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30 novembre 2003

Gary Becker

"Il patto di stabilità è morto, ma è inutile recriminare: la sua morte dimostra che qualsiasi accordo di politica fiscale non può prescindere dalle esigenze della crescita economica. L'importante, ora, è che l'Europa colga quest'occasione per cambiarlo, altrimenti resterà una costante fonte di conflitto". Gary Becker, premio Nobel per l'economia e docente all'universtià di Chicago, patria dei monetaristi alla Milton Friedman, non ha dubbi sulla necessità di riformulare i criteri su cui poggia la stabilità dell'eurozona. E soprattutto non ha dubbi sull'urgenza di ridare fiato all'economia tedesca, locomotiva del Vecchio Continente che va rimessa in moto al più presto se ci si vuole agganciare alla ripresa americana.
Non crede che sarebbe stato meglio evitare questa profonda frattura tra le autorità politiche e monetarie d'Europa?
"Le risponderò con un'altra domanda: lei pensava davvero che Germania e Francia si sarebbero piegate alla regola del 3%, accettando di pagare una penale salatissima in caso di violazione? Una norma così rigida sembra messa lì apposta per non essere rispettata e in effetti è successo proprio così".
Quindi è il patto che secondo lei si basa su presupposti sbagliati…
"Il patto identifica un problema importante: livelli insostenibili di debito pubblico possono portare a una crisi, che avrebbe conseguenze disastrose in un'unione monetaria come la vostra. Ma la Germania e la Francia non hanno livelli di debito preoccupanti. I Paesi dell'eurozona con uno stock di debito eccedente il 100% del Pil sono solo tre: l'Italia, la Grecia e il Belgio. Per questi Paesi può avere senso un limite drastico come quello del deficit al 3%, che li costringa a ridurre il livello del debito. Ma per gli altri, compresa la Germania e la Francia, le regole devono essere più elastiche".
Ad esempio?
"Una regola che obbliga i Paesi a contenere rigidamente le proprie spese anche durante i periodi di recessione è destinata a non durare, soprattutto in un'unione monetaria, dove i governi nazionali non possono più usare lo strumento della politica monetaria per compensare altri squilibri. Se si vuole mettere un limite, dunque, bisognerebbe escogitare un sistema più flessibile, ad esempio un tetto del 60% allo stock del debito, com'è scritto nel trattato di Maastricht. I singoli Paesi dovrebbero poi regolarsi da soli per restare al di sotto di questa soglia, spendendo più liberamente nei periodi di recessione e cercando di ridurre la spesa pubblica quando il ciclo è favorevole".
Non crede che una norma così generica finirebbe per danneggiare la stabilità dell'euro e far crescere l'inflazione?
"Credo che l'Europa abbia molto più bisogno di crescita che di stabilità. La performance dell'economia europea è stata mediocre anche negli anni del boom, a causa di alcune debolezze strutturali. Se per stimolare la crescita c'è bisogno di tagliare le tasse, come sta cercando di fare adesso il governo Schroeder, lasciamogliele tagliare, anche se questo aumenta il deficit. Negli Stati Uniti è stato fatto così e ora abbiamo un deficit che supera quello dei tedeschi. Ma la nostra economia ha ripreso a girare e col tempo il deficit rientrerà da solo".
Non teme una brusca scivolata del dollaro?
"Non vedo grandi pericoli in questo senso. Il dollaro debole per ora ci ha fatto soltanto comodo".
Suggerimenti?
"Per diventare più competitiva l'Europa deve concentrarsi sulle riforme del mercato del lavoro, del welfare, della sanità… Sono questi i temi su cui bisogna spostare il dibattito. Come si fa a stimolare la produttività (che in Europa cresce meno dell'1%, contro il 2,5% degli Usa) costringendo la gente a non lavorare più di 35 ore alla settimana, come in Francia?"

