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25 dicembre 2009

Natale? E' uno stress per il pianeta

La stagione delle feste è il periodo più stressante dell'anno per il pianeta. Consumi alle stelle, viaggi aerei e una montagna di rifiuti allargano a dismisura l'impronta umana sulla natura. Basti pensare che in dicembre il mondo industrializzato produce il 25% di monnezza in più rispetto alla media degli altri mesi. E lo stress non colpisce solo l'ambiente: "digerire" l'enorme quantità di oggetti che ci scambiamo in questa stagione spesso mette in difficoltà anche i fortunati destinatari e la statica delle loro abitazioni. Contro l'ansia da monnezza, l'unica difesa è il riciclo. Ma per offrire un dono veramente sostenibile, bisogna cominciare a pensarci prima ancora dell'acquisto. Shopping online. Gli acquisti online sono decisamente più verdi dello shopping nei negozi reali, sia in termini di carburante consumato (tante macchine in giro per la città contro un singolo camion), sia in relazione all'impronta ambientale complessiva dei singoli dettaglianti rispetto alla filiera del commercio online. Se si tratta di una spedizione via terra, un dono comprato online consuma in media un decimo, via air mail la metà del carburante bruciato comprandolo personalmente. Riciclo. Per un regalo verde vanno privilegiati gli oggetti facili da riciclare, di materiali biodegradabili, come un libro. Ma se proprio ci si sente in dovere di soddisfare la fame di gadget elettronici dell'amico smanettone, bisogna almeno includere una nota con le istruzioni per il riciclo, indicando precisamente dove e come liberarsi in maniera sostenibile dell'oggetto in questione quando non serve più. I marchi che offrono già un programma di riciclo ben organizzato, come ad esempio Vodafone per i cellulari, naturalmente sono da preferire. Ri-dono. Rimettere in circolazione come dono all'amica new-age la candela aromatica regalataci da una lontana cugina, che mai useremo, era considerato in passato un gesto di cui vergognarsi, indice di animo gretto e insensibile. Oggi, con le dovute cautele, può invece diventare prova di autentica sensibilità ambientale. A fine stagione, c'è perfino chi mette apertamente all'asta i regali superflui, fra amici o su eBay. Packaging sostenibile. Riutilizzare carta già usata consente di salvare 17 alberi per ogni tonnellata, 26 metri cubi di acqua, 4.000 kilowattora di elettricità e 2 barili di petrolio, equivalenti a 630 chili di CO2. Il regalo verde, quindi, non va mai impacchettato con carta nuova di zecca. Può essere avvolto in carta di giornale, carte geografiche da gettare, il cartoccio del panettiere o altre carte, meglio se assemblate in maniera creativa. Può essere infilato in una borsa di carta riutilizzabile o in una borsa di stoffa, oppure impacchettato in un altro regalo, come una sciarpa, un foulard o uno strofinaccio da cucina. Un bel fiocco e via. Batterie. Il 40% di tutte le batterie si vende in dicembre: meglio comprarle riciclabili e magari includere un bel caricatore!Alberi di Natale. Ogni anno si vendono 30-35 milioni di alberi di Natale in Nord America e altrettanti in Europa. Prima di acquistarne uno bisognerebbe decidere cosa farne dopo le feste: se lo si compra in vaso poi si potrà ripiantare in un bosco o in un parco, sennò si pone il problema di trasformarlo in composto organico o in pacciamatura, altrimenti finirà in discarica a produrre CO2. Conviene informarsi in un vivaio o in Comune.

18 dicembre 2009

Dave Keeling: la fatica di setacciare l'aria

Il vulcano di Mauna Loa emerge di colpo dall'oceano e sale su drammatico, un cono alto più di 4000 metri. In cima l'aria è straordinariamente pura: siamo in mezzo al Pacifico, niente traffico o ciminiere all'orizzonte. Ogni tanto il vulcano si risveglia, ma di rado, l'ultima eruzione risale al 1984. E' da qui sopra, da un piccolo laboratorio costruito negli anni Cinquanta, il Mauna Loa Observatory, che Charles "Dave" Keeling ha misurato giorno dopo giorno, per quasi cinquant'anni, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera terrestre, tracciando così la famosa Keeling Curve, oggi considerata la teoria della relatività del riscaldamento globale. La prima misurazione risale al marzo 1958: quell'ampolla d'aria conteneva 316 parti per milione di CO2. Al tempo nessuno, nemmeno Keeling stesso, aveva la più pallida idea di quanto ci sarebbe tornato utile questo monitoraggio. Nel 2005, anno della sua morte, la concentrazione era salita a 378 parti per milione. A fine 2009, siamo arrivati a 386 parti per milione. Oggi i climatologi ritengono che 500 parti per milione sia il limite massimo che non possiamo permetterci di oltrepassare, se vogliamo evitare eventi catastrofici. L'osservatorio di Mauna Loa, con il suo combattivo staff di dieci scienziati, ha continuato a funzionare regolarmente anche dopo la scomparsa del suo paladino. Steve Ryan continua a misurare quotidianamente la concentrazione di anidride carbonica e di metano nell'atmosfera (i due principali gas serra), il monossido di carbonio, l'anidride solforosa (causa principale delle piogge acide) e controlla settimanalmente la concentrazione dell'ozono con dei palloni sonda. Ma nella curva di Keeling c'è un buco di qualche mese, nel '64, a testimonianza di quanto sia stato difficile mantenere in vita per mezzo secolo questa struttura modesta, eppure rivelatasi così importante per il futuro dell'umanità. Prima della nascita dell'osservatorio di Mauna Loa, si sapeva poco o niente della CO2 presente in atmosfera. Keeling cominciò a studiarla nel '56, quand'era ancora un postdoc al CalTech, per puro interesse nella geofisica. Riuscì ad avere un primo finanziamento dalla Los Angeles Weather Pollution Foundation e poi dall'US Weather Bureau, spiegando genericamente che voleva individuare "i fattori che controllano la presenza di CO2 nell'atmosfera". Dave Keeling cominciò a prendere campioni in giro per la California, mentre un gruppo di scandinavi stava facendo lo stesso in Svezia. Raffinando laboriosamente le sue tecniche di campionatura con strumenti sempre più sofisticati e ingegnosi, si rese conto che più le località erano isolate e più i valori misurati erano stabili e affidabili. Il suo mentore al CalTech, il geochimico Harrison Brown, era uno dei pochi scienziati ad aver studiato le possibili influenze sul clima derivanti dall'aumento di CO2 in atmosfera. Ma non aveva alcuna speranza di finanziamento per un programma di lungo periodo. Il monitoraggio "in situ" è la Cenerentola della scienza, poco amata e miseramente finanziata. Ancora oggi è così: per il gigantesco programma europeo Global Monitoring for Environment and Security, ad esempio, destinato programmaticamente a incrociare i dati registrati dai satelliti con quelli raccolti a terra, sono stati stanziati ben 3 miliardi di euro fino al 2013. Ma i finanziamenti sono destinati solo ai progetti satellitari, neanche un centesimo andrà nelle misurazioni a terra. Le agenzie che gestiscono i fondi sono sedotte dalla ricerca di base solo se consente una verifica di ipotesi già delineate, rapidamente "spendibili", o comporta lo sviluppo di tecniche spettacolari. Nessuna di queste motivazioni anima il banale monitoraggio a terra e la soddisfazione di requisiti analitici severi non è vista come un valore in cui valga la pena d'investire. Gli svedesi, non a caso, lasciarono perdere quasi subito. Keeling, invece, ebbe un colpo di fortuna. Nel '56 si stava preparando l'Anno Internazionale della Geofisica e due scienziati già famosi, Roger Revelle e Hans Suess, portarono l'argomento all'attenzione del comitato incaricato dal governo americano di organizzare l'evento. L'importanza di capire i "possibili effetti sul clima dell'aumento nella produzione industriale di CO2 previsto nei prossimi 50 anni" fu accettata dal comitato e Revelle invitò il giovane ricercatore a proseguire le sue misurazioni all'istituto di oceanografia che dirigeva, lo Scripps, a La Jolla, vicino a San Diego. Keeling rimase poi affiliato allo Scripps per tutta la vita. Ma non si fermò lì. Riuscì a farsi comprare dal comitato una serie di spettrofotometri, macchinari costosi e considerati del tutto eccessivi per la sua missione, ma rivelatisi poi essenziali per un monitoraggio accurato, e li piazzò in Antartide e a Mauna Loa, dove si stava costruendo l'osservatorio. Nel '58 cominciarono a fluire i primi dati. Man mano che le curve dei dati si allungavano, emergevano modelli. I cambiamenti stagionali e le differenze tra emisferi tracciavano il respiro della biosfera, dominato dall'inspirazione primaverile di CO2 e dall'espirazione autunnale dell'emisfero Nord, il più ricco di vegetazione. Keeling misurò l'abbondanza isotopica del carbonio 13 nella CO2 per dimostrare che le variazioni stagionali erano causate dalle piante presenti sulla superficie terrestre. Il primo rapporto di Keeling è una pietra miliare, che documenta il ciclo stagionale e l'aumento costante della CO2 su base annuale. Entro gli anni '70, divenne chiaro il nesso fra fenomeni catastrofici ricorrenti come El Niño e l'alterazione del ciclo stagionale della CO2. E l'aumento della CO2 venne attribuito al consumo crescente di combustibili fossili, dimostrando che una frazione consistente di CO2 aggiunta dalle attività umane rimane nell'atmosfera e non viene rimossa dalla biosfera. Malgrado la portata dei risultati, il lavoro di Keeling fu continuamente minacciato, come dimostra il salto registrato nel 1964, quando il blocco dei finanziamenti fermò per breve tempo le misurazioni. A un certo punto, gli fu richiesto di garantire due scoperte l'anno, come scrsse nel '98 nel resoconto delle sue tribolazioni, "Rewards and Penalties of Monitoring the Earth". Ma la sua testarda costanza è riuscita a prevalere anche oltre la morte: Ralph Keeling, scienziato come il padre, dirige oggi il programma di monitoraggio della CO2 di Scripps.

15 dicembre 2009

Copenhagen, una città che va a vento

Uscendo in barca dal canale del vecchio porto di Copenhagen, il panorama che si offre al visitatore non poterbbe essere più rappresentativo della rivoluzione industriale messa a segno da questa città negli ultimi vent'anni. Sulla sinistra un'infilata di pale eoliche macinano allegramente kilowattora nel vento forte e nelle acque basse del Baltico. Da qui arriva l'energia che fa girare Copenhagen: nei giorni di festa, quando i negozi sono chiusi, il suo milione e mezzo di abitanti va a vento. Sulla destra, l'impianto di smaltimento e termovalorizzazione dei rifiuti che fornisce energia e calore a 150mila famiglie, bruciando le immondizie di mezzo milione di cittadini. Questo è il cuore del sistema di smaltimento della città, dove arriva ogni giorno da otto stazioni di riciclaggio quel 26% di rifiuti che non può essere riutilizzato, per alimentare la centrale di Amagerforbraending. L'impianto, praticamente nel centro di Copenhagen, sulla riva dello stretto di Oeresund, di fronte al teatro dell'Opera, smaltisce 500mila tonnellate di materiale all'anno, il 10% di tutti i rifiuti della Danimarca e riscalda così buona parte della città. "Mostrare ai cittadini, senza ipocrisie, dove vanno a finire le loro immondizie è un monito sempre utile, per aiutarli a sprecare di meno e a procedere in maniera responsabile con i materiali che gettano via", spiega la direttrice Ulla Roettger, che ospita spesso scolaresce e comitive in visita. L'impianto, del resto, non inquina più di una qualsiasi centrale termoelettrica a combustione, come sanno bene gli abitanti di molte altre città vicine e lontane, da Vienna a Tokio, che ne ospitano uno tra le vie del centro. Copenhagen, Porto dei Mercanti nell'antico dialetto basso tedesco che poi si è trasformato in danese, è oggi la città più verde d'Europa, secondo l'European Green City Index stilato da Siemens sulla base delle performance e delle politiche ambientali delle trenta più importanti città europee. Questo riconoscimento non stupisce per nulla i suoi abitanti, che ci lavorano da vent'anni. Quando la Danimarca ha deciso di emanciparsi dall'oro nero degli sceicchi, dopo la batosta della crisi petrolifera dei primi anni Ottanta, tra le scelte più importanti c'è stata quella di sfruttare una risorsa che in mezzo al mare non potrebbe essere più abbondante: il vento. Da allora a oggi, il piccolo Paese baltico è diventato leader mondiale dell'eolico: "La metà delle pale piantate per terra e per mare in giro per il mondo è fatto da noi", spiega con fierezza Connie Hedegaard, ministra danese e neo-commissaria europea al Clima. La compagnia danese Vestas, infatti, è leader mondiale nella produzione di turbine eoliche e uno dei pilastri della green economy danese. La capitale ha condiviso con entusiasmo questa scelta, diventando la vetrina di un Paese che sta uscendo dall'economia del carbonio. "Il nostro obiettivo è diventare la prima città carbon neutral del mondo, entro il 2025", precisa Klaus Bondam, assessore all'Ambiente di Copenhagen. Sia Bondam, un ex attore di 46 anni, che Hedegaard, 49 anni, ex giornalista, non sono due politici verdi: lei fa parte del partito conservatore oggi al governo, lui è un liberale che fa politica con i radicali a livello cittadino. Bondam non limita le parole quando parla della sua città: "Qui a Copenhagen siamo alla ricerca di soluzioni per salvare il mondo. Vogliamo diventare un modello per motivare le altre città a muoversi nella stessa direzione". Bondam, opportunamente, non parla di una città carbon free, ma carbon neutral. Non è un venditore di patacche. Sa benissimo che una città di queste dimensioni avrà sempre bisogno, seppure in piccola parte, di bruciare qualche combustibile con relative emissioni di carbonio, se vuole mantenere il suo stile di vita attuale. Ma vuole fare di tutto per comprimere al massimo queste emissioni inevitabili. E poi vuole compensarle piantando alberi.Il piano è chiaro e segue un percorso già segnato dai suoi predecessori: "Vent'anni fa Copenhagen era una città molto povera, piena di vecchi e di studenti. La gente se ne andava. Ma la mia generazione ha deciso di restare dopo aver finito gli studi". Sono i mitici anni di Christiania, la città libera inventata dagli squatters fra i magazzini anseatici del vecchio porto e le costruzioni militari abbandonate a ridosso degli antichi bastioni difensivi. "Pensavamo che Copenhagen avesse delle caratteristiche uniche e volevamo inventarci una città nuova a partire da queste", racconta Bondam. Al centro di questo percorso, ci sono i cittadini e la loro qualità della vita. Da allora ad oggi il vecchio porto, ormai obsoleto, è stato spostato da un'altra parte e l'area riqualificata: il tratto di mare fra le due isole maggiori di Copenhagen è di nuovo balneabile e la costa è diventata un polo d'attrazione outdoors, con giardini e due spiagge libere. Una terza spiaggia è in via di apertura. "Oggi il nostro primo obiettivo è dare al 90 per cento dei cittadini una zona verde o una spiaggia nel raggio di 15 minuti a piedi", ragiona Bondam, che cita come suo ispiratore principale l'urbanista Jan Gehl, teorico degli spazi pubblici, che ha contribuito a liberare dalle macchine e pedonalizzare parte del centro di Londra, New York e Sydney. La nuova infrastruttura verde comprende 14 piccoli parchi e la piantumazione di 14mila alberi, che faranno parte di una rete verde in divenire. Per diluire la presenza delle auto, sarà ampliata a 110 chilometri la rete di piste ciclabili, già estesa e trafficatissima, molto usata dagli stessi ministri del governo danese. Il terzo elemento è l'alimentazione: metà del cibo consumato nelle strutture pubbliche cittadine è biologico e si vuole arrivare al 90%. "Non vogliamo solo rendere Copenhagen carbon neutral al 2025 - fa notare Bondam - ma anche il miglior ambiente urbano del mondo entro il 2015". E sono già a buon punto.

