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30 luglio 2003

Il private label vince la gara con i marchi

Negli Stati Uniti sono un prodotto su cinque, in Europa uno su quattro: ormai i marchi del distributore stanno vincendo la lunga maratona verso la conquista del portafoglio dei consumatori. Con tassi di crescita da far tremare le vene ai polsi dei marchi tradizionali e di tutta l'industria pubblicitaria, i generi di consumo (detti "private-label") prodotti direttamente dalle grandi catene di supermercati, che non hanno bisogno di marketing e quindi costano meno degli altri, corrono sempre più veloci sulle due sponde dell'Atlantico. Complice la crisi economica ma anche la loro qualità crescente, i marchi del distributore - un tempo considerati la Cenerentola dei supermercati - continuano ad acquisire quote di mercato importanti anche quando i consumi ristagnano. Secondo un'indagine Nielsen negli Stati Uniti sono cresciuti dell'8,6% negli ultimi due anni (4,3% nel 2002 contro l'1,7% dei marchi tradizionali), con un giro d'affari che ormai sfiora i 50 miliardi di dollari e supera il 20% del volume complessivo del commercio al dettaglio. In Europa, i Paesi più dinamici in questo settore sono la Spagna e la Germania: nella prima i private-label hanno conquistato nel 2002 una quota del 27% del mercato, con una crescita annuale di quasi tre punti percentuali; nella seconda hanno toccato il 33%, con un aumento di oltre due punti. Crescita robusta anche in Francia, in Olanda e in Italia (fanalino di coda d’Europa), dove le quote di mercato superano il 25%, il 21% e il 13%. Nel Regno Unito, dove i private-label ormai la fanno quasi da padroni, la quota è rimasta stabile ben oltre il 40%. Segue a ruota il Belgio, stabile al 37%. Ma la vera rivoluzione non sta tanto nelle crescenti quote di mercato di una categoria di prodotti che ancora un decennio fa veniva presa in considerazione soltanto dai consumatori in grandi ristrettezze economiche. E' soprattutto l'evoluzione interna, la sfida sulla qualità e sull’immagine che i private-label proiettano verso i consumatori a renderli un fenomeno del tutto nuovo. Tanto che anche i marchi tradizionali, perfino in un universo commerciale come quello americano dove godono di un potere quasi sovrannaturale, sono costretti a misurarsi con loro. "E' un errore pensare che i marchi dei distributori non siano veri marchi - ha detto qualche settimana fa il presidente e amministratore delegato di Procter & Gamble Alan Lafley in uno storico discorso ai suoi dipendenti - perché in molte categorie sono concorrenti ben più forti degli altri marchi tradizionali". Sono brand come Ol' Roy di Wal-Mart, il cibo per cani più venduto al mondo da quando ha recentemente sorpassato il venerando marchio Purina della Nestlé, o Kirkland, un marchio tuttofare (dai generi alimentari ai pannolini) della catena di grandi magazzini Costco, ormai diventato una leggenda sulla costa occidentale degli Stati Uniti. In California non è raro vedere gente che si accolla chilometri e chilometri in più per trovare un Costco dove comprarsi le noccioline Kirkland, molto migliori di tutte le altre marche, riempiendo poi - già che ci sono - il carrello anche di altri prodotti Kirkland. Lo stesso "Consumer Reports", la Bibbia dei consumatori americani, dà sempre più spesso voti migliori ai prodotti dei private-label che a quelli dei marchi tradizionali: ad esempio le patatine dei supermercati Kroger (che produce in proprio