossimi cinque anni punta a un raddoppio della sua capacità di produrre energia verde, con un investimento di 6,8 miliardi di euro, moltiplicando addirittura per sei il suo parco eolico attuale. A seguire la tedesca E.On, che andrà a decuplicare la sua potenza eolica. La penisola iberica è la zona su cui si concentrerà la maggiore capacità addizionale: oltre 11 GW, per lo più eolici, con quote minori di idroelettrico e biomasse. In Italia i 6 player principali - che dominano il mercato con una quota superiore al 70% - puntano a un aumento della capacità installata da 2 a 7 GW. Il motivo di questo boom è duplice: economico e politico. «Sul fronte economico, la crescita spropositata del prezzo degli idrocarburi sta cambiando radicalmente i parametri di redditività delle fonti pulite», fa notare Gilardoni. E la fine del greggio a buon mercato è un dato ormai strutturale, su cui tutti gli esperti concordano. «Sul fronte politico c' è l' esigenza europea di ridurre la dipendenza energetica dall' estero», precisa Gilardoni. Le fonti pulite, come anche il nucleare, la soddisfano in pieno. Sono questi due vantaggi, oltre all' attrazione degli incentivi ambientali, che spingono i grandi gruppi a considerare la forte crescita delle fonti rinnovabili nel loro portafoglio produttivo come un dato da dare ormai per scontato.

I capitali di ventura cercano la Microsoft dell'energia

Le fonti rinnovabili sono più costose delle fonti fossili, nonostante il caro greggio. Da qui la spinta degli Stati a incentivarne lo sviluppo, andando a pescare direttamente nelle tasche dei cittadini, per dare alle aziende un supporto mirato a compensare il rischio di mercato. Nel 2006, la componente della bolletta elettrica destinata alla promozione delle fonti pulite è costata agli italiani 1 miliardo e 270 milioni di euro. Che prospettive ci sono per queste tecnologie di diventare competitive e reggersi sulle proprie gambe? «Non mi sembra corretto fissare il quadro al momento attuale, parlerei piuttosto di competitività dinamica», dice Luigi Paganetto, presidente dell' Enea, l' Ente per le nuove tecnologie, l' energia e l' ambiente, che ha appena firmato un accordo con le autorità cinesi per esportare il know-how italiano sulle fonti rinnovabili, in particolare sullo sviluppo del solare termodinamico, la nuova frontiera del solare introdotta in Italia dal suo predecessore Carlo Rubbia con il progetto Archimede a Priolo. Cosa intende per competitività dinamica? «Il processo aperto in Europa dal pacchetto 20-20-20, che prevede una riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990 e un aumento non inferiore al 20% della quota di fonti rinnovabili nel mix energetico europeo entro il 2020, ci pone degli obiettivi che implicano un costo, ma offrono una grande opportunità di sviluppo tecnologico. Il commissario Andris Piebalgs ha parlato di una nuova rivoluzione industriale e credo che abbia ragione». Quindi è prevedibile una maggiore efficienza in tempi relativamente brevi? «Una rapida espansione del mercato come quella a cui stiamo assistendo porta a un' ondata d' innovazione e a un rapido recupero di efficienza. La spinta europea ad arrivare al 20% di fonti rinnovabili da una media attuale del 7% scatenerà una gara tecnologica in cui alcuni Paesi sono già in vantaggio, come la Germania, che ha concentrato da anni un costante flusso di incentivi sul fotovoltaico, oppure la Danimarca sull' eolico. Per capire dove vanno gli investimenti basta seguire i capitalisti di ventura, che sono a caccia della nuova Microsoft del settore. Se gli altri Paesi non vogliono restare indietro devono mettersi a correre». Chi vince? «Vincono le aziende che arrivano per prime alla fine del processo innovativo, portando una certa tecnologia a livelli ottimali di efficienza. Ma per fare questo bisogna sperimentare diverse strade. Prendiamo ad esempio il fotovoltaico, che al momento ha un grado di competitività molto basso. Si può puntare a costruire pannelli sempre più sofisticati, migliorando i risultati per centimetro quadrato ma alzando i costi, oppure si può puntare a un abbattimento dei costi sperimentando materiali diversi dal silicio. Più si allarga la base di sperimentazione e prima si arriva alle soluzioni ottimali, che poi diventano il modello standard». Lo Stato dovrebbe favorire l' allargamento della base di sperimentazione... «Esattamente. Ragionare solo sui costi in questo caso non ha senso, perché in un clima da rivoluzione industriale bisogna cercare di parametrarsi rapidamente sugli altri, altrimenti si resta tagliati fuori. Senza trascurare le proprie specificità, naturalmente. Ad esempio a Roma stiamo lavorando al progetto di rivestire il vecchio gasometro di celle fotovoltaiche, trasformandolo in un oggetto di arredo urbano, nella tradizione del design italiano. L' aspetto estetico è un fronte di ricerca che non andrebbe trascurato...» Resta il fatto che se si vuole spingere le aziende a migliorare l' efficienza di una tecnologia, l' eccessiva incentivazione può avere effetti controproducenti. «Non c' è dubbio. Bisogna trovare un equilibrio fra la necessità di stimolare la ricerca e il pericolo che le aziende si siedano su un incentivo che man mano diventa troppo comodo. Per questo la Germania ha studiato un sistema di riduzione progressiva delle sovvenzioni e anche l' Italia ha seguito il suo esempio».

