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11 ottobre 2011

Un batterio salverà l'Amazzonia

Un batterio salverà l'Amazzonia. E non ci metterà neanche tanto tempo: "Quattro o cinque anni", sostiene Greg Stephanopoulos, professore di ingegneria chimica e biotecnologie al Mit di Boston, in Italia per partecipare a un convegno organizzato da Federchimica e dall'Accademia dei Lincei in occasione dell'anno mondiale della chimica. Stephanopoulos è il "papà" di quel batterio: lo ha educato amorevolmente per anni a trasformare qualsiasi carboidrato in olio e ora la creatura è capace di farlo in maniera rapida ed efficiente. "Molto più rapida ed efficiente di tutti gli altri esempi pubblicati dalla letteratura scientifica", precisa il genitore.

Il suo batterio, per la precisione, è in grado di produrre biodiesel da risorse rinnovabili a 25-30 centesimi di dollaro al litro, quindi competitivo con il diesel da petrolio, senza sussidi statali e senza far concorrenza alle coltivazioni alimentari. Ora il processo, sviluppato nei laboratori di ingegneria metabolica del Mit, dev'essere industrializzato. E Stephanopoulos ci sta provando con una start-up chiamata Novogy, considerata l'oggetto più misterioso del mercato americano dei biocarburanti, per il segreto che la circonda. Da qui alla produzione di massa, ci vorrà qualche anno. Ma Stephanopoulos è ottimista, perché vede in arrivo un grosso investimento da parte di una major petrolifera. E, si sa, con le spalle coperte da una major i processi di industrializzazione vanno piuttosto spediti.
Certo è che la gara dell'ingegneria genetica per la produzione di biocarburanti è cominciata e chi arriverà per primo potrebbe diventare il prossimo John Rockefeller post-petrolifero. Sulla linea di partenza non c'è solo lui, Stephanopoulos, ma anche diversi suoi colleghi, a partire da Jay Keasling, un'altra star della ricerca che si occupa di biologia sintetica al Joint BioEnergy Institute di Emeryville, nella baia di San Francisco, a due passi da Berkeley. Keasling ha fondato una start-up chiamata Amyris, direttamente in concorrenza con Novogy.
Come disse lo sceicco Yamani, l'era del petrolio non finirà per l'esaurimento del petrolio, così come l'età della pietra non è finita per l'esaurimento delle pietre. Anche se il petrolio durasse all'infinito, infatti, un prodotto altrettanto economico ed efficace, ma più facile da industrializzare e più ecologico, alla lunga potrebbe avere la meglio sull'originale. Non a caso, tutte le compagnie petrolifere mondiali sono molto interessate alla ricerca nei combustibili non convenzionali, tanto che Stephanopoulos ha vinto qualche mese fa l'Eni Award 2011. "Ormai non si parla più di idrocarburi solo in termini di riserve sotterranee, ma anche di riserve 'above ground', riferendosi alle coltivazioni destinate a biofuel", spiega. Peccato che queste riserve 'above ground' spesso e volentieri comportino l'abbattimento di miglia e miglia di foreste, per destinare quei territori alla coltivazione della soja, da cui estrarre l'olio per produrre biodiesel. Al momento attuale, il 90% del biodiesel mondiale deriva dalla soja. La deforestazione dell'Amazzonia procede al ritmo di 7.000 chilometri quadrati all'anno. In questo modo il Brasile è diventato il primo produttore mondiale di granaglie, compresa la soja, che rappresenta ormai oltre un terzo del suo prodotto interno lordo.
Gli studi di Stephanopoulos e compagni, invece, mirano a utilizzare i batteri come "raffinerie" sempre più efficienti nella trasformazione di materie prime rinnovabili in biocarburanti che abbiano prestazioni uguali a quelle dei carburanti petroliferi, con procedimenti abbastanza poco costosi da renderli competitivi. Il risultato più rilevante conseguito da Stephanopoulos, un ingegnere chimico che si occupa già da vent'anni di biotecnologie, è l'incremento della tolleranza delle coltivazioni microbiche alla tossicità dei prodotti. In questo modo aumenta la produttività nella fabbricazione di biofuel e la versatilità di trasformazione. Il batterio ingegnerizzato al Mit può produrre biodiesel da qualsiasi zucchero, acido acetico, glicerina o biomassa cellulosica. Non ha certamente bisogno di materie prime da coltivazioni alimentari e probabilmente nemmeno di coltivazioni ad hoc: basta dargli in pasto i rifiuti delle nostre tavole o delle attività agricole. "E il rendimento è doppio rispetto ai nostri concorrenti", sostiene fiero Stephanopoulos.
La ricerca, sia per Stephanopoulos che per Keasling, parte da lontano. Per tutti e due, il primo amore è stata la medicina: producendo con le biotecnologie molecole che prima venivano sintetizzate in laboratorio a costi altissimi, sono riusciti a fornire ai pazienti le stesse cure a prezzi irrisori. Stephanopoulos è arrivato a produrre il Taxol, un'importante arma nella lotta contro il cancro, partendo da una forma riprogrammata di Escherichia coli. Keasling ha fatto lo stesso con l'Artemisinina, un potente farmaco antimalarico. In tutti e due i casi, si è trattato di far fare a un batterio il lavoro di una pianta: il Taxol viene estratto dalla corteccia del tasso del Pacifico mentre l'Artemisinina viene dall'Artemisia annua, molto diffusa in Cina. Resta una perplessità: perché trasferire ai batteri un compito già assolto da altre forme viventi? "I batteri sono lavoratori low cost, sostituendosi all'equivalente processo chimico che richiederebbe temperature e pressioni elevate e solventi costosi", rileva Stephanopoulos. Un buon soggetto per Charlie Chaplin e un altro Modern Times.

1 commento:

guizzo ha detto...

Ok, un gran risultato. Ma di quanto materiale organico avremmo bisogno per produrre giornalmente 86 milioni (o giù di lì) di barili di bio-petrolio, per sostituire quelli che vengono quotidianamente estratti?
Inoltre qualsiasi agricoltore o normale cittadino con un po' di pollice verde sa che i resti vegetali (e gli scarti degli animali) vanno lasciati sul terreno per concimarlo e non impoverirlo.. Come pensare che tutti potremmo riscaldarci a legna (che finchè non viene usata da nessuno costa poco, come gli scarti vegetali): già gli antichi romani erano arrivati alla deforestazione. Nulla si crea nulla si distrugge: quello che prendi da una parte ti mancherà dall'altra. Il petrolio è lì da milioni di anni e abbiamo potuto prenderlo. Il resto? Alla fine, solo il Sole è una fonte abbastanza abbondante da non poter esaurita dall'uomo, e solo trovando il modo di utilizzarne l'energia e accumularla a buon prezzo potremmo risolvere il problema.. Penso all'idrogeno, per ora grande utopia