24 novembre 2003

L'intelligenza delle cose

Tutto è cominciato nell' 86, alla Philips Automation di Monza, «dove lavoravo alla progettazione di sistemi elettronici». E' lì che Luigi Battezzati, docente al Politecnico di Milano e consulente della Gea oltre che maggiore esperto italiano di Rfid (Radio frequency identification), si è imbattuto nei primi sistemi di programmazione remota in radiofrequenza, gli antenati degli attuali radio tag, le etichette elettroniche destinate a sostituire i codici a barre per identificare i prodotti lungo la catena di montaggio o sugli scaffali dei supermercati. «Allora - racconta Battezzati - erano scatolette un po' più grandi di un cellulare, piccole radio con antenna interna e dotate di batterie. Costavano 2-300 dollari l' uno e venivano usati soprattutto nell' industria automobilistica (ad esempio alla Bmw) o nelle ferrovie per identificare il contenuto dei vagoni (ad esempio in Finlandia)». I radio tag che abbiamo a disposizione oggi sono chip non più grossi di un capello, che possono essere inseriti in una targhetta identica a quella dei codici a barre: non hanno più bisogno di una batteria perché utilizzano l' energia trasmessa dal segnale radio che li attiva, né di un' antenna tradizionale perché basta una spira su supporto flessibile e il costo ormai è sceso al di sotto del mezzo dollaro. «Lo sviluppo di tecnologie dotate di memoria distribuita e capaci di rispondere a interrogazioni wireless - spiega Battezzati - sta cambiando completamente le logiche di gestione della produzione industriale. Un' etichetta intelligente come questa, ad esempio, non solo può tenere traccia di tutta la storia del prodotto, ma non richiede nemmeno alcun tipo di manutenzione o ricarica». Per questo l' Rfid, che dà intelligenza e memoria anche agli oggetti fisici, viene spesso definito l' Internet delle cose. I campi applicativi di questa nuova tecnologia spaziano dalla gestione dei vassoi riciclabili su cui viaggiano milioni di confezioni della divisione alimentare di Marks & Spencer alle lavatrici intelligenti della Merloni, dal supermercato del futuro inaugurato recentemente dalla Metro a Rheinberg, in Germania, al negozio di Prada a New York, dagli occhiali intelligenti della Safilo alla supply chain intelligente di Benetton. Il raggio d' azione si allarga molto se s' includono anche i sistemi riutilizzabili, molto usati nell' industria automobilistica (Ford e Ducati) e nella gestione dei mezzi di trasporto, dalle ferrovie svizzere ai pedaggi autostradali tipo Telepass, dalle carte di accesso delle ferrovie giapponesi alla gestione dei bagagli all' aeroporto di San Francisco. «La tracciabilità dei processi dalla materia prima al prodotto finale e anche oltre è una rivoluzione di portata storica, su cui ormai sono mobilitati in forze i centri di ricerca di tutto il mondo», commenta Battezzati. A partire dall' AutoId Center del Mit, sponsorizzato da diverse multinazionali, dove il direttore Kevin Ashton assicura che avremo venti miliardi di tag in uso entro il 2007 e mille miliardi entro il 2010, fino al Politecnico Federale di Losanna, dove Battezzati interviene su questo tema nell' ambito del master di logistica. Anche al Politecnico di Milano sono in corso studi di fattibilità per aprire un osservatorio permanente sull' Rfid, il primo in Italia e uno dei primi in Europa. L' idea è di collegarsi con gli altri sforzi della ricerca europea, da quelli intrapresi all' Ecole nationale des ponts et chaussées di Parigi a quelli dell' istituto Fraunhofer di Monaco di Baviera. Ma per sviluppare una ricerca internazionale in comune, superando confini e barriere, la strada è lunga. Classe ' 56, laureato al Politecnico di Torino, specializzato in Economia aziendale alla Sda Bocconi, Battezzati ha lavorato fino al ' 91 in varie società internazionali d' ingegneria, dalla Philips all' Alcatel, nella progettazione e gestione di sistemi produttivi. Dall' 87 al ' 91, con il Fata Group di Torino, ha progettato e diretto la costruzione della prima fabbrica russa per la produzione di sistemi di refrigerazione, un gigantesco stabilimento vicino a Kazan che sforna 70mila celle frigorifere all' anno. Dal ' 91 è entrato in consulenza con Gea, continuando a progettare fabbriche chiavi in mano come lo stabilimento di Nola della Alenia. Da tre anni è tornato al Politecnico di Milano, dove insegna gestione della produzione industriale. E il cerchio si chiude: a quasi vent' anni dal suo incontro con i primi apparecchi di tracciamento in radiofrequenza, nello stabilimento Philips di Monza che oggi non esiste più, a settembre ha visto i nuovi chip partecipare al Gran premio di Monza nascosti dentro ai biglietti, per monitorare il numero di degli spettatori. «Nonostante il problema della privacy, che potrebbe essere superato - conclude Battezzati - è questo il futuro della logistica».

23 novembre 2003

Ma il bilancio sociale chi lo legge?

