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28 maggio 2007

L'outsourcing colpisce anche i servizi sanitari

Dalla periferia di Filadelfia, dove il Crozer-Chester Medical Center accoglie ogni giorno centinaia di pazienti, alle colline di Gerusalemme il passo è breve: se mai vi capitasse di essere ricoverati durante la notte nel gigantesco ospedale all'incrocio fra Pennsylvania, Delaware e New Jersey, con una sospetta appendicite o con qualche osso rotto, le vostre radiografie verrebbero esaminate dal dottor Jonathan Schlakman e colleghi nel Media Medical Imaging di Gerusalemme, all'altro capo del mondo. Per chi lavora su immagini o altre informazioni facilmente trasferibili in forma digitale, la distanza ormai non è più un problema. Al momento solo 35 serie di radiografie al giorno vengono trasmesse da Filadelfia a Gerusalemme, ma più cresce la paga dei radiologi americani e i turni notturni diventano un lusso per gli ospedali, più radiografie finiranno in Medio Oriente - dove un radiologo costa la metà e dove splende il sole quando è notte a Filadelfia - per decidere se è il caso di operare subito o no. Per ora Schlakman e compagni sono solo una manciata, ma lo sviluppo delle nuove tecnologie applicate alla medicina sembra destinato a trasformarli in una vasta schiera. La radiologia offshore è il primo esempio di telemedicina transcontinentale che potrebbe dare lo scrollone finale all'unità di luogo, tempo e spazio che fino ad oggi aveva caratterizzato il settore. Che bisogno c'è, infatti, di avere un radiologo a girarsi i pollici in ospedale, soprattutto di notte, quando si può far prima e risparmiare rivolgendosi a un radiologo indiano, sorta di traduzione medica dell'idraulico polacco? L'Europa, se si escludono alcuni timidi tentativi in Gran Bretagna, è per ora immune dalla versione offshore della telemedicina, riservata a reti diagnostiche che si arrestano ai confini nazionali. La stessa direttiva Bolkestein, dopo lungo protestare e mediare, si è fermata davanti al sacro tempio medico escludendo, di fatto, i servizi sanitari dalla liberalizzazione. Ma nel selvaggio West i puledri dell'outsourcing galoppano e sono ormai centinaia gli ospedali statunitensi e canadesi che esternalizzano servizi medici essenziali a società in Israele, India, Pakistan, Cina, Brasile e Australia. Tutto ciò che corre dentro un filo è passibile di outsourcing. Come riferisce Robert Wachter, del dipartimento di Medicina dell'Università della California a San Francisco, oltre all'interpretazione delle radiografie, “il fenomeno sta investendo le terapie intensive, gli interventi di chirurgia a distanza e le cosiddette trascrizioni mediche: le unità di terapia intensiva elettroniche, per esempio, consentono al medico di seguire il proprio paziente anche in remoto, osservando l'andamento dei parametri vitali e intervenendo in caso di bisogno direttamente via computer o allertando il personale residente”. Le trascrizioni mediche sono un caso ancora più peculiare di outsourcing. Da alcuni anni grosse compagnie forniscono a centinaia di ospedali nordamericani un servizio che consente ai medici di ottimizzare il proprio tempo. In che modo? Dettando casi clinici, diagnosi e prescrizioni a veri e propri scribi moderni, che si trovano dall'altra parte del globo e che devono avere pochi requisiti: comprendere lingua inglese e terminologia medica