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28 maggio 2009

Dalle micro-pale ai giganti offshore

Investimenti in crescita e tecnologia in piena evoluzione fanno dell'eolico una palestra per gli innovatori. E alcune promesse, come quella del mini-eolico o dell'eolico offshore, si stanno già realizzando. L’eolico di piccola taglia è in grande crescita in Italia, anche perché dall'inizio di quest'anno gli è stato esteso un meccanismo di incentivazione simile al conto energia fotovoltaico. Si tratta di una fonte meno remunerativa dell'eolico di taglia normale, ma molto adatta a essere inserita nell'ecosistema economico della generazione distribuita, quel segmento della produzione di energia rinnovabile "fatta in casa" e sempre più integrata nella costruzione degli edifici. Il movimento, per la verità, è iniziato prima degli incentivi: esistono già diversi produttori, come Ionica Impianti, Terom, Bluminipower, Siper, Ropatec e Tozzi Nord, che sfornano pale di piccola taglia, per ora sfruttate soprattutto per dare corrente ai rifugi di montagna o alle barche a vela, ma usate anche nelle zone agricole. L'eolico offshore, invece, in Italia non decolla, mentre i progetti si moltiplicano nei mari del Nord. Qui i mulini che girano davanti alle coste sono ormai una presenza industriale consolidata. Anzi, sta cominciando ad affermarsi anche l'idea di piantarli in mare aperto, un'evoluzione che consentirebbe di sfruttare venti più potenti. Già da alcuni mesi, ad esempio, è entrata a regime al largo della costa olandese la Princess Amalia Wind Farm: con le sue 60 turbine da 2 MW ciascuna, è la più grande centrale eolica offshore mai realizzata nel mondo oltre il limite delle 12 miglia che segnano le acque territoriali, ma anche la più lontana dalla terra ferma e quella installata alla maggiore profondità. La mega-centrale è gestita da Econcern, gruppo internazionale con sede centrale nei Paesi Bassi, insieme a Eneco, una delle tre maggiori utilities olandesi, che si sta riposizionando nella produzione di rinnovabili. Attraverso la sua controllata Evelop, la holding olandese partecipa anche in altri due progetti analoghi, quello di Scira, con una capacità di 315 MW nelle acque territoriali britanniche e quello di Belwind da 330 Mw al largo della costa belga. Oggi l'installazione offshore costa il doppio di quelle sulla terraferma, ma il mare è un territorio di frontiera, nel quale i costi sembrano destinati a calare rapidamente. Nell'area compresa tra la penisola scandinava, la Gran Bretagna e l'Europa continentale, gli esperti hanno già sviluppato generatori che utilizzano la forza delle onde o delle maree, come quelli attivi a Saint Malo in Francia (240 Mw) o a Murmansk in Russia (400 Mw), che potrebbero essere abbinati alle windfarm. E c'è chi pensa di moltiplicare la potenza installata aumentando la dimensione delle pale. Un primo esempio è Beatrice, prototipo record di turbina da 6 MW di potenza, con un diametro di 126 metri e un mozzo alto 95, realizzata dal colosso tedesco dell'eolico Repower e installata al largo delle coste scozzesi, in un campo petrolifero chiamato appunto Beatrice. È il primo esemplare del programma europeo Downvind, che punta a combinare le tecnologie di sostegno delle piattaforme petrolifere con le turbine, consentendo così di sfruttare anche i fondali più profondi, dove i generatori sollevano meno obiezioni e producono meglio. Queste sono tecnologie che potrebbero essere sfruttate molto bene lungo le coste italiane, dove la profondità dei fondali è maggiore rispetto alle coste olandesi. Ma per ora da noi non si muove quasi nulla. Il progetto in joint venture fra Enel e il gruppo Moncada di installare 115 aerogeneratori nelle acque del Golfo di Gela, con una potenza complessiva tra i 345 e i 575 MW e un investimento previsto di 500 milioni di euro, ha già ricevuto il pollice verso sia dal Comune di Gela che da Licata e Vittoria. Il Molise, dopo la fiera opposizione al parco da 162 MW della milanese Effeventi, si oppone ora anche al progetto della romagnola Trevi Energy, che vorrebbe realizzare 150 MW eolici al largo di Campomarino. Proprio in relazione al progetto di Effeventi, che ha già ottenuto da tempo la Via dei ministeri competenti, il governo ha impugnato per illegittimità costituzionale la legge regionale del Molise e ha ribadito che le competenze in materia di eolico offshore sono dello Stato. Resta il fatto che di eolico offshore, per ora, in Italia non si vede l'ombra.