ben 4300 diversi generi alimentari in 41 fabbriche sparse per il Paese) l'hanno recentemente spuntata sulle Pringles. Anche lo sforzo per adeguare l'immagine dei private-label sta dando i suoi frutti: non più confezioni dimesse e senza nome, ma design attraente e sempre più sofisticato. Wal-Mart ha assunto un team di creativi solo per disegnare le etichette dei suoi marchi e spesso le sue confezioni sembrano più di lusso di quelle dei marchi più famosi (e costano di meno). L’effetto è sotto gli occhi di tutti: ormai il 75% dei consumatori americani ascrive ai private-label lo stesso valore dei marchi tradizionali e l’83% ne acquista regolarmente. Un segnale particolarmente positivo è che i marchi del distributore hanno i giovani dalla loro parte: in Europa, i loro sostenitori più affezionati stanno nella fascia fino ai 25 anni, cioè fra i consumatori di domani. I dettaglianti, naturalmente, sono entusiasti di questo trend. Sui private-label, infatti, riescono a spuntare margini molto superiori rispetto agli altri prodotti: secondo le stime più accreditate si arriva al 35% contro il 25% dei marchi tradizionali. E molte piccole catene di supermercati cavalcano la tigre coalizzandosi per creare private-label da condividere. La conseguenza più immediata è un processo di concentrazione tra i marchi tradizionali, in cui i brand meno forti, che soffrono di più dell’assalto, vengono abbandonati a se stessi o addirittura eliminati. Dal ’95 a oggi il colosso britannico-olandese Unilever, ad esempio, ha ridotto i suoi brand da 1600 a duecento. Procter & Gamble sta seguendo un itinerario analogo: tutti gli sforzi di marketing si concentrano sui marchi di primo piano e gli altri restano al palo. Ma puntare tutto su pochi cavalli vincenti non basta: per ripianare le perdite sui marchi di serie B, le regine dei consumi hanno bisogno di una strategia alternativa. E mentre fino a dieci anni fa produrre per i private-label era considerato dai marchi tradizionali un tabù invalicabile (un top manager della Gillette lo paragonò una volta a "vendere la propria anima"), oggi Kraft, Nestlé, Kimberly-Clark, Unilever e compagne cominciano ad attrezzarsi per fare proprio questo. Secondo fonti interne, Procter & Gamble ha silenziosamente avviato proficui rapporti con la grande distribuzione in Europa, per cui produce carta igienica e salviette che noi troviamo sugli scaffali dei supermercati come private-label. Per ora si tratta di volumi minimi, ma il valore simbolico della mossa è rilevante. Perfino Campbell Soup, l’icona pop degli anni Sessanta, sforna minestre per la grande distribuzione europea. Della serie: se non puoi batterli, unisciti a loro. In ultima analisi, la travolgente avanzata dei private-label si può ricondurre al trionfo della comunicazione diretta, che la grande distribuzione intrattiene con la propria clientela. Per far comperare alla casalinga di Voghera un prodotto targato Esselunga, non occorrono gli spot televisivi: basta metterlo bene sullo scaffale e appendere qualche cartello in giro per il supermercato. Se è vero, come riuslta da molteplici sondaggi, che tre quarti delle decisioni d’acquisto vengono prese nel negozio e non davanti alla tv, si capisce meglio perché gli sforzi del marketing si concentrino sempre più sul canale distributivo. Per i marchi tradizionali, insomma, è il danno e la beffa: non solo i distributori fanno loro concorrenza con i propri marchi, ma gestiscono anche la comunicazione per i loro.