9 dicembre 2009

L'ecologia vale 23 miliardi sul listino inglese

Gli esiti del vertice di Copenhagen sul futuro verde del mondo non preoccupano i guru del mercato. Gli indici della Borsa di Londra legati al green business - dal Ftse4Good Index al Ftse Environmental Opportunities Index - hanno una capitalizzazione complessiva di 23 miliardi di euro e sono ormai da anni il segmento del mercato che cresce più in fretta. “Ma non siamo che all'inizio”, precisa Will Oulton, responsabile del Ftse Group per gli investimenti sostenibili. La carica della finanza verde è appena partita, concorda Peter Dickson, responsabile del Fortis Clean Energy Fund. “E non è una bolla - aggiunge - anzi, l'impatto della rivoluzione sostenibile si allarga e influenza già diverse categorie di asset correlate, dalle materie prime all'immobiliare”. Sono queste le idee raccolte a una conferenza organizzata dalle banche più coinvolte nel green business a margine del vertice di Copenhagen. "Le società che salteranno per prime sul treno andranno lontano, le altre resteranno a piedi", prevede Eric Borremans, capo degli investimenti sostenibili di Bnp Paribas. I dubbi della politica non sono entrati in sala, perché tutti sanno che il business corre più veloce. “L'evoluzione darwiniana – rileva Oulton – si applica anche alle aziende, oltre che alle specie animali: non sono le più forti a sopravvivere, né le più intelligenti, ma quelle che si adattano meglio ai cambiamenti”. Basta osservare i numeri per capire quali saranno i settori che nei prossimi anni avranno i tassi di crescita più marcati. In ordine di rilevanza, secondo uno studio di New Energy Finance: le fonti di energia alternative ai combustibili fossili, l'efficienza energetica, i servizi di supporto ambientale, le tecnologie e infrastrutture idriche, le tecnologie di gestione dei rifiuti, le tecniche di controllo dell'inquinamento. New Energy Finance stima che gli investimenti globali nelle energie pulite dovranno spingersi fino a 500 miliardi di dollari l'anno, quasi il triplo del livello raggiunto nel 2008 (comunque già triplicato rispetto alla quota del 2005), se vogliamo ottenere una stabilizzazione delle emissioni di CO2, principale responsabile dell'effetto serra, e un declino dopo il 2020. Tutti i Paesi industrializzati, chi prima e chi poi, vanno in questa direzione. Lo schema europeo 20-20-20, già vincolante a prescindere dagli esiti di Copenhagen, mira a coprire entro il 2020 il 20% del fabbisogno di energia primaria con le fonti pulite, che oggi non arrivano neanche al 10%. Lo spazio di crescita, dunque, è enorme. Per centrare l'obiettivo, ogni Paese dovrà aumentare l'utilizzo di fonti rinnovabili nell'elettricità, nel riscaldamento e nei trasporti. Solo sul fronte dalla produzione elettrica pulita, gli investimenti europei dovrebbero passare da 3 a 8 miliardi l'anno. Va da sé che le fonti più interessate a questa crescita saranno l'eolico, il solare e le biomasse: nei prossimi dieci anni ci vorranno 6 miliardi d'investimenti per potenziare l'eolico, 16 miliardi per il solare e altri 16 per le biomasse. Ma l'Europa non è sola. Il Congresso americano si appresta a varare una legislazione analoga e il Giappone ha già messo in cantiere tagli del 30%. La Cina, primo inquinatore mondiale, sta facendo rapidi passi avanti sulla via delle fonti pulite e ormai è leader nella produzione di pannelli solari. Perfino la Corea del Sud, unico fra i Paesi in via di sviluppo, ha deciso un taglio delle emissioni del 4% entro il 2020. Su questa base funzionano diversi mercati di scambio dei crediti di carbonio, a partire da quello europeo. “Chi teme di trovarsi di fronte a una bolla può stare tranquillo”, spiega Peter Dickson di Fortis. “Il quadro legislativo internazionale è già a un livello avanzato di sviluppo, con meccanismi di remunerazione stabili e mercati trasparenti di scambio dei crediti di carbonio. Le tecnologie sono provate e sempre più efficienti. La crescita sui mercati globali è costante”. Il settore presenta caratteristiche anticicliche, come s'è visto nella continua crescita anche in questo periodo di vacche magre. E risponde a spinte di lungo periodo, che prescindono dagli esiti del vertice di Copenhagen: l'aumento della domanda energetica causato dalla crescita della popolazione mondiale, la necessità di emanciparsi da fornitori inaffidabili e dai prezzi volatili dell'energia, l'esigenza di migliorare la qualità dell'aria. “Attenzione, quindi, a non sottovalutarlo”, ammonisce Dickson. Chi continua a finanziare l'economia del carbonio, rischia prima o poi di rimanere con il cerino in mano.

29 novembre 2009

Un nuovo filone: piccoli film ambientalisti crescono

All'inizio era solo catastrofismo. Roland Emmerich inaugurò il filone nel 2004, con "L'alba del giorno dopo", un kolossal dove il presidente americano in persona, sconvolto dell'onda anomala che sommerge New York, promette al mondo che mai più l'uomo cercherà di sovrastare la natura. Con un incasso globale di 543 miliardi di dollari, Emmerich mise a segno un successo leggendario: ora vuole fare il bis con "2012" (www.whowillsurvive2012.com), appena uscito. "The Age of Stupid" (www.ageofstupid.net), il film di Franny Armstrong che racconta la storia dell'ultimo sopravvissuto sulla Terra devastata dall'effetto serra, è l'esempio più recente della serie: proiettato il 21 settembre a New York con Kofi Annan come ospite d'onore, vuole farci riflettere sulla necessità di fermare le emissioni di anidride carbonica finché siamo in tempo. Ma ormai l'eco-cinema - merce rarissima in Italia, nonostante la moda della sostenibilità - va al di là del comodo catastrofismo e spazia su molti generi diversi, dimostrando la crescente ampiezza della riflessione sul difficile rapporto dell'uomo con la natura. E' diventato un'industria a sé, su cui campano diverse case di produzione e fioriscono interi festival, da CinemAmbiente appena concluso a Torino, al Festival du Film d'Environnement di Parigi, passando per il neonato Going Green Film Fest di Beverly Hills. Il filone più ricco è quello dei documentari sull'impronta ecologica dell'uomo moderno: "Una scomoda verità", di Al Gore, è il più famoso. “No Impact Man”, uscito pochi giorni fa negli Stati Uniti, introduce un taglio nuovo, che rispecchia la recente evoluzione nel messaggio dell'ambientalismo: non spaventiamo più la gente con le catastrofi, offriamo invece modelli positivi da imitare, nuovi modi, diversi dal consumismo, di arrivare alla felicità. Il film è il resoconto di un esperimento: Colin Beavan, autore newyorkese di saggi storici e blogger sempre in cima alle classifiche (http://noimpactman.typepad.com), racconta il suo viaggio nella sostenibilità, vissuto senza spostarsi da Manhattan, ma tentando di ridurre al minimo l'impatto ambientale della sua famiglia con una vasta serie di rinunce, dagli ascensori alla carta igienica. Tra le pellicole più militanti, però, si fa strada un nuovo bersaglio, che rispecchia la forte preoccupazione di tutto il mondo anglosassone, a partire da Michelle Obama: l'industria agroalimentare, con i suoi effetti devastanti sull'ambiente e sulla qualità del cibo. Dopo i classici “Super Size Me” - che ha documentato i danni alla salute sofferti dall'autore Morgan Spurlock dopo un mese di pasti sistematici da McDonald's - e “Fast Food Nation”, che ci ha portato a visitare i mattatoi dove quegli hamburger hanno origine in condizioni terrificanti, il titolo che sta facendo più discutere ora è “Food Inc” (www.foodincmovie.com). Prodotto da Participant Media, come “Una scomoda verità” di Al Gore, il documentario ha due narratori d'eccezione: Michael Pollan e Eric Schlosser, autori di best seller e guru di punta del movimento che considera l'industria agroalimentare altrettanto dannosa dell'industria del tabacco. Il film, uscito quest'estate negli Stati Uniti e due settimane fa a Londra, ha scatenato la violenta reazione delle grandi corporation di settore. Ma ha dalla sua schiere di fattorie biologiche e di mercati rionali, oltre a milioni di cittadini convinti che mangiare sano sia anche un modo per salvaguardare il pianeta: l'industria agroalimentare, infatti, è la prima fonte di emissioni di gas serra, nonché la principale causa d'inquinamento del suolo e delle acque. Il film, diviso in tre parti, colpisce e affonda la produzione industriale di carne, economicamente e ambientalmente insostenibile. Poi dimostra come la massimizzazione dell'efficienza nelle coltivazioni di grano e soja porti alla produzione di alimenti dannosi alla salute, che provocano obesità, malattie cardiovascolari e certi tipi di cancro. Infine punta il dito contro i miliardi di sussidi elargiti dal governo agli agricoltori, che contribuiscono all'altissima intensità di carbonio del sistema, sempre più dipendente dal petrolio, sia per i crescenti consumi di energia che per la produzione di concimi chimici e di pesticidi. Se “Food Inc” fa un ottimo lavoro per spiegare cos'è che non va nell'attuale sistema di produzione agroalimentare, “Fresh”, di Ana Sofia Joanes (www.freshthemovie.com), ha scelto invece di pensare positivo, focalizzandosi sulla gente che fa la cosa giusta: agricoltori biologici e animatori di cooperative che offrono una visione positiva del cibo e un modello da seguire. “Homegrown” (www.homegrown-film.com), di Robert McFalls, è sulla stessa lunghezza d'onda: ci presenta una famiglia di Pasadena, in California, che è riuscita a far crescere un meraviglioso orto in un contesto urbano, alimentandosi con i suoi prodotti e vendendo la produzione eccedente. Un esempio che riesce a mettere di buon umore perfino nell'imminenza della fine del mondo.