L'industria alimentare è sotto accusa per il diffondersi dell'obesità. Agli operatori di telefonia mobile vengono imputate responsabilità nella diffusione fra i teenager della pornografia online. L'industria discografica viene attaccata se porta in tribunale i pirati elettronici che si scambiano file musicali. Il settore finanziario, infangato dagli scandali societari alla Enron, è sotto la lente d'ingrandimento di azionisti vicini e lontani. Fare impresa oggi è diventato sempre più difficile e le grandi multinazionali, ma anche le aziende più piccole, sono continuamente chiamate a rendere conto delle proprie scelte etiche in materia sociale e ambientale. L'idea che l'azienda debba impegnarsi anche sul fronte della responsabilità sociale, oltre che nella battaglia per la performance economica, in realtà non è nuova: dai numi tutelari sette-ottocenteschi Jeremy Bentham e Carlo Cattaneo a un moderno guru del management come Peter Drucker, che sin dagli inizi degli anni Quaranta ha parlato di "dimensione sociale delle imprese", gli esempi non mancano. La novità sta nella crescente richiesta di trasparenza su questi temi, nella necessità di uscire dagli schemi paternalistici del passato per fissare nero su bianco le esigenze della comunità e misurare con precisione la performance delle aziende su questo fronte. Il rendiconto non va più diretto solo agli shareholders, i portatori di azioni, ma anche agli stakeholders, i portatori di interessi, siano essi interni o esterni all’impresa (dipendenti, fornitori, clienti, enti pubblici, comunità, ambiente). Di fronte alle richieste del pubblico, molte aziende stanno dunque prendendo il toro per le corna e cercano di trasformare la propria "pagella" etico-sociale in un vantaggio competitivo. Unendo così l'utile al dilettevole. Lo strumento principe per questo reporting non finanziario è il bilancio sociale. Quaranta delle prime cinquanta aziende europee producono un bilancio sociale. Regno Unito e Olanda sono i due Paesi più all'avanguardia su questo fronte: Vodafone è stata una delle prime aziende europee a seguire la strada del bilancio sociale e il suo direttore responsabile in materia, Charlotte Grezo (ex Bp) è famosa per il suo impegno, molto sostenuto dal presidente Chris Gent. Negli Stati Uniti sono solo 22, sulle prime 50 dell'S&P, le aziende che producono un bilancio sociale, ma il trend è in forte crescita. Microsoft, Lucent, United Technologies e Altria (casa madre di Kraft e Philip Morris) si sono associate quest'anno a Business for Social Responsibility, un'organizzazione a cui appartengono quasi cinquecento aziende - fra cui Wal-Mart, Sony, General Motors, Pfizer e Shell - che offre sostegno e consulenza in questo percorso. Per l'impresa la strada dello sviluppo sostenibile e dello stakeholders management si può rivelare una vera e propria patente di competitività. L'impresa socialmente responsabile, che comprende le aspettative dei propri interlocutori, aumenta la propria legittimità prevenendo eventuali situazioni di conflitto. Spesso la responsabilità sociale si traduce anche in aumento della qualità, perchè si trattengono i talenti, migliora il clima interno e aumenta il grado di partecipazione di tutti i dipendenti verso gli obiettivi dell'azienda. Di riflesso, c'è anche un riconoscimento da parte dei mercati finanziari che gradiscono l'impegno dell'azienda sotto il profilo della trasparenza e del miglioramento dei processi. Certo il bilancio sociale non rappresenta una garanzia assoluta del buon comportamento di un'azienda. Soprattutto i primi tentativi spesso contengono più apparenza che sostanza. Ma le aziende che imboccano questa strada sono costrette a esprimere la propria posizione sui passaggi critici dei propri processi produttivi, a porsi degli obiettivi da raggiungere e a stabilire dei metodi per misurare i progressi. Chi non prende sul serio questo processo fallisce gli obiettivi e non supera i monitoraggi successivi. Gli indicatori chiave di solito si concentrano sulle responsabilità di fronte al mercato (numero dei reclami, livello della soddisfazione dei clienti, capacità di servire anche clienti con esigenze particolari, casi di comportamento anti-competitivo…), nei confronti dell'ambiente (consumo di energia e dell'acqua, produzione di rifiuti, emissioni di gas serra, altre emissioni come ozono, radiazioni, particolati…), nei confronti dei dipendenti (profili dei lavoratori in base al sesso, alla razza, agli handicap o all'età, livelli di assenteismo, numero di reclami da parte dello staff, numero di incidenti sul lavoro, numero di violazioni di leggi sulla salute o la sicurezza, tasso di turnover, livello del training fornito ai dipendenti…) e verso la comunità (valore della beneficenza in rapporto agli utili al lordo delle tasse, valore del tempo dedicato dallo staff al volontariato…). Tutta questa trasparenza, però, ha anche i suoi svantaggi: l’enorme aumento dei report non finanziari sta portando a un vero e proprio sovraccarico d’informazioni. Negli ultimi due anni la lunghezza media dei bilanci sociali esaminati in uno studio di SustainAbility, un think-tank dedicato, è aumentata da 59 a 96 pagine. Ma chi li legge? E soprattutto: sono davvero rilevanti? La sfida per il mondo della responsabilità sociale, ora che l'impegno delle aziende si fa più diffuso, è trovare uno standard comune per dare obiettività e confrontabilità ai giudizi, oltre che per sintetizzarli in dati il più possibile schematici. Ma soprattutto, ammoniscono gli imprenditori, l’importante è non cadere nell'eccesso di rendere queste regole obbligatorie per tutti. Il dibattito su questo fronte si fa sempre più acceso e proprio il mese scorso le Nazioni Unite hanno pubblicato una bozza di "Normativa sulle responsabilità delle multinazionali" che ha gettato molti manager nel panico, perché prospetta l'istituzione di una vera e propria censura delle aziende accusate di violazione dei diritti umani. Un passo falso, che rischia di far chiudere le imprese a riccio di fronte a nuovi lacci in cui si sentono sempre più ingabbiate.

17 novembre 2003

Luc Soethe

Luc Soete, celebre economista dell' università di Maastricht, è convinto che costruire un nuovo Mit in Italia non sia l' idea migliore. Dall' 88 dirige il Merit, un centro di eccellenza in studi socio-economici sull' innovazione tecnologica, dopo aver lavorato allo Spru, l' istituto gemello dell' università del Sussex, e insegnato a Stanford. Soete, a Milano per una conferenza internazionale del progetto Star sulle politiche per la banda larga, pensa che per l' Europa sia meglio costruire sull' esistente. E costruire in fretta, se non si vuole perdere altro terreno prezioso. Gap «Certo - dice Soete -, per colmare il gap che ci allontana dagli Stati Uniti in materia d' innovazione l' Europa avrebbe proprio bisogno di tanti nuovi Mit: ma il Mit è un' istituzione nata 150 anni fa da precise circostanze economiche e culturali, che hanno portato a un mix unico al mondo di eccellenza scientifica e di spirito imprenditoriale, con risorse finanziarie inimmaginabili in un continente come l' Europa, dove l' industria ha quasi smesso d' investire in ricerca e sviluppo. Lasciamo ai Paesi emergenti, che già lo stanno facendo a piene mani, la buona volontà di partire da zero. Da noi è inutile riversare valanghe di risorse pubbliche in nuove istituzioni che rischiano di fallire non appena inaugurate. Usiamole semmai per promuovere la ripresa degli investimenti privati, realizziamo politiche innovative per eliminare le barriere culturali, sociali e istituzionali che impediscono lo sviluppo della conoscenza». Sono centri di ricerca come il campus di Philips a Eindhoven, di Shell a Lovanio, di Microsoft a Cambridge o quello appena fondato da StMicroelectronics insieme a Motorola vicino a Grenoble - secondo Soete - la risposta giusta alla sfida lanciata a Lisbona nel marzo del 2000, che voleva fare dell' Europa, entro il 2010, la società più competitiva e dinamica del mondo, basata sulla conoscenza. Invece, in questi tre anni il gap in materia di conoscenza e sviluppo tecnologico si è allargato, la produttività europea si allontana da quella americana e la crescita economica è sempre più in ritardo. Ma non è sulla ricerca pubblica che l' Europa perde terreno, anzi. Su quel fronte il gap è modesto e in via di riduzione. E' sugli investimenti privati che il piatto piange. «Peccato che siano proprio gli investimenti privati - fa notare Soete - il motore della crescita e dello sviluppo tecnologico. Non a caso i Paesi europei più sviluppati in questo senso, come Finlandia e Svezia, sono quelli che spendono di meno nella ricerca pubblica, mentre i meno sviluppati, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, sono quelli che spendono di più». E' da questo divario che bisogna partire per capire qual è il sasso su cui il treno europeo dell' innovazione è deragliato. Perché la ricerca universitaria in Europa non riesce ad attrarre capitali privati? E' un problema di qualità? E' troppo frammentata? E' troppo chiusa negli steccati nazionali? «Non si tratta di qualità - risponde Soete -. Semmai è la frammentazione che limita i rapporti fra università e imprese. In Europa ogni università si butta sulle aree più promettenti della ricerca, come le scienze della vita, le nanotecnologie, i nuovi materiali, l' information technology, con il risultato di formare una miriade di piccoli gruppi di ricerca ma nessun centro di eccellenza con un peso specifico sufficiente ad attrarre l' attenzione dell' industria privata. D' altra parte l' industria è sempre più lontana dalla ricerca pura e quindi non offre ai ricercatori un ambiente adatto a perseguire i loro interessi». Per rimettere in moto il treno dell' innovazione bisognerebbe portare gli scienziati a innamorarsi delle applicazioni industriali e le imprese a innamorarsi della scienza. Ogni incentivo in questo senso è benvenuto. Lisbona Ma l' obiettivo di Lisbona - avverte Soete - si sta rivelando irrealistico. «In Portogallo infatti gli euroleader non hanno dichiarato solo l' intenzione di trasformare la nostra società nella più competitiva del mondo, ma anche la necessità di farlo senza abbandonare le sicurezze del passato. Ma sono compatibili questi due obiettivi?». In altre parole: si possono conciliare distruzione creativa, innovazione e imprenditorialità con un ambiente che garantisce sicurezza e protezione del posto di lavoro? «Da questa prospettiva - dice Soete - il gap tra Europa e Usa in capacità innovativa può anche essere il prezzo da pagare per mantenere in piedi un modello che pone l' accento soprattutto sulla sicurezza sociale».