25 maggio 2009

Il club dell'eolico è sempre più affollato

Diventa sempre più affollato il club dei signori del vento, che fino a pochi anni fa era riservato a una ristretta cerchia di adepti. L'ultimo arrivato è Carlo Toto, rimasto appassionato di eliche anche dopo la cessione di AirOne. L'imprenditore abruzzese, che un anno fa si era impegnato a far diventare Alitalia la quarta compagnia aerea europea, oggi si dedica ai mulini a vento nella provincia di Foggia, con due campi eolici che dovrebbero entrare in funzione nel giro di due anni. Complessivamente, tenendo conto di un terzo campo eolico in dirittura d'arrivo con gli iter autorizzativi, la Toto Costruzioni installerà 110 megawatt, per un investimento complessivo attorno ai 150 milioni di euro. Ma Toto non è certo l'unico nuovo membro del club. Dal Walter Burani all'ex Montedison Giuseppe Garofano, da Gaetano Maccaferri a Ferdinando Brachetti Peretti, sono in tanti a comprare il vento fra i volti noti dell'imprenditoria italiana. Garofano, ex amministratore delegato di Montedison e stratega finanziario del gruppo Ferruzzi fino ai primi anni '90, è oggi leader della compagine azionaria di Alerion, società quotata che vanta cinque parchi eolici operativi in Italia, per un totale di 89 MW installati. Il piano aziendale prevede la costruzione entro l’anno prossimo di quattro nuovi parchi, che porteranno a 204 i MW installati in Italia da Alerion. Ma la lista degli imprenditori conquistati dal business del vento comprende i settori più disparati. La moda, per esempio: Walter Burani, marito di Mariella, ha investito nell’eolico con due società quotate, Greenvision e Bioera. Tra i cementieri, Carlo Pesenti con Italgen sta investendo in campi eolici soprattutto all'estero: in Marocco, Egitto e Turchia. In Emilia ci ha pensato invece Gaetano Maccaferri, presidente dell’omonimo gruppo e di Unindustria Bologna: è entrato nel settore con la Seci Energia, che si è poi alleata con Api Nòva Energia del petroliere Ferdinando Brachetti Peretti. L'obiettivo è di costruire campi eolici in Italia e all'estero, con 200 MW già in fase di sviluppo. Col vento in poppa, naturalmente, vanno anche le compagnie energetiche che già da anni operano in questo segmento. Oggi l'azienda leader dell'eolico italiano è il gruppo britannico International Power, con la controllata Ip Maestrale: 550 MW che rappresentano una quota di poco inferiore al 15%. A seguire, si spartiscono quasi alla pari metà del mercato Enel Green Power, Edison Energie Speciali, la tedesca E.on, la Fri-EL dei fratelli altoatesini Gostner e la Ivpc di Oreste Vigorito, uno dei pionieri del vento italiano, con oltre 1000 MW di pale in gestione, di cui più di un terzo di sua proprietà. Enel Green Power punta molto anche all'estero: ha appena firmato un accordo con la società tedesca SoWiTec per sviluppare assieme 850 MW eolici in Cile. Edison vuole raggiungere entro il 2014 una potenza installata di 800 MW eolici, il doppio di oggi, in Italia e all'estero. La tedesca E.on, che possiede quasi 2000 MW eolici in giro per il mondo, in Italia ha ereditato i campi eolici di Endesa, che Enel ha dovuto dismettere. Sorgenia, invece, ha il grosso della sua capacità in Francia, dove controlla il secondo operatore eolico del Paese, ma ha appena inaugurato due campi in Campania e in Puglia. I neofiti del vento, del resto, sono in pieno boom anche a livello internazionale. Il Times ha elencato nella sua Green Rich List i ricchi del mondo che hanno messo più soldi nelle fonti rinnovabili, eolico in testa. Nella classifica compaiono americani, svedesi, britannici, francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, cinesi, indiani, danesi, sudafricani e israeliani. Il primo della lista è Warren Buffett, che ha investito una parte del suo impero da 30 miliardi di euro nell'eolico e nello sviluppo di auto elettriche, seguito da Bill Gates, con i suoi 29 miliardi di euro di patrimonio. Al terzo posto della lista del Times, il fondatore di Ikea, lo svedese Ingvar Kamprad, uomo da 25 miliardi di euro. Gli americani sono 35, molti dei quali provenienti da Silicon valley, che negli ultimi mesi si sta sempre più convertendo dai chip dell'informatica alle tecnologie verdi. Un esempio su tutti è quello dei fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Ma non ci sono solo i sostenitori di Obama: tra i nuovi pionieri dell'economia verde c'è anche il petroliere texano di simpatie repubblicane T. Boone Pickens, che sta finanziando il Windy Texas Panhandle, il più vasto progetto mai intrapreso nell'eolico, per ridurre la dipendenza energetica degli Usa dall'estero.