26 novembre 2009

In pratica, il superuomo è già qui: siamo noi

Più grandi, più forti, più longevi. In trecento anni siamo diventati del 50% più alti e viviamo più del doppio dei nostri antenati. Ma siamo ancora uomini, nel senso di homo sapiens? Robert Fogel, 83 anni, è convinto che la storia dell'evoluzione umana non sia ancora conclusa, anzi, stia accelerando grazie alla crescente potenza della tecnologia. Premio Nobel per l'Economia nel 1993 per aver introdotto il metodo quantitativo nella ricerca storica, direttore del Center for Population Economics dell'università di Chicago, Fogel ha dedicato gli ultimi anni di studio alla sua teoria di una “evoluzione tecno-fisiologica” come forza dominante della recente storia umana, su cui sta per pubblicare un libro che farà discutere: The Changing Body: Health, Nutrition, and Human Development in the Western World since 1700 (Cambridge University Press). Questa pubblicazione è l'ultimo passo di un percorso lungo, iniziato negli anni Ottanta studiando la fisiologia dei soldati che hanno combattuto nell'esercito nordista, la Union Army, nella guerra di secessione americana. “Quei ragazzi, arruolati nel 1861 per difendere la causa del Nord, rappresentano la prima generazione di americani che abbia raggiunto i 65 anni nel Ventesimo secolo ed è anche il primo gruppo di veterani seguito dai servizi sociali fino alla morte, con la registrazione dettagliata di tutta la loro storia sanitaria, ora depositata negli archivi nazionali a Washington”, racconta Fogel. I registri sanitari della Union Army sono una fonte inesauribile di dati, alla quale Fogel si è abbeverato per una decina d'anni, confrontandoli poi con le caratteristiche fisiche degli americani di oggi. Da qui, ha allargato il suo studio al resto del mondo, sfruttando i dati già raccolti da altri studiosi, soprattutto in Europa ma anche in Cina e in India. “L'evidenza che ne abbiamo ricavato è talmente univoca da sorprendere anche me”, commenta Fogel. “L'uomo moderno non solo è molto più grande e più longevo di cent'anni fa, ma è anche più forte a livello biologico, perfino i nostri organi interni sono meglio formati e non cadono a pezzi davanti all'attacco degli agenti patogeni come un tempo”. I dati a disposizione ci dicono che all'inizio del '900 l'aspettativa di vita in Europa era di 47 anni, mentre oggi è di 80. In India, nel 1930 era di 29 anni, oggi è di 70. L'altezza media dei maschi europei è cresciuta di quasi trenta centimetri dal 1864 ad oggi. E gli anziani di oggi non sono più tormentati da una miriade di malattie croniche, dall'artrite all'ernia, un tempo molto comuni. “Tra i soldati della Union Army – riassume Fogel - solo uno su 4000 è riuscito a vivere fino a cent'anni, mentre nella generazione della mia prima nipotina, che è nata nell'81, uno su due ci arriverà. In pratica, da allora ad oggi l'aspettativa di vita è cresciuta di un anno ogni tre. E non c'è motivo per cui sia destinata a fermarsi: nel 2050 potrebbe sfiorare i cento e così avanti”. Tutto ciò, grazie al progresso tecnologico messo a segno in tutti i campi, dalla meccanica alla medicina, passando per le tecniche agricole. “Ma soprattutto – precisa Fogel - grazie a un circolo virtuoso innescato dalle sinergie fra il nostro corpo e le nuove tecnologie che si trova a disposizione: se è vero che la tecnologia ci ha rafforzati migliorando l'alimentazione e la vita quotidiana, è anche vero che la buona salute ha contribuito significativamente allo sviluppo economico e tecnologico”. Mettendo assieme i fattori fisiologici con quelli termodinamici, si può affermare che l'efficienza media del motore umano nel Regno Unito, ad esempio, sia cresciuta del 53% tra il 1790 e il 1980 e che abbia contribuito alla metà della crescita economica britannica. Le sinergie fra il progresso fisiologico e tecnologico, dunque, hanno messo in moto un fenomeno unico nell'ambito delle 7000 generazioni umane che hanno abitato la Terra, consentendo fra l'altro l'esplosione demografica che ha portato l'umanità a crescere dai 600 milioni di individui nel 1700 ai 6 miliardi e 800 milioni di oggi, verso i 9 miliardi nel 2050. Ma fanno degli esseri umani di oggi una specie nuova? Sull'imprinting genetico della sua “evoluzione tecno-fisiologica”, Fogel non ha certezze: non si spinge fino a sostenere che se potessimo accoppiarci con i nostri antenati non saremmo più in grado di procreare. Gli basta stabilire una serie di punti fermi sull'evoluzione umana recente, con cui possiamo permetterci di prevedere l'andamento futuro. “Negli ultimi due secoli l'uomo ha sviluppato, per la prima volta nella storia, la capacità di migliorare in maniera drastica le proprie prestazioni fisiche: malgrado i disagi cui andremo incontro, causati dalla relativa sovrappopolazione e dalla scarsità di risorse, è troppo semplicistico basare i nostri calcoli futuri sulle condizioni tecnologiche di oggi. Come possiamo sapere quale sarà l'effetto delle biotecnologie sull'evoluzione della nostra specie". In pratica, il superuomo è già qui. Siamo noi.

Ma siamo ancora esseri umani? Dipende...

Ma siamo ancora umani? Dipende. Certo è che l'evoluzione della nostra specie continua, anzi, sta accelerando. Il primo proto-umano, come noto, è un ominide africano chiamato Homo abilis, comparso 2 milioni e mezzo di anni fa. Da allora ad oggi nella nostra famiglia si sono susseguite almeno altre sei specie ormai estinte, dall'Homo erectus all'Homo neanderthalensis, prima di arrivare all'Homo sapiens di oggi. Ogni specie si è evoluta per conto proprio, da un gruppo di ominidi rimasto separato dal grosso della popolazione per diverse generazioni, in un ambiente nuovo, che favoriva caratteristiche diverse. Tagliati fuori dai loro ex-compagni, questi piccoli gruppi andavano per la propria strada genetica e quindi perdevano la capacità di riprodursi con la popolazione d'origine. Siamo arrivati così anche noi, circa 200mila anni fa, ma la frammentarietà dei ritrovamenti fossili non ci consente di identificare con certezza il nostro primo antenato, com'è stato fatto con Lucy, il primo australopiteco ritrovato in Etiopia quando i Beatles cantavano “Lucy in the Sky with Diamonds”. Da allora in poi la nostra specie si è sparsa nel mondo intero ed è prevalsa sulle altre: 10mila anni fa l'Homo sapiens aveva già colonizzato tutti i continenti, salvo l'Antartide. Con una presenza così estesa, si poteva presumere che l'evoluzione negli umani fosse terminata. E questa è stata la posizione di molti genetisti fino ai tempi recenti. Ma con la mappatura del genoma i ricercatori hanno potuto verificare meglio. Henry Harpending e John Hawks hanno scoperto che almeno il 7 per cento del genoma umano si è evoluto negli ultimi cinquemila anni e questi cambiamenti dipendono da condizioni ambientali diverse: tanto per fare un esempio, pochi cinesi e africani sono in grado di digerire latte fresco da adulti, al contrario di quasi tutti gli europei del Nord. Un altro studio di Pardis Sabet ha scoperto che oltre 300 regioni del genoma umano mostrano l'evidenza di mutazioni recenti, ad esempio nelle variazioni di pigmentazione della pelle o nella resistenza a certe malattie, grazie alle quali le diverse popolazioni sono riuscite a sopravvivere meglio nel loro specifico ambiente naturale Le ricerche di Harpending dimostrano che negli ultimi diecimila anni la specie umana si è evoluta cento volte più rapidamente di quanto sia avvenuto nei millenni precedenti, come spiega nel suo The 10,000 Year Explosion, scritto insieme a John Cochran e pubblicato da Basic Books all'inizio di quest'anno. I due attribuiscono la nuova accelerazione soprattutto ai cambiamenti enormi portati dallo sviluppo dell'agricoltura e dalla concentrazione nelle città. Le mutazioni più recenti, infatti, sono tutte mirate a difenderci dalla micidiale combinazione di carenze igieniche, alimentazione diversa e malattie inedite (spesso contratte da animali domestici), tipica della nuova condizione in cui ci troviamo. Malgrado le riserve di alcuni studiosi, gli umani sembrerebbero quindi in piena evoluzione. Se diventeremo Jedi o Sith, però, non lo sa nessuno.

17 novembre 2009

Verso Copenhagen: il business è già oltre la politica

C'è chi parla di 100 miliardi di dollari all'anno da qui al 2020, altri stimano molto di più. Questo è il prezzo di un accordo internazionale per tagliare le emissioni responsabili dell'effetto serra e avviare il mondo verso un'economia a bassa intensità di carbonio. E' per concordare questo prezzo che i rappresentanti di oltre 190 Paesi si riuniranno a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre. In pratica, a Copenhagen ci sarebbe da raggiungere un'intesa sulle percentuali di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi ricchi - il che equivale a tagliare i consumi dei combustibili fossili, le risorse energetiche meno costose - e di convincere i Paesi in via di sviluppo, se non a tagliarle, almeno a stabilire dei parametri per frenarne la crescita. Convincerli significa finanziare il trasferimento di tecnologie per l'energia pulita e anche assistere economicamente le nazioni più povere, che sono le più colpite dagli attuali e futuri rovesci del clima. Ma è già chiaro che i leader mondiali non riusciranno ad arrivare così nei dettagli da fissare parametri vincolanti. Sarà già tanto se si accorderanno su un percorso di massima per consentire ai negoziatori di arrivare a quel risultato in seguito. Un accordo politico vero, condiviso da tutti, da tradurre poi in cifre con calma, sarebbe un grande successo. "Spero che andremo ben al di là di una semplice dichiarazione d'intenti", ha commentato Yvo De Boer, il capo della diplomazia climatica dell'Onu. Altrimenti, si rischia di arrivare alla scadenza del protocollo di Kyoto, nel 2012, senza un accordo vincolante e il negoziato sull'effetto serra rischia di trasformarsi in un altro Doha Round. Con le conseguenze sul clima che tutti possiamo immaginare. Resta il fatto, però, cha la macchina per la riconversione dell'economia mondiale verso una bassa intensità di carbonio, messa in moto nel '97 dal protocollo di Kyoto, viaggia anche da sola. Gli europei hanno già preso la decisione di ridurre le emissioni del 20% al 2020 e la seguiranno in ogni caso. Gli americani, ex inquinatori numero uno (oggi scavalcati dalla Cina) hanno in discussione in Congresso un Climate Change Bill che nella migliore delle ipotesi fisserà un taglio delle emissioni al 20% e nella peggiore al 14%. I giapponesi hanno offerto ai negoziati una riduzione del 25%. I cinesi parlano di un taglio del 20%. E per rimettere in moto l'economia mondiale abbattuta dalla crisi si parla ormai di Green New Deal: il 15% dei piani di stimolo all'economia varati globalmente negli ultimi mesi, stimati sui 2.800 miliardi di dollari complessivi, sono diretti a interventi verdi, nella convinzione che la riconversione del sistema energetico dai fossili alle rinnovabili rilancerà l'occupazione e creerà nuove aziende innovative. Nel grande business ci sono ormai almeno una decina di coalizioni, nate per sensibilizzare il mondo politico di fronte ai rischi del cambiamento climatico. Una di queste, il Carbon Disclosure Project, ha presentato nell'ultima riunione pre-Copenhagen alle Nazioni Unite un documento dove rivela che il 52% delle aziende dello S&P 500 abbia già adottato misure per la riduzione delle emissioni-serra, in barba alle lentezze della politica. "Le grandi aziende – ha detto Paul Dickinson, il capo del progetto – dimostrano di essere pronte, capaci e perfino desiderose di intraprendere misure per il taglio dell'anidride carbonica". "Se non ci muoviamo subito – ha detto Brad Figel, direttore degli affari pubblici della Nike – tutto diventerà più costoso, più arduo e rischioso". "Il 95% dei nostri prodotti è basato sul cotone – ha rimarcato Anna Walker di Levi Strauss, durante la presentazione del Carbon Disclosure Project – e la scarsità d'acqua potrebbe diventare un dramma". Non a caso, i mercati premiano tutto quello che è colorato di verde e l'energia pulita galoppa in Borsa come le dot-com alla fine degli anni Novanta. Ancora una volta, le grandi aziende sono più veloci del mondo della politica.