16 novembre 2003

I pericoli del counter-branding

Quando ha cominciato a diffondersi in tutto il mondo la moda di rubare dalle Mercedes la stella a tre punte per appendersela al collo come un medaglione, a Stuttgart c'è stato un attimo di disorientamento. Da un lato l'inattesa popolarità del logo lusingava gli uomini del marketing, dall'altra l'associazione con la piccola criminalità non ha proprio dato lustro al marchio. A un certo punto le richieste di rimpiazzare il famoso distintivo erano diventate talmente tante, che la casa tedesca ha dovuto mettere a disposizione un servizio automatico per la clientela. Ben di peggio è successo più di recente alla rivale Audi in Inghilterra: la scorsa estate la carcassa di una TT crivellata di proiettili con dentro il cadavere di un giovanissimo rapper è finita sulle prime pagine di tutti i giornali in occasione di un regolamento di conti tra bande rivali fuori da un concerto di Lisa Maffia dei So Solid Crew. Da allora il gruppo - i cui membri sono accusati di tentato omicidio, possesso di armi e commercio di droga - usa liberamente il logo Audi nel suo materiale promozionale. A Ingolstadt non si strappano i capelli, ma ci siamo vicini. Non è la prima volta, del resto, che un marchio automobilistico finisce associato ai gusti dei criminali: negli ultimi anni Novanta il "trifoglio" Mitsubishi circolava in tutte le discoteche stampato sulle pasticche di ecstasy. Le "mitsi" - molto ricercate per la loro fama di straordinaria purezza - generarono una tale ondata di popolarità per la marca di automobili che nessun ufficio marketing potrebbe mai sognare di costruire a tavolino. Ma l'associazione con la delinquenza per un brand può essere il bacio della morte. Soprattutto se l'aura noir si scontra frontalmente con i valori su cui è impostato il marchio. Nel caso di Audi, che ha lavorato anni per costruirsi un'immagine sportiva, moderna e sofisticata, la sparatoria di Turnmill potrebbe trasformarsi in un incidente di percorso non da poco, soprattutto nei suoi rapporti con la clientela britannica. "D'altro canto - dicono a Ingolstadt - sono situazioni su cui possiamo incidere ben poco e nessuno ci potrà certo accusare di complicità con le attività illegali di questa gente". Resta il fatto che spesso ha più effetto sull'immagine di un brand un episodio casuale come questo di tutte le campagne pubblicitarie del mondo. Molte delle marche prese di mira non hanno la minima idea dei motivi per cui sono state scelte: perché le subculture metropolitane tipo hip hop e i gruppi di musica rap si concentrino su questo o quel marchio per farne una bandiera è un mistero non ancora rispolto. Ma l'attenzione del marketing per questo tipo di fenomeni cresce in rapporto alla penetrazione sempre più massiccia delle mode di strada nella società. Ad esempio Allied Domecq (numero uno mondiale nella produzione di liquori) non ha disdegnato il brivido da ghetto metropolitano conferito dal disco "Pass the Courvoisier" del gruppo hip hop Busta Rhymes al venerabile cognac di Napoleone. E già partono i primi ammonimenti: "Attenzione a non farsi prendere dalla tentazione di incorporare le subculture metropolitane nell'immagine del proprio brand", diffida Sophie Spence, dell'agenzia Mother. "E' un passaggio ancora troppo pericoloso", conclude Spence. Se non altro perché le subculture tendono a costruire e distruggere i loro idoli a velocità supersonica, ma soprattutto perché finiscono per coinvolgerli in vicende non particolarmente entusiasmanti, come si è visto con Audi. Per restare nell'ambito delle pasticche di ecstasy, ad esempio, ora le "mitsi" sono completamente scomparse e gli esemplari più ricercati sono targati con l'aquila di Armani o con la coroncina di Rolex. Anche l'improvvisa popolarità fra gli hooligan inglesi del classico scozzese Burberry, a righe rosse e nere su sfondo beige, potrebbe durare lo spazio di un mattino, ma in questo caso è stata sicuramente la campagna di svecchiamento intrapresa dal marchio britannico per emanciparsi dalla sua clientela tradizionalista a scatenare l'interesse dei tifosi violenti. La scelta ardita di testimonial come Madonna, Kate Moss e David Beckham, che ha quintuplicato il fatturato dell'austera casa londinese e lanciato il mito dell'a.d. Rose Marie Bravo (ex-Saks Fifth Avenue), non implica necessariamente un aumento di popolarità nei bassifondi, ma spesso la trasformazione radicale di un marchio può degenerare e il ridimensionamento dei prezzi di molti accessori ha favorito la comparsa di camicie e berretti da baseball di Burberry sugli spalti più temuti degli stadi britannici. Un passaggio inverso è invece quello che sta compiendo Ben Sherman, marchio spesso associato con ambienti neonazisti, soprattutto per quanto riguarda la camiceria: le decise contromosse della casa di moda per distanziarsi dagli ambienti della destra violenta hanno avuto successo, ma le perdite sono state dolorose. "Sapevamo che il nostro brand era considerato di destra - spiega Andy Rigg, marketing manager di Ben Sherman - soprattutto in Francia, in Germania e in Italia. Per questo abbiamo deciso di uscire dai canali distributivi tipici di quegli ambienti, perdendo un bel po' di affari. Ma alla lunga è uno sforzo che paga". Eliminate anche le teste rasate e i toni aggressivi dalle campagne pubblicitarie, ora Ben Sherman è pronto per il pubblico più vasto. In definitiva, è facile farsi scippare sotto il naso l'immagine di un marchio senza motivi ben definiti, ma non è impossibile riacchiapparlo prima che degeneri e spesso il fenomeno rientra da solo abbastanza rapidamente, soprattutto se si tratta di un brand molto forte. Tutti ricordiamo come il tipico slogan Enjoy Coke sia stato immediatamente trasformato in Enjoy Cocaine e stampato su milioni di t-shirt. Da allora ad oggi Coca-Cola ha avuto parecchi grattacapi, ma non le sono certo derivati dal deragliamento di uno slogan che sembrava fatto apposta per essere preso in giro.