22 maggio 2009

I mulini a vento battono la crisi

La forza del vento batte la crisi. Tra le fonti rinnovabili, l’energia eolica è quella che risponde meglio alle aspettative di sviluppo, andando oltre le stesse previsioni di crescita del settore. È avvenuto, ad esempio, negli Stati Uniti, dove nel 2008 sono stati installati 8.358 nuovi MW eolici, portando il totale della potenza del vento a 25.170 MW: un risultato ben superiore alle stime formulate dall’American Wind Energy Association e che vale il primato nel mondo, appartenuto fino al 2006 alla Germania. In realtà, un po’ ovunque durante il 2008 si è assistito a una crescita poderosa delle installazioni eoliche, che continua anche nel primo semestre 2009. Il motivo è molto semplice: l'eolico è l'unica fonte rinnovabile già competitiva con i costi di produzione delle fonti fossili, anche senza incentivi statali. E quindi installare un campo eolico è un investimento remunerativo quasi quanto costruire una centrale a gas, ma molto meno dipendente dalla volatilità del prezzo del combustibile. Oltre a essere una fonte di energia pulita, insomma, il vento è anche un buon affare.Non a caso, nell’Unione Europea l’eolico già copre il 4,2% della domanda elettrica e nel 2008 è cresciuto del 15% (a 64.948 MW), più di tutte le altre fonti energetiche, inclusi gas, carbone e nucleare. E se alcuni Paesi, come Germania e Spagna, hanno rallentato il loro tasso di crescita per il taglio degli incentivi, altri - come Francia e Gran Bretagna - hanno decisamente accelerato, portando a ben oltre i 3.000 MW installati la loro potenza eolica complessiva. Ancora meglio ha fatto l’Italia, che nel 2008 ha aggiunto 1.010 MW alla propria capacità eolica, portandosi a un totale di 3.736 MW, che consolida il suo terzo posto nello scenario europeo. La corsa all'eolico identifica il comparto come uno dei pochi mercati rimasti indenni nell'attuale tempesta economica e finanziaria, anche sotto il profilo occupazionale. Grazie all'eolico, nell’Unione Europea sono stati creati oltre 12mila posti di lavoro all'anno negli ultimi cinque anni e il previsto sviluppo del settore consentirà il raddoppio in pochi anni, passando da 154.000 posti di lavoro del 2007 a 325.000 nel 2020.A fronte di questi dati, che si aggiungono a quelli altrettanto incoraggianti provenienti dall'Asia, si rafforza la credibilità delle previsioni che assegnano per i prossimi anni contributi decisivi alla fonte eolica nella transizione energetica che si sta preparando. Secondo l’ultimo rapporto fornito dal Global Wind Energy Council, esistono tutte le condizioni per ritenere che l’eolico possa coprire il 12% del fabbisogno di energia elettrica mondiale entro il 2020. La rapidità con cui si sta sviluppando l’eolico mette in crisi le valutazioni molto più prudenti assunte da organismi internazionali autorevoli, tra cui l’International Energy Agency, che è stata criticata proprio per la sua sottovalutazione di questa fonte: basti pensare che, nel 2002, la Iea aveva previsto l'eolico a 104 GW nel 2020, quota già raggiunta nel 2008, con 12 anni di anticipo. In materia di eolico, insomma, si sta dimostrando azzardato fare previsioni, perché la realtà del mercato ha già più volte superato l'immaginazione degli esperti e degli stessi operatori, malgrado le diffuse resistenze autorizzative in nome dell'estetica del paesaggio. “In Italia – spiega Simone Togni, segretario generale dell'Anev - la crescita dell'eolico è bloccata da quasi quattro anni in Sardegna, considerata l'area con il migliore potenziale eolico d'Europa. E anche le altre regioni più ventose, dalla Sicilia alle Marche, dall'Abruzzo alla Calabria, lungo tutta la dorsale appenninica, vanno avanti a singhiozzo”. Tanto è vero che l'Italia ormai è un'esportatrice netta di aerogeneratori: nel suo impianto di Taranto, Vestas Italia ne produce più di quelli che riesca a installare sul territorio nazionale. In complesso, malgrado la corsa furiosa alle nuove installazioni, il terzo posto dell'Italia in Europa è molto distaccato dai due Paesi che la precedono: la Germania mantiene il primato con 24mila MW installati e la Spagna la segue con 17mila, contro i 3.700 MW dell'Italia. Le potenzialità del nostro Paese nello sfruttamento della forza del vento, quindi, restano molto elevate.

