Pagine

23 dicembre 2011

Shale gas: arriva la rivoluzione, ma non per l'Italia

Il XXI secolo sarà l'era del gas naturale, così come il XX è stato l'era del petrolio. Grazie alla rivoluzione in atto da qualche anno nel mercato del gas, che fino alla fine del secolo scorso era ancillare a quello dell'oro nero, questo combustibile considerato un tempo di scarto sta diventando il vincitore della guerra tra fonti scatenata dalle disavventure del nucleare. Le nuove tecnologie di estrazione del metano da formazioni argillose, chiamate scisti, hanno liberato il potenziale di crescita del cosiddetto shale gas, che in pochi anni ha saturato il fabbisogno americano e ora abbonda, tanto che diversi operatori hanno cominciato a venderlo all'estero, inondando il mercato libero di materia prima. Le quotazioni del gas americano così si sono disaccoppiate da quelle del greggio e ai prezzi attuali sono molto più convenienti rispetto al gas europeo. Ma per approfittare di questa rivoluzione, ci vogliono gli impianti giusti, perché il gas americano arriva liquefatto via nave e per riceverlo servono terminali di rigassificazione.

L'Italia, invece, ha scelto i tubi: due terrestri, che ci portano il metano dal Mare del Nord e dalla Russia, e due sottomarini, provenienti dalla Libia e dall'Algeria. Queste infrastrutture, che fanno capo all'Eni, ci legano mani e piedi alle forniture provenienti da Paesi non proprio campioni di stabilità politica. E a contratti fissi detti take or pay, che ci inchiodano a prezzi oggi molto penalizzanti rispetto a quelli correnti sul mercato spot. Eppure l'Italia avrebbe un fortissimo interesse a ricevere metano a buon mercato, visto che manda avanti a gas anche il suo sistema elettrico, oltre alle industrie e al riscaldamento delle case. Siamo il quarto importatore mondiale di gas e l'unico Paese al mondo che alimenta il 60% delle sue centrali elettriche con il metano. Quel prezzo determina dunque anche la nostra bolletta elettrica. Per di più, se manca il gas, in Germania si resta al freddo, mentre da noi si resta anche al buio. Con 80 miliardi di metri cubi di fabbisogno, il nostro sistema produttivo beve gas quanto l'economia giapponese, che ha un Pil triplo. Ma il Giappone ha 28 rigassificatori, noi solo due: uno piccolo a Panigaglia, in Liguria, sempre del Cane a sei zampe, e uno più grande al largo di Rovigo, di ExxonMobil, QatarPetroleum e Edison.

Per fortuna, la rivoluzione del gas americano non è che all'inizio: il ministero dell'Energia stima le riserve di shale gas tecnicamente recuperabili in 187mila miliardi di metri cubi, che amplierebbero del 40% le riserve mondiali di gas. C'è sempre tempo per correggere il tiro.


20 dicembre 2011

Pechino si allea con Bill Gates per il rilancio del nucleare

Dopo la corsa ai primati mondiali sulla produzione industriale e sulle riserve di valuta, la Cina si avvia a diventare una superpotenza anche nel nucleare, non solo sul piano della capacità installata, ma anche dell'innovazione tecnologica.
La prima pietra del nuovo reattore nucleare di Ningde è stata posata giusto qualche settimana fa, ma il nuovo impianto situato nella provincia del Fujian dovrebbe diventare operativo già entro la fine del 2012, con i consueti tempi rapidi dei cinesi. Superato rapidamente lo shock di Fukushima, Pechino ora schiaccia l'acceleratore sul piano nucleare per ridurre la sua dipendenza dal carbone, che oggi copre quasi il 70% del fabbisogno energetico del Paese e contribuisce per l'83% alle sue emissioni di gas serra. Il piano nucleare messo a punto dal Dragone è senza dubbio il più importante per investimenti, impiego di tecnologia e tempi di realizzazione nella storia dell'industria atomica. Oggi, oltre la Grande Muraglia, sono in funzione 12 reattori, distribuiti su 4 centrali che hanno una capacità complessiva di 10mila megawatt annui. L'obiettivo di Pechino, secondo quanto previsto da una recente revisione del piano originario elaborato nei primi anni Duemila, è di aumentare la capacità atomica cinese a 70 gigawatt entro il 2020, tramite la costruzione di 28 reattori di nuova generazione. Di questi, una ventina sono già in costruzione e almeno una dozzina dovrebbe entrare in funzione già entro il 2015. Procedendo a questo ritmo, nel 2030 o forse anche prima Pechino arriverà a insidiare il primato degli Usa, con quasi 100 gigawatt installati. L'uranio per alimentarli sarà reperito in parte tra le mura di casa (lo Xinjiang è ricco di giacimenti e questa è la ragione per cui Pechino ha sempre stroncato sul nascere qualsiasi tentazione indipendentista della provincia dell'Ovest) e in parte sui mercati internazionali, dove il Dragone negli ultimi anni ha concluso numerosi accordi con grandi Paesi produttori come Australia e Kazakhstan.
Così la Cina, seguita dagli altri Paesi emergenti, si avvia a superare a passo di carica il parco di generazione nucleare di tutti i Paesi europei, salendo in pochi anni dal decimo al secondo posto nella top ten delle nazioni che sfruttano il nucleare civile, secondo un'analisi della società di ricerche americana Enerdata. La Russia salirà dal quarto al terzo posto, la Francia scenderà dal secondo al quarto e la Corea del Sud avanzerà dal sesto al quinto, mentre l'India e la Turchia entreranno nella top ten al settimo e all'ottavo posto. Il tutto per l'effetto combinato del post-Fukushima, che sta portando i Paesi occidentali ad abbandonare progressivamente l'atomo e i Paesi emergenti ad adottarlo, per soddisfare le crescenti necessità di energia non inquinante. Il piano cinese comporta un investimento complessivo di 120 miliardi di dollari, una cifra colossale che ha attirato come mosche al miele i grandi constructor internazionali come Areva, Westinghouse, Aecl, General Electric o Rostam, per i quali la scommessa cinese sul nucleare è una ghiotta e irripetibile opportunità di business. Ma non attira solo loro.

Bill Gates ha deciso di scommettere sul nucleare cinese per realizzare il suo vecchio sogno di sviluppare un nuovo tipo di reattore, più pulito ed efficiente, che produrrebbe meno scorie e potrebbe funzionare per anni senza integrazioni del combustibile. Il fondatore di Microsoft vorrebbe offrire ai cinesi l'opportunità di sviluppare insieme un reattore a onde progressive (Traveling Wave Reactor), già progettato dalla società ingegneristica TerraPower. Il contributo alla ricerca, in partnership tra il multimiliardario e la China National Nuclear Corporation, è stato valutato in un miliardo di dollari per i prossimi cinque anni. 
TerraPower starebbe cercando un Paese per ospitare il reattore sperimentale, impossibile da costruire in tempi rapidi negli Stati Uniti a causa della legislazione vigente. E la Cina sembrerebbe il candidato più probabile per avviare la sperimentazione. I contatti fra Gates a la Cnnc vanno avanti dal 2009, ma la notizia dell'accordo è trapelata nei giorni scorsi, quando il general manager del colosso cinese Sun Qin ha rivelato: "Gates sta lavorando con noi". Il contributo di Gates, notoriamente a favore del nucleare, che considera una soluzione migliore delle rinnovabili (definite "soluzioni attraenti per il mondo ricco") per i Paesi in via di sviluppo, potrebbe consentire alla Cina un rapido balzo in avanti anche sotto il profilo della tecnologia, finora sempre comprata all'estero.
Il ruolo chiave per l'intera industria, insomma, sta passando alla Cina, non solo per i 28 reattori in fase di realizzazione, ma anche per le innovazioni innescate in prospettiva da questo gigantesco programma.

19 dicembre 2011

Terna contro tutti nella guerra delle batterie

La parola d'ordine è: batterie. Non quelle per l'auto, ma molto più grandi, da inserire negli snodi della rete su cui insistono gli impianti eolici o fotovoltaici, che con la loro intermittenza rischiano di mettere ko il sistema elettrico dei Paesi in cui stanno crescendo di più, come l'Italia. La corsa ai sistemi di accumulo, che consentono di stoccare l'energia prodotta in eccesso e poi rilasciarla nei momenti di picco, quando costa di più e dà più soddisfazioni al produtore, si è aperta anche da noi. Ed è subito rissa.

Il problema è: gli accumuli sono di pertinenza della rete ad alta tensione, dei distributori in media e bassa o dei produttori di energia elettrica? Terna sostiene che sono affar suo e mette a gara 130 megawatt di batterie. La società guidata da Flavio Cattaneo ha appena pubblicato un bando europeo per dotarsi di questo strumento nuovo. E si è alleata con Legambiente per sviluppare una collaborazione e uno scambio d'informazioni sull'impatto ambientale in materia, volto a facilitare l'autorizzazione delle opere in programma. Ma non tutti sono d'accordo sui piani di Terna, che dovrebbe limitarsi, secondo alcuni, a costruire le autostrade dell'energia, di cui c'è sempre più bisogno, senza occuparsi di fonti rinnovabili, tipicamente distribuite sul territorio là dove le grandi reti ad alta tensione non arrivano.
Nella logica dell'utilizzo dell'energia da fonti rinnovabili vicino a dov'è stata prodotta, infatti, l'Authority per l'Energia ha appena promosso otto progetti pilota per sperimentare sistemi di gestione intelligente delle reti di distribuzione locali dell'energia, in cui Enea, A2A, Acea e altre società di distribuzione useranno anche sistemi di accumulo molto avanzati, come le grandi batterie agli ioni di litio installate dall'Enel nel progetto di Isernia, che dovranno stoccare l'elettricità prodotta dai campi eolici e fotovoltaici circostanti in una cabina primaria, dove finisce la rete di trasmissione di Terna e comincia quella di distribuzione, dell'Enel.
D'altra parte le associazioni dei produttori, da Assoelettrica a Federutility, sono convinti che i sistemi di accumulo invece siano un sistema di produzione come un altro e quindi siano affar loro, che finora se ne sono occupati sfruttando la capacità di stoccaggio dei grandi bacini idroelettrici. Soprattutto, chiedono maggiore prudenza sulle procedure e maggiore trasparenza sui costi. Terna non si dà per vinta e lancia il bando, proprio mentre escono le direttive sulla nuova composizione delle tariffe dell'Autorità per l'Energia, che prevedono una maggiorazione del 2% sul tasso di remunerazione dell'investimento per i progetti pilota su questo tipo di accumuli. Appena uscito il documento, che invece limita al 7,2% il tasso di remunerazione degli investimenti per le attività di trasmissione dell'energia, le azioni di Terna sono precipitate in Borsa del 6%. Cattaneo, che chiedeva di alzare la remunerazione all'8% dal 6,9% attuale, ora minaccia di non poter portare a termine gli investimenti nella rete previsti dal piano strategico. Nella guerra in corso fra Terna e le società di produzione, così, s'inserisce l'Authority. Basta che alla fine non ci rimetta la rete.