28 luglio 2003

Quando l'azienda ti spia

In principio c’era Frederick Winslow Taylor. E’ stato lui, l'inventore del management come disciplina scientifica, a suggerire a cavallo fra ‘800 e ‘900 l’idea di monitorare i tempi di produzione di ogni lavoratore con un cronometro. Poi, ai giorni nostri, sono arrivati i capi del personale che vietano le telefonate private durante l'orario di lavoro o limitano l'accesso a internet dei loro dipendenti. Un broker di Merrill Lynch, ad esempio, ha dichiarato recentemente a un giornale americano che nella banca d'affari è stato introdotto il divieto di entrare nel sito di eBay: "Si fidano di darti in mano milioni di dollari dei loro clienti da investire, ma non si fidano di farti navigare liberamente su internet", è stato il suo commento sarcastico. L’approccio sistematico di Taylor ha segnato l’inizio di una vera e propria rivoluzione nella gestione aziendale, ma c’è chi sospetta che non abbia aiutato molto ad aumentare la produttività. Ad esempio secondo Michael Skapinker, esperto di management del Financial Times, “c’è un limite a quanto si possa spremere dalla gente misurando e monitorando le sue attività: soprattutto in un’economia basata sui servizi come quella di oggi, dove gran parte del lavoro consiste nel risolvere i problemi della clientela, la disponibilità ad ascoltare e la volontà di prendere l’iniziativa sono molto più importanti della capacità di portare meccanicamente a termine le proprie mansioni”. Skapinger, uno dei più ascoltati guru britannici della gestione aziendale, ha preso spunto per la sua requisitoria da uno studio di Edward Freeman e Kirsten Martin, della Darden Business School (Università della Virginia), in cui si segnala l’enorme aumento di questo tipo di controlli dall’avvento della rivoluzione digitale. La sofisticazione sempre maggiore degli strumenti tecnici consente ormai alle aziende di spiare i propri dipendenti fin nei più intimi particolari: basta esaminare il disco rigido di un computer per scoprire tutto quello che ci è transitato in entrata e in uscita, mentre è ancora più facile di una volta sorvegliare i movimenti e le conversazioni che avvengono all'interno dell'azienda. La stragrande maggior parte dei manager considera questo tipo di controlli del tutto normali e offre per giustificarsi una serie di ragioni che Freeman – inventore del concetto di stakeholder e grande teorico della responsabilità sociale delle imprese – divide in tre categorie salienti: la necessità di stimolare la produttività; l’obbligo di reprimere comportamenti illegali come la diffusione di materiale pornografico o le molestie sessuali per e-mail; il bisogno di tutelare le informazioni riservate, ormai sempre più vulnerabili ed esposte alle spie e ai sabotatori. Gli argomenti esposti dai top manager nello studio dei professori di Darden rimanda immediatamente alle teorie X e Y di Douglas McGregor, che cinquant'anni fa ha delineato in un testo magistrale (“The Human Side of the Enterprise”, McGraw-Hill) la differente atmosfera che regna nelle aziende convinte che i dipendenti vadano considerati come bambini cattivi e in quelle che preferiscono trattarli come adulti responsabili. Nel suo libro, McGregor individua due linee di condotta, che partono da due concezioni completamente antitetiche della natura umana: i fautori della Teoria X ritengono che la gente comune abbia in odio il lavoro e cerchi di evitarlo quando possibile; i fautori della Teoria Y invece pensano che il lavoro ci venga naturale quanto il divertimento. Di conseguenza, i manager di tipo X considerano indispensabile sorvegliare strettamente, dirigere, costringere e minacciare di punizioni le persone per farle lavorare. I manager di tipo Y preferiscono stimolare la libera iniziativa, l'autodisciplina e l'autocontrollo delle persone, coinvolgendole negli obiettivi dell'organizzazione. I primi credono che la maggior parte della gente sia priva di ambizione, rifugga dalle responsabilità e senta il bisogno di essere indirizzata. I secondi ritengono che la gente, in circostanze normali, impari non solo ad assumersi le proprie responsabilità ma anche a ricercarle. Per i primi il lavoratore medio apprezza la sicurezza del posto di lavoro sopra ogni altra cosa. Per i secondi il lavoratore medio apprezza la creatività e la persegue attivamente. E' evidente che partendo dalle due diverse premesse si arriva a due tipi di organizzazione molto diverse l'una dall'altra. E secondo McGregor è il tipo di organizzazione in cui si trova ad operare che porta il lavoratore a comportarsi secondo la Teoria X o Y, mai viceversa. Il maestro di Detroit, professore al Mit fino alla sua prematura scomparsa nel '64, naturalmente era convinto che i manager debbano imparare ad applicare il più possibile la Teoria Y, senza la quale è assolutamente impossibile portare un'impresa al successo, come ci viene dimostrato a suon di esempi nel suo libro. E Freeman è d'accordo con il maestro. Nel suo studio, intitolato "Some Problems with Employee Monitoring", Freeman mette in luce tutti i danni causati da un'eccessiva intrusione nella privacy dei dipendenti e gli scarsi risultati positivi ottenuti. Anche se gli impiegati sono consapevoli che l'azienda sia inevitabilmente portata a operare dei controlli sulla quantità e la qualità del lavoro svolto, è indubbio infatti che questo tipo di controlli - soprattutto se non vengono condotti apertamente - finiscano per erodere la fiducia reciproca fra dipendente e datore di lavoro. Per di più il monitoraggio, secondo Freeman, non risolve nulla, perché trattando i lavoratori come dei bambini da sorvegliare, si otterranno le stesse reazioni tipiche dei bambini che non vogliono essere sorvegliati.Un lavoratore poco motivato non diventerà più produttivo se gli si proibirà di usare Internet: invece di navigare in rete, passerà il tempo a spettegolare o a guardare fuori dalla finestra. Un impiegato che non vede il motivo di essere gentile e sollecito con i clienti potrà moderare i toni se ha paura di essere ascoltato, ma non offrirà quel tipo di servizio che distingue le aziende di primo piano dalle altre. Solo i manager più bravi ottengono questo tipo di prestazione dai loro dipendenti. E non certo leggendo le loro e-mail o misurando quanto tempo sono stati al telefono, ma solo instaurando un'atmosfera in cui la gente vuole davvero lavorare per contribuire al successo dall'impresa.