Italia: potenziale eolico come la Spagna

La forza del vento galoppa in Italia, come nel resto del mondo, ma il potenziale eolico del nostro Paese resta enorme. In uno studio recente, l'Associazione Nazionale Energia del Vento (Anev) lo quantifica in 16.200 MW. "E' un potenziale quasi equivalente a quello della Spagna", spiega il presidente Oreste Vigorito. Gli oppositori dell'eolico sostengono che ormai ci sono già troppe pale in giro e non c'è più spazio per metterne altre... "E' falso. Pur escludendo a priori le aree di particolare pregio paesaggistico, l'Italia ha ancora moltissime zone disponibili, per una potenzialità eolica complessiva di 16.200 MW, che potrebbero soddisfare il fabbisogno di ben 25 milioni di italiani. Queste cifre significano che in Italia l'energia del vento potrebbe garantire il 6,72% dei consumi interni lordi previsti al 2020 (405 TWh). In questo modo si eviterebbero oltre 23 milioni di tonnellate di emissioni e si risparmierebbero 107 milioni di barili di petrolio". Da dove vengono fuori questi numeri? "I dati sono stati elaborati dalle misurazioni di più di 300 anemometri sparsi su tutto il territorio nazionale, per un periodo di 12 anni. Il nostro studio tiene conto delle limitazioni di carattere normativo, dei vincoli e delle esigenze di rispetto ambientale, oltre che degli aspetti elettrici ed economici connessi alla producibilità minima". Quali sono le zone più adatte? "La mappatura del vento in Italia mostra che le condizioni più favorevoli sono nel Mezzogiorno: in testa c'è la Puglia (2.070 MW), seguita da Campania (1.915 MW) e Sardegna (1.900 MW). Al quarto posto le Marche (1.600 MW), che precedono Calabria (1.250 MW), Umbria (1.090 MW), Abruzzo e Lazio (900 MW ciascuna)". Cosa bisognerebbe fare per raggiungere questi obiettivi? "Ci vorrebbe una semplificazione normativa: al momento attuale, tirare su una pala eolica è più difficile che costruire una centrale nucleare. Ma soprattutto ci vorrebbero delle linee guida nazionali, per introdurre principi di uniformità e certezza su tutto il territorio italiano, con una ripartizione dell'obiettivo nazionale fra le diverse regioni". Che effetto ha sul mercato la delega alle Regioni? "La delega alle Regioni di competenze fondamentali in materia di pianificazione e autorizzazione ha portato alla frammentazione del quadro normativo: ogni Regione ha adottato regole specifiche, spesso condizionate da localismi. Nel proliferare del caos normativo, gli operatori energetici hanno abbandonato le fasi di sviluppo e di autorizzazione degli impianti, lasciando il passo ai cosiddetti 'developer'. Da questi intermediari gli operatori acquistano poi i progetti una volta divenuti cantierabili. Una semplificazione e unificazione delle norme eviterebbe questo 'mercato di carta', che appesantisce gravemente il settore e lo espone all'infiltrazione di elementi criminali, com'è successo recentemente in Sicilia».