15 novembre 2009

Italia campo di battaglia per i big del nucleare

La seconda avventura italiana nel nucleare si va facendo affollata. Dopo la definizione della prima cordata Enel-Edf, che punta a costruire in Italia quattro reattori per oltre 6.000 megawatt di potenza complessiva, sono partiti i grandi lavori attorno a una seconda cordata, che potrebbe comprendere il colosso tedesco E.on e il gruppo francese GdfSuez, tutti e due navigatori di lungo corso nel mercato del nucleare civile. Per raggiungere l'obiettivo del governo di una quota del 25% di energia elettrica da fonte nucleare sul fabbisogno italiano, infatti, i 6000 megawatt di Enel-Edf non bastano, ne servirà almeno il doppio. Resta quindi ampio spazio per un secondo consorzio. E resta spazio anche all'interno del consorzio Enel-Edf, che sarà controllato al 51% dai due partner originari, ma accoglierà altri investitori con quote minori. Tra questi, la prima candidata è Edison. “Vogliamo avere una quota di nucleare proporzionale alla nostra quota di produzione elettrica sul mercato italiano”, ha detto il numero uno di Edison Umberto Quadrino. Il che significa che la società di Foro Buonaparte ha in progetto d'investire almeno 4 miliardi di euro nel consorzio guidato da Enel-Edf, per una partecipazione corrispondente al 20% dell'intera società. E.on e GdfSuez, invece, hanno aperto un tavolo di lavoro sulla seconda tranche di centrali. “Ma dobbiamo prima vedere – spiega una fonte interna a E.on – le condizioni regolatorie delineate nei decreti attuativi previsti per febbraio, che stabiliranno i criteri per l'individuazione dei siti. Per concretizzare il nostro interesse deve emergere un forte consenso dall'opinione pubblica italiana su questo percorso”. Gérard Mestrallet, presidente e ad di GdfSuez, ha confermato a sua volta l'interesse “a entrare nel nucleare italiano”, con partner sia locali che europei. Ma è chiaro che i due colossi europei sono preoccupati dalle resistenze dell'opinione pubblica ai piani governativi italiani e in ogni caso avrebbero bisogno di un partner locale per partecipare più agevolmente alla spartizione della torta. Per GdfSuez potrebbe essere più facile, avendo già una stabile partnership con Acea, ma si parla anche di A2A e i giochi sono ancora aperti. Sia E.on che GdfSuez, intanto, hanno scommesso sul programma di sviluppo nucleare inglese. E.on ha appena vinto insieme a Rwe la gara per la realizzazione di ben 6000 megawatt nucleari su due siti, Wylfa e Oldbury, per un investimento complessivo di oltre 15 miliardi. GdfSuez, con Iberdrola e Scottish and Southern Energy, ha vinto l'appalto per una centrale da 3600 megawatt a Sellafield. Mentre l’Italia ha scelto per il ritorno al nucleare una soluzione verticale, basata su un accordo intergovernativo con la Francia, cui è seguita un’intesa tecnologica tra le compagnie di bandiera dei due Paesi, la Gran Bretagna ha optato per un approccio diametralmente opposto: prima ha selezionato i siti in cui realizzare le nuove centrali e poi ha bandito una gara internazionale tra aziende elettriche. In questo modo, i concorrenti hanno già la certezza di avere un sito a disposizione. Ora che gli impianti da realizzare sono stati assegnati, i consorzi investitori metteranno in gara i vari specialisti nel cuore della centrale, principalmente la francese Areva e la nippo-americana Westinghouse, per scegliere quale tecnologia utilizzare nell'isola nucleare. Per quanto riguarda l'Italia, la polemica sulle tecnologie è già scoppiata da tempo. Enel e Edf contano di replicare qui il reattore Epr che stanno costruendo insieme a Flamanville, con tecnologia Areva. Anche GdfSuez ha messo le mani avanti: sì al nucleare italiano, ma solo con l'Epr di Areva, non con l'Ap1000 di Westinghouse, Mestrallet lo ha detto chiaro. Il governo italiano, però, ha stretto anche un accordo con Washington sulla cooperazione industriale nel nucleare civile, che sembrava preludere allo sbarco di tecnologia americana nella penisola. L'Italia ha un interesse in più sull'utilizzo dei reattori Ap1000, perché Ansaldo ha la licenza Westinghouse e quindi qualsiasi commessa ai nippo-americani ci ritorna in tasca attraverso Finmeccanica. Ansaldo non sembra invece avere molte chance di entrare nell'isola nucleare dell'Epr di Areva, con cui ha aperto un contenzioso piuttosto vivace: mentre i legami con Westinghouse sono considerati “soddisfacenti dal punto di vista industriale e commerciale, con Areva le intese sono ancora insoddisfacenti”, ha detto l'amministratore delegato di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini nel corso di una recente audizione alla Commissione Industria del Senato. E' ancora tutto da vedere se Finmeccanica riuscirà a entrare nelle commesse per il nucleare di casa nostra.

Le 32 aziende italiane con le mani nell'atomo

Nel cantiere con vista sull'oceano di Flamanville, in Normandia, non c'è solo Enel a costruire insieme a Edf il primo reattore nucleare europeo di terza generazione: sono ben 32 le imprese italiane impegnate nella realizzazione dell'Epr e un'altra ventina sta lavorando al reattore gemello finlandese, in costruzione a Olkiluoto. “La realizzazione di un impianto di queste dimensioni – spiega Livio Vido, direttore Ingegneria e Innovazione di Enel - richiede competenze vaste e complesse”. Su un costo totale di 4-4,5 miliardi di euro, la metà è imputabile alla cosiddetta “isola nucleare”, che comprende il reattore vero e proprio, i generatori di vapore e i pressurizzatori interni al contenitore principale, oltre agli impianti di sicurezza di prima istanza e alla sala manovre. Un altro 30% è imputabile all'isola convenzionale, che contiene i sistemi relativi alla conversione in energia elettrica del calore sprigionato dal reattore, come in tutte le centrali termoelettriche convenzionali: turbina, alternatore e tutti gli ausiliari. Il resto serve per le opere civili. Le 32 imprese italiane, da Ansaldo a Dalmine, da Belleli a Mangiarotti, sono sub-fornitori dei contrattisti principali di Edf: Areva per l'isola nucleare e Alstom per la sala macchine. Il drappello più nutrito è quello lombardo, con 18 aziende coinvolte, altre 4 sono venete, 4 friulane, 4 emiliane, una piemontese e una umbra. Forniscono forgiati di turbina e componenti dell'isola nucleare, dal pressurizzatore alle pompe agli scambiatori, tutti al top degli standard di settore, per rispondere alle regolamentazioni più stringenti cui sono sottoposte le parti esposte alla radioattività del nucleo. E inoltre: serbatoi, tubazioni, apparecchiature in pressione e altre apparecchiature meccaniche per l'isola convenzionale. “Il grosso del lavoro, quasi il 30%, va in forniture meccaniche”, precisa Vido, che è impegnato in prima persona nella realizzazione dell'Epr francese e anche sulla prospettiva di riproporre la stessa tecnologia in Italia, nei quattro reattori che si candida a costruire sempre in partnership con Edf. “Si tratta di un programma infrastrutturale da 16-18 miliardi di euro, con pochi precedenti nella storia del nostro Paese per dimensione dell'investimento”, fa notare Vido. Gli uomini Enel già inseriti nelle strutture di Edf dedicate all'Epr sono una sessantina su oltre 500. “Questo training sul campo – spiegano dall'Enel – è volto a ricreare le competenze e i profili professionali in grado di gestire l'intero ciclo di vita di un impianto, che oggi ci mancano. Ci tornerà utile per formare le squadre direttive che poi andranno a gestire le operazioni nei cantieri italiani”. E in ogni caso gli accordi con Edf prevedono un'opzione Enel per partecipare alla realizzazione dei prossimi 5 reattori Epr in Francia, opzione già esercitata sul primo della serie, quello di Penly.

23 ottobre 2009

Ammalati di solastalgia: ci manca il clima di una volta

I cambiamenti climatici non degradano solo il paesaggio attorno a noi, ma anche il nostro paesaggio interiore. La psiche umana è la prossima vittima del riscaldamento globale: il primo ad accorgersene è stato l'australiano Glenn Albrecht. In una ricerca condotta tra i suoi connazionali, sconvolti dalla devastante siccità che sta riducendo il continente australe a una distesa polverosa, Albrecht ha riscontrato marcati segnali di depressione e li ha messi in relazione con la scomparsa dell'ambiente naturale abituale, sofferta negli ultimi cinque anni. Nel corso del suo studio, centinaia di australiani gli hanno descritto il profondo senso di perdita scatenato dalla morte degli alberi, dai giardini inariditi e dalla sparizione degli uccelli. “Hanno l'impressione di non riconoscere più il luogo in cui vivono”, spiega Albrecht, che ha riscontrato similitudini con la depressione provata dalle popolazioni deportate forzatamente dalla loro patria d'origine. Ma in questo caso non sono gli abitanti che abbandonano la patria d'origine, è la patria che se ne va. Albrecht ha dato a questa sindrome un nome evocativo: solastalgia, contrazione di solacium e algia, una strana nostalgia di casa, di quel sollievo derivato dalla permanenza in un ambiente abituale, che oggi ci è negato pur restando a casa nostra. Gli indiani Hopi usavano la parola koyaanisqatsi per indicare il disagio causato dalla vita che si disintegra e gli Inuit dell'isola di Baffin hanno esteso al clima sempre più imprevedibile un aggettivo, uggianaqtuq, che di norma serviva per definire un amico che si comporta in modo bizzarro. Comunque la si chiami, resta il fatto che la sindrome depressiva descritta da Albrecht in un paper pubblicato da “Australasian Psychiatry” sta dando parecchio filo da torcere agli australiani. E non solo a loro. Reazioni analoghe sono state registrate nella popolazione colpita dall'uragano Katrina o dallo tsunami in Thailandia, dove le malattie mentali sono raddoppiate negli anni successivi ai due disastri. Ma il disagio per i cambiamenti climatici emerge anche lontano dai luoghi più esposti al riscaldamento globale. “Ci piace credere alla nostra immagine di freddi neo-capitalisti, nomadi e sempre interconnessi, ma in realtà il legame di base con la terra è ancora forte”, fa notare Albrecht. Non ci siamo ancora evoluti abbastanza da poter fare a meno del nostro ambiente naturale. E infatti anche fra le tribù più smaliziate del pianeta, quelle che affollano i grandi agglomerati urbani sulle due coste del Nord America, l'ansia ecologica dilaga e gli psicoterapeuti sono costretti ad attrezzarsi per far fronte al nuovo disagio. Linda Buzzell e Sarah Anne Edwards hanno fondato un'associazione dedicata, l'International Association for Ecotherpy, che propone agli stressati connazionali - colpiti da sindromi depressive e da insonnia di fronte al clima impazzito - di prendere il toro per le corna e cercare sollievo nella coscienza pulita, cambiando le abitudini antiecologiche, per rendere più sostenibile la propria vita quotidiana. Assicurano risultati entusiasmanti. Sulla stessa linea anche Lise van Susteren, nota psichiatra docente alla Georgetown University, che ha sperimentato l'ansia ecologica direttamente su se stessa, con una sindrome depressiva da cui è uscita solo recentemente, affiancando Al Gore nella sua campagna per la ratifica del protocollo di Kyoto.

20 ottobre 2009

Torna di moda anche in Italia l'impiantistica nucleare

Si torna sui banchi per prendere una specializzazione che in Italia fino a poco tempo fa non apriva alcuna prospettiva: impiantistica nucleare. Invece stavolta c'è la certezza del posto assicurato. A Genova, il nuovo master in Scienze e tecnologie degli impianti nucleari, che prende il via oggi con il test di ammissione, offre ai venti prescelti una garanzia all'80% di essere assunti subito dalle aziende partner dell'iniziativa, fra cui Ansaldo e D'Apollonia. A Pisa, il nuovo master in Tecnologie degli impianti nucleari, diretto da Giuseppe Forasassi, dà una garanzia altrettanto sicura, considerato il livello degli insegnanti: i 20 studenti che riusciranno a entrare potranno accedere facilmente alle nuove posizioni che si aprono nel settore (i termini di ammissione scadono il 30 ottobre). A Bologna, il master in Progettazione e gestione di sistemi nucleari avanzati, inaugurato l'anno scorso in collaborazione con Enel e Edison, si ripete quest'anno. E poi c'è il master storico in Tecnologie nucleari a Pavia. I candidati ideali per queste specializzazioni sono gli ingegneri nucleari usciti dai sei corsi di laurea rimasti in vita in Italia dopo lo stop al nucleare di oltre vent'anni fa: Torino, Milano, Padova, Pisa, Roma e Palermo, raggruppate nel Consorzio Interuniversitario per la Ricerca Tecnologica Nucleare. Anche nei sei corsi di laurea, che sfornano un centinaio di laureati all'anno, spira aria di boom. Il Politecnico di Milano sta investendo ben 12 milioni di euro nei nuovi laboratori nucleari in via di realizzazione alla Bovisa: un edificio di tre piani oltre a un bunker per gli esperimenti con la radioattività. Basta dare un'occhiata alla rinascita in giro per il mondo per capire da cosa dipende questo balzo. Areva ha lanciato quest'anno una campagna assunzioni per 12.000 persone e Westinghouse prevede di reclutare 1.200 persone all'anno nei prossimi 5 anni. Ma anche le prospettive di riaprire un capitolo nucleare in Italia attirano gli studenti. Ansaldo Nucleare, partner nel nuovo master di Genova, conta si assumere dai 20 ai 30 neolaureati all'anno. Il braccio atomico di Finmeccanica, con uno staff di 200 specialisti in impianti nucleari, ha un accordo con Westinghouse per condividere gli appalti di reattori AP1000 e si candida per l'altra metà della torta italiana. Sulla prima metà punta già Enel (in consorzio con Edf), che sta ricostruendo la sua squadra nucleare e ha già assorbito 150 specialisti, assegnati ai progetti in corso in Francia e in Slovacchia. “Ma in prospettiva contiamo di raddoppiare questo numero”, spiega Giancarlo Aquilanti, numero uno della nuova squadra atomica dell'Enel. Solo per partecipare alla costruzione dell'Epr (European Pressurized Reactor) a Flamanville, in Normandia, l'Enel ha piazzato una sessantina di specialisti in loco. “Questo training sul campo – precisa Aquilanti – è volto a ricreare le competenze e i profili professionali in grado di gestire l'intero ciclo di vita di un impianto, che oggi ci mancano. Ci tornerà utile per formare le squadre direttive che poi andranno a gestire le operazioni nei cantieri italiani”.