e, soprattutto, richiedere un compenso esiguo. Da dove parte la tendenza a delegare servizi medici all'esterno di un ospedale e addirittura fuori dai confini di uno Stato? Di certo uno dei complici è lo sviluppo tecnologico, che ha portato alla digitalizzazione della medicina, ma altrettanto importante è la convenienza economica: un radiologo indiano guadagna circa 25mila dollari l'anno contro i 350mila di un collega americano. Oltre al risparmio di soldi e tempo, il teleconsulto e la teleradiologia potrebbero aumentare la qualità delle prestazioni, diffondendo la pratica del secondo parere e consentendo a comunità non servite da ospedali specialistici di fare riferimento a centri di eccellenza. “Sono convinto che l’outsourcing in medicina non possa che migliorare il livello delle cure”, sostiene Paul Berger, un pioniere della teleradiologia, che ha fondato nel 2001 la NightHawk Radiology Services, leader americana dei servizi di radiologia notturna. Ma molti non sono del suo stesso parere. “Bisogna riflettere sulla qualità di queste prestazioni 'dislocate', che possono tradursi in un mero dumping in mano a operatori senza scrupoli”, sostiene Wachter. Il rischio di un declino qualitativo delle prestazioni mediche ha indotto il Congresso a consentire per legge il servizio medico in remoto solo a chi abbia ottenuto un'abilitazione professionale negli Stati Uniti. Tuttavia, si moltiplicano le segnalazioni di veri e propri ghost reader, ossia schiere di tecnici anonimi e meno qualificati che lavorerebbero a nome di pochi medici autorizzati a fornire teleconsulto. Anche la tutela della privacy rischia di uscire a pezzi dalla medicina 'dislocata', caratterizzata da flussi continui di dati clinici da una sponda all'altra dell'Oceano. Una legge bipartisan fatta approvare l'anno scorso da Hillary Clinton ha cercato di dare qualche regola rendendo obbligatorio il consenso dei malati a inviare i propri dati all'altro capo del mondo. Ma la tendenza sembra inarrestabile. E va ad alimentare l'emorragia di posti di lavoro nei servizi - non più solo nel comparto manifatturiero - dall'Occidente verso i Paesi in via di sviluppo. “Nel secolo scorso - spiega Brad Delong, docente di Economia a Berkeley - chi lavorava la terra o in una fabbrica sapeva di essere in competizione con i lavoratori di continenti lontani, sapeva che le dinamiche del mercato globale possono far sparire il vantaggio di mantenere in Occidente la produzione, spazzando via il suo lavoro e il sostentamento della sua famiglia. Oggi si sta aprendo un nuovo capitolo: i cavi in fibra ottica, i satelliti e Internet stanno assumendo il ruolo svolto nel secolo scorso dai grandi transatlantici, che hanno minimizzato il costo del trasporto delle merci. Tutti i compiti di back-office, di elaborazione dati, di servizio clienti, di programmazione informatica, tutte le mansioni tecniche che si basano su un supporto cartaceo ora si possono spostare verso continenti lontani, esattamente come nel secolo scorso si è spostata una parte dei posti di lavoro agricoli o manifatturieri”. Per Delong, acceso paladino della globalizzazione, in fondo non c'è niente di male, anzi: “Questa riallocazione di posti di lavoro finirà per diventare una straordinaria fonte di crescita per l'economia mondiale nelle prossime due generazioni”. Giusto. Ma come spiegarlo al giovane radiologo disoccupato di Siracusa?