18 maggio 2009

Il futuro del solare termodinamico è italiano

Una rincorsa faticosa che ha il sapore dello sprint. Gianluigi Angelantoni, amministratore delegato dell'omonimo gruppo, punta deciso verso un settore talmente innovativo da non avere ancora concorrenti sul mercato globale: il solare termodinamico basato sulla tecnologia a sali fusi inventata da Carlo Rubbia. E fa subito centro. La sua Archimede Solar Energy ha già attirato l'attenzione dei tedeschi di Siemens, che sono appena entrati nell'azionariato al 28%. "Con il nuovo stabilimento, che sarà operativo a metà dell'anno prossimo, sforneremo centomila tubi all'anno, adatti sia per i circuiti a olio sintetico che arriva a 350 gradi, sia per scaldare sali fusi fino a 550 gradi", spiega Angelantoni, che già oggi ne ha prodotte alcune migliaia in uno stabilimento più piccolo. In pratica, i suoi tubi rappresentano l'anima delle grandi centrali solari a concentrazione, dov'è cruciale l'immagazzinamento del calore, per continuare a produrre energia anche con diversi giorni di tempo coperto: nei sistemi utilizzati fino ad oggi, i grandi specchi parabolici concentrano il calore su un tubo sottovuoto dove scorre olio sintetico, che a sua volta deve scaldare con uno scambiatore di calore un grande serbatoio pieno di sali fusi. Nelle centrali di nuova generazione, come il progetto Archimede in costruzione a Priolo, basato su una tecnologia italiana brevettata dall'Enea, tutto il circuito è pieno di sali fusi, che raggiungono temperature impossibili per l'olio sintetico e non hanno bisogno dello scambiatore. Angelantoni si muove su un confine oltre il quale fino ad oggi non è andato nessuno: i suoi tubi, spalmati internamente di un coating chiamato Cermet, sono gli unici al mondo capaci di contenere un fluido a temperature così elevate. Questa tecnologia nuova migliora molto l'efficienza del solare termodinamico, tanto che Angelantoni ha già un'ordinazione per una grande centrale in costruzione in India e conta di aggiudicarsene molte altre nei prossimi mesi. Il mercato, infatti, è in piena esplosione, con 12 centrali in costruzione in Spagna e decine di altre in tutto il mondo, da Abu Dhabi agli Stati Uniti. "Già nel 2012 il fatturato generato dal solare termodinamico andrà a superare quello che fatturiamo oggi nel nostro business tradizionale", precisa Angelantoni. Laddove il suo "business tradizionale", del resto, non è nient'altro che la premessa per questo exploit. Già oggi l'azienda di Massa Martana produce fra le colline umbre macchine estremamente innovative: è tra le imprese leader nel campo dei simulatori per i test e delle apparecchiature biomedicali a basse temperature. Con le sue camere di simulazione ambientale e spaziale, i banchi di collaudo e i sistemi di vibrazione elettrodinamici, serve l'industria automobilistica, aerospaziale, elettronica e della difesa in Italia, Francia, Germania, Cina e India. Non a caso l'8% del fatturato nella sede centrale è dedicato alla ricerca. E questo sforzo innovativo rappresenta un traino non indifferente per tutto il distretto, dove diverse imprese sono state coinvolte nel progetto Archimede. "L'energia solare e fotovoltaica ha enormi prospettive di sviluppo e noi vogliamo essere al centro di questo processo, che potrebbe portare l'Italia all'avanguardia in un campo dove siamo ancora molto indietro", sostiene Angelantoni. La sua azienda, infatti, non è impegnata solo nel solare termodinamico, ma produce anche macchine per fare celle fotovoltaiche a film sottile, un'altra nuova frontiera del solare. "Stiamo realizzando una linea completa di produzione, lunga 130 metri, per Arendi del gruppo Marcegaglia, la società che produrrà per la prima volta in Italia moduli al telloruro di cadmio", una tecnologia molto innovativa - sviluppata da Nicola Romeo, docente di Fisica all'università di Parma - che punta a fare a meno del silicio. "Se vogliamo innovare, in questo Paese - commenta Angelantoni - dobbiamo dare più soldi ai ricercatori, nelle università e negli istituti di ricerca. Poi ci vorrebbe anche un miglior rapporto delle università con le imprese, ma il problema fondamentale sono i mezzi finanziari alla ricerca di base, che mancano".