23 luglio 2003

Cellulari, nuova frontiera della pubblicità

I cellulari stanno diventando la nuova frontiera delle agenzie di pubblicità. Messaggi testuali o video, suonerie scaricabili, concorsi a premi e buoni sconto sono gli strumenti più usati per insinuarsi nella nostra quotidianità attraverso i piccoli schermi dei telefonini, il più intimo mezzo di comunicazione sulla piazza. C'era da aspettarselo: ne portiamo in tasca ormai oltre un miliardo e prima o poi era logico che anche questi aggeggi si trasformassero in un potente strumento di marketing. I vantaggi del wireless marketing sono evidenti. Da un lato la tecnologia è molto economica da usare: per mandare un messaggino bastano pochi centesimi e se il consumatore stesso, divertito, lo passa avanti è tanto di guadagnato. Dall'altro offre nuove possibilità di identificare le aree geografiche o i tempi migliori sulla base delle risposte ricevute, consentendo di mirare le campagne con precisione sempre più accurata. Inoltre è un mezzo molto adatto per mantenersi in contatto con dei consumatori che si muovono in continuazione. Il salto di qualità compiuto dalle agenzie specializzate è dimostrato dal fatto che per la prima volta una campagna di questo tipo ha vinto uno degli ambitissimi premi al festival della pubblicità di Cannes, a fine giugno. Il Leone d'argento è andato a 12snap, un'agenzia con sede in Germania ma molto attiva anche nel Regno Unito e in Italia. 12snap ha vinto con una campagna per la PlayStation2 della Sony che ha interessato 500mila giovanissimi tedeschi: poco prima di Natale i ragazzi hanno ricevuto una telefonata registrata da una nonna molto irritante che minacciava di passare a trovarli per le feste. I ragazzi potevano poi girare la telefonata a dei loro amici e contemporaneamente mandare ai propri genitori un altro messaggio, firmato Babbo Natale, in cui si comunicava il loro desiderio di ricevere in regalo la PlayStation2. La campagna ha avuto un effetto sensazionale: secondo una ricerca indipendente citata dai giudici di Cannes, il 25% dei partecipanti ha effettivamente ricevuto una PlayStation, contro il 5% del gruppo di controllo, oggetto di campagne convenzionali. Un altro segno di una certa maturità deriva dai nomi dei clienti che stanno fioccando su queste agenzie: McDonald's, Wella, KitKat figurano tra i clienti tedeschi di 12Snap, che in Italia ha fatto campagne per Cosmopolitan, Philips e United International Pictures (braccio distributivo internazionale di Universal, Paramount e Dreamworks). FlyTxt, leader nel Regno Unito, ha già oltre mille campagne al suo attivo per clienti come Coca-Cola, Bayer, Cadbury Schweppes e la Bbc. Una delle più memorabili è stata quella lanciata per Cadbury, in cui i consumatori venivano invitati a mandare un messaggio a un numero stampato sull'involucro di ogni barretta di cioccolata per sapere se avevano vinto un premio. La campagna ha generato cinque milioni di risposte, una cifra pazzesca per questo tipo di concorsi, di conseguenza ha avuto l'onore di essere citata nel bilancio di Cadbury come un fattore chiave nella spettacolare crescita del 21% delle vendite dell'anno scorso. E quando una campagna pubblicitaria finisce in un bilancio annuale, gli altri amministratori delegati se ne accorgono. Un'altra campagna FlyTxt di grande successo è stata quella lanciata per Bayer in Germania, in cui vengono inviate informazioni sul tempo e sui parassiti agli agricoltori, includendo uno slogan pubblicitario su prodotti Bayer e un numero di contatto. Vivendo molto fuori casa, anche i più tecnofobi fra i contadini tedeschi ormai si portano sempre dietro un telefonino e la risposta è stata ottima, tanto che Bayer sta pensando di ampliarla. MindMatics, un'agenzia che opera da Monaco, Bonn e Londra, si è avventurata invece nel campo dei buoni sconto: il buono arriva sotto forma di messaggio e viene poi riscattato alla cassa passando uno scanner sopra lo schermo. Per ora il sistema è stato usato solo da una catena tedesca di negozi di abbigliamento. Con l'ampliamento del mercato, anche le agenzie tradizionali cominciano a sbarcare sul nuovo segmento, alzando la barra della competizione per le specializzate. Il colosso Ogilvy è stato il primo a entrare in questo terreno di caccia finora eslusivo, ma non è l'unica categoria che guarda con interesse al nuovo fenomeno. Anche qualche operatore mobile, come la britannica O2 (ex BT Wireless) che ha già lanciato una campagna per Mars, si stanno organizzando con dei servizi interni. Insomma, come tutti i business che raggiungono una certa maturità, anche qui l'ambiente si sta facendo affollato. Il timore è che se il wireless marketing diventerà onnipresente, la potenza dell'impatto comincerà a calare e potrebbe anche instaurarsi un'irresistibile reazione di rifiuto. Secondo gli ultimi sondaggi della società di consulenza Carat Interactive, i consumatori europei non sarebbero disposti a tollerare più di quattro o cinque contatti al giorno e solo da operatori che hanno prima chiesto il permesso di mandarli. Le comunicazioni che attraggono di più sono le informazioni in tempo reale o i messaggi che offrono opportunità di interazione, come i concorsi a premi o i quiz. Ma il problema dei messaggini è che se diventano irritanti possono scatenare un rigetto molto più potente delle campagne convenzionali. "Dobbiamo assicurarci che la pubblicità sia fatta in modo che non solo rispetti la privacy, evitando lo spamming, ma crei valore aggiunto interessando e divertendo il consumatore", è il motto di Francesco Caselli, amministratore delegato di 12snap Italia. Insomma, sì alla crescita ma con giudizio.