25 maggio 2007

Sumitra Dutta

Internet, cellulari, nanotecnologie, biotecnologie, biocarburanti. Le ondate dell' innovazione, che crea il futuro distruggendo il passato, si susseguono a ritmi sempre più serrati. «Per crescere non si può continuare a fare le stesse cose, solo più intensamente. Spremere profitti sempre più esigui dall' attuale ventaglio di prodotti, servizi e processi è una strategia perdente». Sumitra Dutta, guru indiano dell' innovazione e vice preside dell' Insead di Fontainebleau, non ha dubbi: «Se vogliamo mantenere la nostra prosperità, il sistema produttivo deve puntare a creare qualcosa di nuovo», una tesi già sostenuta nei suoi best seller "The Bright Stuff" e "Embracing the Net". Dutta è una delle pochissime intelligenze asiatiche di punta approdate ai vertici di una business school in Europa continentale, dopo aver sperimentato in prima persona i processi aziendali americani in Schlumberger e in General Electric, oltre alla potenza di fuoco del sistema accademico d' oltreoceano con tre anni d' insegnamento alla Haas School of Business di Berkeley. Ora è molto impegnato nello sviluppo di una politica europea dell' innovazione e presiede il panel Innova della Commissione Europea. La sua ultima fatica si chiama Global Innovation Index, con cui ha cercato di quantificare precisamente la predisposizione dei singoli Paesi all' innovazione.
Con cinque Paesi nella Top Ten e 11 nei primi 20, l' Europa non è messa malissimo, ma resta ben distante dagli Usa nei singoli punteggi...
«Gli americani giocano in una lega a sé stante: godono di un ambiente ideale per stimolare l' innovazione e sono i più bravi a sfruttarla. Con l' eccellenza dei loro istituti di ricerca attraggono le menti migliori dal mondo intero, mobilitano i capitali necessari per mettere a frutto le loro idee e hanno i mercati più efficienti per farli circolare. In più, una massa di consumatori esigenti mantiene le aziende sempre sul chi vive. Malgrado ciò, si vede qualche crepa».
Dopo l' 11 settembre?
«Sì, le misure di sicurezza hanno aumentato la burocrazia e reso il sistema un po' meno fluido, quindi meno attraente. Nel contempo, le economie asiatiche sono molto cresciute e quindi offrono più opportunità alle menti che una volta emigravano per forza. Prendiamo ad esempio la mia classe: su 25 diplomati all' Indian Institute of Technology di Delhi, siamo finiti quasi tutti negli Stati Uniti. Oggi, a distanza di vent' anni, la stessa classe avrebbe destinazioni molto più variegate. In particolare, per quelli che vogliono sapere dove va il futuro, la destinazione è chiara: andate a Oriente».
E' un' indicazione anche per le aziende?
«Per tutti. Studenti, manager, imprenditori. L' Oriente sta prendendo velocità. Noi, come Insead, siamo molto più dinamici grazie al nostro campus a Singapore. Nel Global Innovation Index il Giappone, Singapore e Hong Kong si sono piazzati nella Top Ten. La Corea è al 19° posto. Ma è ancora più significativa l' avanzata dell' India e della Cina, a quota 23 e 29. La classe media di questi due Paesi sta entrando in un' area di benessere che potrebbe portarli a ridefinire i confini dell' innovazione. Già oggi la Cina ha 300 centri di ricerca, seconda solo agli Stati Uniti. E un' ambizione smisurata. Per le aziende internazionali la sfida globale più importante sarà di trovare il modo migliore per attingere a questa enorme forza trainante».
Ma l' Europa non doveva diventare "l' economia più competitiva e dinamica del mondo" entro il 2010, in base all' agenda di Lisbona?
«Il sistema produttivo europeo è meno sclerotico di quanto si creda, ma la distanza che lo separa dagli Usa è ancora vasta. Regno Unito a parte, il resto d' Europa è molto più chiuso all' apporto esterno di capitale umano. I mercati finanziari sono frammentati e il flusso dei capitali meno sviluppato. Resta il fatto che la Germania (seconda dopo gli Usa) è il primo Paese esportatore del mondo e il Regno Unito (terzo) ha una straordinaria capacità di attrarre talenti».
L' Italia, al 24° posto, subito dopo l' India e poco più su della Cina, è in una posizione piuttosto scomoda...
«L' Italia è un bellissimo Paese, ma non ha ambizioni. Sembra soddisfatta della sua inadeguatezza. La leadership è debole, mancano icone di successo. Se raccogliamo un gruppo di giovani per la strada e chiediamo: Chi è il Bill Gates italiano?, non ce lo sanno dire. Anzi, non capiscono bene il senso della domanda. Per superare l' impasse, ci vorrebbe una forte spinta da parte del governo. Ma nulla si ottiene senza fatica. No pain, no gain».