12 ottobre 2009

Il caro-bolletta e l'illusione del prezzo bloccato

L'Italia ha le bollette più salate d'Europa. Gli italiani, secondo l'ultimo rapporto dell'Ocse sul mercato dell'energia comunitario, pagano l'elettricità cinque volte più dei francesi - 200 euro al megawattora contro 40 - e molto più che in Irlanda, il secondo Paese più caro, dove il costo medio di un megawattora è pari a poco più di 120 euro. Questo divario, sostiene l'Ocse, riflette non solo le differenze nei costi di generazione dell'elettricità, dovuti al tipo di combustibile utilizzato (in Italia prevalentemente il gas, in Francia il nucleare), ma anche "la mancanza di concorrenza e di integrazione nel mercato europeo dell'elettricità, che intralcia l'esportazione dai Paesi a basso costo a quelli ad alto costo", oltre alle notevole disparità fiscali. Il divario sui costi di generazione emerge non solo con un Paese dominato dal nulceare come la Francia, ma anche con Norvegia e Austria, che pagano l'elettricità meno di 50 euro per megawattora senza il nucleare, approfittando di risorse naturali abbondanti: il petrolio del Mare del Nord e l'idroelettrico. L'energia atomica sarà invece utile, avverte l'Ocse, per ridurre le emissioni di anidride carbonica, che presto diventeranno un costo aggiuntivo. Per l'organizzazione parigina, la liberalizzazione del mercato europeo dell'energia dovrebbe essere rafforzata, anche chiedendo ai singoli Paesi la separazione completa della proprietà per le reti di trasporto dell'energia, non solamente nell'elettricità (dove l'Italia è già in linea) ma anche nel metano, tema caro al presidente dell'Authority Sandro Ortis, che si batte da anni per la separazione di Snam Rete Gas dall'Eni. Il caro-energia è particolarmente penalizzante per le aziende esportatrici, che devono competere in Europa e nel mondo con concorrenti che producono a costi più bassi. Ma anche per le famiglie che non si rassegnano a pagare bollette salate, ora è possibile fare shopping tra i vari gestori. Bisogna fare attenzione, però, a non cadere dalla padella nella brace. In Italia, fare shopping quando il prezzo del petrolio è alto non conviene, perché nel nostro mercato l'elettricità si produce principalmente bruciando gas e il prezzo del gas è ancora strettamente legato a quello del petrolio. Per poter beneficiare delle migliori tariffe sul mercato, i contratti di fornitura avrebbero dovuto essere firmati la scorsa primavera, tra febbraio e maggio. Rispetto a febbraio, per esempio, i prezzi dell'energia sul mercato libero sono più alti del 13% e del 10% per l'acquisto di metano. Non solo. E' probabile – se la ripresa economica procederà come si spera – che nei primi mesi del 2010 i prezzi salgano ancora, seguendo la curva del petrolio, che è passato da un valore medio sotto i 40 dollari al barile a febbraio, agli attuali 70. In ogni caso oggi i prezzi, pur in risalita in confronto ai minimi della primavera, sono ancora mediamente più bassi del 2-3% rispetto al 2008. Per le piccole e medie imprese, l'acquisto dell'energia non è un compito facile: la chiusura di un contratto vantaggioso è una scommessa contro il tempo, bisogna ragionare attentamente su quelli che potrebbero essere i fabbisogni, sul tasso di cambio euro-dollaro e sugli scenari futuri delle materie prime. Lo stesso vale anche per le famiglie, che prima di accedere alle varie offerte lanciate sul mercato un po' da tutti i grandi operatori, da Enel a Edison, da Eni a Sorgenia, dovrebbero fare mente locale sul fatto che le aziende di vendita non regalano nulla e se si vuole risparmiare è essenziale conoscere il mercato e scegliere il momento giusto per cambiare contratto. Chi ha approfittato dei prezzi bloccati offerti dagli operatori all'inizio di quest'anno, ad esempio, ha fatto un affare, ma accettare oggi la stessa offerta non sarebbe altrettanto vantaggioso.

8 ottobre 2009

I megawatt costano, i negawatt fanno guadagnare

I megawatt costano, i “negawatt” fanno guadagnare. Il sistema casa e il sistema uffici, dove si consuma quasi la metà del fabbisogno di energia del pianeta, è il campo dove, nei prossimi anni, si potranno realizzare i guadagni più sensibili sui consumi globali di energia. E l'efficienza energetica potrebbe essere il motore con cui far ripartire il business delle costruzioni. La ristrutturazione verde dell'Empire State Building fa scuola: il palazzo più rappresentativo di New York avrà ben presto 6.500 nuove finestre, un sistema più efficiente di illuminazione e una batteria di caldaie high-tech, che consentiranno, con un investimento di 500 milioni di dollari, di tagliare i suoi costi energetici di 5 milioni l'anno. Uno studio McKinsey valuta che con un investimento di 520 miliardi di dollari gli Stati Uniti potrebbero tagliare del 23% i consumi di energia del Paese (trasporti esclusi), il che farebbe risparmiare 1.200 miliardi all'economia americana da qui al 2020. Un taglio che, da solo, sarebbe ampiamente sufficiente per rispettare i parametri di Kyoto. Europa e Giappone sono già un po' più efficienti degli Usa, ma anche qui c'è molto da lavorare. E infatti questo tipo di interventi sono fra i pochi grandi investimenti che si stanno realizzando nel settore, come al Savoy di Londra, dove la società Evolve Energy è stata incaricata di tagliare di un terzo i consumi di energia del grande albergo. Il sogno degli efficientisti è un involucro abitativo senza dispersioni termiche, ben orientato (di solito verso Sud) e protetto da piante. L'edificio dev'essere dotato internamente di sistemi di climatizzazione a pannelli radianti, pompe di calore ad alta efficienza, pozzi geotermici di geoscambio, pannelli solari termici e fotovoltaici. E ancora di elettrodomestici di classe A+, di illuminazione con lampade a fluorescenza o meglio a led e di tutti i possibili automatismi di domotica. Come si vede, quindi, l'efficienza energetica coinvolge un'ampia gamma di settori, dai servizi ingegneristici agli elettrodomestici, dall'illuminazione all'impiantistica, con ampi spazi di manovra per la creatività individuale, allo scopo di adattare gli interventi alle esigenze del singolo. Un edificio costruito in Norvegia non avrà le stesse esigenze climatiche di un altro costruito in Sicilia e quindi ogni azienda del settore ha maggiori chance di sviluppare una specializzazione sul territorio di pertinenza. Ma il mercato globale premia chiunque sia impegnato su questo fronte, anche grazie alle prospettive aperte dagli incentivi governativi: nel primo semestre di quest'anno, i titoli degli specialisti dell'efficienza e del management energetico hanno messo a segno la performance migliore non solo rispetto al mercato, ma anche rispetto agli altri componenti degli indici di tecnologie pulite, secondo uno studio di Hsbc. Pioniere e leader in Italia di questa nuova filosofia del costruire è il metodo architettonico e insieme salone CasaClima, che si tiene ogni anno a Bolzano a fine gennaio. Ma oggi l'offerta di eco-abitabilità si sta rapidamente espandendo. Al Saie di Bologna, dal 28 al 31 ottobre, sarà esposta una parata delle proposte di giovani progettisti sul tema Low Cost & Low Energy Sustainable Housing, selezionate da Mario Cucinella, uno degli architetti italiani più impegnati sul tema della sostenibilità. Leaf House, l'edificio sperimentale a impatto zero, costruito dal gruppo marchigiano Loccioni, è un altro esempio eccellente. CasaClima (www.agenziacasaclima.it) non è solo una proposta per gli architetti attenti all'edilizia sostenibile, ma rappresenta uno standard costruttivo che assegna agli edifici una serie di classi energetiche (A,B,C...) a seconda di quanta energia consumino annualmente, proprio come avviene per i più comuni elettrodomestici. Con questo sistema tutti possono capire facilmente il “valore energetico” della propria abitazione o di quella che stanno per acquistare. Ancora più articolata è la certificazione Leed, Leadership in Energy and Environmental Design, ma ormai diffusa in 41 Paesi, compresa l'Italia (www.gbcitalia.org). Sviluppata dall'associazione americana Green Building Council, con una griglia di valutazione in 69 crediti su sei categorie, la certificazione Leed dà un voto a tutti gli aspetti che caratterizzano un edificio, dalla sua collocazione sul territorio (si può raggiungere facilmente a piedi o con i mezzi pubblici?) fino all'impiantistica interna. L'obiettivo è fornire un bollino di qualità a quegli edifici che garantiscano, con un aumento dei costi contenuto (in media +3% rispetto a un cantiere convenzionale), un ciclo vitale in grado di limitare al massimo l'impatto ambientale e il consumo di energia. La differenza, poi, la fa il mercato: un edificio certificato Leed vede crescere in media il proprio valore fino al 7,5%.

20 settembre 2009

L'auto ecologica sta per scendere in pista

Il presente dell'auto elettrica è poca cosa, per lo più confinata alle flotte aziendali e sempre come auto ibrida, che affianca a un motore elettrico quello a combustione interna. Ma le previsioni indicano una quota di mercato del 20-25% entro i prossimi 5-10 anni, di cui la metà per le auto esclusivamente ad alimentazione elettrica, quindi a emissioni zero, con batterie al litio ricaricabili inserendo una spina nella rete. L'aria nuova che tira nell'industria più devastata dalla crisi si è vista al salone di Francoforte, appena concluso, dove la sfida delle auto verdi è stata raccolta in pieno. Gran parte delle 82 prime mondiali erano ibride o 'full electric', a dimostrazione che nessuno ormai può tirarsi fuori dalla corsa all'auto pulita del futuro. I tedeschi - forti del piano del governo che punta a un milione di auto elettriche entro il 2020 e ha stanziato 500 milioni di euro per accelerare la ricerca sulle batterie - sono come sempre i primi della classe. Bmw ha lanciato le versioni ActiveHybrid di X6 e Serie 7, ma nel 2010 sarà ibrida anche la Serie 5 Pas finora mostrata come concept car. Mercedes ha risposto con le BlueHybrid S400 e Ml450, Audi con Q5 e Q7, Volkswagen con la Touareg e anche la nascente quattro porte Panamera avrà nel 2010 una versione ibrida. Tra le novità elettriche di Francoforte c'è anche un concept della Trabant, brand icona della Germania dell'Est che rinasce in versione ad impatto zero. Daimler si è anche assicurata una quota azionaria del 10% in Tesla, la regina californiana delle auto elettriche, famosa per aver conquistato il cuore di George Clooney, Matt Damon, Arnold Schwarzenegger e sbarcata recentemente in Italia grazie alla marchigiana Energy Resources. La partnership con Energy Resources, azienda leader nel settore delle fonti rinnovabili, è nata dalla convinzione che chi guida una Tesla, completamente elettrica, abbia bisogno di energia verde per ricaricarla: "Un'auto a emissioni zero può diventare ancora più pulita se anche l'energia che consuma proviene da fonti rinnovabili, per esempio grazie all'insatallazione di pannelli solari", spiegano da Energy Resources, specializzata nella progettazione e installazione di sistemi fotovoltaici, geotermici, eolici e domotici. Ma sulla diffusione dell'auto elettrica come prodotto di massa, i francesi sono molto più avanti. Carlos Ghosn a Francoforte ha lanciato la sua provocazione con una dichiarazione forte: "Stiamo investendo quattro miliardi di euro nel settore e abbiamo già stipulato oltre trenta accordi affinché l’alleanza Renault-Nissan conquisti la leadership mondiale nel campo delle auto elettriche. Prevedo che entro il 2015 il 10% della produzione auto complessiva sarà elettrica". Renault-Nissan ha esposto quattro concept 100% elettriche (di cui due derivate da Megane e Kangoo) che la casa francese immetterà a partire dal 2011 nel progetto Better Place, destinato a sperimentare l'auto elettrica, le sue modalità di gestione e di utilizzo, in Israele, Danimarca e Portogallo. Il passaggio a una vera filiera industriale, infatti, deve superare il problema dei costi e delle infrastrutture di rete. Il progetto Better Place, guidato dal guru di Silicon Valley Shai Agassi, prefigura un modello simile a quello dei telefonini: l'acquisto della macchina non comprende la batteria, che rimane di proprietà della compagnia di gestione della rete, a cui ci si affida per le ricariche o per un cambio rapido, negli appositi distributori, in caso di viaggi lunghi. Questo abbatte di molto i costi della vettura e anche il problema dell'autonomia limitata. Le batterie al litio di ultima generazione, infatti, non vanno oltre un'autonomia di 100-150 chilometri e ci mettono molte ore a ricaricarsi, per cui non consentono l'utilizzo della macchina per lunghe percorrenze. L'alternativa più interessante, prodotta sempre dai francesi della Peugeot, è la nuova minicar elettrica iOn, basata sulla Mitsubishi i-MIEV: la novità è che si tratta di una vettura ricaricabile completamente in sei ore (utilizzando una tradizionale presa di corrente a 220 volt) o all'80% in trenta minuti, grazie al sistema ricarica rapida.