20 luglio 2003

Dopo il tabacco, i cibi grassi sotto accusa

Prima c'è stato il tabacco. Poi la finanza allegra. Ora è il turno dell'industria alimentare. E all'orizzonte si profila un'ondata di cause per l'effetto serra. Per i consumatori, insomma, non c’è dubbio: la scelta dei prodotti da acquistare, che siano beni di consumo o investimenti, non discende esclusivamente dalla responsabilità dei singoli, ma anche da come il prodotto viene presentato. In altre parole: come faccio a sapere che il fumo fa male o che il grasso delle patatine può mandarmi all'altro mondo, se la casa produttrice non lo scrive chiaramente sul pacchetto? Messa così, la domanda sembra stupida. Eppure il problema della responsabilità giuridica delle aziende nei confronti delle scelte dei consumatori sta diventando uno degli snodi centrali del marketing di questo millennio. E gli effetti pratici sono già sotto gli occhi di tutti: dopo anni passati a offrire barrette di cioccolato e formaggini sempre più grandi, la Kraft ha appena annunciato l’intenzione di ridurre le dimensioni delle sue porzioni e di smettere di pubblicizzare i suoi prodotti nelle scuole. Si tratta chiaramente di una mossa difensiva, in previsione di doversi discolpare in tribunale per i problemi di obesità degli americani. Ed è anche il primo segnale che ormai dall'era del "più a meno" siamo passati all'era del "meno è più". La Kraft, del resto, non è la prima azienda alimentare a mettere le mani avanti: qualche mese fa la Pepsi ha deciso di eliminare i grassi più dannosi dalle sue patatine Frito-Lay, molto popolari fra i bambini, mentre la rivale Coca-Cola cominciava a recedere dai contratti di esclusiva che la legano a moltissime scuole. Fra i colossi dell'alimentare, insomma, si sta scatenando una concorrenza del tutto nuova: si fa a chi taglia di più, come se il cibo fosse nocivo quanto le sigarette. E' la stessa sindrome da cui sono state colpite le multinazionali del tabacco dopo decenni di conflittualità e miliardi di risarcimenti: per Philip Morris o R.J. Reynolds ormai il basso profilo è d'obbligo e l'ammonimento ai consumatori sui pericoli del fumo campeggia chiaramente su ogni pacchetto. Malgrado nel campo alimentare la conflittualità sia ancora ai primordi e per ora si stia concentrando soprattutto sulle catene di fast-food, è evidente che Kraft (del gruppo Altria come Philip Morris) o Pepsi non vogliono farsi cogliere impreparate. Non più tardi della settimana scorsa John Banzhaf, un professore alla Law School della George Washington University, ha mandato alle sei principali catene americane di fast-food - McDonald's, Burger King, Wendy's, Kentucky Fried Chicken, Taco Bell e Pizza Hut - una lettera di diffida in cui sostiene che l'alto contenuto di grassi e di zuccheri di alcuni loro prodotti può creare assuefazione e che questo fatto andrebbe indicato chiaramente su ogni menu. Per il momento la reazione dei magistrati sembra piuttosto scettica. Il parere di Robert Sweet, il giudice di New York che ha rigettato una causa intentata da due adolescenti obesi, è inequivocabile: “Nessuno è obbligato a mangiare da McDonald’s. Non è compito della legge proteggere la gente dai propri eccessi”. Assomiglia molto al commento di Milton Pollack, il giudice che ha respinto qualche mese fa una causa intentata da alcuni investitori danneggiati dallo sboom dei tecnologici contro Merrill Lynch e il suo analista di punta Henry