18 dicembre 2011

E' scoppiata la bolla del sole, ora si punta sulla grid parity

La corsa all'oro è finita. Dopo l'anno del boom, arriva la frenata per il fotovoltaico mondiale. Il crollo del prezzo dei pannelli, che da un lato favorisce la diffusione di questa tecnologia, dall'altro manda in crisi l'industria. E così anche in Italia si profilano le prime chiusure: il colosso americano Memc ha deciso di fermare lo stabilimento di polisilicio di Merano, dov'era stata inaugurata la terza linea produttiva appena un anno fa. Per Memc, che in Italia ha un altro stabilimento a Novara, non è una crisi locale, ma globale: ridurrà anche la capacità degli stabilimenti di Portland, in Oregon, e Kuching in Malesia. I tagli colpiranno oltre 1.300 lavoratori, il 20% del totale. Al fine di ridurre i costi, le unità di business Solar Materials e SunEdison saranno fuse dal prossimo 1° gennaio. E lo stabilimento da 6.000 tonnellate l'anno di Merano, che sta mettendo 200 lavoratori in cassa integrazione a zero ore, potrebbe essere chiuso "se non saranno raggiunte nel breve periodo drastiche riduzioni dei costi", su cui la società sta lavorando con la Provincia di Bolzano.
L'ombra di Solyndra, l'azienda che un anno fa era stata definita da Obama un esempio da imitare e in ottobre ha portato i libri in tribunale, si allunga così anche sul mercato di casa nostra. Proiettato a velocità astronomica dai generosi incentivi concessi negli anni scorsi da molti governi, soprattutto europei, il fotovoltaico internazionale rischia ora di rimanere vittima del suo stesso impeto, schiacciato dall'eccesso di capacità produttiva e di scorte. Quest'anno infatti i Paesi sviluppati (e non solo) si trovano a fare i conti con l'escalation dei debiti pubblici e i sussidi sono stati tagliati un po' dappertutto. Il calo della domanda derivato dal taglio degli incentivi sta provocando e continuerà a provocare un eccesso produttivo di materia prima, moduli e pannelli, che avrà le conseguenze negative più pesanti sugli operatori europei.

 Con un 20% di produzione in eccesso rispetto alla domanda, il prezzo del silicio policristallino è crollato del 93%, a 33 dollari al chilo rispetto ai 475 di tre anni fa. Quanto al prezzo dei moduli, ha registrato quest'anno un crollo del 40% dovuto all'avvio di nuove linee produttive in Asia proprio nel momento in cui i governi occidentali riducevano drasticamente gli incentivi per contenere i deficit e i prezzi dell'elettricità. Di conseguenza, le previsioni dei vari centri studi concordano sull'inesorabile discesa del valore azionario delle società del settore. La stessa Fitch ha "tagliato il rating" del fotovoltaico con un'analisi appena uscita. Il Bloomberg Global Leaders Solar Index, che monitora l'andamento dei titoli delle principali aziende fotovoltaiche quotate, risulta dimezzato: all'inizio di dicembre è sceso sotto i 50 punti rispetto al valore base dell'indice, che era stato fissato a 100 il 31 marzo 2009.
In questo panorama grigio, però, restano alcuni sprazzi di sole: all'inizio di dicembre è stato allacciato alla rete il milionesimo impianto fotovoltaico della Germania, sul tetto dell'Istituto per la ricerca sportiva a Berlino: l'associazione dell'industria fotovoltaico tedesca, Bsw-Solar, sottolinea che la Germania è il primo Paese al mondo per capacità fotovoltaica installata, con 17,2 gigawatt alla fine del 2010, cui si aggiungeranno quest'anno altri 5-6 gigawatt. In Italia continuano a ritmo continuo gli allacciamenti: Enel Green Power ha appena connesso un impianto da 5 megawatt in Sicilia, vicino a Enna. L'indiana Moser Baer ha realizzato insieme a General Electric un parco da 20 megawatt su 26 ettari di serre in Sardegna, non lontano da Cagliari. Nell’ex area mineraria di Santa Barbara, in Toscana, è statao inaugurato la settimana scorsa un parco da 10 megawatt. La tedesca Juwi ha inaugurato un impianto da 3,1 megawatt vicino a Viterbo. Il gruppo Kinexia ne ha realizzato un altro da 11 megawatt a Latina. TerniEnergia ha annunciato che sono in corso di realizzazione 6 impianti per complessivi 20 megawatt nel Lazio, in Puglia, Calabria e Sicilia. Il fotovoltaico italiano, quindi, continua a crescere e la riduzione del prezzo dei pannelli si sta rivelando un bel vantaggio per chi installa e finanzia i progetti. In complesso, quest'anno gli investimenti nel settore hanno superato i 2,8 miliardi, secondo uno studio di Althesys.
Come in tutti i cicli, insomma, l'abbassamento dei prezzi porta qualche mal di pancia, ma innesca la ripresa. Fitch Ratings ritiene che il settore ripartirà nel 2013, quando arriveranno sul mercato le ultime innovazioni della tecnologia fotovoltaica e l'avvio della terza fase del sistema di emission trading Ue accrescerà il costo di generazione elettrica da fonti fossili. Anche Bloomberg New Energy Finance fissa al 2013 la ripresa della domanda, che finalmente deriverà non più dai sussidi pubblici ma dal graduale miglioramento della competitività del solare rispetto alle fonti fossili (la cosiddetta grid parity), soprattutto nei Paesi più assolati.

4 dicembre 2011

Le isole italiane laboratori ideali per rinnovabili e smart grid

Isole intelligenti nei mari nordici ce n'è già tante. Dalla danese Bornholm alle britanniche Orcadi, nei Paesi dove le tecnologie digitali sono più diffuse le isole sono i tipici banchi di prova delle smart grid. E nel Mediterraneo? All'Italia non mancherebbe la materia prima. Le nostre isole vanno tutte a gasolio, con inquinamento rampante e inefficienze macroscopiche. Basta fare un giro a Stromboli o a Pantelleria per rendersene conto, con tutte le ricadute pestilenziali e l'inquinamento acustico del caso. Eppure molte delle nostre isole rientrano nella "sun belt" del pianeta, quella dove l'energia del sole ha già raggiunto la grid parity, ovvero la competitività con i combustibili fossili. Per non parlare del geotermico cui si potrebbe attingere in aree tipicamente vulcaniche. O dell'eolico offshore, visto che lungo le coste delle isole il vento non manca mai. Sembrano location da manuale per ospitare un mix di rinnovabili e reti intelligenti, abbinate all'uso dei veicoli elettrici, con potenziali ricadute sul turismo di fascia alta, soprattutto dai Paesi del Nord. "Peccato non avere tanti progetti pilota con diversi modelli di business in tutte le isole italiane", suggerisce Antonio De Bellis, vicepresidente di AssoAutomazione in Anie e responsabile per il Mediterraneo dell'unità di business sulle smart grid in ABB. "Sarebbero dei laboratori straordinari, da cui trarre modelli da far studiare alla Bocconi e diffondere poi nel resto del mondo", precisa De Bellis. "In questo modo si aprirebbe il mercato a diverse tecnologie, portando benefici un po' a tutti, senza vincitori né vinti", aggiunge. Studi in materia ce ne sono già. L'Enea ha concepito un progetto molto dettagliato per fare di Pantelleria un'"isola verde", alimentata a fonti rinnovabili e dotata di una rete intelligente per la gestione efficiente del sistema. Insieme alla S.Med.E, che gestisce la produzione e la distribuzione dell'energia elettrica nell'isola, ha fatto anche un calcolo dei costi, nell'ordine dei 17 milioni di euro, compensati da benefici di 500mila euro all'anno. Ma il progetto resta un bel sogno.


2 dicembre 2011

10 miliardi all'anno per colmare il gap infrastrutturale

L'Italia ha un serio problema di infrastrutture, soprattutto nel Mezzogiorno dove le aziende di servizi pubblici locali sono poche e di piccole dimensioni. Per colmare le differenze tra Nord, Centro e Sud, servirebbero quasi 10 miliardi all'anno: 2,13 miliardi per l'acqua; 0,92 miliardi  nel gas; 3,6 miliardi per i rifiuti e l'igiene urbana; 1,13 miliardi per il trasporto pubblico locale su gomma e 2 miliardi per la rete delle metropolitane, per un totale di 9,78 miliardi. Sono alcuni delle cifre dello studio sui servizi pubblici locali e lo sviluppo territoriale, realizzato da Confservizi, Nomisma e Unicredit  e presentato stamattina a Verona. Emergono, però, il  problema dell'incertezza normativa degli ultimi anni - dal referendum di giugno su acqua, rifiuti e trasporti al decreto di ferragosto - che rende difficile la realizzazione degli investimenti e la mancanza di risorse da parte degli enti locali, che rende difficile il reperimento di risorse.
Nonostante questo i servizi pubblici locali continuano a svolgere una importante funzione anticiclica, crescendo da anni più del PIL anche nei momenti di flessione dell’economia. Un settore con oltre 186 mila occupati ed un fatturato complessivo di 36,963 mld di euro che anche nel periodo di crisi (2008-2009) cresce del 5% a fronte di altri settori industriali che in media perdono il 7%  (fonte Mediobanca). Una spiegazione è anche nel fatto che dedicano all’economia reale, impianti ed infrastrutture, il 43% delle degli investimenti (contro il 22% degli altri settori industriali) e sostanzialmente sono lontani dalle incertezze della finanza, cui dedicano appena l’8,5% degli investimenti (contro il 26% degli altri settori).


30 novembre 2011

Messaggio da Wall Street: Datevi una mossa!

UN’ALTRA batosta per i titoli di Stato italiani, con il nuovo BTp triennale collocato ieri a un rendimento record del 7,89%.
E allora, cosa significa? I mercati puntano sul default imminente dell’Italia?