14 maggio 2007

Manca acqua dolce? La si paghi salata

Emergenza sì, emergenza no. Il deficit idrico che si ripropone ormai tutti gli anni, con caratteri particolarmente drammatici questa primavera, rischia di finire in una farsa, con da una parte il consiglio dei ministri che proclama lo stato di crisi e dall' altra gli sberleffi di chi suggerisce: «Guardate il cielo, piove». Il governo - risponde Pier Luigi Bersani - si è accorto che piove. Ma non saranno certo due giorni di pioggia in più o in meno a risolvere un problema che sta diventando cronico. Nell' ultimo decennio si è registrato un calo del 20% della portata dei principali fiumi italiani, con relativa riduzione della produzione idroelettrica. E non sarà il pacchetto di risparmio predisposto dalla Protezione Civile sotto la spinta dell' emergenza a rimettere sui binari il treno deragliato dell' approvvigionamento idrico nazionale. La crisi però può mettere in luce un dato di fondo: l' acqua è un bene prezioso. E come tale va pagata. Solo così gli italiani - famiglie, agricoltori e industriali - smetteranno di sprecarla. «Bisogna adattarsi agli effetti di un clima sempre più arido - commenta Mauro D' Ascenzi, presidente di Federutility, l' associazione che raggruppa tutte le utility italiane operanti nel settore dell' acqua e del gas - passando dalla lunga tradizione di politica della domanda a una nuova stagione della pianificazione e gestione della risorsa disponibile». In pratica, se i bacini naturali non sono più efficienti come una volta, è l' efficienza dell' uomo che deve sopperire alla loro funzione. «L' acqua, che un tempo veniva raccolta dai nevai e dai ghiacciai durante l' inverno e poi rilasciata a poco a poco nella stagione calda in cui più serve all' uomo, ora dev' essere raccolta e conservata da noi - sostiene D' Ascenzi -. Va distribuita in modo corretto senza disperderla e utilizzata con parsimonia, contenendo i consumi e incrementando l' efficienza degli usi». A partire da un settore strategico come quello agricolo, principale colpevole e al tempo stesso vittima di questa crisi. L' agricoltura in Italia si beve 20 miliardi di metri cubi all' anno di acqua, ossia il 49% del totale disponibile, una percentuale altissima (e probabilmente sottostimata), che ci pone ben oltre la media europea del 30%. Al secondo posto c' è l' industria che usa il 21%, quindi la rete civile per il 19%, infine il settore energetico, che tra produzione idroelettrica e raffreddamento delle centrali arriva all' 11%. L' utilizzo irriguo, oltre a prelevare di più, è anche quello che restituisce meno acqua all' ambiente, attorno al 50% rispetto al 90% che ritorna disponibile dopo gli usi civili e industriali. A prezzi irrisori. I cittadini italiani la pagano 52 centesimi di euro al metro cubo, la metà della media europea, ma sempre più del prezzo stracciato fatto agli agricoltori, che spendono fino a 100 volte di meno. E solo in pochi casi vengono fatturati i reali consumi agricoli: su 190 consorzi di bonifica, solo 10 li contabilizzano, mentre tutti gli altri fanno pagare un forfait annuo sulla base della tipologia di colture e degli ettari. Un sistema che non incentiva certo un consumo improntato al risparmio. La proposta che tutti gli esperti mettono al primo punto di una nuova politica dell' acqua, dunque, è la revisione completa del sistema di tariffazione. «Altro che acqua libera per tutti!», è la critica di Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente e autore di un prezioso libro bianco sull' emergenza idrica, a uno slogan spesso ripetuto nei raduni ambientalisti. «Anzi - insiste Ciafani - qui ci vuole un affondo della forza pubblica contro chi scava pozzi abusivi attingendo alle falde nel sottosuolo senza pagare un centesimo; ci vuole un censimento preciso dei pozzi, come prescritto dalla legge Galli del ' 94, mai applicata. Serve un meccanismo di premi e penalizzazioni che valorizzi le esperienze virtuose e gravi sui consumatori più grandi, come nel caso delle aziende d' imbottigliamento delle acque minerali, che pagano meno di un centesimo al metro cubo una risorsa che, messa in vendita sugli scaffali di un supermercato, a noi costa 500-1.000 volte di più, garantendo ai produttori profitti da capogiro». Stesso discorso sui consumi agricoli. «Bisogna cambiare - precisa Ciafani - il sistema della vendita a forfait, garantita dalla quasi totalità dei consorzi di bonifica». Solo così si spingeranno gli agricoltori a ripensare il sistema d' irrigazione, quasi totalmente fondato sulla modalità a pioggia, per riconvertirlo ai sistemi di microirrigazione e a goccia, che possono garantire almeno il 50% del risparmio di acqua utilizzata. «Per compiere questa piccola rivoluzione - propone Ciafani - il mondo agricolo dev' essere incentivato, magari con strumenti di agevolazione fiscale simili a quelli che promuovono l' efficienza energetica nell' ultima Finanziaria». E poi bisogna avviare lo sfruttamento per usi agricoli o industriali delle acque reflue, che oggi vanno perse. Per mettere in piedi questo sistema, ampiamente diffuso in altri Paesi mediterranei come la Spagna, bisogna anzitutto modificare il decreto del ministero dell' Ambiente, che nel 2003 ha fissato limiti alla carica batterica mille volte più stringenti rispetto a quelli previsti dall' Oms, impedendo in sostanza il riutilizzo. Un nuovo meccanismo di prezzo s' impone anche per la rete idrica ad uso civile, ridotta a un colabrodo che lascia per strada il 42% dell' acqua immessa (il primato è di Cosenza con il 70%). Per ripararla servono soldi. «Da dove vengono? Che io sappia - è la spiegazione di D' Ascenzi - o vengono dalle tasse o da un inasprimento delle tariffe. Bisogna industrializzare l' intero settore. Chi avvertirà di più la crisi idrica quest' estate non saranno le aree dov' è piovuto di meno, ma quelle dove l' acqua non è stata "industrializzata". In alcune zone c' è un sacco d' acqua eppure la gente muore di sete. In California piove molto meno che in Sicilia, ma hanno quantità incredibili d' acqua per attività irrigue».