16 settembre 2009

I leader del futuro? Socialmente responsabili

La notte porta consiglio. La crisi porta nuovi modelli. Dopo lo scoppio della bolla immobiliare, abbiamo scoperto che la crescita infinita dei beni non rappresenta più la soluzione di tutti i problemi. A dire la verità, c'è chi l'aveva capito già da prima: crescita sostenibile è il mantra che Bill Clinton ripete in ogni occasione della sua Clinton Global Initiative. Il Nobel per la Pace Rajendra Pachauri, presidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, batte da anni sulla necessità di "pensare in verde", come anche i due guru del management Gary Hamel e Jim Collins. E lo ribadiranno nella due giorni milanese del World Business Forum, il 28-29 ottobre. Non è una novità per moltissime aziende, come le 320 selezionate dal Dow Jones Sustainability Index, in cui quest'anno sono entrate anche 11 italiane, dall'Enel a StM, da Telecom a Fiat. Un piccolo segnale di modernità per il nostro Paese, che si deve confrontare con partner internazionali come la Gran Bretagna - con 58 compagnie selezionate - o gli Stati Uniti con 50. Sono queste, secondo i profeti della sostenibilità, le forze su cui dovremo basarci per lo sviluppo futuro. "Una rivoluzione necessaria", come annuncia il titolo dell'ultimo libro di Peter Senge, il guru della "quinta disciplina" che ha elencato con precisione i casi più eclatanti di leadership nella crescita sostenibile. Senge, dal suo ufficio del Mit, cita come esempio più significativo il caso di un prodotto di estremo successo, che ha cambiato l'approccio di un intero settore: la Toyota Prius. "Quando è uscita la Prius, ero consulente di diverse aziende di Detroit e tutti i top manager che ho interpellato mi diedero la stessa interpretazione: 'E' un prodotto di nicchia'. Basavano questa idea sui gruppi di ascolto dei consumatori, a cui veniva chiesto quanto fossero disposti a pagare per un aumento di efficienza nei consumi di carburante. Erano sempre cifre minuscole. Ma le richieste latenti dei consumatori non verranno mai espresse in questi gruppi di ascolto". E quindi? "Le aziende non possono limitarsi a farsi trainare dai gusti dei consumatori, devono anche avere una funzione educativa. E' ampiamente dimostrato che i prodotti ecologicamente virtuosi diventano in breve prodotti trainanti, anche se nessuno li aveva chiesti prima. Così è successo con la Prius. Toyota non l'ha prodotta per andar dietro ai gruppi di ascolto, ma perché era convinta che le auto andassero ripensate. E ha fatto centro". L'esempio di Senge può essere esteso a molti altri settori: dai prodotti di largo consumo all'alimentare, dalle costruzioni all'abbigliamento. Questa crisi, nonostante la sua gravità, può allora essere un'opportunità per aprire davvero un dibattito sulla sostenibilità del modello di sviluppo a cui abbiamo dato vita, creando le condizioni culturali perché altre economie possano svilupparsi e per far nascere nuovi stili di gestione delle aziende. "Il credo di base dell'era industriale - fa notare Senge - consiste nel considerare il Pil la misura del progresso: che tu sia il presidente della Cina o degli Stati Uniti, se il tuo Paese non cresce sei nei guai. Ma tutti noi sappiamo che oltre un certo livello di benessere, ulteriori acquisizioni materiali non rendono la vita migliore, anzi. Così ci troviamo a praticare un modello economico di crescita ininterrotta, anche se a livello personale nessuno crede nella sua validità". E' per questo che oggi - ci dicono Rajendra Pachauri e il suo co-premiato a Stoccolma, Al Gore - serve una svolta decisa, nella costruzione di imprese, mercati e aziende decisamente orientati alla sostenibilità. E' proprio la costruzione di un futuro sostenibile, di un'economia verde, di un'impresa responsabile e una cittadinanza consapevole a fornire il quadro in cui queste aspettative si producono e si rafforzano, attraverso la costruzione del bene comune e di un'economia civile. "Una partnership più costruttiva fra il mondo degli affari e i governi è molto più efficace della predominanza dell'uno sugli altri", sostiene Clinton, che in quanto 42° presidente degli Stati Uniti, di governo se ne intende. Ma se si vuole evitare che l’adozione di obiettivi ambientali e sociali sempre più precisi e stringenti venga letta come una graduale perdita di libertà nella sfera personale, bisogna introdurre nell'opinione pubblica un radicale ribaltamento di prospettiva. Questa sarà la sfida più difficile da affrontare nei prossimi anni, per i governi e per le aziende: il problema del riscaldamento del clima, la crescita della popolazione globale e l'accesso al benessere di aree del mondo oggi depresse porranno dei fortissimi limiti alla libertà individuale di inquinare e di sprecare le risorse che abbiamo. "Lo spreco - riassume Clinton - verrà punito". I leader del futuro, quindi, dovranno impegnarsi nel comunicare l’idea che solo il rispetto degli spazi ambientali e sociali comuni può garantire ed espandere la libertà delle persone, mettendo in correlazione libertà e responsabilità, obiettivi locali e obiettivi globali, profitti aziendali e tutela del pianeta.

14 settembre 2009

La crisi fa bene agli investimenti verdi

La crisi fa bene agli investimenti verdi. Nei pacchetti di stimolo destinati a rimettere in moto l'economia globale, infatti, si trovano ben 512 miliardi di incentivi governativi destinati alle tasche di chi è impegnato sul fronte dell'energia verde, con un effetto moltiplicatore che - secondo uno studio di HSBC – potrebbe andare oltre la soglia dei 1.000 miliardi. Ricomincia a crescere da qui un settore, quello delle fonti alternative, che nei primi mesi dell'anno aveva sofferto per gli effetti delle limitazioni al credito. E le prospettive di business migliorano ancora di più se si considerano gli sviluppi del dopo-Copenhagen. La tornata di spesa pubblica verde rappresenta un'opportunità unica per questo settore: la spinta governativa, infatti, potrebbe indurre un maggior numero di cittadini a utilizzare le fonti rinnovabili e creare milioni di nuovi posti di lavoro nel business sotenibile, innescando un circolo virtuoso di crescente efficienza nello sfruttamento delle risorse che abbiamo a disposizione. La crescita del settore è dimostrata anche dall'enorme successo di tutte le manifestazione connesse: ZeroEmission Rome, la fiera di riferimento del settore, organizzata da ArtEnergy all'inizio di ottobre, ha registrato una crescita del 30%, mentre si preannuncia altrettanto vivace GreenEnergy Expo, che si terrà a Milano dal 25 al 28 novembre. Dopo quattro anni di crescita fenomenale, i nuovi investimenti globali nelle fonti pulite erano precipitati dai 41 miliardi di dollari del primo trimestre 2008 ai 13,3 miliardi del primo trimestre 2009, secondo le stime di New Energy Finance. Ma gli investitori che hanno tenuto botta e non sono usciti, hanno avuto di che rallegrarsene, data la ripresa spettacolare del secondo trimestre. Le quotazioni del New Energy Global Innovation Index, comunemente considerato il più rappresentativo del settore, sono cresciute del 36% tra il 1° aprile e il 30 giugno di quest'anno, contro una ripresa del 15% per l'S&P 500. Nel secondo trimestre, infatti, i nuovi investimenti sono quasi triplicati, a quota 36,2 miliardi di dollari. E sembrano destinati a continuare su questo ritmo. Oltre ai pacchetti governativi di stimolo all'economia, c'è stato un altro fattore importante che ha spinto in alto i nuovi investimenti: il prezzo del petrolio è raddoppiato rispetto ai minimi di febbraio, rendendo le fonti alternative di nuovo competitive rispetto ai combustibili fossili. Dal vento al sole, dai biocarburanti all'efficienza energetica, tutti gli aspetti del business verde ne hanno approfittato. Inoltre, le crescenti preoccupazioni sulla sicurezza energetica e sull'effetto serra sono destinate, secondo tutti gli esperti, ad aumentare le regolamentazioni per limitare l'utilizzo dei combustibili fossili nella produzione di energia. Ragione di più per prevedere una rapida crescita delle fonti alternative. L'energia del vento è la più competitiva e secondo il Global Wind Energy Council dovrebbe crescere in media del 22% all'anno nei prossimi cinque anni, con grandi differenze, però, a seconda delle diverse aree. L'anno scorso gli Stati Uniti, con una potenza installata di 25 gigawatt, hanno superato la Germania, che era a quota 24, diventando il più forte produttore mondiale di energia eolica. Il colosso americano, però, potrebbe ben presto essere superato dai cinesi, che oggi sono a quota 12 gigawatt ma crescono molto più rapidamente. Anche l'India e la Spagna, con 10 e 17 gigawatt di potenza installata, sono due mercati in forte crescita. L'energia del sole è molto meno competitiva, per ora, ma potrebbe riservare le potenzialità di crescita maggiori. Basti pensare al progetto Desertec, che nel giro di un decennio potrebbe rifornire il Vecchio Continente di energia solare in arrivo dal Sahara, per il 15% dei suoi consumi. Al progetto partecipano fra gli altri Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.on e in prospettiva potrebbero essere invitate anche imprese italiane e spagnole. Non sarà facile da realizzare, ma è il segno che il sole è pronto a fare un salto di qualità nell'economia del mondo. Germania e Spagna, per ora, sono in pole position per guidare le danze.Ma sia per il vento che per il sole le prospettive più attraenti stanno nei Paesi in via di sviluppo. La Cina, l'India e il Sud del Mediterraneo potrebbero diventare i prossimi giganti delle fonti alternative, se sapranno giocare bene le loro carte. E potrebbero attirare il grosso degli investimenti messi in moto dai pacchetti di stimolo finanziati dai contribuenti dei Paesi industrializzati.

Enel fa bingo negli Usa con la geotermia

Enel ha fatto bingo negli Stati Uniti con la geotermia, aggiundicandosi oltre 60 milioni di dollari d'incentivi nell'ambito del programma di stimolo varato dall'amministrazione Obama, finalizzato allo sviluppo delle fonti rinnovabili e alla creazione di green jobs. Gli impianti geotermici di Stillwater e Salt Wells, in Nevada, hanno ottenuto un incentivo di 61.520.872 dollari, grazie all'impatto positivo sul territorio, valutabile in oltre 4 milioni di dollari, e alla creazione di 25 posti di lavoro permanenti per i prossimi trent'anni. Inoltre i due impianti, i più grandi della loro categoria al mondo, sono stati realizzati intermente con componenti prodotte negli Stati Uniti. L'entrata in produzione di Stillwater e Salt Wells quadruplica il quantitativo di energia elettrica prodotta da Enel Green Power da fonte geotermica negli Stati Uniti, dando un contributo al raggiungimento dell'obiettivo del Nevada di realizzare il 20% della produzione da fonti rinnovabili entro il 2015.