Blodget. A differenza di altri investitori, che in effetti avevano comperato ingenuamente titoli hi-tech attraverso Merrill Lynch basandosi sulle false promesse di Blodget e quindi sono stati rimborsati, i querelanti ricorsi al giudice Pollack si sono rivelati degli speculatori perfettamente coscienti del rischio che stavano correndo: “Ora questa gente – è la tagliente risposta del giudice – spera di sfruttare la legge come un’assicurazione gratuita contro le perdite in Borsa”. Spesso è difficile distinguere fra ignari consumatori truffati e speculatori a caccia di aziende con la coda di paglia cui spillare dei soldi, ma è proprio su questo stretto crinale che corre oggi l’uomo del marketing, impegnato a propagandare un prodotto pur rispettando il diritto dei consumatori a essere correttamente informati anche dei suoi lati negativi. Naturalmente la gestione del risparmio presenta problemi diversi dall’industria alimentare. Mentre a un’azienda che vende tonno in scatola per poter scaricare ogni responsabilità dovrebbe essere sufficiente scrivere chiaramente sulla confezione che cosa c’è dentro (magari specificando anche le calorie), davanti alla scelta di un fondo d’investimento anche il consumatore più accorto e informato può perdersi nel labirinto dei pro e dei contro. Ecco dove il paternalismo delle aziende - cioè la manipolazione cosciente delle scelte dei consumatori - diventa utile e talvolta necessario, secondo un recente studio di Cass Sunstein e Richard Thaler, due docenti alla Law School dell’università di Chicago considerati due colonne dell’economia comportamentale. Nel loro studio intitolato “Libertarian Paternalism”, appena pubblicato dall’American Economic Review, Sunstein e Thaler spiegano come le scelte dei consumatori siano spesso dettate da considerazioni del tutto irrazionali, facilmente influenzabili con dei trucchi elementari: “Se a un gruppo di pazienti si dice che cinque anni dopo una certa operazione il 90 per cento degli operati è ancora vivo e a un altro gruppo si dice che il 10 per cento degli operati è morto, la maggior parte del primo gruppo sceglierà l’operazione mentre nel secondo gruppo la maggioranza sarà contraria”. Di conseguenza – concludono Sunstein e Thaler - la responsabilità delle aziende nelle scelte dei consumatori è molto maggiore di quanto si pensi e va esercitata con grande oculatezza, perché spingere i clienti ad agire contro i propri interessi finirà prima o poi per danneggiare le aziende stesse. “E’ falso – spiegano Sunstein e Thaler – pensare che la gente tenda a prendere delle decisioni che vanno nel suo interesse. Tutti gli esperimenti intrapresi negli ultimi anni lo dimostrano”. Ed è altrettanto falso che le aziende possano semplicemente offrire delle asettiche informazioni e poi ritirarsi in buon ordine lasciando che i clienti sbaglino da soli: “In moltissime situazioni, i vertici dell’organizzazione sono obbligati a prendere delle decisioni che influenzeranno in una maniera o nell’altra le scelte dei consumatori. Questo vale sia per il settore pubblico che per quello privato”. Tali decisioni – concludono Sunstein e Thaler - non sono mai neutrali: possono essere prese tenendo conto solo degli interessi immediati dell’azienda, di quelli dei consumatori o di entrambi. Ma in ultima analisi, per mantenere in piedi un rapporto duraturo e corretto, è il benessere dei consumatori che va considerato l’obiettivo primario.