«Il mercato sta scontando una probabilità del 30-40% che l’Italia vada in default nel giro di tre mesi. Un aumento del tasso d’interesse del 2% equivale a un maggior costo di servizio del debito di 7 miliardi di euro all’anno, cioè 80 miliardi fino a scadenza. L’Italia può emettere titoli di debito a questo costo al massimo per tre-quattro mesi, non di più», risponde Ruggero De Rossi, operatore a Wall Street sui debiti sovrani.
Quindi il cambio di governo non è servito a nulla? «Qui siamo tutti estremamente delusi dalla mancanza di determinazione di questo nuovo governo italiano. E’ difficile capire perché un premier che ha il pieno consenso di tutto il Parlamento tranne la Lega non abbia ancora agito a due settimane dall’insediamento, in una tale situazione di emergenza».
Beh, diamogli almeno il tempo di nominare i ministri... «Qui non è questione di nomine, ma di decisioni da prendere. Le decisioni, data la situazione, possono essere assunte anche da una persona sola, basta che siano quelle giuste. Invece le voci che corrono ci fanno temere il peggio».
In che senso? «Facendo un rapido calcolo, qui stiamo andando verso una manovra da 10-11 miliardi di euro. Ma non avevamo bisogno di un governo di tecnici per produrre un intervento così ridotto. Di fronte a una ricchezza complessiva degli italiani stimata a quasi 8mila miliardi di euro, una mini-patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni al di sopra di un milione di euro non può avere alcun effetto. Per di più, non mi sembra sia prevista una vera riforma del mercato del lavoro, per renderlo più flessibile, togliendo l’articolo 18».
Suggerimenti? «Se il governo italiano vuole salvare il Paese dalla bancarotta, ci vorrebbe una patrimoniale del 5%, non dello 0,5%, colpendo solo i grandi patrimoni naturalmente. In questo modo si otterrebbe anche una ridistribuzione della ricchezza, molto opportuna in un Paese dove il fisco perde ogni anno, per colpa dell’evasione, almeno il 20% delle entrate che gli sono dovute».
Il 5%? Sarebbe una mazzata colossale... «Sempre meglio che andare in default. Quando è andata in bancarotta, l’Argentina ha dovuto svalutare del 70% la sua moneta, quindi i suoi abitanti hanno perso il 70% del loro patrimonio, altro che 5%! Questo sì che sarebbe un danno colossale per l’Italia. Disastri di questo tipo bloccano un Paese per dieci o vent’anni».
L’Europa non può proteggerci? «Certo, si può sempre ricorrere alla Bce per ridurre il debito e ricapitalizzare le banche. Ma in quel caso l’Italia dev’essere disposta a perdere la propria sovranità fiscale. Non sarebbe meglio cercare di salvarsi da soli?».

28 novembre 2011

La Cina fa shopping nel Regno Unito, l'Italia resta scettica

China Investment Corporation, fondo sovrano di investimenti cinese, ha deciso di investire nelle infrastrutture europee, per stimolare la crescita economica globale. Lou Jiwei, presidente del Cic, parte dall'alta velocità inglese, in particolare dalla linea destinata a collegare Londra con il Nord del Paese: il progetto ha attirato l'attenzione del colosso di Pechino, che ha in tasca 410 miliardi di dollari di risorse (quasi l'equivalente del fondo salva-Stati europeo, tanto per dare un'idea delle dimensioni). Il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, che sta cercando all'estero le risorse per rilanciare le infrastrutture inglesi, si è già detto aperto all'offerta cinese. Londra non ha certo paura di farsi "soffiare sotto il naso" pezzi importanti dell'economia nazionale, infatti è sempre ai primi posti nella classifica globale degli investimenti esteri. L'Italia, invece, è sempre agli ultimi posti, intralciata dalle eterne pastoie nazionalistiche che hanno impedito la realizzazione di un rigassificatore finanziato da British Gas, che hanno ritardato di anni l'internazionalizzazione di Edison o la cessione della compagnia di bandiera a Lufthansa (per venderla poco dopo, e peggio, a AirFrance). Ora la Cina busserà alla nostra porta per Eni, Enel e Finmeccanica. Potrebbe essere un'opportunità per tagliare il debito e magari anche qualche dirigente corrotto. Nessun dubbio sul tenore della risposta.

15 novembre 2011

Deaglio, cominciamo da una patrimoniale mirata

Non c'è da meravigliarsi, per Mario Deaglio, se l'Italia resta al centro della bufera anche dopo la svolta politica che ha portato alle dimissioni di Silvio Berlusconi. "Per forza, i mercati avevano creduto che la strada di Mario Monti corresse parallela a quella di Papademos in Grecia, invece poi hanno capito che Monti avrà molte più resistenze e difficoltà da superare, per cui lo spread con la Germania ha ripreso a salire", spiega l'economista torinese alla presentazione del sedicesimo Rapporto sull'economia globale e l'Italia, promosso dal Centro Luigi Einaudi insieme a Ubi Banca e da lui curato. "Come stupirsene - aggiunge Deaglio - dopo le dichiarazioni di alcuni esponenti del centro destra?" 

E' chiaro, in base al suo studio, che l'Italia si avvia in ogni caso verso un periodo difficile. "C'è stato un rimbalzo, non una vera ripresa, con le vendite delle imprese basate soprattutto sul magazzino e la produzione ancora ferma, com'è tipico della false riprese", rileva. "Sul lungo periodo, bisognerà decidere seriamente su cosa vuole puntare questo Paese", continua Deaglio. "Un tempo le innovazioni tecnologiche italiane in tutti i settori chiave, dalla chimica all'informatica, dall'energia all'automotive, contribuivano a orientare le prospettive future dell'umanità. Eravamo centrali nel panorama mondiale della produzione industriale. Oggi ci siamo ritirati in una nicchia, dove facciamo prodotti che tutti ci invidiano, ma che non spostano i destini del pianeta. Possiamo anche continuare a fare solo borsette, ma dobbiamo essere consapevoli della posizione marginale in cui rischiamo di essere collocati", fa notare con tristezza.
Le prospettive non sono rosee nemmeno per l'Europa, che rischia l'irrilevanza rispetto ai nuovi equilibri che si vanno formando nellarea del Pacifico. Ma soprattutto, nell'immediato, l'Europa rischia fortemente la perdita dell'unità monetaria. Dei quattro scenari possibili delineati dallo studio, solo quello più roseo potrebbe salvare la moneta unica. Già nel secondo scenario, Deaglio vede come probabile la divisione dell'unione monetaria almeno in due aree, quella dell'euro Nord e quella dell'euro Sud. "Se la tempesta dei mercati restasse concentrata solo sull'Italia, l'unione monetaria potrebbe ancora cavarsela, ma se si abbatterà anche sulla Francia, così come sembra, il destino dell'euro è segnato", precisa Deaglio. Nei due scenari più pessimistici, poi, per la moneta unica non c'è scampo. Se le soluzioni "alla Monti" non dovessero funzionare, l'unica via d'uscita sarebbe la ristrutturazione programmatica dei debiti pubblici, per evitare un default disordinato. "Sembra un'enormità, ma in realtà l'Italia l'ha già fatto due volte nel secolo scorso, con Giolitti e con Mussolini".
Per quanto riguarda la missione del governo Monti, "non c'è dubbio che al primo posto bisogna mettere il recupero della seggiola che abbiamo perso nei vertici decisivi a Bruxelles". L'Italia pesa molto sul Pil dell'Unione Europea: "Non è possibile che non abbiamo voce in capitolo sulle decisioni fondamentali". Ma per riguadagnare la credibilità necessaria, bisogna rimettere sui binari il sistema Italia che stava deragliando. Come? Patrimoniale chirurgica, vendita delle riserve auree, taglio alle spese militari. E poi interventi forti sul mercato del lavoro, dove Deaglio stima una disoccupazione olrmai arrivata a 6 milioni, il doppio di quella ufficiale. Su un mercato così ingessato bisogna intervenire con misure strutturali, anche eliminando l'articolo 18. "Altrimenti le nostre imprese andranno a fondo insieme ai lavoratori".

9 novembre 2011

Bordignon: la solvibilità dell'Italia è in dubbio

"Se continua così andiamo in fallimento". Massimo Bordignon, docente alla Cattolica ed ex-membro della Commisione tecnica sulla spesa pubblica presso il ministero del Tesoro, sa di che cosa parla.

Cosa comporta per i conti pubblici un rendimento dei Btp oltre il 7%?
"Un premio di rischio così alto mette in questione la solvibilità del Paese in quanto tale. In pratica, se gli investitori scappano dai titoli di Stato italiano, come sta succedendo adesso, lo Stato non riesce più a finanziarsi sul mercato e quindi non può più pagare gli stipendi pubblici, le pensioni e via dicendo. Se lo Stato non è più solvente, va in fallimento".
Ma quando si arriva a un punto di non ritorno?
"Questa è la domanda da un milione di dollari. Se fossimo capaci di dare la risposta giusta, potremmo guadagnarci sopra un sacco di soldi. Non si può sapere con precisione quando la fuga degli investitori diventa precipitosa e la situazione deraglia. Però ci siamo molto vicini".
C'è modo di bloccare questo processo?
"E' molto difficile: per bloccare questo processo bisognerebbe ridare fiducia agli investitori, in modo che smettano di scappare dai nostri titoli di Stato. E quindi servirebbe un governo tecnico che mettesse dalla stessa parte il 70% del Parlamento, per prendere una serie di provvedimenti impopolari, come il taglio delle pensioni o la patrimoniale. Se non c'è un governo di larghe intese, i provvedimenti impopolari non si riescono a fare, perché chi è al governo teme sempre di far guadagnare troppi consensi all'opposizione. Mentre se i provvedimenti si prendono insieme, con il concorso di tutti, questo problema non c'è".
Ma se non si riesce a convincere gli investitori, c'è qualche altra soluzione?
"Ci vorrebbe una barriera di protezione che consentisse all'Italia di finanziarsi anche senza andare a chiedere soldi alle condizioni di mercato, ma con tassi d'interesse più bassi. Per fare questo, però, Francia e Germania dovrebbero prendere una decisione chiara, che finora non hanno preso. L'unica che al momento potrebbe fare un'operazione di questo tipo è la Bce, perché è l'unica che ha i soldi per farlo".
E il fondo salva-Stati?
"Ma no, il fondo salva-Stati non ha abbastanza soldi per salvare l'Italia. Al massimo può servire per la Grecia o per il Portogallo. E poi per ampliare il suo budget si sono affidati a tecniche di finanza creativa, figuriamoci..."
Quindi l'unica difesa è la Bce?
"Se la Bce annunciasse ai mercati 'stanziamo mille miliardi per comprare titoli di Stato dei Paesi sotto attacco', il problema sarebbe risolto".
Ma in fondo lo sta già facendo...
"Non abbastanza. E non in maniera pubblica. Se potesse stanziare una cifra sostanziosa e fare un annuncio chiaro, innalzerebbe una barriera di difesa sufficiente per proteggerci".

4 novembre 2011

Zingales: ritorna in scena l'euro a due velocità

Che cosa succede se la Grecia va in default? Questa è la domanda del giorno: sembra banale, ma nessun economista ha una risposta certa. "In un mondo ideale, non dovrebbe succedere nulla", risponde Luigi Zingales, uno dei più quotati economisti italiani, professore all'università di Chicago e autore insieme a Raghuram Rajan di "Salvare il capitalismo dai capitalisti".