Acqua: serve una vera Authority

La consapevolezza passa per la trasparenza. «Ma se i dati sul sistema idrico non ci sono, come fanno a essere trasparenti?». Questo, secondo Roberto Passino, nuovo presidente del Comitato di vigilanza sull' acqua per il ministero dell' Ambiente, è il problema fondamentale. Passino, che è anche direttore dell' Istituto di ricerca sulle acque al Cnr, ne sa qualcosa: «L' ultimo quadro aggiornato del fabbisogno lo abbiamo fatto noi dell' istituto nel ' 99 - dice -. Una ricerca molto approfondita, ma anche quella basata su stime, mai su dati a consuntivo, perché gran parte dei consumi non si pagano o vengono pagati a forfait. Dopo di che, il nulla. Come si può pensare di governare un sistema su queste premesse?». Appunto. A lei la risposta. «Non si può. Del resto, manca un' Authority unitaria, come quella per l' energia. Il sistema idrico è frammentato e difficile da controllare. La struttura dell' approvvigionamento potabile, che pure soffre di innumerevoli allacciamenti abusivi e falle di ogni tipo, è l' unica di cui si può tracciare un perimetro relativamente preciso, se non altro perché gestita da aziende che hanno interesse a farsi pagare. Ma interessa meno del 20% del sistema». E il resto? «Il grosso del nostro patrimonio idrico è dato in concessione ai consorzi di bonifica, per soddisfare le esigenze irrigue degli agricoltori. Ma il sistema normativo che ha istituito i consorzi risale agli anni Trenta, quando si voleva incentivare l' uso dell' acqua per modernizzare un' agricoltura ancora arretrata, basandosi su una risorsa abbondante, anzi eccessiva. Erano gli anni in cui le pompe idrovore bonificavano le paludi della Pianura Padana aspirando l' acqua dalla terra e scaricandola nel Po. Oggi succede l' esatto contrario, con le chiatte che aspirano l' acqua del Po e la indirizzano verso i terreni agricoli». Senza monitoraggio? «Nella maggior parte dei casi, le tariffe non sono a consumo e quindi non c' è ragione di misurare precisamente i prelievi. I dati sul fabbisogno degli agricoltori sono stimati su parametri soggettivi e probabilmente riduttivi rispetto alla realtà. E se gli acquedotti italiani perdono il 40% dell' acqua prelevata alla fonte, non è nemmeno immaginabile la quantità di perdite delle reti irrigue. Per non parlare dei prelievi abusivi, che nel settore agricolo sono all' ordine del giorno, come anche negli usi industriali». I pozzi non vanno autorizzati? «Certamente. Ma da quando la legge Galli ha imposto il censimento dei punti di prelievo sotterraneo, nel ' 94, tutti si sono affrettati a costruirne di abusivi. Da allora ad oggi la scadenza delle notifiche è stata prorogata per otto volte in sordina, inserendo la norma in provvedimenti omnibus per mimetizzarla. Come con i condoni edilizi, questo modo di procedere incentiva gli abusi». E dunque? «Dunque non si conoscono i punti di prelievo sotterraneo e questo è uno dei motivi della crisi strutturale del sistema. I dati di utilizzo devono essere riordinati e monitorati. In questo modo si incentiverebbe anche l' uso di tecniche d' irrigazione più efficienti. Non dimentichiamo che la madre delle grandi imprese specializzate nelle tecnologie dell' acqua è la normativa restrittiva imposta nei loro Paesi d' origine. La necessità di diventare efficienti aguzza l' ingegno». Ma i titolari delle concessioni dovranno pur pagare un canone. «È un canone ridicolmente basso, che non supera l' 1% del prezzo finale agli utenti. Perdipiù molti consorzi di bonifica fanno anche commercio dell' acqua che hanno in concessione, vendendo l' utilizzo di acqua agricola per altri scopi: ad esempio la produzione elettrica, con ottimi profitti». Basterebbe aumentare il canone... «Non è così semplice. Occorre soprattutto rivedere i concetti che stanno alla base delle concessioni, rispettando le compatibilità economiche dei concessionari. Non bisogna dimenticare che anche queste concessioni, come tutte le altre in vigore in Italia, devono essere governate dai concedenti, non dai concessionari. Questo è un concetto che negli anni si è un pò perso di vista». Santuari difficili da smantellare? «I santuari vanno toccati e nella revisione del decreto ambiente, ora allo studio del ministro, ci sono diverse proposte radicali sulla gestione dell' acqua. Il sistema idrico italiano ha già dato troppo da mangiare oltre che da bere. Ora è arrivato il momento di cambiare questa cultura dei grandi finanziamenti e dei grandi sprechi per dedicarsi un po' all' efficientamento delle strutture che ci sono già. L' acqua in Italia c' è, basta smettere di rubarla e di buttarla via».