11 luglio 2003

Cattedrali laiche in onore del dio marchio

Per chi arriva a Wolfsburg, Autostadt è decisamente la principale attrazione. Basta attraversare il canale che sta di fronte alla stazione per essere fagocitati anima e corpo nel mondo Volkswagen. Si può immergersi nel processo produttivo osservando una catena di montaggio al lavoro o assaggiare la sensazione di stare al volante su un simulatore: ogni marchio della prima casa automobilistica europea trova il suo spazio sotto il gigantesco hangar di vetro, da Audi a Vw, da Skoda a Seat, da Bugatti a Lamborghini, ce n’è per tutti i gusti. Autostadt è uno degli esempi più riusciti di marketing in 3D e viene visitata ogni anno da un milione di persone, tanto che si sta lavorando a un progetto gemello a Dresda, la città dell’ex-Germania Est dove Vw ha delocalizzato parte della produzione. Come Autostadt, di parchi a tema legati a un marchio famoso in giro per il mondo ormai ce n’è tantissimi. Dalla Heineken Experience di Amsterdam alla Guinness Storehouse di Dublino, dall’American Girl Place di Chicago (American Girl è una bambola famosa come Barbie negli Usa) alla Cereal City della Kellogg’s. The World of Coca-Cola, ad Atlanta, è il capostipite e il più muscoloso: dall’apertura nel ’90 a oggi ha macinato dodici milioni di visitatori. Basta moltiplicare per i sei dollari di biglietto e si capisce perché la regina delle bollicine sta mettendo in cantiere un altro investimento da 50 milioni di dollari per un nuovo parco che aprirà nel 2006. Ma l’idea che ha portato alla nascita di queste cattedrali laiche dedicate al dio marchio non è tanto di spremere ulteriormente la propria già affezionata clientela, ma di offrire al pubblico qualche motivo in più per restare affezionati al prodotto. Un’immagine domestica, un senso di appartenenza, un’esperienza. “Experience Economy” la chiamano i guru del marketing: è l’evoluzione dell’economia industriale in economia dell’esperienza, dopo la fase dell’economia dei servizi. La creazione di un parco ispirato alle origini, al contesto geografico e culturale, al ruolo storico svolto da un certo prodotto all’interno della società in cui è nato parte dal concetto che ormai non si tratta più di vendere oggetti ma esperienze. Perché in fondo, come sanno bene i pubblicitari, l’acquisto razionale, dettato da un’effettiva necessità pratica, è sempre più raro. Si compra per soddifare esigenze di altro tipo e soprattutto per rafforzare la propria identità, che ha sempre più bisogno di puntelli esterni per tenersi in piedi. Tutte le grandi marche tentano di entrare nell’orbita dei propri clienti instaurando una relazione di appartenenza, un’identificazione culturale che va molto al di là della fruizione immediata del prodotto. La Casa Bacardi a Portorico, che ha appena aperto, cerca ad esempio di ricreare il mitico ambiente della Cuba pre-rivoluzionaria. Fuggiti dall’Avana nel ’59, poco prima che Fidel Castro sequestrasse tutti i loro impianti, i Bacardi avevano forse qualche ragione più degli altri per voler riprodurre il loro mondo perduto a portata di turista. Con un investimento da 7 milioni e un pubblico