14 aprile 2008

E Siemens paga pegno per Olkiluoto

Erano partiti da un costo di 3,2 miliardi, consegna nel 2009. Ora il conto è lievitato ad almeno 4 miliardi, consegna a metà 2011. Questi sono i numeri del primo reattore di terza generazione che entrerà in funzione in Europa, a Olkiluoto in Finlandia. È il modello di riferimento per la prossima ondata di centrali atomiche europee, appaltato a una joint venture fra Siemens e Areva, il «braccio nucleare» di Eléctricité de France, che ne sta costruendo un altro analogo a Flamanville, in Normandia. È su questo modello che sta ripartendo la corsa britannica al nucleare. E anche per l' Italia sono due progetti importanti: Edf è azionista di Edison ed è legata a una partnership con l' Enel, che partecipa alla realizzazione di Flamanville. Tutti gli studi di fattibilità in corso sul nucleare italiano si basano sul modello finlandese, considerato il più economico grazie alla particolare struttura azionaria: le stesse aziende che useranno l' energia prodotta dalla centrale sono anche proprietarie dell' impianto. Per queste ragioni vale la pena di capire come procede. L' European Pressurized Reactor di Olkiluoto, che ha una capacità di 1.600 MW, punta a una maggiore sicurezza ed efficienza, a fronte di una minore produzione di scorie rispetto alla generazione precedente. Ma fin dal 2006, a due anni dall' inizio della costruzione, ha presentato problemi di controllo qualità e frizioni continue con le autorità finlandesi hanno ritardato i tempi di realizzazione. Areva, che guida la joint venture, ha imputato i ritardi soprattutto a carenze di supervisione nel lavoro dei subappaltatori di Siemens. Ma nel frattempo problemi analoghi si stanno presentando anche nell' impianto di Flamanville, dove le autorità francesi hanno scoperto dei difetti nella struttura di cemento affidata al gigante francese delle costruzioni Bouygues. In complesso, le stime attuali parlano di una lievitazione dei costi per l' impianto finlandese che oscilla fra i 700 e i 1.500 milioni di euro. Una cifra che difficilmente ricadrà sui committenti scandinavi, con cui la jv Areva-Siemens ha firmato un contratto chiavi in mano. I ritardi rischiano di abbattersi dunque sui conti di Areva ma soprattutto di Siemens, che sull' onda delle cattive notizie provenienti dalla Finlandia ha perso in Borsa oltre un terzo del suo valore dall' inizio dell' anno, mettendo in grave difficoltà il nuovo numero uno Peter Loescher.