7 maggio 2007

Pippo Ranci

La rivoluzione del 1° luglio, terzo e ultimo atto della liberalizzazione elettrica, con l' apertura del mercato a 28 milioni di nuovi clienti, si avvicina a grandi passi. Ma noi rischiamo di presentarci nudi alla meta. «A meno di due mesi dalla scadenza non si sente nell' aria il clamore degli eserciti che ammassano le truppe, anzi, ho la netta impressione che questa data storica finirà per cadere nel vuoto». Lo prevede Pippo Ranci, professore di economia politica alla Cattolica e primo presidente dell' Authority per l' energia dal ' 96 al 2003, che sarà anche uno dei protagonisti del forum «Economia e società aperta», dove interverrà nell' incontro del 9 maggio su «Energia e sostenibilità alla Casa dell' energia». Ranci è stato uno degli attori principali nella liberalizzazione del mercato elettrico italiano, avviata con il decreto Bersani nel ' 99, e ha seguito da vicino le prime tappe della rivoluzione. Che adesso gli appare un po' appannata. Finalmente, dal 1° luglio, tutte le famiglie italiane potranno scegliersi il proprio fornitore, valutando le varie offerte contrapposte. La liberalizzazione dei grandi clienti, dalle utenze industriali in giù, ha portato l' Enel a scendere fino al 12% di questo mercato.
Pensa che anche sull' ultima tranche, controllata dall' Enel all' 80%, possa succedere qualcosa di simile?
«Lo escludo. Al momento attuale mancano gli strumenti per consentire ai consumatori di scegliere il migliore offerente e mancheranno le offerte commerciali da mettere a confronto. I margini di profitto sono bassi e le imprese di vendita non hanno una tradizione di furiosi combattimenti, come si è visto sul fronte del gas».
Che cosa intende per strumenti?
«Prendiamo la situazione del Regno Unito. Gli strumenti di questo mercato, l' unico veramente libero in Europa insieme agli scandinavi, sono la concorrenza, la trasparenza commerciale e l' informazione. Lì sono partiti dieci anni prima di noi, nell' 89, con la Thatcher. Hanno utilizzato un sistema più radicale, spezzettando l' ex monopolista in diverse aziende per sviluppare subito la concorrenza. Dopo dieci anni hanno dato la libertà di scegliere a tutti gli utenti, come sta succedendo da noi adesso, mantenendo delle tariffe di salvaguardia per tre anni in modo da accompagnare le famiglie con prudenza verso la liberalizzazione. Ora il mercato è maturo e funziona molto bene».
In pratica?
«In pratica sono 400mila i clienti - corrispondenti al 2% dei contratti - che cambiano fornitore ogni mese. I due terzi, secondo un sondaggio, lo fanno per risparmiare sul prezzo. Le offerte sono pubbliche e facilmente confrontabili, basta andare sul sito del regolatore, che pubblica i prezzi correnti in ogni zona e ha calcolato come il passaggio dall' operatore dominante al più conveniente su piazza comporti in media un 10% di risparmio. I consumatori vanno sul mercato e comprano quello che gli conviene di più, scegliendo liberamente se farsi guidare dal prezzo oppure da altri vantaggi, come la garanzia del marchio, la comodità della bolletta unica, l' energia verde. I pacchetti di energia si acquistano perfino al supermercato...».