14 maggio 2009

Da Obama a Marchionne: i manager della nuova era

Non più di 18 mesi fa, le metafore più idonee nel mondo della finanzaerano militari e i capi più riveriti erano tipi duri, bravi a dare ordini,stile Top Gun: si pensi a Dick Fuld di Lehman Brothers o a Sir Fred «TheShred» Goodwin di Royal Bank of Scotland. Tutti e due sono stati inghiottitidal gorgo della crisi e oggi l’umiltà ha rimpiazzato l’arroganza ai pianialti dei colossi della finanza. Come al solito, Goldman Sachs ne ha presocoscienza per prima, con la contrita ammissione di Lloyd Blankfein in undiscorso di qualche settimana fa a Washington, in cui ha riconosciuto che«l’anno scorso è stato profondamente umiliante» e che molte iniziativeindustriali degli anni passati, «col senno di poi, sembrano finalizzate allucro e all’ingordigia».Il modello di direzione aziendale basato sul maschio Alfa è passato di modacosì brutalmente che viene persino biasimato a livello ormonale: alcuni studiaccademici suggeriscono, infatti, che gli uomini con un elevato tasso ditestosterone abbiano una maggiore propensione alle transazioni commercialialtamente rischiose, cosa non necessariamente positiva in un momento in cui larecessione globale viene imputata a un’errata valutazione del rischio. E lostile «femminile» di gestione, più posato e ricettivo, diventa sempre piùdi moda. I fautori del femminismo devono trattare questi argomenti con grandecautela: le teorie economiche che favoriscono le donne in fase di recessionepotrebbero trasformarsi troppo facilmente in giustificazione intellettualepro-discriminazione durante il prossimo boom. Tuttavia, considerare come unosvantaggio il fatto che in alcuni quartieri generali sia presente troppotestosterone è sicuramente segno di un profondo mutamento culturale.Una prova di quanto ampia sia stata l’oscillazione del pendolo l’ha dataJack Welch, ex capo di General Electric e icona del vecchio modello imperiale,che ha conferito a Barack Obama un «10 e lode» per il suo stile al comando,nonostante dissenta su molti aspetti della sua politica. Il nuovo presidenteamericano, soprannominato dai suoi detrattori «Obambi» per indicare unaleadership debole, è il simbolo più accalamato del cambiamento. «Una storiadi successo fenomenale», fa notare Marco Rotondi, autore insieme a FedericoMioni di Obama Leadership (Franco Angeli), in libreria a fine maggio. Partitoda una startup con un ufficetto e una segretaria, in due anni Obama èriuscito a costruire un’«azienda» da 1.200 dipendenti. Ai nastri dipartenza, lo davano all’8 per cento. E invece lui ha sbaragliato una decinadi concorrenti con molta più esperienza di lui, in un mercato maturo, comequello della politica, dove gli outsider non sono precisamente i benvenuti.Tutto ciò, utilizzando uno stile di gestione completamente nuovo.L’Obama Style rompe decisamente con l’atteggiamento da Top Gun dei suoipredecessori. Rispetto al capo che impone la sua volontà in manierasbrigativa oppure, in alternativa, delega certe decisioni al collaboratorepiù competente, l’uomo nuovo sceglie una terza via: Rotondi l’ha chiamata«comprensione ossessiva». Chiede spiegazioni, vuole capire i problemi, va afondo delle questioni e solo alla fine decide. Cerca di condividere con glialtri le sue scelte, ma non si sottrae mai alle sue responsabilità. «Quandoi mercati prosperano, è facile coprire gli errori dei manager autoritari, cheprivilegiano le decisioni rapide e poco discusse, quindi rischiose», fanotare Rotondi. Oggi è più adatta la strategia di Obama, che preferiscedarsi il tempo per ascoltare gli altri. È facile capire il perché. Il nostromondo globalizzato, collegato in rete, multipolare, senza chiare linee didemarcazione ideologiche da guerra fredda, è diventato troppo complesso peressere gestito con un approccio di tipo comanda-e-controlla. L’Obama Styleaccetta la complessità invece di respingerla. Non cerca soluzionisemplicistiche e tagliate con l’accetta. Preferisce i compromessi, lesfumature.Non stupisce, dopo tanto successo, che più di un manager sia attratto dal suostile e molti abbiano tentato di metterci sopra il cappello. «Ma le adesionisuperficiali non bastano - commenta Rotondi - perché la strategia delcambiamento è molto più difficile da applicare di quanto non sembri». Fra idirigenti d’azienda che possono fregiarsi dell’Obama Style, secondoRotondi, l’esempio più fulgido lo abbiamo a casa nostra: è SergioMarchionne, il capitano che ha trasformato la Fiat da una carretta dei mari inuna portaerei. Senza mai alzare la voce.