13 settembre 2009

Il carburante biotech emerge dallo stagno

Exxon ha investito 600 milioni di dollari nella società di Craig Venter, il mappatore del genoma umano, che sta cercando di avviare una produzione di massa di biocarburanti dalle alghe. Bp lavora con DuPont. Shell con HR BioPetroleum alle Hawaii. Chevron si è alleata con Solazyme, pioniera californiana del biodiesel dalle alghe. E la lista delle compagnie aeree che stanno testando i combustibili biotech si allunga tutti i giorni, da Continental a Virgin. Le biotecnologie, che hanno sconvolto il mondo della medicina e dato una marcia in più all'agricoltura contro i parassiti, ora si stanno mettendo alla testa della rivoluzione verde nell'energia. Gli imprenditori che si occupano di biocarburanti di seconda generazione, prodotti senza interferire con la catena alimentare, attraggono miliardi di investimenti, sia dalle compagnie petrolifere che dai capitalisti di ventura. Silicon Valley si sta riconvertendo dai microchip alle acque stagnanti che brulicano di microrganismi fotovoltaici. E' proprio da quelle acque stagnanti che potrebbero nascere i protagonisti del nostro futuro energetico: batteri, cianobatteri, funghi e microalghe sono piccoli “impianti chimici” efficienti ed economici per produrre biocombustibili a basso impatto ambientale. Il caso italiano si chiama Microlife ed è nato a Padova dalla determinazione di cinque soci privati, che hanno dato vita alla prima società di biotecnologie fotosintetiche in grado di sviluppare, ingegnerizzare, costruire e condurre impianti su scala industriale per la produzione di microalghe a fini energetici. “Abbiamo un impianto pilota a Roccasecca, sul sito di una discarica molto innovativa, dove recuperiamo l'anidiride carbonica e gli ossidi di azoto, che servono per alimentare le microalghe allevate in quattro fotobioreattori”, spiega l'amministratore delegato Matteo Villa. Microlife è già stata adocchiata dall'Enea e dall'Institut Francais du Pétrole, con cui ha appena stretto un accordo di collaborazione per avviare la coltivazione di microalghe su dieci ettari di terreno, un progetto all'avanguardia in Europa. “Chiuderemo il 2009 con quattro brevetti, non solo in campo energetico, ma anche farmaceutico e alimentare”, precisa Villa. La strada battuta da Villa e compagni è molto importante, perché in tutto il mondo l'obiettivo è svincolarsi dai biocarburanti di prima generazione, che si ottengono principalmente dalla canna da zucchero, dai legumi o dai cereali, con effetti distorsivi del mercato alimentare, accusati di provocare uno sconquasso nei prezzi delle granaglie, oltre a danni ambientali e sociali addirittura superiori all'estrazione dei combustibili fossili: vaste aree di foresta tropicale abbattute per far posto alle coltivazioni di canna da zucchero, di palma da olio o di soia, popolazioni intere spossessate dei loro terreni, specie animali e vegetali minacciate di estinzione. Ma con quali parametri un biocarburante può essere definito sostenibile? La prima società di certificazione indipendente che si è avventurata su questo terreno è la Société Générale de Surveillance, leader mondiale della certificazione con sede a Ginevra, controllata al 15% dall'Ifil (presidente Sergio Marchionne). "L'attuazione di un sistema di certificazione obbligatorio sarebbe uno strumento efficace per distinguere i biocarburanti buoni da quelli cattivi - spiegano alla Sgs - ma una certificazione obbligatoria potrebbe essere considerata una barriera commerciale dalla Wto. Al momento attuale, solo una certificazione volontaria può essere presa in considerazione su larga scala". Uno strumento ancora più efficace sarebbe togliere le sovvenzioni pubbliche ai biocarburanti “cattivi”. L'Unione Europea ha pubblicato le linee guida per una direttiva che dovrebbe ottenere proprio questo, escludendo dagli sconti fiscali tutti i biocarburanti che non consentano di risparmiare almeno il 35% di emissioni di gas serra rispetto ai combustibili fossili, esaminando l'intera filiera produttiva, dal campo alla pompa. Ma la legislazione allo studio taglierebbero fuori dal mercato europeo circa metà del biocarburante attualmente utilizzato, prevalentemente quello prodotto con materia prima proveniente dai Paesi in via di sviluppo, tanto che otto Paesi - dal Brasile alla Malaysia - hanno già protestato con Bruxelles. Sarà una lunga battaglia.

22 agosto 2009

Addio alle vecchie lampadine, con qualche lacrima

Cala il sipario sulle vecchie lampadine a incandescenza. Da oggi cominciano a sparire dai negozi quelle da 100 watt in su: stop alle forniture. Dopo 130 anni di onorato servizio – da quel lontano 1879, quando Thomas Alva Edison iniziò a commercializzarle – i bulbi di vetro contenenti un filo di tungsteno stanno per uscire di scena, messi al bando sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti. Il motivo è chiaro: con il loro stentato 10% di efficienza (il resto dell’energia immessa va disperso in calore), le lampadine a incandescenza sprecano troppa elettricità. La loro sostituzione con fluorescenti compatte, se fosse realizzata entro il 2015 in tutto il Vecchio Continente, porterebbe a un taglio di emissioni pari a 23 milioni di tonnellate di anidride carbonica, con un risparmio di 7 miliardi di euro. In Italia, invece, la messa al bando delle vecchie luci permetterebbe di tagliare 3 milioni di tonnellate di CO2 e di risparmiare 5,6 miliardi di kilowattora all’anno, con un beneficio di oltre un miliardo di euro ogni dodici mesi.Il nostro Paese su questo tema si era mosso prima di altri, con un articolo ad hoc della Finanziaria 2008, che prescriveva il divieto di mettere in commercio lampadine a incandescenza di qualsiasi potenza dal 1° gennaio 2011. Ma l’attuale governo ha rivisto le date per mandare in pensione l’incandescenza, adeguandole a quelle del resto d’Europa. Da oggi, quindi, cominciano a sparire le luci a incandescenza con una potenza maggiore o uguale a 100 watt, dopo un anno toccherà a quelle da 75 watt, nel 2011 alle 60 watt, fino al blocco totale nel 2016. Tra i produttori di lampadine, che nel 2008 hanno avuto un giro d’affari di 400 milioni, nessuno è contrario, anzi: la “rottamazione” dell’incandescenza a favore delle fluorescenti compatte potrebbe essere redditizia per loro. Un vecchio bulbo costa infatti un cifra non lontana da un euro contro i 7-15 euro delle luci di ultima generazione.Sono i consumatori, da un lato, e gli architetti della luce, dall’altro, a ribellarsi. Il motivo è semplice: le fluorescenti compatte saranno anche risparmiose, ma gettano sul tavolo da pranzo una pessima luce, che trasforma un’allegra cena fra amici in un funerale. Infatti nel Regno Unito, dove il governo si è mosso prima, anticipando il bando al 1° gennaio di quest’anno, i giornali gridano allo scandalo: “La grande rivolta delle lampadine”, titolava il Daily Mail a tutta pagina qualche settimana fa. E i piccoli negozi che avevano stoccato abbastanza incandescenti a 100 watt da riuscire ancora a venderle per molti mesi dopo il bando, hanno fatto affari d’oro, con file davanti alla porta per accaparrarsi i pochi bulbi rimasti, a prezzi doppi del normale. Si può star certi che la reazione degli inglesi si ripeterà nel resto d’Europa appena il divieto entrerà in vigore, come in una rappresentazione teatrale già vista.La sfida, per l’industria dell’illuminazione, sarà migliorare sempre di più questi prodotti, che però sono già migliorati tantissimo: le prime fluorescenti, qualche anno fa, facevano una luce ben peggiore, pur consentendo risparmi del 70-80% sui consumi. Non a caso l’illuminazione industriale si è già orientata in questa direzione: su circa 400 milioni di sorgenti luminose italiane, ormai più del 10% è fatta di fluorescenti a risparmio energetico. Ma c’è un paradosso: il mondo dell’illuminazione ecosostenibile, se da un lato consente di risparmiare sui consumi, dall’altro pone il problema dello smaltimento, visto che le fluorescenti contengono piccole quantità di materiali tossici come il mercurio, “che con un solo milligrammo – spiegano i ricercatori dell’Università americana di Standford – può comunque contaminare 4mila litri d’acqua”. Un problema che i produttori non si nascondono: se è vero che con queste nuove lampadine limiteremo le emissioni di anidride carbonica, è anche vero anche che da un punto di vista ambientale il loro bilancio di sostenibilità non è poi così favorevole, perché per produrle ci vogliono materiali più inquinanti. Ecco perché la scommessa è anche sulle nuove alogene, che coniugano un’ottima qualità della luce con un risparmio del 30% rispetto alle più comuni incandescenti e costano la metà delle fluorescenti. Ma i produttori puntano soprattutto sui Led, i diodi semiconduttori nati negli anni ’80, che emettono luce a partire da minuscoli chip di silicio. Peccato che oggi un 7 watt a Led, che esprime la potenza di un 35 watt, costi 30-35 euro e presenti caratteristiche d’instabilità che ne fanno una tecnologia non ancora matura per il mercato di massa.

Mario Nanni: "Decisione frettolosa e sbagliata"

"Il consumo eccessivo di energia elettrica non è dato tanto dall'utilizzo diffuso di lampadine a incandescenza, quanto dall'uso poco consapevole della luce in generale". Mario Nanni (www.marionanni.com), designer della luce e progettista romagnolo, titolare dell'azienda Viabizzuno, è uno dei più battaglieri avversari della normativa che manderà presto in soffitta le lampadine a incandescenza.
Perché?
"Sono convinto che anche in un'epoca come la nostra, in cui l'efficienza energetica è importante, ci possa essere spazio per tutte le sorgenti luminose, a patto di usare la potenza giusta per ogni ambiente e il consumo giusto in base alle necessità. E' inutile buttare via l'incandescenza a favore delle fluorescenti a basso consumo, se poi l'illuminazione non viene progettata bene, si lasciano le lampade sempre accese o se ne accendono troppe. Per non parlare del problema della qualità della luce".
E dunque?
"L'incandescenza è solo il capro espiatorio per ottenere un altro risultato, la riduzione dei consumi energetici complessivi. E' giusto: nei miei progetti, come ad esempio il Museo del Design alla Triennale, faccio molta attenzione a questo aspetto. Ma non si possono considerare solo i consumi finali, bisogna tener conto dell'intera filiera: la produzione delle fluorescenti compatte, ad esempio, implica consumi energetici notevolmente superiori e il loro smaltimento è molto più complesso e oneroso rispetto a quello delle comuni lampadine a incandescenza. Inoltre non tutti sanno che per i Led e le lampadine a ioduri metallici è necessario un alimentatore, che a sua volta consuma e quindi fa diminuire del 15% il rendimento dell'apparecchio".
Possibile che il legislatore si sia sbagliato così clamorosamente?
"Non dico questo. Ma se si vogliono tagliare le emissioni, sarebbe molto più efficace limitare per legge i consumi complessivi destinati all'illuminazione, lasciando poi al progettista la scelta delle sorgenti luminose più adatte, invece che mettere al bando una singola tecnologia".

30 luglio 2009

La rivincita di Thomas Alva: nuova vita per l'incandescenza

Europei e nordamericani sono convinti di poter fare a meno di lui, ma Thomas Alva Edison se la ride in un angolo: il De Profundis per le sua lampadine a incandescenza gli sembra prematuro. E in effetti ha ragione. Da quando il Congresso americano e la Commissione Europea hanno deciso di sostituirle con le lampadine fluorescenti, per migliorare l'efficienza dei rispettivi sistemi di illuminazione e risparmiare energia, la ricerca sull'incandescenza ha moltiplicato i suoi sforzi, producendo rapidamente una serie di risultati mai visti in 130 anni di storia. Il primo prodotto industriale derivato da questa gara all'innovazione è già sugli scaffali dei supermercati: un'alogena disegnata con la stessa forma delle lampadine tradizionali, ma del 30% più efficiente e dalla durata doppia. La nuova nata nella famiglia delle incandescenti, uscita dagli stabilimenti della Philips e della Osram, non riesce a competere, per ora, con l'efficienza delle fluorescenti, che possono ridurre il consumo di energia fino al 75% rispetto alla vecchia lampadina con il filo di tungsteno, ma rientra in una classe di efficienza destinata a sopravvivere ancora a lungo, sia in Europa che in Nord America. Almeno fino al 2016. E le novità in pipeline nei laboratori più innovativi lasciano prevedere che in breve entreranno in produzione lampadine a incandescenza del 50% più efficienti rispetto alle attuali, destinate a competere quasi ad armi pari con le fluorescenti. Quasi. Le nuove lampadine a incandescenza, infatti, hanno qualcosa che le fluorescenti non hanno: una luce calda, identica a quella emessa dai vecchi bulbi di Edison, capace di soddisfare i consumatori e gli architetti che si rifiutano di usare le fluorescenti, per evidenti motivi illuminotecnici. E non contengono mercurio. Due vantaggi di non poco conto. Non a caso la catena americana Home Depot, dov'è entrata recentemente in commercio l'Halogena Energy Saver della Philips, ha registrato in poche settimane il tutto esaurito, malgrado la nuova lampadina costi 5 dollari, dieci volte di più delle incandescenti tradizionali (ma la metà di una fluorescente). Deposition Sciences, l'azienda di Santa Rosa, in California, che ha sviluppato la tecnologia alla base delle nuove lampadine Philips, spiega così il segreto di questo successo: “Normalmente, solo una piccola porzione dell'energia immessa in una lampadina a incandescenza viene convertita in luce, mentre il resto si disperde sotto forma di calore. Noi abbiamo applicato un rivestimento riflettente alla capsula di vetro piena di gas dov'è racchiuso il filamento. Il rivestimento riflette il calore come una specie di specchio e lo rimanda indietro al filamento, che lo trasforma in luce”. In questo modo, la nuova lampadina produce la stessa quantità di luce consumando il 30% di energia in meno. E il processo continua: “Abbiamo costruito in laboratorio una trappola ancora migliore, che aumenta l'efficienza del 50%, ma non abbiamo ancora trovato un produttore disposto a lanciarla sul mercato”. Non ci metteranno molto, visto che tutte le grandi aziende produttrici di lampadine, da General Electric a Toshiba, oltre a Philips e Osram, stanno lavorando in questa direzione. La stessa direzione in cui corrono molti altri ricercatori. David Cunningham, un inventore di Los Angeles che ha già brevettato diverse innovazioni in campo illuminotecnico, sta studiano un nuovo rivestimento riflettente, che potrebbe rendere le lampadine a incandescenza più efficienti del 100%. E Chunlei Guo, un professore dell'università di Rochester, ha annunciato il mese scorso una nuova rivoluzione: la scalfittura con il laser della superficie del filamento di tungsteno, che raddoppierebbe la sua luminosità. Di qui al 2016, c'è da scommetterci, ne vedremo delle belle.