9 novembre 2003

Il cliente? Va attratto con l'assenza

Il cliente ha sempre ragione, si diceva una volta. Oggi invece il cliente ha un profilo elettronico depositato in chissà quanti archivi con tutte le sue preferenze, il suo numero di telefono e il suo indirizzo di posta elettronica, che vengono quotidianamente bombardati da chiunque gli voglia vendere qualcosa. Lo chiamano customer relationship management (Crm) e dovrebbe migliorare la comunicazione tra fornitori e clienti, per non farseli scappare. Invece spesso ottiene l'effetto contrario. Tant'è vero che solo un quarto degli investimenti riversati negli ultimi dieci anni su questo fronte ha prodotto il ritorno desiderato. E non si tratta di noccioline: nel 2002 la spesa mondiale in Crm ha toccato i dodici miliardi di dollari e secondo le previsioni di Frost & Sullivan è destinata a raddoppiare nel giro di quattro anni. Eppure le aziende specializzate in Crm sono in profondo rosso: l'anno scorso hanno perso globalmente 8,8 miliardi di dollari. E dopo questa débacle comincia a farsi strada qualche dubbio. La marea montante di offerte speciali, promozioni e carte fedeltà che invadono la posta elettronica o quella reale, gli auguri di compleanno dell'operatore mobile sul telefonino, le intrusioni quotidiane di ogni tipo stanno diventando talmente moleste che ormai siamo alla crisi di rigetto: si calcola che il cittadino occidentale sia sottoposto a circa settecento sollecitazioni pubblicitarie e di marketing al giorno. Come si può pretendere che le prenda sul serio? E' a questo problema che hanno cercato di dare risposta, ognuno dal suo punto di vista, Frederick Newell e Stephen Brown, con due libri usciti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro: Why Crm Doesn't Work, pubblicato quest'estate da Bloomberg Press, e Free Gift Inside (Capstone Publishing). Newell, consulente a San Diego e celebrato autore di loyalty.com e The New Rules of Marketing, riparte dai fondamentali con la sua riflessione. In qualsiasi rapporto tra fornitori e clienti, infatti, non bisogna mai perdere di vista la base di partenza: cliente e fornitore hanno interessi nettamente divergenti. Il cliente, infatti, non ha nessun piacere di intrattenere relazioni con il fornitore, mentre il fornitore sì. O meglio: mentre al fornitore fa comodo conoscere estesamente gusti e abitudini del cliente, le uniche relazioni che il cliente vuole avere con il fornitore concernono la qualità dei suoi prodotti e il livello dei suoi prezzi. Ma la sofisticazione tecnologica dei profili della clientela è cresciuta talmente in fretta con lo sviluppo del commercio elettronico, dell'interattività della rete e dell'analisi dei dati che la gente ha la sensazione di essere braccata dalle aziende invece che servita con sensibilità e rispetto. Di conseguenza, dice Newell, è necessario fare un passo indietro e rimettere il cliente al centro del quadro, offrendogli l'opportunità di "comunicarci che cosa le interessa, che tipo di informazioni desidera, che livello di servizio vuole avere e come vuole che noi comunichiamo con lei - dove, quando e quanto spesso". Non più customer relationship management, dunque, ma customer management of relationships, suggerisce Newell, ribaltando i rapporti di forza. Anche Stephen Brown, partendo da una base completamente diversa, va a parare nella stessa direzione: i clienti non possono più essere sedotti sommergendoli di inviti e promesse, ma vanno invece attratti con l'assenza. Teneteli alla larga - suggerisce Brown - e loro accorreranno, cercando affannosamente proprio quello che non possono avere con facilità. Docente di marketing all'università dell'Ulster, Brown è noto per il suo approccio anticonformista alla materia. In Free Gift Inside Brown sviluppa nei dettagli un tema già accennato nel saggio Torment Your Customers (pubblicato sulla Harvard Business Review), dedicando un intero capitolo al fenomeno Harry Potter. Come in altri esempi tratti dall'industria culturale (vedi l'uscita di Star Wars nel '99), il libro del maghetto è un tipico caso di marketing dell'assenza: segretissimo fino all'ultimo, con severe restrizioni agli stampatori e casi rocamboleschi di "furti" sventati o di copie vaganti vendute per sbaglio nella profonda West Virginia, l'editore ha contribuito a creare un clima di eccitazione molto maggiore di qualsiasi sventagliata di promozioni tradizionali. Lo stesso concetto della rarità dei diamanti, fa notare Brown, è una favola inventata da De Beers. Ma se sono le favole che fanno vendere di più - lancia il sasso nello stagno - perché non raccontarle?