10 maggio 2009

Google Earth arma segreta per la difesa del pianeta

Vedere per credere. L'evidenza fotografica ha un'abilità unica di trasmettere la realtà concreta del riscaldamento del clima alla gente comune. James Balog, fotogiornalista di grido, ha inserito in Google Earth le immagini delle sue fotocamere di monitoraggio, undici occhi virtuali che registrano lo scioglimento dei ghiacci eterni, dalla Groenlandia al massiccio del Monte Bianco, per rendere consapevole il mondo di quello che sta succedendo, in tempo reale. Il suo è uno dei grandi progetti di tutela ambientale che stanno portando alla ribalta Google Earth come uno strumento fra i più potenti per la difesa del pianeta. Ma ce ne sono altri. Julian Bayliss, uno studioso dei Royal Botanical Gardens inglesi, ha scoperto quest'inverno una vasta regione di foresta vergine in Mozambico, sul monte Mabu, semplicemente esaminando con attenzione le mappe di quel Paese in Google Earth, da cui saltava all'occhio una densa macchia verde ancora inesplorata: la spedizione nata dalle sue scorribande virtuali ha portato alla luce una sacca perduta di biodiversità, con tre nuove specie di farfalle e una rarissima orchidea. Per non parlare del monitoraggio delle emissioni eseguito dal Carbon Dioxide Information Analysis Center, dalla vigilanza sulla deforestazione del World Resources Institute o dello studio del Natural Resources Defence Council sulle aree più adatte a essere sfruttate per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Il primo lancio di un satellite per usi civili non limitati alle previsioni del tempo risale al 1972, quando la Nasa piazzò in orbita il Landsat per monitorare lo sfruttamento del territorio ad usi agricoli e la desertificazione del pianeta. Da allora ad oggi, sono andati in orbita molti altri satelliti, con una grande varietà di telecamere e di sensori, capaci di penetrare oltre le nuvole, di misurare le temperature sulla superficie terrestre e perfino di percepire il progressivo assottigliamento dei ghiacci artici. Molti Paesi usano i satelliti per sorvegliare il proprio territorio, compreso il Brasile, che ha uno dei sistemi più sofisticati del mondo per il monitoraggio istantaneo della deforestazione, ma non sempre dimostra la volontà politica di bloccarla. Solo dal 2005, però, Google Earth organizza queste immagini e le aggrega con le fotografie aeree e le riproduzioni del territorio in 3D da un'ampia varietà di fonti, per presentarle e renderle accessibili gratuitamente agli utenti della rete. Il linguaggio KLM di programmazione di Google Earth è stato subito identificato dai conservazionisti come il gergo ideale per "interagire" con il pianeta, da un lato utilizzando i dati geospaziali per scoprire le modifiche sul territorio, dall'altro per metterle in evidenza con immagini e informazioni raccolte personalmente, in una vasta impresa collettiva di documentazione. Oggi ne vediamo i primi frutti.