Come nulla?
"Ma sì, nulla. Prima di tutto le dimensioni dell'economia greca sono molto contenute, per cui non è un gran danno. E poi ormai lo sanno anche i bambini delle elementari che la Grecia è in bancarotta, quindi tutti dovrebbero aver già preso le proprie precauzioni".
Fa bene a usare il condizionale, perché sappiamo che non è così.
"Purtroppo non è mai così. Anche quando c'è stato il crack Lehman, lo sapevamo tutti, ma non tutti avevano preso le precauzioni del caso. Il Reserve Fund, ad esempio, aveva in tasca centinaia di milioni di titoli emessi da Lehman quando la banca è andata in fallimento. Questo ha generato il panico sui mercati monetari, causando una fuga disordinata degli investitori, che ha messo in moto la crisi finanziaria in cui ci troviamo ancora".
Potrebbe scattare un meccanismo analogo anche con il default della Grecia?
"Potrebbe. Il problema è che non sappiamo con certezza quanti titoli greci abbiano in tasca le banche, soprattutto quelle francesi. La reazione di Nicolas Sarkozy, così radicalmente contraria al fallimento della Grecia, può essere interpretata in molti modi. Il più facile è che lui invece lo sappia. La preoccupazione di Sarkozy, quindi, mi preoccupa".
Quindi ci avviciniamo a un nuovo settembre 2008?
"Peggio, direi. Allora si diceva che lo Stato poteva risolvere il problema. Oggi è lo Stato all'origine del problema. Purtroppo il sistema bancario europeo è legato a doppio filo ai debiti sovrani, perché la Bce ha spinto le banche a comprarne tanti. Ma alla fine questo potrebbe diventare un abbraccio mortale per tutti e due".
Se la Grecia andasse in default, dovrebbe uscire dall'euro?
"Non necessariamente, anzi, direi che è improbabile. Per la Grecia resuscitare la dracma avrebbe un solo vantaggio: potrebbe svalutare la sua moneta, quindi aumentare la competitività dei suoi prodotti e dare un po' di fiato alla sua economia. Ma non dimentichiamo che per uscire dall'euro la Grecia dovrebbe anche rinominare in dracme tutti i suoi debiti. Finché si tratta di debiti sovrani, questo si può ancora fare. Ma i debiti fra privati non possono cambiare valuta e quindi le società private greche si troverebbero ad avere entrate in dracme, molto svalutate, e debiti in euro, insostenibili. Tutte le grosse società greche, quindi, andrebbero subito in bancarotta".
Quindi uscire dall'euro le costerebbe troppo caro?
"Esattamente. L'opzione meno costosa, per la Grecia e anche per l'Italia in caso venisse travolta dal panico sui mercati, sarebbe di sdoppiare l'eurozona in un euro Nord e un euro Sud. Questo non comporterebbe dei fallimenti a catena".
Ma sarebbe comunque un'ipotesi molto estrema...
"Sì, molto estrema. Con conseguenze di vastissima portata".
Quante probabilità ci sono che questa opzione si avveri?
"Non vorrei fare l'uccello del malaugurio, anche perché di solito ci piglio. Ma sul mercato delle scommesse si dà al 40% la probabilità che un Paese dell'euro esca dall'eurozona entro la fine del 2012. Quindi si tratta di un'eventualità abbastanza realistica".

2 novembre 2011

De Rossi: la fiducia dei mercati nell'Italia è scaduta

"La fiducia dei mercati nell'Italia non esiste più". E' l'amara constatazione di Ruggero De Rossi, che da Wall Street osserva la discesa agli inferi del suo Paese. De Rossi, definito 'genio dei bond' dall'autorevole settimanale americano Barron's per le ottime performance del suo fondo Tandem Global Partners, è convinto che non ci siano soluzioni per l'Italia senza un rapido cambio di governo.


Lei sta vendendo titoli italiani?
"Certamente: il profilo di rischio dei miei clienti non mi consente di tenere titoli così rischiosi in portafoglio".
E non è l'unico. Ma perché li considerate così rischiosi?
"Perché le probabilità per l'Italia di andare in default sono ormai alte".
Malgrado i provvedimenti promessi da Berlusconi a Bruxelles?
"Berlusconi ha presentato una serie di misure utili, ma il problema è che vanno implementate. Rapidamente. Ma è possibile far passare in tempi rapidi una legge per rendere più flessibile il mercato del lavoro italiano? Non credo. Berlusconi non ha né la volontà politica né la maggioranza numerica per farlo. E questo i mercati lo sanno. I mercati non credono alle promesse vuote".
Che cosa vorrebbero sentire?
"Vorrebbero sentire che domani Berlusconi liberalizza il mercato del lavoro italiano, dopodomani taglia in maniera consistente la spesa pubblica e il giorno dopo ripristina l'Ici. Non fra sei mesi o un ann, perché fra sei mesi o un anno l'Italia sarà già andata in default e non servirà a niente".
E quindi qual è la soluzione?
"Mandare a casa un governo che ormai non ha più credibilità e insediarne un altro di transizione, che faccia uno sforzo bipartisan per far passare rapidamente le riforme che servono per ridurre il debito pubblico, portare il Paese alla crescita e strada facendo ricapitalizzare le banche italiane".
Ma come, le banche italiane non passano per essere in condizioni migliori di tante altre banche europee?
"Questo ci viene detto dalla Banca d'Italia, ma perché dovremmo crederle quando abbiamo appena appreso che l'ex-governatore è stato condannato a tre anni e mezzo di galera? Anche lui sosteneva che le banche italiane sono sane, soprattutto la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, ma avremmo fatto bene a credergli? Non mi sembra".
E' per questo che le banche italiane precipitano in Borsa?
"Certo. Il problema è che la ricapitalizzazione delle banche è strettamente legata alla ristrutturazione del debito greco. Senza l'una non si può fare l'altra, perché non si saprebbe di quanto ricapitalizzarle".
E se la Grecia dovesse andare a referendum?
"Se la Grecia dovesse davvero andare a referendum, sarebbero guai grossi per l'Italia. Un referendum ci farebbe perdere altri due mesi. Due mesi nei quali Atene sarebbe sicuramente destinata ad andare in default, perché in breve tempo lì finiranno i soldi. E comunque finirebbe per uscire dall'euro, per non accollarsi i sacrifici necessari a starci dentro oppure spinta dal default".
E l'Italia cosa c'entra?
"Uno dei commenti più pazzeschi che ho sentito durante il fine settimana è stato quello di Berlusconi sull'euro, definita 'una moneta strana'. Uscita la Grecia dall'eurozona, è evidente che i mercati si aspetteranno l'effetto contagio. E chi ci assicurerebbe che non faccia la stessa fine anche l'Italia? Con dei commenti così da parte del suo presidente del Consiglio, direi nessuno".

1 novembre 2011

Perotti: gli investitori non si fanno prendere in giro

Dopo l'euforia post-vertice di Bruxelles, con i mercati in festa, per l'Italia è arrivata la doccia fredda dell'asta Btp, con i rendimenti alle stelle: per comperare i titoli italiani, gli investitori chiedono di più. "Evidentemente si sono accorti che il vertice di Bruxelles non ha risolto tutto", commente Roberto Perotti, l'economista della Bocconi che insieme a Luigi Zingales ha stilato un decalogo di misure per portare subito in pareggio i conti pubblici italiani.


Che cos'è successo?
"E' successo che chi investe in titoli di Stato italiano non si fa prendere in giro dalle operazioni di marketing di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy: al vertice di Bruxelles hanno suonato la grancassa sulla moltiplicazione dei soldi a disposizione del fondo salva-Stati, ma in realtà i soldi sono sempre gli stessi, 250 miliardi, e non è vero che si possono moltiplicare per quattro".
Quindi ci hanno detto una bugia?
"Hanno cercato di tranquillizzare i mercati, ma in realtà è chiaro a tutti che il fondo non sarebbe in grado di salvare l'Italia o la Spagna, se venissero giù. Quindi il vertice di Bruxelles ha raggiunto alcuni risultati, ma non ha messo la parola fine al problema".
Quali sono le implicazioni per l'Italia?
"Quelle che vediamo. Rendimenti più alti significa maggiori costi per il servizio del debito, che gravano sul bilancio dello Stato. Alla lunga il peso potrebbe diventare insostenibile".
Come ridurli?
"Dando ai mercati un segnale chiaro: l'Italia deve fare un aggiustamento di bilancio più marcato di quello che ha fatto fino ad oggi, perché la Germania, la Francia, l'Olanda e gli altri non pagheranno per noi se andiamo in default. Dobbiamo farcela da soli".
E la lettera di Berlusconi?
"Anche quella è un'operazione di marketing. Sono buoni propositi, ma non sono realistici. Non è possibile che la Merkel non si renda conto che i problemi di bilancio dell'Italia non si possono risolvere con una lettera scritta in 3 ore, se non li abbiamo risolti in 15 anni..."
Nella pratica, cosa si aspettano i mercati?
"Fatti, non parole. Non ci vuole moltissimo, non è che ci chiedano un taglio delle spese macroscopico, come quello fatto ad esempio dall'Indonesia nel '97, ma bisogna tagliare la spesa almeno del 2-3% del Pil, con provvedimenti decisi".
Ad esempio?
"Nel nostro decalogo ne elenchiamo vari, ma su una spesa pubblica che pesa il 48% del Pil, qualsiasi taglio alla macchina dello Stato va bene: i costi della politica, gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sanità, le pensioni, le grandi opere, i sussidi alle imprese. Si è fatto l'esempio di dimezzare i deputati: va bene anche quello. L'importante è dare un segnale concreto, deciso, anche se la ricaduta economica sul Pil è modesta. Basta far vedere che qualcosa si muove".

31 ottobre 2011

Boeri: riforme a costo zero, a partire dal lavoro

Le proposte del governo sul mercato del lavoro? "Sembrano più che altro un manifesto elettorale, per essere utili andrebbero dettagliate", commenta Tito Boeri, economista della Bocconi e fondatore di LaVoce.info, oltre che autore insieme a Pietro Garibaldi di un libro sulle "Riforme a costo zero", che esce il 3 novembre per Chiarelettere e lancia alcune idee proprio sul mercato del lavoro.