Non stupisce che nel Regno Unito la liberalizzazione abbia portato a un crollo verticale dei prezzi. In Italia che cosa manca per arrivare a una situazione di quel tipo?
«Gli inglesi hanno avuto il coraggio di fare le cose in maniera più radicale. Ma anche partendo da una situazione più ambigua come la nostra, con il tempo, possiamo arrivare a un buon risultato. Il primo passo da affrontare subito è la riforma delle tariffe, che il governo continua a rimandare. Arrivare al 1° luglio con milioni di utenti che beneficiano della tariffa sociale pur non soffrendo un reale disagio economico significa minare alla base l' avvio della liberalizzazione, perché nessuno potrà offrire tariffe più convenienti di quella».
Quindi?
«La tariffa sociale dev' essere per pochi e legata all' indicazione di un reale disagio economico, non basata sul livello dei consumi, che è un dato ingannevole: oggi si premia il single che porta le camicie in lavanderia e si punisce la famiglia numerosa che deve fare una lavatrice al giorno. Avevamo già tentato a suo tempo di affrontare l' argomento, subito dopo l' avvio della prima apertura del mercato nel ' 99, ma sono misure che escono dall' ambito di pertinenza dell' Authority e i politici fanno resistenza. È una riforma impopolare, perché nel passaggio ci sarà un numero elevato di utenti che avrà un aumento percentuale forte, quindi si rischia una sollevazione. Per questo sarebbe stato opportuno metterla in cantiere ben prima del 1° luglio, in modo da informare bene la gente e dar tempo alle famiglie di abituarsi al nuovo sistema».
E come andrebbe strutturato il nuovo sistema?
«Abbiamo il vantaggio sull' Europa dei contatori digitali, che ormai l' Enel ha installato quasi dappertutto e anche le altre aziende stanno adottando su indicazione dell' Authority. Sfruttiamoli! Con l' aiuto della tecnologia si possono concedere delle tariffe agevolate fuori dalle ore di punta, che potrebbero alleviare il colpo per più danneggiati. Bisogna accelerare al massimo l' introduzione dei contatori digitali. Così si potrà approfittare della prossima tappa della liberalizzazione per avviare una fase transitoria incentrata sulle tariffe orarie».
Come vede il ruolo dell' Acquirente unico, il fornitore di ultima istanza che oggi approvvigiona le famiglie?
«Va eliminato. La funzione dell' Acquirente unico è già svolta dal mercato all' ingrosso, che da noi funziona abbastanza bene. Basterebbe potenziare la Borsa elettrica, sviluppando i prodotti derivati, che riducono il rischio di mercato e favoriscono la nascita di soggetti più giovani, disposti a sfruttare le opportunità della liberalizzazione».
Per andare fino in fondo con la liberalizzazione bisognerebbe anche potenziare le interconnessioni con l' estero...
«Non c' è dubbio. Bisogna dare una spinta alle merchant lines, che ora sono bloccate. Solo così potremo approfittare del mix di generazione europeo, più equilibrato del nostro. Ma ognuna di queste misure da sola non basta, vanno messe in atto tutte insieme, altrimenti non serviranno a nulla».