3 novembre 2003

Piccolo è bello

Quando le luci si spengono e il Paese rimane al buio, a Bergamo c' è un centro commerciale dove la vita continua normalmente. E non grazie a un generatore che ingurgita fiumi di gasolio, ma in virtù di un silenzioso armadietto che beve metano per poi riversare energia elettrica e aria calda nelle esauste vene del sistema. «Con la liberalizzazione l' energia in eccesso può essere immessa nella rete di distribuzione nazionale e rivenduta, ammortizzando il costo della macchina», spiega Fabio Fontana, amministratore delegato di Jucker Energia, che commercializza in Italia le minicentrali diventate di moda dopo il blackout di settembre. Turbine Le unità di micro-cogenerazione sono impianti che utilizzano turbine a gas per dare energia elettrica e termica (calore o refrigerazione) a grandi condomini, ospedali, centri commerciali e sportivi, scuole e stabilimenti produttivi con un' efficienza che sfiora l' 80% (contro il 35% delle normali centrali termoelettriche) e un impatto ambientale di molto inferiore a quello fissato dagli accordi di Kyoto. In generale possono essere usate da tutti gli utenti di dimensioni medio-grandi che esprimono una necessità costante di energia elettrica e termica: è così in tutto il Centro e Nord Europa, dove circa il 10% dell' energia complessiva proviene da impianti decentrati di questo genere, per non parlare dell' Olanda, dove siamo ormai al 40%, con ovvie ricadute sulla sicurezza dell' approvvigionamento energetico. Molto sfruttate anche nei Paesi in via di sviluppo (India e Cina in testa) e negli Stati Uniti soprattutto dopo il blackout in California, le minicentrali a gas sono considerate in Occidente un valido supporto per le reti energetiche nazionali sempre più sovraccariche, oltre che un modo economico ed efficiente per produrre energia senza dispersioni di calore dannose per l' ambiente e con bassissime emissioni di ossidi di azoto e di anidride carbonica. Ma non in Italia. La secolare concentrazione della produzione di energia nelle mani di un soggetto unico e la disastrosa condizione della rete elettrica nazionale, a cui manca l' interconnettività richiesta dalla liberalizzazione europea, rende particolarmente difficile il decentramento della produzione di energia a livello locale. «Siamo sommersi di richieste - spiega Fontana, ingegnere nucleare già amministratore delegato di British Gas Italia e di Serene, joint-venture energetica con Fiat - ma le normative che regolano l' allacciamento alla rete nazionale sono talmente restrittive da trasformare ogni installazione in un rompicapo. La rete elettrica italiana è così antiquata da esigere l' utilizzo di barriere fisiche per regolare il flusso di energia che esce dal produttore locale. Gioielli E pensare che queste macchine, veri e propri gioiellini dell' elettronica prodotti dalla Bowman, leader mondiale del settore, nel Regno Unito vengono allacciate in un minuto e poi dialogano con la rete a livello di collegamento informatico. Qui sembra di spostarsi in un altro secolo». Il fatto è che la rete elettrica italiana non è fittamente interconnessa («magliata», si dice in gergo) come quella europea. Il nodo verrà presto al pettine, perché il regolamento Ue di accesso alla rete per gli scambi transfrontalieri di energia presuppone un adeguamento allo standard europeo. Resta il fatto che il decentramento della produzione di energia è considerato a Bruxelles una delle risposte più efficienti al sovraccarico delle reti nazionali e che la progressiva liberalizzazione ha aperto un mercato potenziale da 500 milioni di euro alle minicentrali di Jucker Energia, joint-venture fra il gruppo Jucker (che fa capo alla Esfin di Guido Scalfi) e Goal (la società di consulenza energetica di Fabio Fontana). «Un mercato - precisa Fontana - stimato sul 10% degli utenti idonei con un fabbisogno termico abbastanza elevato da giustificare l' impiego di una minicentrale». Stime prudenti, dunque, che con l' ampliamento della liberalizzazione a tutti gli utenti professionali l' anno prossimo potrebbero lievitare.