In particolare nella lettera del governo all'Ue si parla di "nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato". Che ne pensa?
"Così com'è adesso, più che una riforma mi sembrano delle pure e semplici minacce agli elettori tipicamente di sinistra, che sono prevalentemente dipendenti pubblici. Così non si contribuisce a risolvere il problema più grave del mercato del lavoro intaliano, quello dell'ingresso dei giovani. In un momento di crisi come questo sarebbe fondamentale intervenire sulle regole d'ingresso al mercato del lavoro, superando l'attuale dualismo: potrebbe servire anche per rilanciare i consumi e per riequilibrare i rapporti fra vecchi e giovani, vittime questi ultimi di un'ingiustizia sociale che rischia di diventare una bomba a orologeria".
Nella lettera si parla anche di contratti di apprendistato per contrastare le forme improprie di lavoro dei giovani...
"L'apprendistato è utile solo all'interno di una riforma delle regole di assunzione, altrimenti diventa un'altra mangiatoia per ex sindacalisti, che serve solo a dare lavoro ai formatori, ma non ad aumentare le chance di trovare lavoro".
Quindi lei cosa suggerisce?
"Il contratto unico a tutele progressive, di cui c'è già un disegno di legge in Parlamento, è stato pensato apposta per cercare di superare l'attuale dualismo del mercato del lavoro, diviso fra iper-garantiti e iper-precari, che danneggia gravemente la produttività del sistema Italia e crea una fortissima sperequazione fra lavoratori giovani e anziani".
Come funziona?
"La nostra proposta vorrebbe istituire un contratto unico, a tempo indeterminato da subito, ma diluendo le garanzie nell'ambito di tre anni di tempo, in modo tale da togliere ai datori di lavoro l'impressione che un'assunzione a tempo indeterminato sia subito vincolante, cosa che li induce a non assumere nessuno in pianta stabile. D'altra parte, introdurre un minimo di stabilità consentirebbe ai lavoratori di avere maggiori prospettive e ai datori di lavoro di investire in formazione dei dipendenti, a tutto vantaggio della produttività".
Nella lettera del governo si parla anche di rapporti di lavoro a tempo parziale e di crediti d'imposta....
"Ma certo, ci vogliono i contratti a tempo parziale e gli sgravi fiscali condizionati all'impiego, per incentivare l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Queste sono regole che già si applicano in molti Paesi d'Europa, basta guardare da loro come si fa e applicarle anche da noi. Ma non si possono risolvere questi problemi, di cui si dibatte da anni, con quattro idee buttate lì in maniera più o meno casuale. Bisogna circostanziarle, evitando gli annunci a effetto, perché il diavolo sta sempre nei dettagli".

30 ottobre 2011

Abbiamo bisogno di una città agile

Charles Darwin diceva che non è mai la specie più forte a prevalere, ma quella più capace di adattarsi al cambiamento. La stessa regola si può applicare anche alla storia dell'umanità: non sono le società più forti a prevalere, ma quelle più flessibili. Nella nostra epoca, vincerà chi saprà affrontare meglio i due principali cambiamenti in corso: l'inurbamento e il riscaldamento del clima.
Per la prima volta nella storia, dall'anno scorso la popolazione urbana del pianeta ha superato quella rurale. Per questo abbiamo bisogno di "città agili", corvette da filibustieri più che galeoni spagnoli, capaci di adattarsi alle nuove esigenze di abitabilità, mobilità e anche, nel caso, agli inconvenienti tipici dell'effetto serra: alluvioni, tempeste, sbalzi climatici. Città piene di verde, dove l'acqua in eccesso possa essere riassorbita e filtrata naturalmente, non foderate di cemento e asfalto che fa da tappo. Città evoluzionarie, non bloccate da normative fisse, dove le regole si adattino ai tempi, premiando i risultati finali - in termini di energia, acqua ed emissioni risparmiate - non imponendo quali lampadine dobbiamo usare o quali auto dobbiamo guidare. Città rapide, dove la densità abitativa aiuti a sfruttare i piedi o la bici per gli spostamenti di corto raggio e dove gli insediamenti si sviluppino lungo le direttrici del trasporto pubblico su rotaia, più che lungo le strade, scoraggiando l'uso dell'auto. La crescita sostenibile dovrebbe tradursi in strade sgombre e abitazioni ariose, orientate in modo da rendere la climatizzazione necessaria solo pochi giorni all'anno. Concentrando gli sforzi su edifici e trasporti, che sono responsabili del 40 e del 28% delle emissioni a effetto serra, potremmo tagliare una bella fetta della CO2 che produciamo, con grande sollievo dell'ambiente, ma anche della vivibilità cittadina. Non dimentichiamo poi che i megawatt costano, mentre i negawatt ci fanno risparmiare. E quindi, tanto di guadagnato.

L'evoluzione verso un modello dinamico di città, verso una correzione di rotta a piccoli passi e non più basata sui mega-progetti si legge ormai da vari anni in tutti i contributi più significativi alla letterattura di settore: da "Green Metropolis" di David Owen a "Triumph of the City" di Ed Glaeser, da "Walking Home" di Ken Greenberg a "Urbanism in the Age of Climate Change" di Peter Calthorpe, fino all'ultimo "The Agile City" di James Russell, il mantra della crescita sostenibile non parla più solo di pannelli solari sul tetto, ma di cambiare modi e luoghi in cui si costruisce, bloccando la crescita auto-centrica dei sobborghi sventagliati a caso attorno alle metropoli e in generale gli insediamenti sorti da greenfield.
 In ultima analisi, riqualificare è più importante di edificare da zero e la densità urbana si scopre molto più virtuosa dell'idillio bucolico caro a Thomas Jefferson. A Manhattan e a Parigi girano sicuramente meno auto pro capite e più metropolitane che a Monticello, il suo amato villaggio nelle campagne della Virginia: per renderle efficienti non occorre inventare nulla, basta affinare le mille tattiche già esistenti e renderle sempre più diffuse con gli incentivi giusti. La città si riconosce più intelligente della campagna e il grigio più verde del verde. Il discorso di Russell arriva fino a mettere in questione il sacro diritto alla proprietà immobiliare, caro a tutto il mondo occidentale, ma soprattutto agli americani: è lecito costruire insediamento dopo insediamento sulla riva dell'oceano, per accontentare tutte le richieste? Come la mettiamo con gli uragani e le alluvioni? Quando questa gente rimarrà senza casa, come nel caso Katrina, chi pagherà gli aiuti? E non è un discorso solo americano: basta andare in Costa del Sol, per capire i danni della cementificazione diffusa. Quando il sistema dei mutui crolla, come ora, altro che agilità: siamo al rigor mortis...
Gli esempi virtuosi, per fortuna, non mancano. Ormai ci sono edifici, anche grandi, che riescono a ridurre le emissioni a zero, in perfetta autosufficienza, come la California Academy of Science a San Francisco o il nuovo Centro Culturale Stavros Niarchos ad Atene, di Renzo Piano. Zero. Fino a pochi anni fa, un taglio delle emissioni del 20-30 per cento faceva già notizia. Addirittura, ci sono insediamenti che riescono ad andare in positivo, come Dockside Green a Victoria, in Canada, che produce più energia di quanta ne consumi, imbrigliando le risorse naturali del territorio. Altri optano per adeguarsi alla natura invece di combatterla, come a Ijburg, un nuovo quartiere di Amsterdam, dove molte case sono galleggianti e non circolano macchine. Sono edifici e quartieri che non richiedono tecnologie futuristiche ma strumenti che abbiamo già, non impongono particolari rinunce agli abitanti, né grandi variazioni nello stile di vita. L'investimento iniziale è alto, ma di solito si ammortizza rapidamente. L'impatto zero ormai è a portata di tutti, basta volerlo.

29 ottobre 2011

No white elephants for London 2012

In confronto a Pechino, siamo in un'altra dimensione. E in un'altra epoca. Per i giochi olimpici di Londra gli investimenti previsti sono di 15 miliardi. A Pechino ne sono stati spesi 40. Ma tra i due eventi c'è la bancarotta di Lehman Brothers, annunciata il 15 settembre 2008, tre settimane dopo la chiusura delle ultime Olimpiadi. Nulla sarà più come prima. Nel post-Lehman va di moda la frugalità: si esibiscono i tagli, di emissioni e di costi. Niente "elefanti bianchi", intesi come cattedrali nel deserto. Si sfrutteranno molte strutture già esistenti, da Earls Court a Wimbledon, da Hyde Park a Wembley. L'elegante Aquatics Centre di Zaha Hadid era già stato progettato prima ancora che passasse la candidatura di Londra, quindi era destinato a servire comunque per la riqualificazione di Stratford. E gli altri edifici sorti nel parco olimpico sono bellissimi, ma molto leggeri, fanno un po' kleenex. Infatti alcuni sono usa e getta. La Basketball Arena, un colosso da 12mila posti, è temporanea. Lo stesso stadio olimpico, che al momento dei giochi potrà mettere sedute 80mila persone, verrà parzialmente smontato alla fine dell'evento.
Del resto è inutile appesantire una zona, l'East End di Londra, che ha già le sue gatte da pelare. Anche qui, si ritorna al concetto di "città agile". La parola d'ordine è: legacy. Cosa lasceranno in eredità queste Olimpiadi alla comunità locale? Per Simon Wright, responsabile infrastrutturale di London 2012, è il punto fondamentale.
"Innanzitutto, una rete di trasporti più efficace", spiega Wright durante una visita al parco. Le novità includono l'estensione della East London Line e il potenziamento della Docklands Light Railway e della North London Line, tre linee ferroviarie leggere che serviranno a connettere meglio con il centro una delle aree più sottosviluppate della capitale e consentiranno anche in futuro un accesso sostenibile al parco olimpico e alle sue magnifiche strutture. Una linea ad alta velocità progettata apposta per i giochi, il Javelin, collegherà inoltre Ebbsfleet, nel Kent, stazione degli Eurostar in arrivo dal Continente, con lo scalo londinese di St Pancras, fermandosi a Stratford, dentro il parco olimpico. "Prevediamo che l'80% dei visitatori e dello staff arriveranno al parco via rotaia", precisa Wright. Per il resto, staff e atleti avranno a disposizione una flotta di 200 auto elettriche, Bmw e Mini.
Sul fronte energetico, Wright punta al taglio del 20% di emissioni complessive rispetto alla media delle precedenti edizioni. E quindi ha dovuto inventarsi un sistema di alimentazione molto più sostenibile. Il problema è stato risolto da General Electric, con l'installazione di due centrali di cogenerazione Jenbacher, alimentate a biomasse e gas naturale, nei due Energy Centre di Olympic Park e Stratford City. Insieme, queste macchine ad altissima efficienza (46% per l'energia elettrica e 90% contando anche quella termica) forniranno 10 megawatt tra elettricità, calore e raffreddamento per l'appuntamento del 2012, in sostituzione dei sistemi di produzione energetica tradizionali. Finiti i giochi, le due centrali supporteranno il fabbisogno dei nuovi edifici del villaggio olimpico, che verranno riconvertiti in abitazioni low cost, scuole e strutture sanitarie per la comunità locale. "Per centrare i nostri obiettivi, partendo da una zona completamente devastata da insediamenti industriali dismessi, abbiamo dovuto applicare un'ampia gamma di tecnologie di riconversione su tutti i fronti, dal riciclo dei rifiuti al trattamento naturale delle acque, fino al design sostenibile degli edifici", commenta Wright. Un lavoro immenso, portato a termine con quasi un anno di anticipo e senza sforare sui costi. "Ora possiamo permetterci il lusso di collaudare tutto con calma", sorride soddisfatto. Vedremo se sarà così anche a Milano per l'Expo 2015.