1 maggio 2007

Risparmio energetico, due pesi e due misure

In questo momento il mio pc consuma più di 150 watt, una volta e mezzo la potenza elettrica che potrei produrre pedalando con lena, pari a quella generata da un metro quadrato di fotocellule in pieno sole. Semplicemente per registrare quali tasti sto battendo. La stessa attività viene svolta da un palmare con un consumo di energia cento volte inferiore. Evidentemente la riduzione dei consumi energetici degli apparati elettronici va avanti a due velocità: quelli attaccati alla rete sprecano a piene mani, quelli che vanno a batteria risparmiano. Ci preoccupiamo di avere frigoriferi di classe A, pubblicizziamo ai quattro venti le lampade a basso consumo, ma abbiamo dimenticato d'imporre gli stessi standard a televisori, apparecchi hi-fi e computer. Basta un led per sprecare. La posizione di stand-by, con la spia luminosa accesa, comporta in genere un assorbimento di 2 watt all'ora, che moltiplicato per 20 (le ore della giornata durante le quali tv o hi-fi potrebbero essere spenti) e per 365 giorni l'anno totalizza un consumo di 14,6 kilowattora. Se i 14,6 kilowattora si moltiplicano per 21 milioni di famiglie, si ottiene un consumo di 306 milioni di kilowattora, per una spesa di 55 milioni di euro. E questo solo per un singolo apparecchio elettronico. Se si estende il calcolo a tutti i "punti luminosi" che restano sempre accesi nelle case degli italiani, la voragine si allarga. Per non parlare dei pc, domestici o aziendali, lasciati accesi anche di notte, che mettono in moto regolarmente il sistema di ventilazione 24 ore su 24. Considerando che l'energia consumata da 15 pc provoca emissioni di Co2 pari a quelle di un'automobile e che 30 miliardi di kilowattora vengono sprecati ogni anno solo dai pc che non vengono spenti a fine giornata, se ne deduce che una semplice dimenticanza fornisce un contributo non da poco all'effetto serra. Ma questo è solo un esempio di sprechi evitabili. Se anche l'umanità si dimostrasse improvvisamente più virtuosa e spegnesse tutte le lucine rosse che le capitano a tiro, resta il fatto che la pervasività dell'information technology incide sempre di più sui consumi elettrici del pianeta. Secondo uno studio recente di Lawrence Koomey, professore a Stanford e ricercatore del Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab), la quantità di elettricità consumata dai server mondiali è raddoppiata nel quinquennio 2001-2005 ed è destinata ad aumentare di un altro 75% entro il 2010. Globalmente, nel 2005 i server hanno consumato tanta energia da inghiottire l'intera capacità di generazione di una batteria di centrali elettriche da 141.000 megawatt. Considerando che un gruppo termoelettrico raramente supera i 400 megawatt di potenza e di solito una centrale ne contiene due, per mandare avanti i server di tutto il mondo ci sono volute almeno 180 centrali elettriche nel 2005. La bolletta elettrica dei server mondiali ha superato così i 7 miliardi di dollari. Lo studio di Koomey, sponsorizzato dal produttore di microprocessori Advanced Micro Devices, sta facendo il giro dei board mondiali, che ormai cominciano a rendersi conto di quanto cara gli costi la bolletta elettrica delle apparecchiature informatiche utilizzate in azienda. Molto di più del costo stesso degli apparecchi. "Generalmente - spiega Koomey - il budget dedicato all'information technology è separato dagli altri e chi lo gestisce non ha nessun incentivo a comprare macchine più efficienti, perché la bolletta elettrica non arriva a lui. Le aziende scoprono il problema solo se il responsabile dell'information technology e quello delle spese di gestione si mettono intorno allo stesso tavolo, un caso che succede raramente". Un collega di Koomey al Berkeley Lab, John Busch, ha calcolato che il consumo totale di energia causato da apparecchi elettronici negli Stati Uniti supera i 70 terawattora all'anno, equivalente al consumo residenziale complessivo di energia elettrica delle famiglie italiane (industrie escluse). Per produrre tutta questa energia si emettono 50 milioni di tonnellate di anidride carbonica all'anno. Secondo le sue stime, un terzo di questi consumi potrebbero essere tagliati usando in maniera capillare piccoli accorgimenti di power management già noti. Busch sta lavorando con le aziende produttrici di hardware a un progetto finanziato dal governo federale e dalla potente California Energy Commission, mirato ad aumentare i loro standard di efficienza, introducendo minime variazioni ai propri prodotti. Un progetto di cui alla lunga anche noi godremo gli effetti, visto che anche noi compriamo prevalentemente prodotti di aziende che hanno sede da quelle parti. Ma le difficoltà incontrate da Busch a entrare nei processi di produzione sono notevoli e i tempi sono lunghi. Negli ultimi anni una certa consapevolezza si è sviluppata anche nelle aziende produttrici di server: Intel, ad esempio, invece di rincorrere solo processori più veloci, che consumano sempre più energia, si è posta anche una serie di obiettivi da raggiungere nel campo dell'efficienza, imponendosi un benchmark di performance per watt molto ambizioso. Ma vaste inefficienze, secondo Koomey, sono ancora ampiamente tollerate nel settore. L'unico deterrente è la limitazione della potenza disponibile. "Negli stabilimenti - puntualizza Koomey - spesso c'è solo una certa potenza disponibile e quindi gli uomini dell'informatica non possono continuare ad aggiungere all'infinito server inefficienti alla loro collezione. Devono mettersi a ragionare in termini di risparmio. Ma non certo per una consapevolezza ambientale o per contenere la bolletta. Solo per un limite fisico imposto agli impianti".