2 novembre 2003

L'adattabilità è il segreto del successo

Mettiamo a confronto i grafici di due elettrocardiogrammi: uno è apparentemente regolare e costante, l’altro invece presenta dei vistosi sbalzi. A occhio, il primo sembra “migliore” del secondo, ma non è così. Un battito cardiaco eccessivamente stabile indica che quel cuore è malato, perché non è in grado di adattarsi agli input ambientali, mentre l’apparente irregolarità indica la capacità di modificare il proprio ritmo in base alla quantità di ossigeno nei polmoni, il tasso di glucosio nel sangue e così via. Nella vita, la stabilità può essere confortante, ma molto pericolosa. Lo stesso si può dire per un’azienda. Adagiarsi sulla routine, stabilizzarsi sui parametri che ci hanno portato al successo può essere letale se questo ci impedisce di vedere il cambiamento in arrivo. L’accelerazione dei mutamenti tecnologici, di costume o politici portano sempre più spesso la clientela a considerare un prodotto obsoleto e a tradire il marchio abituale per un altro, più al passo con i tempi. Come si fa a evitare la stabilità che ha causato il crollo di Ibm nei primi anni Novanta? O che sta aprendo voragini nei bilanci di Sony in questi giorni? O che ha dato tanto filo da torcere a Fiat? L’unica risposta possibile alla velocità del cambiamento e al ciclo di vita sempre più breve dei prodotti, secondo Chris Meyer, è puntare tutto sull’adattabilità dell’impresa, con alcuni accorgimenti pratici tali da farla assomigliare al cuore sano e non al cuore malato. E non è il solo: da Stan Davis (Futuro Perfetto, Edizioni di Comunità) a Stephan Haeckel e Adrian Slywotsky (Adaptive Enterprise, Harvard Business School Press), da Ralph Stacey (Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Koehler Publishers) a Richard Pascale (Surfing on the Edge of Chaos, Tree Rivers Press), un’intera scuola di pensiero si sta formando sul concetto di convergenza tra biologia, informatica e business. Trarre dalla vita le proprie linee guida, trattando l’impresa come un organismo vivente e prendendo lezioni di adattamento dalla biologia, è già un sistema applicato in maniera più o meno consapevole da molti grandi executive. Gli algoritmi genetici sono ampiamente utilizzati per migliorare motori a reazione, programmi di produzione o modelli di credit-scoring. Ma per facilitare l’interazione fra questi mondi, che caratterizzeranno il volto dell’economia di domani, bisogna entrare in una mentalità gestionale basata sul tempo, in cui il costo del cambiamento non è più una spesa straordinaria ma un normale costo di gestione: dal return on equity al return on time. Per capire meglio questo approccio, basta guardare le aziende che lo usano già. Beyond Petroleum, ex British Petroleum, è uno degli esempi più citati. Lord John Browne, amministratore delegato del colosso britannico dell’energia, passa tutto il suo tempo a trasformare la volatilità da nemico in alleato. Impresa non facile in un mondo, come quello petrolifero, appassionato di stabilità e famoso per la refrattarietà al cambiamento. In Bp, invece, tutto è in movimento, a cominciare dal nome. Nei suoi sette anni al vertice, Browne è stato il primo a passare all’offensiva sul fronte ecologico, portando Bp a raggiungere il 20% della produzione mondiale di energia solare. E per vedere il futuro prima degli altri sta cercando di implementare il ciclo OODA (“osservare, orientare, decidere, agire”) più veloce del settore. In un ambito completamente diverso, quello finanziario, il campione dell’adattabilità è senz’altro Capital One. In soli sette anni di vita, Capital One è cresciuta fino a occupare il sesto posto nel gigantesco mercato americano delle carte di credito. I suoi fondatori, Richard Fairbank e Nigel Morris, hanno vinto la loro battaglia inventando il balance transfer, ovvero la possibilità di trasferire i propri debiti con altre società su una carta di credito erogata da Capital One a un tasso iniziale molto più basso. Ma questa invenzione non è nata dal nulla. Nel mondo di Fairbank e Morris, infatti, le idee proliferano a ritmi incalzanti e anche le più innovative hanno al massimo sei mesi di tempo prima che una folla di concorrenti invada il campo, annullandone l’utilità. Per vincere in questo ambiente Capital One si basa su una sperimentazione scientifica molto aggressiva, cercando di scoprire con centinaia di test diversi le esigenze di ogni singolo cliente e personalizzando al massimo le proprie offerte. La prima vittima di questo approccio è stato proprio il balance transfer, il loro cavallo di battaglia, abbandonato dopo soli di 18 mesi per raccogliere nuove sfide.

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Chris Meyer

“L’economia di domani è figlia delle scoperte scientifiche di oggi. Le nuove tecnologie sono i fatti con cui tutti i manager devono confrontarsi se vogliono restare competitivi. E la biologia è la chiave per affrontare l’imperativo dell’adattamento”. Chris Meyer, di passaggio a Milano per presentare alla business community italiana il suo libro Bioeconomia (Edizioni Olivares), prevede un’accelerazione crescente del ritmo a cui viaggia l’innovazione: il tasso di cambiamento raddoppia ogni dieci anni. L’autore di Blur, che ha teorizzato la rivoluzione internet dalla sua posizione privilegiata di direttore del Center for Business Innovation di Cambridge (Massachusetts) di Cap Gemini Ernst & Young, è convinto che come l’information technology ha rivoluzionato il mondo con i microprocessori e i modem, ora la convergenza fra tecnologie informatiche e ingegneria molecolare sta già per creare una nuova ondata, che rischia di cogliere impreparate le imprese incapaci di adattarsi.
Quale sarà la prossima ondata?
“La parola d’ordine del momento è connettività: tecnologie come Bluetooth, WiFi, Gps o i vari tipi di banda larga servono a facilitare le connessioni fra gli esseri umani, a renderle più veloci e più diffuse. Ma la nuova realtà che si sta già evolvendo da questa base è il dialogo fra le macchine. Tecnologie come il radio tag che presto andrà a sostituire il codice a barre sui prodotti dei supermercati, consentono d’instaurare un dialogo automatico fra il punto vendita e il produttore e di telecomandare dal basso i ritmi di produzione in base alle esigenze del mercato. Alla lunga, consentiranno anche d’instaurare un dialogo fra i capi d’abbigliamento e la lavatrice per impostare al meglio i cicli di lavaggio, fra il frigorifero e il supermercato per rifornire automaticamente le nostre case di quello che manca o fra il cibo e il forno per cucinarlo a puntino”.
Detto così, sembra fantascienza.
“Ma se dieci anni fa, quando il Cd-rom era stato appena immesso sul mercato e internet non era ancora entrata nella nostra vita quotidiana, le avessero raccontato come viviamo oggi, non le sarebbe sembrato fantascientifico?”
E quali sono le ricadute sul mondo del business?
“La prima ricaduta è che non si può più pensare d’impostare i modelli di produzione una volta per tutte: gli impianti devono essere aperti alla novità, capaci di evolversi in base alle nuove esigenze. E anche in questo la biologia ci può essere d’aiuto: alla John Deere, per esempio, vengono applicati i metodi di selezione impiegati nell’allevamento dei purosangue per ottenere il programma di produzione utilizzato nella fabbricazione di seminatrici. Quarantamila codici diversi corrono ogni notte sulle piste virtuali dei vari stabilimenti per selezionare le combinazioni migliori, basandosi su algoritmi genetici che ormai sono ampiamente utilizzati anche in altri settori, per esempio nell’analisi dei mercati azionari”.
Altri suggerimenti gestionali?
“Bisogna copiare la natura, utilizzando sei regole di base. Stimolare l’auto-organizzazione, gestendo sempre le imprese in direzione bottom-up, mai top-down. Utilizzare solo sistemi aperti, che consentano la ricombinazione dei codici informatici, delle caratteristiche dei prodotti, delle persone e dei mercati. Dotare la propria azienda di sistemi di percezione e reazione automatica, capaci di rispondere al cambiamento in maniera appropriata. Fare tesoro delle informazioni ricevute, incorporandole nei processi di apprendimento interno. Provare molte opzioni diverse, come nella selezione darwiniana, valorizzando quelle vincenti. Destabilizzare continuamente gli elementi statici della propria organizzazione, adattandosi al ritmo dei cambiamenti ambientali”.