25 ottobre 2011

Living Building: efficiente ed elegante come un fiore

Per Jason McLennan, l'edificio ideale dovrebbe essere "efficiente ed elegante come un fiore". Obiettivo quanto mai ambizioso, tanto che esistono solo tre costruzioni al mondo, secondo lui, ad averlo raggiunto. Edifici viventi, capaci di interagire con l'ambiente circostante dialogando da pari a pari con la natura, senza "interporsi" fra lei e l'uomo che ci vive dentro, ma inserendovisi in maniera armonica. Un po' quello che aspirava ad ottenere Frank Lloyd Wright nei suoi progetti più stimolanti. I tre edifici che sono riusciti a raggiungere il Living Building Standard, la massima certificazione esistente in materia di sostenibilità, conferita dall'istituto di McLennan, l'International Living Future Institute, sono un punto di riferimento mondiale per tutto il settore.
L'Omega Center for Sustainable Living di Rhinebeck, New York, il Tyson Living Learning Center di Eureka, Missouri, e l'Energy Lab della Hawaii Preparatory Academy a Kamuela, Hawaii, sono state le prime costruzioni a ottenere una certificazione completa. La realizzazione di questi tre progetti segna un punto di svolta fondamentale nel movimento ambientalista, con la dimostrazione del fatto che gli edifici possono essere progettati per beneficiare gli ecosistemi in cui vivono e non va dato per scontato che li danneggino soltanto. Un edificio, per raggiungere lo standard "living", deve esibire tutti gli otto petali del fiore, sfoggiando performance da dieci e lode in materia di acqua, energia, salute, materiali, posizione, equità sociale, bellezza e procedure di costruzione. Un "living building" deve generare tutta l'energia di cui ha bisogno attraverso fonti rinnovabili, utilizzare materiali non tossici e dare un senso di benessere a chi ci abita, senza trascurare il senso estetico dell'architettura. Se riesce a soddisfare tutti i requisiti del programma a un anno dalla fine dei lavori, può ottenere la certificazione.
Poi c'è anche la possibilità di ottenere una certificazione parziale, solo su alcuni degli standard richiesti, come nel caso di una residenza privata canadese a Victoria, British Columbia. L'abitazione, soprannominata Eco-Sense, era iniziata come un progetto molto più modesto, ma si è sviluppata strada facendo in un'impresa esemplare, caratterizzata da un design passivo, dotato di un impianto fotovoltaico e solare termico. Assicura un risparmio energetico e idrico del 90%, servizi igienici di compostaggio, la raccolta dell'acqua piovana e il riutilizzo delle acque reflue, tetto verde e pavimenti e finiture naturali. Il tutto integrato nell'ambiente circostante secondo un design moderno e piacevole. Ciascuno di questi progetti promette di fornire un nuovo modello super-efficiente, sano, acqua-indipendente di edificio a zero consumi di energia.
Il target altissimo di McLennan - che è anche il fondatore del Cascadia Green Building Council, la sezione del Nord Ovest americano della società di certificazione Leed (Leadership in Energy and Environmental Design) - ha finora impedito la diffusione del suo modello a livello di massa, ma un centinaio di progetti di "edifici viventi" sono in via di sviluppo. E' alla luce di queste esperienze che si stanno rivoluzionando i processi di progettazione e costruzione in tutto il mondo.

Omega L'Omega Center for Sustainable Living utilizza un impianto naturale di trattamento di tutte le acque reflue per un campus di 80 ettari nella Hudson Valley. Produce più energia di quanta ne consumi con tre diversi impianti fotovoltaici, di cui uno sul tetto e uno su una parete dell'edificio principale. Ha utilizzato per la costruzione solo materiali atossici e naturali. Sorge su un sito già occupato in precedenza da altri edifici e in origine addirittura da una discarica. Come organizzazione non-profit, Omega offre esperienze educative diverse e innovative che ispirano un approccio integrato al cambiamento personale e sociale rivolto all'ambiente, con seminari che ospitano fino a 23.000 persone l'anno.

Tyson Il Tyson Center ospita un laboratorio di ricerca ambientale della Washington University di St Louis (Missouri) e sfrutterà l'edificio certificato come strumento educativo per i suoi studenti, con grandi aule aperte sull'esterno. Fornirà un paesaggio vivente per gli studi sulla sostenibilità degli ecosistemi. E' rivestito di legni raccolti sul posto e il tetto è ricoperto di pannelli fotovoltaici, che coprono tutto il fabbisogno di energia. L'acqua potabile è fornita da un sistema di raccolta dell'acqua piovana senza componenti chimiche. Le acque reflue sono filtrate con un ciclo naturale. Tutti i rifiuti umidi hanno un sito di compostaggio. Il sito era precedentemente occupato da un parcheggio all'aperto, trasformato in un giardino piantumato.

Energy lab L'Energy Lab of Hawaii Preparatory Academy è stato concepito come un laboratorio scolastico dedicato allo studio delle energie alternative. Tutta l'accademia, che ospita bambini e ragazzi dall'asilo al liceo, produce l'energia che consuma e il progetto è stato pensato per trasmettere agli studenti una coscienza ambientale tramite le sue caratteristiche. Il sito era precedentemente occupato dall'area di compostaggio. L'edificio soddisfa il proprio fabbisogno di energia con pannelli fotovoltaici, filtra le acque reflue, raccoglie l'acqua piovana, ha utilizzato per la costruzione prevalentemente materiali locali, ma ha dovuto importare alcuni oggetti introvabili sul posto, aggravando la propria impronta ambientale, che è stata poi alleggerita con una particolare attenzione ai processi costruttivi.



23 ottobre 2011

Mobilità verde: arriva lo scooter ibrido

Non solo auto. Per chi vuole muoversi su mezzi propri a impatto zero ci sono anche le moto e le bici elettriche plug-in, cioè ricaricabili da una semplice presa di corrente, oppure gli scooter ibridi, che riescono a ricaricarsi sia attaccandosi direttamente alla rete elettrica, sia con il movimento del motore a combustione interna, come una Prius. Gli scooter puliti sono molto importanti per il mercato italiano, che assorbe il 20% dei ciclomotori venduti in tutta Europa, impestando le nostre città con una nuvola di gas di scarico, soprattutto nel caso dei motori a due tempi, particolarmente inefficienti e inquinanti: i test relativi riferiscono del 30% di carburante incombusto, a cui va aggiunto l'olio scaricato in aria con la miscela. Insieme, sono responsabili del 20% di composti organici volatili presenti nell'aria cittadina.

 Ma le alternative ci sono, da quest'anno anche grazie a una moto made in Italy molto innovativa: lo scooter ibrido Aspes, un marchio simbolo delle due ruote nostrane, prodotto a Gallarate in tre diverse cilindrate - 50, 125 e 150 - e a prezzi abbordabili, con una meccanica brevettata dal gruppo Menzaghi, che ha acquisito la storica azienda due anni fa. "In pratica, i nostri scooter sono dotati di due motori, uno elettrico e uno a combustione interna, che si possono attivare singolarmente o insieme, a seconda delle necessità", spiega il presidente Umberto Pertosa. Per i tragitti urbani il motore elettrico offre un'autonomia di 40 chilometri e poi ci vogliono 4 ore per ricaricare completamente la batteria, che si può collegare alla rete lasciandola nello scooter oppure estrarre da sotto la pedana con grande facilità e portare in casa per attaccarla a una presa domestica. La batteria al litio-ferro-fosfato non ha memoria, quindi non è necessario aspettare che sia completamente scarica per rimetterla sotto carica, e garantisce 3000 cicli, equivalenti a una dozzina d'anni, una vita ben più lunga delle comuni batterie agli ioni di litio. "In più, il nostro scooter può essere ricaricato anche attraverso il secondo motore, ad esempio nei tragitti extraurbani", aggiunge Pertosa. In modalità mista, il motore a scoppio - a 4 tempi e catalizzato - si attiva a supporto dell'elettrico, dando più potenza e ricaricando la batteria: così si riesce a viaggiare per 80 chilometri con un solo litro di benzina. Questa è una caratteristica unica degli scooter Aspes, che non hanno rivali ibridi sul mercato.
Nel segmento degli elettrici, invece, c'è già parecchia competizione. Oxygen, società padovana nata da una costola di Atala, ha già convinto le poste del Belgio, quelle svizzere e il Comune di Stoccarda con il suo CargoScooter, che viene offerto in due versioni, una fino a 45 chilometri all'ora, l'altra fino a 65. Poi c'è lo scooter tedesco e-Max, il più diffuso in Germania, anche questo distribuito in Italia in due versioni, più o meno veloce. EC-03, lo scooter elettrico Yamaha, invece, è una specie di moderno Ciao, simile al francese e-Solex, che scende quasi al rango delle biciclette a pedalata assistita. Da qui in giù, c'è solo l'imbarazzo della scelta.

20 ottobre 2011

Città sostenibili, ma non solo: belle, eque e innovative...

Le città sostenibili non possono essere solo ecologiche, devono anche funzionare bene, essere belle e alla portata di tutti. Per i seimila studi da 126 Paesi che hanno partecipato quest'anno al concorso internazionale della svizzera Holcim Foundation, uno dei più prestigiosi nel campo dell'architettura sostenibile, si tratta di rispettare le cinque P imposte dal regolamento: Progress, People, Planet, Prosperity, Proficiency. E i vincitori si collocano precisamente all'incrocio fra innovazione, equità sociale, efficienza nell'uso delle risorse, compatibilità economica e impatto estetico.
Un suggestivo progetto di "piscina fluviale", per restituire alla balneabilità il ramo della Sprea che costeggia l'isola dei musei nel centro di Berlino, proposto dal team tedesco di realities united, ha vinto il primo premio da 100mila dollari dell'edizione europea del concorso, consegnato a Milano.