7 maggio 2009

Smart Planet: l'informatica a servizio dell'ambiente

Nel Saguaro National Park di Tucson, in Arizona, ci sono quasi due milioni di cactus. Bob Love, il capo dei ranger, è costretto a difenderli con il fucile spianato insieme ai suoi uomini, perché quelle monumentali succulente, molto amate dal pubblico, possono valere migliaia di dollari. I più antichi arrivano anche a 200 anni, ma sono troppo grandi per essere trafugati. I ladri preferiscono i saguari di 40-50 anni, che di solito non superano i due metri d'altezza. Scavano sotto le radici e li avvolgono in un tappeto per non farsi massacrare dalle spine. Due di loro sono stati colti sul fatto recentemente con 18 saguari già caricati su un camion. Ma adesso basta. Love ha deciso di usare i moderni mezzi della tecnologia per difendere i suoi cactus e ha ordinato alcune migliaia di chip Rfid da iniettare nelle piante per poterle rintracciare. I chip, in realtà, non sono in grado di svegliare i ranger nel cuore della notte se arrivano i ladri, ma la gente ne è convinta lo stesso. Il punto vero è che i cactus rubati possono essere facilmente identificati con un apposito scanner nei vivai dei dintorni. Sia come sia, l'effetto deterrenza è assicurato, perché il sistema è già stato sperimentato in altri parchi naturali. A Lake Mead, vicino a Las Vegas, non sono i saguari a far gola ai ladri, ma un'altra succulenta tondeggiante di cui il parco è pieno, chiamata in inglese “barrel cactus”, meglio nota in italiano come “cuscino della suocera”. La direttrice Alice Newton ha già iniettato migliaia di chip nei suoi preziosi cactus, con ottimi risultati. I furti, cominciati nel 2000 con danni milionari, sono cessati dopo l'operazione Rfid. Questi sono solo due esempi di come le tecnologie di riconoscimento in radiofrequenza possano essere utilizzate per la tutela dell'ambiente. Ma se ne possono citare molti altri. Per difendere i cinghiali dell'Amazzonia dall'estinzione, gli attivisti del Wwf inseriscono un trasmettitore Rfid nell'orecchio di tutti gli esemplari che riescono ad acchiappare. Piazzando poi delle colonnine riceventi nei luoghi dove i cinghiali vanno ad abbeverarsi, il dispositivo segnala le strategie e gli spostamenti dei branchi senza bisogno di un trasmettitore satellitare, molto più costoso. Nel Kerala, in India, si usa lo stesso sistema per controllare gli spostamenti degli elefanti nelle riserve. L'estrema economicità dei trasmettitori in radiofrequenza è una delle ragioni principali di questo successo: per utilizzare un sistema Vhf si spenderebbero almeno 300 dollari per animale e con il Gps addirittura 3.000, mentre una cimice Rfid costa 3-4 dollari. Non a caso, l'idea di sfruttare a beneficio dell'ambiente questi sistemi, nati per facilitare la logistica della grande distribuzione, comincia ad attrarre anche le aziende che li producono. Ibm si è inserita nel nuovo filone coniando il marchio Smart Planet: sotto questo ombrello vende sofisticati sensori e sistemi che consentano di risparmiare risorse migliorando l'efficienza delle reti di elettricità, gas e acqua, di abbattere l'inquinamento evitando gli ingorghi, di gestire meglio la generazione elettrica dai tetti fotovoltaici e la raccolta dei rifiuti. La reazione delle amministrazioni pubbliche dimostra che la tecnologia verde ha già un mercato. Stoccolma ha chiesto un sistema per ridurre l'inquinamento rendendo più fluido il traffico, Seattle e Portland (Oregon) puntano a riequilibrare la domanda di energia con una tariffazione flessibile, Pechino a migliorare la gestione del bacino fluviale dello Yangtze. Per non parlare della raccolta differenziata dei rifiuti, su cui un ex consulente della Deloitte, Ron Gonen, ha fondato la sua startup RecycleBank. Il principio generale è che migliorando la qualità delle informazioni, la gente tende a prendere decisioni migliori. Trent'anni di studi sul risparmio energetico dimostrano, ad esempio, che semplicemente osservando in tempo reale l'impatto delle proprie azioni porta a un taglio dei consumi dal 5 al 15%. Agilewaves, una startup di ex scienziati della Nasa, punta proprio su questo: portare i consumi energetici fuori dal vano contatori, trasferendoli in tempo reale sul desktop di ogni utente, dovrebbe indurlo a tagliare le spese inutili. Gonen va ancora più in là e suggerisce alle municipalità di premiare i riciclatori più bravi con un sistema a punti. Il suo sistema consiste nel distribuire agli utenti dei contenitori per il riciclaggio dotati di un chip: ogni contenitore viene pesato dallo stesso braccio meccanico che lo svuota nei rispettivi camion di raccolta, per poi trasmettere i dati a un server centrale, dove le quantità riciclate vengono tradotte in un punteggio. La gente può scaricare i propri punti da un sito e utilizzarli poi in una serie di negozi convenzionati. Il suo sistema ha già attirato l'attenzione di diverse amministrazioni locali americane, fra cui quella di Dallas, che lo sta applicando. In termini più generali, l’idea di sposare le tecnologie di trasmissione in radiofrequenza, quelle satellitari e Internet per catturare, analizzare e interpretare i dati ambientali trova sempre nuove applicazioni. L’ultima si chiama Planetary Skin e la sta sviluppando Cisco insieme alla Nasa. Si tratta di una piattaforma di collaborazione online che punta a incrociare i dati satellitari dell’agenzia spaziale con quelli rilanciati da una miriade di sensori piazzati in cielo, in mare e sul territorio di tutto il pianeta, che finora viaggiavano su sistemi isolati fra loro. L’obiettivo è trasformare questi dati in informazioni, che governi e aziende possano utilizzare, per gestire le risorse naturali globali in maniera più efficiente e ridurre le emissioni climalteranti. In pratica, John Chambers sta lanciando un panopticon di vigilanza dell’intero pianeta, basandosi su reti già esistenti, ma scollegate fra loro, come le telecamere di monitoraggio del traffico, le centraline di registrazione dell’inquinamento o i satelliti che osservano lo scioglimento dei ghiacci e il depauperamento delle foreste, sfruttando lo stesso tipo di software che Wal-Mart utilizzerebbe per le consegne just-in-time dei suoi rifornimenti dalla Cina. Il suo occhio informatico avrà una prima applicazione, come si conviene, a San Francisco, dove tutte le informazioni provenienti dai sensori che misurano le emissioni cittadine, zona per zona, saranno messe in rete dalla fine di maggio. Una versione beta del sistema è già online nel sito di EcoMap. In questo sito, costruito con sistemi aperti, tutti i cittadini potranno verificare quali sono i quartieri più o meno virtuosi e anche aggiungere informazioni, raccolte personalmente. Il prossimo progetto si chiama Rainforest Skin e si focalizzerà sull’integrazione dei sensori di monitoraggio delle foreste mondiali, integrando il più possibile anche i dati forniti dagli indigeni. L’aperura del sistema al dialogo con le comunità locali non è casuale: l’occhio informatico di Chambers, infatti, può risultare inquietante per i tutori della privacy dei singoli. Non in tutte le culture si privilegia la trasparenza e anche là dov’è riconosciuta come un valore inestimabile - che induce inevitabilmente a comportamenti più civili e responsabili - la potenza di fuoco di un sistema informativo come quello concepito da Cisco potrebbe dare qualche mal di pancia. E’ chiaro che dotare Planetary Skin dell’aura di un sistema al servizio della comunità darà una mano a superare queste perplessità.