L'adattabilità è il segreto del successo

Mettiamo a confronto i grafici di due elettrocardiogrammi: uno è apparentemente regolare e costante, l’altro invece presenta dei vistosi sbalzi. A occhio, il primo sembra “migliore” del secondo, ma non è così. Un battito cardiaco eccessivamente stabile indica che quel cuore è malato, perché non è in grado di adattarsi agli input ambientali, mentre l’apparente irregolarità indica la capacità di modificare il proprio ritmo in base alla quantità di ossigeno nei polmoni, il tasso di glucosio nel sangue e così via. Nella vita, la stabilità può essere confortante, ma molto pericolosa. Lo stesso si può dire per un’azienda. Adagiarsi sulla routine, stabilizzarsi sui parametri che ci hanno portato al successo può essere letale se questo ci impedisce di vedere il cambiamento in arrivo. L’accelerazione dei mutamenti tecnologici, di costume o politici portano sempre più spesso la clientela a considerare un prodotto obsoleto e a tradire il marchio abituale per un altro, più al passo con i tempi. Come si fa a evitare la stabilità che ha causato il crollo di Ibm nei primi anni Novanta? O che sta aprendo voragini nei bilanci di Sony in questi giorni? O che ha dato tanto filo da torcere a Fiat? L’unica risposta possibile alla velocità del cambiamento e al ciclo di vita sempre più breve dei prodotti, secondo Chris Meyer, è puntare tutto sull’adattabilità dell’impresa, con alcuni accorgimenti pratici tali da farla assomigliare al cuore sano e non al cuore malato. E non è il solo: da Stan Davis (Futuro Perfetto, Edizioni di Comunità) a Stephan Haeckel e Adrian Slywotsky (Adaptive Enterprise, Harvard Business School Press), da Ralph Stacey (Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Koehler Publishers) a Richard Pascale (Surfing on the Edge of Chaos, Tree Rivers Press), un’intera scuola di pensiero si sta formando sul concetto di convergenza tra biologia, informatica e business. Trarre dalla vita le proprie linee guida, trattando l’impresa come un organismo vivente e prendendo lezioni di adattamento dalla biologia, è già un sistema applicato in maniera più o meno consapevole da molti grandi executive. Gli algoritmi genetici sono ampiamente utilizzati per migliorare motori a reazione, programmi di produzione o modelli di credit-scoring. Ma per facilitare l’interazione fra questi mondi, che caratterizzeranno il volto dell’economia di domani, bisogna entrare in una mentalità gestionale basata sul tempo, in cui il costo del cambiamento non è più una spesa straordinaria ma un normale costo di gestione: dal return on equity al return on time. Per capire meglio questo approccio, basta guardare le aziende che lo usano già. Beyond Petroleum, ex British Petroleum, è uno degli esempi più citati. Lord John Browne, amministratore delegato del colosso britannico dell’energia, passa tutto il suo tempo a trasformare la volatilità da nemico in alleato. Impresa non facile in un mondo, come quello petrolifero, appassionato di stabilità e famoso per la refrattarietà al cambiamento. In Bp, invece, tutto è in movimento, a cominciare dal nome. Nei suoi sette anni al vertice, Browne è stato il primo a passare all’offensiva sul fronte ecologico, portando Bp a raggiungere il 20% della produzione mondiale di energia solare. E per vedere il futuro prima degli altri sta cercando di implementare il ciclo OODA (“osservare, orientare, decidere, agire”) più veloce del settore. In un ambito completamente diverso, quello finanziario, il campione dell’adattabilità è senz’altro Capital One. In soli sette anni di vita, Capital One è cresciuta fino a occupare il sesto posto nel gigantesco mercato americano delle carte di credito. I suoi fondatori, Richard Fairbank e Nigel Morris, hanno vinto la loro battaglia inventando il balance transfer, ovvero la possibilità di trasferire i propri debiti con altre società su una carta di credito erogata da Capital One a un tasso iniziale molto più basso. Ma questa invenzione non è nata dal nulla. Nel mondo di Fairbank e Morris, infatti, le idee proliferano a ritmi incalzanti e anche le più innovative hanno al massimo sei mesi di tempo prima che una folla di concorrenti invada il campo, annullandone l’utilità. Per vincere in questo ambiente Capital One si basa su una sperimentazione scientifica molto aggressiva, cercando di scoprire con centinaia di test diversi le esigenze di ogni singolo cliente e personalizzando al massimo le proprie offerte. La prima vittima di questo approccio è stato proprio il balance transfer, il loro cavallo di battaglia, abbandonato dopo soli di 18 mesi per raccogliere nuove sfide.