Berlin
L'argento è andato alla riconversione di un'ex fabbrica in municipio e centro civico per la città di Oostkamp in Belgio, proposta dallo studio spagnolo di Carlos Arroyo, sfruttando la struttura esistente con una serie di soluzioni al tempo stesso raffinate ed efficienti.
Oostkamp
La visionaria conversione in "villaggio verticale" di uno dei viadotti prospicenti lo stretto di Messina in Calabria, recentemente dismesso in seguito alla realizzazione di una variante autostradale, è valsa il bronzo a tre studi francesi nella competizione europea.
Scilla
Nell'edizione latino-americana è prevalso un edificio multifunzionale pensato per offrire attività sociali alla favela di Paraisòpolis a San Paolo e al tempo stesso bloccare l'erosione e le frane che minacciano continuamente i suoi abitanti. Il primo premio per l'Africa e il Medio Oriente è andato al progetto di una scuola in Burkina Faso, che usa soltanto energia eolica e solare per il raffrescamento delle aule, proposto dallo studio dell'architetto Diébédo Kéré, basato in Germania ma originario del villaggio dove la scuola verrà costruita. Il secondo premio di questa sezione è andato al team milanese di ArCò - Architettura e Cooperazione, per la ristrutturazione della scuola di una comunità beduina nei territori palestinesi, con criteri di sostenibilità nella ventilazione e nell'illuminazione naturale. Riconoscimenti sono andati anche alle proposte più interessanti di tecnologia produttiva e di nuovi materiali arrivate alla giuria, tra cui la realizzazione di elementi prefabbricati in calcestruzzo leggero con schiuma di vetro riciclato come aggregato interno, inventati da un'azienda tedesca, o l'impiego di una cassaforma di cera riutilizzabile, proposto da uno studio di Zurigo. Tutti i primi arrivati nelle varie sezioni potranno accedere alla competizione globale, di cui i vincitori verranno annunciati nella primavera del 2012.
La filosofia del concorso, unico nel suo genere, ha attirato negli anni progetti sempre molto innovativi, che dimostrano la capacità di estendere le nozioni convenzionali di edilizia sostenibile a una grande attenzione per l'efficacia economica e sociale. "I progetti che hanno vinto quest'anno sono ottimi esempi di quello che si potrebbe realizzare in una città coraggiosa, partendo da una ricca tradizione architettonica, ma senza dimenticare le esigenze delle persone di oggi, che ci vivono dentro", rileva Lucy Musgrave, fondatrice dell'agenzia londinese di pianificazione urbana Publica e membro della giuria degli Holcim Awards. "Il problema fondamentale dello spazio urbano europeo è la staticità, che spesso opprime gli abitanti quanto l'estraniamento causato dall'estrema mobilità del paesaggio urbano americano". Ma le città, pur con tutto il rispetto per un'importante eredità culturale da preservare, non sono musei. Se vogliamo che la gente ci resti e ci si trovi bene, dobbiamo anche offrirle un fiume pulito in cui nuotare, con buona pace dell'altare di Pergamo, che resterà sempre un'apparizione emozionante, ma non si può visitare tutti i giorni.

18 ottobre 2011

Italia campione del solare, ma la ricerca non tiene il passo

Con oltre 10 gigawatt di potenza fotovoltaica installata, l'Italia è diventata quest'anno il primo mercato mondiale per l'energia del sole. Ma la ricerca non tiene il passo. Nel 2010 dai laboratori italiani sono arrivate solo 95 domande di brevetti in materia energetica all'European Patent Office, contro 1805 dagli Stati Uniti o 1175 dalla Corea. 

 "Negli ultimi vent'anni, siamo rimasti fermi su questo fronte, mentre gli altri Paesi industrializzati hanno fatto passi da gigante", spiega Stefano Da Empoli di I-Com, commentando il suo rapporto sull'innovazione energetica. "La Corea è un buon esempio di questo divario, viste le analogie con l'Italia sotto il profilo economico: nel 2000 le domande di brevetto coreane erano paragonabili alle nostre, oggi sono oltre dieci volte tanto", precisa Da Empoli. Ma anche la Spagna, che nel 2000 anni fa era ancora all'età della pietra, oggi produce più brevetti dell'Italia. In complesso, nell'arco temporale 1988-2007 la quota italiana sui brevetti europei era del 2,5%, mentre nel 2010 non è andata oltre lo 0,7%.
Questa evoluzione si rispecchia nella dinamica degli investimenti. Nell'ultimo decennio, il settore energetico ha conquistato una fetta crescente degli investimenti globali in ricerca e sviluppo, che nel 2000 rappresentava il 4,5% del totale, contro il 4,9% del 2009. Ma a seconda dei Paesi cambia molto il rapporto tra investimenti pubblici e privati. Rispetto agli altri Paesi industrializzati, l'Italia è un'eccezione assoluta, perché il pubblico fa sempre la parte del leone. Nelle altre economie avanzate è l'inverso: malgrado un aumento della quota pubblica negli ultimi anni di crisi, sono sempre le aziende private che spendono di più in ricerca e sviluppo, anche nel campo dell'energia. Senza citare l'esempio degli Stati Uniti, dove il rapporto è di quattro a uno, nell'Ue a 27 gli investimenti privati sono il doppio di quelli pubblici, in Germania e nel Regno Unito il triplo, in Spagna il quadruplo. E' il governo francese, invece, quello che spende di più per la ricerca energetica in Europa, ferma restando anche qui la prevalenza dello sforzo privato sul pubblico: tra il 2001 e il 2009, i suoi investimenti hanno rappresentato annualmente, in media, il doppio di quelli tedeschi e italiani, che si aggirano attorno ai 500 milioni di dollari.
In complesso, in questi dieci anni l'Unione Europea ha destinato la quota maggiore di risorse pubbliche al nucleare, ma è una spesa che si sta contraendo, dal 55% del 2000 al 32% del 2009. In Italia, invece, la programmazione politica ha preferito sostenere la ricerca nell'efficienza energetica, a cui ha destinato il 22,8% delle risorse nel 2009, rispetto all'8,8% del 2000.

11 ottobre 2011

Un batterio salverà l'Amazzonia

Un batterio salverà l'Amazzonia. E non ci metterà neanche tanto tempo: "Quattro o cinque anni", sostiene Greg Stephanopoulos, professore di ingegneria chimica e biotecnologie al Mit di Boston, in Italia per partecipare a un convegno organizzato da Federchimica e dall'Accademia dei Lincei in occasione dell'anno mondiale della chimica. Stephanopoulos è il "papà" di quel batterio: lo ha educato amorevolmente per anni a trasformare qualsiasi carboidrato in olio e ora la creatura è capace di farlo in maniera rapida ed efficiente. "Molto più rapida ed efficiente di tutti gli altri esempi pubblicati dalla letteratura scientifica", precisa il genitore.

Il suo batterio, per la precisione, è in grado di produrre biodiesel da risorse rinnovabili a 25-30 centesimi di dollaro al litro, quindi competitivo con il diesel da petrolio, senza sussidi statali e senza far concorrenza alle coltivazioni alimentari. Ora il processo, sviluppato nei laboratori di ingegneria metabolica del Mit, dev'essere industrializzato. E Stephanopoulos ci sta provando con una start-up chiamata Novogy, considerata l'oggetto più misterioso del mercato americano dei biocarburanti, per il segreto che la circonda. Da qui alla produzione di massa, ci vorrà qualche anno. Ma Stephanopoulos è ottimista, perché vede in arrivo un grosso investimento da parte di una major petrolifera. E, si sa, con le spalle coperte da una major i processi di industrializzazione vanno piuttosto spediti.
Certo è che la gara dell'ingegneria genetica per la produzione di biocarburanti è cominciata e chi arriverà per primo potrebbe diventare il prossimo John Rockefeller post-petrolifero. Sulla linea di partenza non c'è solo lui, Stephanopoulos, ma anche diversi suoi colleghi, a partire da Jay Keasling, un'altra star della ricerca che si occupa di biologia sintetica al Joint BioEnergy Institute di Emeryville, nella baia di San Francisco, a due passi da Berkeley. Keasling ha fondato una start-up chiamata Amyris, direttamente in concorrenza con Novogy.
Come disse lo sceicco Yamani, l'era del petrolio non finirà per l'esaurimento del petrolio, così come l'età della pietra non è finita per l'esaurimento delle pietre. Anche se il petrolio durasse all'infinito, infatti, un prodotto altrettanto economico ed efficace, ma più facile da industrializzare e più ecologico, alla lunga potrebbe avere la meglio sull'originale. Non a caso, tutte le compagnie petrolifere mondiali sono molto interessate alla ricerca nei combustibili non convenzionali, tanto che Stephanopoulos ha vinto qualche mese fa l'Eni Award 2011. "Ormai non si parla più di idrocarburi solo in termini di riserve sotterranee, ma anche di riserve 'above ground', riferendosi alle coltivazioni destinate a biofuel", spiega. Peccato che queste riserve 'above ground' spesso e volentieri comportino l'abbattimento di miglia e miglia di foreste, per destinare quei territori alla coltivazione della soja, da cui estrarre l'olio per produrre biodiesel. Al momento attuale, il 90% del biodiesel mondiale deriva dalla soja. La deforestazione dell'Amazzonia procede al ritmo di 7.000 chilometri quadrati all'anno. In questo modo il Brasile è diventato il primo produttore mondiale di granaglie, compresa la soja, che rappresenta ormai oltre un terzo del suo prodotto interno lordo.
Gli studi di Stephanopoulos e compagni, invece, mirano a utilizzare i batteri come "raffinerie" sempre più efficienti nella trasformazione di materie prime rinnovabili in biocarburanti che abbiano prestazioni uguali a quelle dei carburanti petroliferi, con procedimenti abbastanza poco costosi da renderli competitivi. Il risultato più rilevante conseguito da Stephanopoulos, un ingegnere chimico che si occupa già da vent'anni di biotecnologie, è l'incremento della tolleranza delle coltivazioni microbiche alla tossicità dei prodotti. In questo modo aumenta la produttività nella fabbricazione di biofuel e la versatilità di trasformazione. Il batterio ingegnerizzato al Mit può produrre biodiesel da qualsiasi zucchero, acido acetico, glicerina o biomassa cellulosica. Non ha certamente bisogno di materie prime da coltivazioni alimentari e probabilmente nemmeno di coltivazioni ad hoc: basta dargli in pasto i rifiuti delle nostre tavole o delle attività agricole. "E il rendimento è doppio rispetto ai nostri concorrenti", sostiene fiero Stephanopoulos.
La ricerca, sia per Stephanopoulos che per Keasling, parte da lontano. Per tutti e due, il primo amore è stata la medicina: producendo con le biotecnologie molecole che prima venivano sintetizzate in laboratorio a costi altissimi, sono riusciti a fornire ai pazienti le stesse cure a prezzi irrisori. Stephanopoulos è arrivato a produrre il Taxol, un'importante arma nella lotta contro il cancro, partendo da una forma riprogrammata di Escherichia coli. Keasling ha fatto lo stesso con l'Artemisinina, un potente farmaco antimalarico. In tutti e due i casi, si è trattato di far fare a un batterio il lavoro di una pianta: il Taxol viene estratto dalla corteccia del tasso del Pacifico mentre l'Artemisinina viene dall'Artemisia annua, molto diffusa in Cina. Resta una perplessità: perché trasferire ai batteri un compito già assolto da altre forme viventi? "I batteri sono lavoratori low cost, sostituendosi all'equivalente processo chimico che richiederebbe temperature e pressioni elevate e solventi costosi", rileva Stephanopoulos. Un buon soggetto per Charlie Chaplin e un altro Modern Times.