24 luglio 2009

L'energia del sole taglia il traguardo dei 500 megawatt

Tagliato il traguardo dei 500 megawatt di potenza per il fotovoltaico italiano. Il contatore del Gestore dei servizi elettrici, che indica gli impianti incentivati con il conto energia, ha dato per raggiunta quota 500 a metà giugno, per un totale di 39.753 impianti realizzati. Ma probabilmente siamo già molto oltre, perché il contatore del Gse registra le nuove installazioni con 40-50 giorni di ritardo. Se si guarda al numero di impianti, il primato lo detiene la Lombardia, ma se si considera la potenza in kilowatt, la regione leader è la Puglia. Detto in altri termini, il 25% degli impianti installati in Italia si concentra tra Lombardia e Puglia. Una volta tanto Nord e Sud riescono a camminare insieme. E se verranno superati gli ostacoli burocratici che si frappongono a ulteriori fasi di crescita del settore, il business del fotovoltaico diventerà ancora più interessante sia per il Nord che per il Sud, commentano gli esperti. Nel solo 2008, in Italia si sono registrati 338 megawatt di impianti installati (che hanno spinto il nostro Paese al quarto posto nel ranking internazionale dello scorso anno), due miliardi di euro di fatturato e la conseguente creazione di 15mila nuovi posti di lavoro.Questo risultato, sostengono gli operatori del settore, sarebbe stato ancora migliore se gli impedimenti creati dalle autorità locali per la costruzione di impianti di vaste dimensioni non avessero ritardato e bloccato progetti molto ambiziosi. Il grafico ci dice, ad esempio, che ci sono regioni come l'Emilia Romagna, il Piemonte e il Veneto, dove gli impianti sono anche più numerosi di quelli installati in Puglia, ma se si osserva la potenza complessiva si scopre che la Puglia, con un totale di 2.489 impianti, raggiunge una potenza superiore a quella dei 5.138 impianti installati in Lombardia. In Puglia, quindi, l'estensione di ogni singolo impianto è molto superiore a quella di altre regioni. Questo spesso dipende dalle resistenze di alcune amministrazioni locali nei confronti delle installazioni più grandi. Solo pochi giorni fa, gli imprenditori del fotovoltaico associati al Gifi-Anie hanno sottolineato in una nota come i ritardi nella semplificazione normativa stiano producendo un pericoloso rallentamento proprio nelle regioni più assolate ma più ostiche nella normativa: la Sicilia e la Basilicata. Il governo italiano, del resto, ha da tempo indicato l'obiettivo di raggiungere, entro il 2020, un mix energetico composto per il 50% da fonti fossili e da rinnovabili e nucleare per le due restanti quote del 25%. Quindi ha tutto l'interesse a spingere sull'acceleratore. Oggi la quota di rinnovabili si aggira intorno al 16%. In pratica, per raggiungere lobiettivo del governo, nei prossimi anni si dovranno installare oltre 20mila megawatt di nuovi impianti, il che vuol dire investire qualcosa come 40 miliardi di euro. Per raggiungere il target europeo, che è addirittura superiore, l'investimento lieviterà ulteriormente. Per tradurre in realtà questi obiettivi d'investimento, che le aziende del settore di dicono disponibili a sostenere, occorrono una serie di condizioni, prima tra tutte semplificazione e affidabilità nel tempo della normativa, essenziale per un business con tempi di ritorno decennali. Nell'immediato, quindi, si lavora all'approvazione delle linee guida nazionali per il procedimento di autorizzazione unica, in modo da superare le frammentazioni regionali. Il ministero dello Sviluppo Economico ha appena prodotto una bozza del provvedimento, che è attualmente all'esame delle organizzazioni di settore. Le nuove procedure, stando alla bozza, ruoteranno attorno al principio dell'autorizzazione unica e del silenzio-assenso da parte della Regione e della Provincia interessata. Il punto più problematico, contestato dalle associazioni di settore, è "l’invasione di campo del ministero dei Beni Culturali", la cui partecipazione è prevista in tutti i procedimenti di autorizzazione unica, anche quando i progetti non ricadono in aree vincolate. Altro nodo irrisolto è proprio quello della dimensione degli impianti: la bozza del ministero, infatti, esclude gli impianti superiori ai 20 kilowatt di potenza. Osserva Assosolare: "Ci pare limitativo escludere l’autorizzazione unica unicamente con il criterio delle dimensioni dell’impianto, posto che per altre rinnovabili il tetto è ben superiore".

21 luglio 2009

Gli investimenti nell'energia pulita resistono alla crisi

Sicurezza energetica e minore dipendenza dall'estero. Salvaguardia ambientale. Ma anche buoni affari: il business dell'energia pulita, in tempi di crisi, viene ormai indicato come settore anticiclico che può rappresentare la base e l'opportunità per un nuovo modello di sviluppo economico. Non a caso gli investimenti nelle fonti rinnovabili si sono moltiplicati per quattro dal 2004 al 2008 e l'anno scorso hanno superato per la prima volta quelli nelle fonti tradizionali. È il ritratto di un mondo avviato decisamente sulla strada del low-carbon quello che emerge dall’ultimo report dell'Unep (United Nations Environment Program) sugli investimenti nel settore. Le fonti pulite hanno attirato nel 2008 capitali per 140 miliardi di dollari, contro i 110 delle fonti tradizionali. Nonostante la crisi, il giro d’affari delle energie pulite non ha interrotto la sua crescita, registrando un +5% rispetto al 2007, anche se gli investimenti hanno visto un calo del 17% dal primo al secondo semestre. La frenata si è fatta sentire anche nel primo trimestre del 2009, ma i dati sul secondo trimestre, appena diffusi da New Energy Finance, dimostrano che la battuta d'arresto per le rinnovabili è durata giusto lo spazio d'un mattino: con 24,3 miliardi di dollari investiti da aprile a giugno, il settore può considerarsi già in ripresa. E' un terzo in meno rispetto ai 36,2 miliardi di un anno fa, ma ben l’82% in più rispetto ai 13,3 miliardi del primo trimestre. Una ripresa che si è sentita più forte al di qua dell’oceano, in Europa, Africa e Medio Oriente. Qui - complice anche l’approvazione di alcuni maxi progetti come quello eolico off-shore del London Array - questo secondo trimestre 2009 è stato il più fruttuoso di sempre, con 14,4 miliardi di dollari investiti nelle fonti pulite. Meno investimenti invece negli Usa, dove il low-carbon ha raccolto capitali per soli 1,6 miliardi di dollari, il 66% in meno rispetto all’anno scorso. Ma qui si tratta solo di aspettare un po': gli investimenti sono rimasti congelati, in attesa che il Dipartemento del Tesoro e quello dell’Energia rendano note le nuove regole per i fondi di garanzia, cosa che dovrebbe avvenire nel mese in corso. Insomma, il settore delle rinnovabili è sulla buona strada per superare questa battuta d'arresto. "Ma non è ancora il caso di festeggiare", sottolinea Michael Liebreich, direttore di New Energy Finance. Secondo gli analisti, a fine 2009 gli investimenti del settore arriveranno al massimo a 115 miliardi di dollari, contro i 140 del 2008, anno record. Nel 2008, infatti, su un totale di 250 miliardi di dollari investiti complessivamente in energia, 35 miliardi sono andati a grandi progetti idroelettrici e 105 miliardi è andato alle tecnologie solari, eolico, mini-idroelettrico, biomasse e geotermia. L’eolico si è confermato il settore in cui si investe di più a livello assoluto: 51 miliardi di dollari e una crescita dell’1% rispetto al 2007, mentre il solare è la fonte che è cresciuta maggiormente in quanto a investimenti: +49%, per un totale di 33,5 miliardi di dollari. Crescita esponenziale anche degli investimenti in geotermia +149% per 1,3 gigawatt di nuova capacità installata, mentre l’unica fonte rinnovabile in cui gli investimenti sono diminuiti sono i biocarburanti: -9% a 16,9 miliardi di dollari.Il futuro degli investimenti nell’energia pulita, sottolinea il rapporto dell'Unep, dipende soprattutto dai pacchetti di stimolo e dal prossimo accordo internazionale sul clima. Per una ripresa economica sostenibile, dal 2009 al 2011 nel mondo si dovrebbero stanziare almeno 750 miliardi di dollari, cioè l’1% del prodotto interno lordo mondiale o il 37% del totale delle misure anticrisi adottate dai vari Paesi. "Ma il più grande pacchetto stimolo per le rinnovabili – ha sottolineato Achim Steiner, direttore dell’Unep, nel presentare il rapporto – può arrivare dal vertice sul clima di Copenhagen. È lì che i governi devono chiudere un accordo che porti certezze ai mercati della CO2 e che possa dare il via a investimenti trasformativi nelle tecnologie pulite ed efficienti".

19 luglio 2009

Rinascita nucleare? Location, location, location...

Rinascita nucleare. E' la parola d'ordine lanciata a livello globale dall'Economist nel 2007, la stessa ripresa dal Ddl Sviluppo appena approvato dal Senato italiano. Ora ci sono 45 reattori in costruzione in giro per il mondo, mentre nel nostro Paese il governo si è dato sei mesi per decidere dove mettere le nuove centrali e il sito di stoccaggio delle scorie. Ma emergono subito i primi ostacoli. In Europa, il primo reattore di terza generazione, in costruzione in Finlandia, subisce un ritardo dopo l'altro. In Italia, la collocazione delle centrali non sarà affatto semplice. Dopo una prima apertura, sia il presidente veneto Giancarlo Galan che il siciliano Raffaele Lombardo, si sono fatti più cauti. Il Veneto ne parlerà solo dopo una dettagliata anamnesi tecnico-scientifica e la Sicilia si appellerà in ogni caso a un referendum popolare. Gli esperti, intanto, puntano il dito su Montalto di Castro, al confine tra Lazio e Toscana, come primo sito da prendere in considerazione: lì stava sorgendo l'ultima centrale nulceare italiana, mai terminata a causa dello stop all'atomo dopo il referendum dell'86 e poi riconvertita dall'Enel alla tecnologia policombustibile, ora datata e antieconomica. Sul problema stanno lavorando i dieci "saggi" incaricati dal governo, da Adriano De Maio a Luigi De Paoli, da Giuseppe De Rita ad Alberto Lina. Vedremo che cosa ci diranno. Nell'attesa, sono le imprese interessate a esporsi di più. A2A, insieme a Edison, è fra le più attive. "In Italia esistono le condizioni per una ripresa - spiega Silvio Bosetti, direttore di EnergyLab e molto vicino a Giuliano Zuccoli, oltre che a.d. delle ex municipalizzate di Como e Monza - ma occorre che queste siano concretizzate attraverso immediate, intelligenti e ponderate azioni di governance del sistema: integrare l’assetto normativo e legislativo, costituire l’Agenzia per la sicurezza, gestire le ricadute sul mercato elettrico, garantire i profili di competitività, allinearsi negli accordi internazionali sulle tecnologie e sulla gestione del ciclo dei rifiuti, favorire la diffusione e crescita delle competenze, aprire e garantire opportunità per l’industria e l’ingegneria nazionale, facilitare un'adeguata attività di divulgazione pubblica e individuare delle compensazioni per il territorio". Come dire, bisogna ricostruire un sistema industriale che non c'è più. Ma il punto più dolente sono gli aspetti economico-finanziari. Se serviranno, come dicono gli analisti, almeno 10 reattori per centrare l'obiettivo del 25% di produzione elettrica tracciato dal governo, chi li finanzierà? E con quali effettive convenienze per gli investitori? "Per gli aspetti economici - fa notare Bosetti - sono disponibili i primi studi, che documentano la percorribilità degli investimenti e la competitività del kilowattora da fonte nucleare con quello prodotto da altre fonti, in particolare dalle centrali a combustibile fossile. Gli operatori industriali europei sono pronti a entrare sul mercato nazionale. Il recente accordo tra Enel e Edf apre sicuramente la strada, con la presenza annunciata del maggior player mondiale del settore". Il credit crunch, però, non aiuta. "Altro discorso riguarda l’impegno finanziario, essendo iniziative di investimento ad altissima intensità di capitale. Qui occorre un approccio adeguato ai finanziamenti, che sono oggettivamente ingenti. Il costo del denaro è una variabile molto significativa e determinante i risultati degli investimenti. Un possibile modello economico e industriale è quello dei consorzi, un modello utile anche a valorizzare le principali aziende energetiche locali (Acea, A2A, Hera, Iride...) così come già accade in Finlandia o Germania". In pratica, le municipalizzate lombarde vorrebbero replicare il modello seguito in Finlandia, dove si è costituita una società senza scopo di lucro, la Tvo, per costruire la nuova centrale di Olkiluoto. La Tvo è un consorzio fra sessanta azionisti, operatori elettrici e industriali della carta, che si sono impegnati a ritirare a prezzo di costo tutta l'energia prodotta, per soddisfare il proprio fabbisogno. Così hanno abbattuto il rischio di mercato e sono riusciti a farsi finanziare l'investimento dalle banche all'80%, con un tasso molto contenuto. Ma anche lassù non tutto sta filando liscio, tanto che l'entrata in funzione della centrale continua a slittare. Ora si parla, forse, del 2012.