4 ottobre 2011

La bolletta energetica ci costa mille euro a testa

Quotazioni in risalita alla Borsa elettrica, imprese in allarme per il caro-energia, famiglie tartassate dall'inflazione, import sempre più salato. Il deficit della bilancia commerciale energetica italiana è cresciuto del 30% negli ultimi dodici mesi, superando il massimo storico di 60 miliardi di euro, cioè mille euro esatti per abitante, neonati compresi. E questi aumenti, derivati soprattutto dal caro-petrolio, li vedremo ben presto in bolletta. L'unica difesa è produrre e utilizzare l'energia in maniera efficiente e razionale, in base a una strategia nazionale che per adesso non c'è: il piano promesso a metà settembre dal governo ancora non si vede. "Serve una cabina di regia per indirizzare la crescita del settore", ha detto il presidente dell'Authority Guido Bortoni al Festival dell'Energia di Firenze, organizzato da Aris e FederUtility.

 Ma la vera incognita per il mercato energetico italiano è rappresentata dagli effetti dell'inasprimento della Robin Tax, che secondo le prime stime peserà sulle aziende elettriche attorno a 1,8 miliardi e avrà ricadute inevitabili sui prezzi finali. Solo per Enel ed Edison, si calcola, il costo sarà di circa 400 e 150 milioni l'anno per i prossimi tre anni. La nuova maggiorazione Ires, secondo l'Authority per l'Energia, comporterà certamente un aumento delle tariffe per i consumatori, oltre a un possibile impatto sugli investimenti per le infrastrutture. In una segnalazione a governo e parlamento, l'Autorità ha già contestato la nuova formulazione della tassa istituita anni fa per togliere un po' di margine alle compagnie petrolifere, che ora la manovra ha esteso all'elettricità e alle reti energetiche. "Il principale effetto di un aumento dell'Ires – avverte l'Autorità dell'energia – è ridurre la propensione all'investimento nell'attività colpita dall'aumento". Proprio il calo degli investimenti, in un momento in cui il settore ne avrebbe grande bisogno, rischia di riflettersi sulle tariffe perché, spiega il documento, "nelle attività svolte a mercato, è attraverso la contrazione degli investimenti e, di conseguenza, dell'offerta che può aver luogo, in linea generale, la futura traslazione degli effetti dell'aumento dell'imposta diretta sui prezzi e quindi sui consumatori". La squadra di Bortoni, ovviamente, vigilerà affinché le imprese coinvolte nell'addizionale non scarichino i sovraccosti sugli utenti, un'operazione vietata dalla legge. Ma questi controlli sono molto difficili.
Già adesso, le imprese italiane pagano una bolletta elettrica del 31,7% più cara rispetto alla media Ue e cioè sborsano un costo maggiore di 8 miliardi di euro l'anno per la corrente elettrica, equivalente a 1.776 euro in più per ciascuna, in base a una ricerca di Confartigianato. E sul gas non ce la passiamo meglio: tra caro-petrolio, assenza delle forniture libiche e cronica mancanza di competitività sul mercato interno, il divario fra prezzi italiani ed europei è salito da una media di 4-5 euro al megawattora di luglio-agosto fino agli attuali 6-7 euro. Per Carlo Stagnaro dell'Istituto Bruno Leoni, la differenza con il Paese europeo più liberalizzato, la Gran Bretagna, è del 32% per i grandi utenti e del 50% per quelli di medie dimensioni. I consumatori soffrono della rigidità dei contratti di lungo termine che ci legano ai nostri fornitori esteri, in primis Gazprom, mentre nel resto d'Europa prevalgono le compravendite sul mercato, da quando è molto più liquido grazie alla diffusione del gas non convenzionale americano. L'Europa ha registrato nel 2010 un vero e proprio boom del trading di gas, con volumi saliti del 29% rispetto all'anno precedente, secondo il rapporto European Gas Trading 2011 di Prospex Research. "Perché questo accada anche da noi, occorre che ci siano molti operatori e grosse quantità da vendere", spiega Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ma oggi non è così.
Su queste e altre distorsioni che aggravano le nostre bollette, l'Authority chiede da anni il varo di una strategia nazionale, che corregga una volta per tutte i continui cambi di direzione delle politiche energetiche governative. Il caos sulla promozione delle fonti rinnovabili, varata lo scorso marzo per recepire le direttive europee in materia, ma a cui mancano ancora una ventina di decreti attuativi, è un tipico esempio di queste distorsioni: scoraggia gli investimenti e crea forti sperequazioni tra le diverse fonti, per cui si incentiva fortemente il fotovoltaico ma si tralascia completamente il solare termico, che invece potrebbe aggiungere un elemento di grande efficienza nel panorama energetico italiano. "La strategia è in corso di realizzazione, è stato affidato lo studio preliminare all'Enea e quindi speriamo, entro la fine dell'anno, di poter dare un quadro complessivo di lungo termine", ha detto il sottosegretario allo Sviluppo con delega all'Energia, Stefano Saglia. E questo significa un altro slittamento, visto che il ministro Paolo Romani l'ultima volta aveva parlato di metà novembre.

30 settembre 2011

Revenge of the Electric Car, alle volte ritornano

Alle volte ritornano. Vi ricordate lo splendido documentario di Chris Paine sulle auto elettriche, "Who killed the electric car?"

 Bene, il lavoro del regista americano ha avuto un seguito, che si chiama "Revenge of the Electric Car", nelle sale americane da luglio. "Who killed the electric car?" raccontava di come, nel 1996, fosse stato affossato il primo modello di auto elettrica realizzato da General Motors, la EV1. I responsabili? Le grandi compagnie petrolifere, che si erano messe di traverso, perché non avvenisse il temuto passaggio da benzina a elettricità. Nel nuovo film, Paine racconta il lavoro di oggi a favore della mobilità a batterie proprio della Gm, della Nissan e della Tesla, azienda californiana specialista di auto sportive.  A parlare sono i due amministratori delegati di Nissan e Tesla, Carlos Ghosn (che insieme a Renault guida il gruppo oggi più impegnato nel settore) e il giovane Elon Musk, più per la Gm l’ex vicepresidente e veterano del mondo dell’auto Bob Lutz. "Revenge of the electric car", uscito quest'estate a New York e in arrivo sugli schermi europei, spiega dunque la rinascita del sogno elettrico, in un sequel trionfale dove vincono gli eroi del nuovo corso. Per ora non sono ancora arrivati i cinesi, ma forse quelli chiuderanno la trilogia.

27 settembre 2011

E.on, il gigante si è ristretto

L'uscita dall'atomo della Germania fa le prime vittime. E.on, il gigante malato, ristruttura la sua filiale italiana, perdendo l'amministratore delegato Luca Dal Fabbro, che lascia dopo appena un anno. L'ex ad italiano Klaus Schaefer, invece, raddoppia: dopo aver occupato per un anno l'ambita posizione di ad di Ruhrgas (il braccio di E.on nel gas), andrà a dirigere la nova business unit di vendita del gas, che vedrà Ruhrgas accorpata a E.on Energy Trading, in seguito alla drastica ristrutturazione in atto.

 E.on ha perso quest'anno quasi metà della sua capitalizzazione, ridotta a 28 miliardi, a fronte di 34 miliardi di debito. Il titolo è sceso fino a 13 euro dai 25 di gennaio (già la metà dei 50 euro del gennaio 2008) e il rischio di scalata è fortissimo. Sulle 11 centrali nucleari di sua proprietà, quattro sono state spente e per le altre è in programma la chiusura entro dieci anni. Un danno grave - quantificato in 1,9 miliardi solo sui primi 6 mesi di quest'anno - di cui il colosso di Duesseldorf sta chiedendo conto al governo tedesco per vie legali. Intanto il numero uno Johannes Teyssen cerca di tenere la barca in equilibrio con vigorosi tagli e una decisa sterzata. Il primo passo è la razionalizzazione delle operazioni in Europa, per indirizzare nuove risorse verso i mercati emergenti, soprattutto India, Brasile e Turchia. Ma la novità più importante è l'integrazione di E.on Energy Trading con E.on Ruhrgas, due strutture parallele che si occupano di vendite: in questo modo, Teyssen spera di ottenere un taglio dei costi di 1,5 miliardi all'anno, da qui al 2015. Saltano così una serie di poltrone, anche nei due consigli d'amministrazione, mentre l'ad di Ruhrgas Klaus Schaefer andrà a dirigere entrambe le unità a partire dal primo ottobre. Non basta. La rete di 12mila chilometri di gasdotti dovrà essere venduta. In realtà la divisione trading di Ruhrgas era un business in perdita, per colpa dei contratti fissi di lungo termine con Gazprom, e la riduzione era nell'aria già da tempo. Ma nessuno si aspettava un taglio così radicale.
E' stato l'incidente di Fukushima e la conseguente moratoria nucleare tedesca ad accelerare la ristrutturazione. A fine agosto, E.on ha annunciato 11mila tagli sugli attuali 80mila dipendenti, di cui la metà in Germania. La settimana scorsa, in una lettera interna agli 800 dipendenti che lavorano nel quartier generale di Duesseldorf, l'ex presidente Bernhard Reutersberg, ancora membro del board, ha annunciato che in quella sede un posto di lavoro su due sarà tagliato. In pratica, E.on si avvia a una vera e propria rivoluzione e tra i dipendenti è già in uso la sigla "E.on 2" per designare il nuovo volto dell'azienda, che punta a focalizzarsi molto sulle fonti rinnovabili e sul gas. La trasformazione del gruppo da "utility europea a fornitore specializzato globale di soluzioni energetiche" è stata delineata da Teyssen nella convinzione che "la sovracapacità in molti mercati energetici, i mutamenti tecnologici e gli interventi dei politici e dei regolatori continueranno a causare negli anni a venire considerevoli effetti avversi al settore".
In termini operativi, già quest'anno ci sarà un forte sviluppo delle attività in Russia e in Scandinavia, mentre le riduzioni maggiori colpiranno la Germania e il Regno Unito. Nel resto d'Europa, compresa l'Italia, per ora l'attività dovrebbe rimanere stabile. Ma il primo effetto di un ridimensionamento è già visibile in Italia, con l'accorpamento dei ruoli di presidente e amministratore delegato nelle mani di Miguel Antoñanzas e l'uscita di scena del numero uno Luca Dal Fabbro. Il manager, proveniente dall'Enel dov'era stato responsabile marketing di Enel Trade e direttore generale di Enel Energia, cambia veste ed entra come azionista in Domotecnica, leader nazionale nel franchising per le aziende d'installazione termoidraulica, diventandone anche l'amministratore delegato. Per E.on Italia, si ridimensiona così anche il board, composto da tre membri invece di quattro. Ma non è detto che questo passo giustifichi le voci di possibili cessioni ricorrenti sul ramo italiano del gruppo.