previsto di cinquemila ingressi al giorno, i re del rum puntano su Casa Bacardi per aumentare la penetrazione sul mercato americano, loro sbocco principale, ma non rifuggono dalla vendita di gadgets di tutti i tipi tra un assaggio e l’altro di Cuba Libre. La motivazione di fondo, comunque, non è certamente il profitto immediato, come ha spiegato Michel Recalt - a.d. di Bacardi Global Brands - all’apertura. Ma il fenomeno si allarga a molte altre manifestazioni, da Ronald McDonald, il famoso ambasciatore del marchio di hamburger, che cerca con mille trucchi di far credere ai bambini di essere un personaggio vero come Babbo Natale, alla catena Starbucks, che ispirandosi all’esempio italiano ha fatto del caffè una vera e propria filosofia. Basta navigare sui siti Internet di qualche grande multinazionale per accorgersi che con tutti quei cieli azzurri e quel design sofisticato non vogliono diffondere informazioni, ma esperienze. Anzi, le informazioni diventano sempre più difficili da trovare, nascoste fra le pieghe di un universo a tutto tondo che tenta di avvolgere subdolamente chiunque entri. I parchi a tema, dunque, sono solo lúltima manifestazione di un’ormai ben consolidata economia dell’esperienza, contro la quale è perfettamente inutile resistere. Certo, anche l’economia dell’esperienza ha i suoi flop: nel ’99, ad esempio, Generla Motors ha investito 60 milioni di dollari in Opel Live, a Russelsheim, in Germania, per rivitalizzare il suo marchio più in difficoltà. Ma dopo due anni l’enorme parco, che annoverava fra le sue attrazioni anche un cinema in 3D, è stato drammaticamente ridotto per motivi di costi. Le perdite non sono state rese note, ma s’intuiscono drammatiche dalla rapidità della marcia indietro. Le critiche a questa teatralizzazione del marketing, del resto, non mancano. Da un lato, infatti, è molto difficile quantificare il vantaggio apportato al brand da questo tipo di iniziative e dall’altro bisogna stare molto attenti nella loro concezione per non scadere nel kitsch. “Se un parco a tema viene fatto male rischia di diventare la tomba del suo marchio invece che dargli una spinta”, commenta Gloria Garvey, di Brand Strategy Group, la più grossa società americana specializzata nel branding. “D’altra parte – puntualizza Garvey – spesso il disastro non dipende dal parco ma dalla debolezza del brand stesso, che non regge a un investimento di marketing così importante. Se fatte nelle dimensioni giuste, invece, queste iniziative possono davvero essere di grande vantaggio: in fondo non costano molto di più di una campagna pubblicitaria televisiva e diventano un’installazione permanente che nel giro di qualche anno ammortizza l’investimento iniziale. Per di più un centro dedicato, se fatto bene, comunica l’esperienza del brand molto meglio di qualsiasi campagna pubblicitaria”. Resta un unico problema: qualsiasi prodotto si può tradurre in uno spot, ma non tutti i marchi possono essere trasformati in un luogo.

6 luglio 2003

Il tramonto del company man

Credevamo che ormai gli eroi del nostro tempo fossero fatti come Homer Simpson, l’intraprendente capofamiglia dei Simpsons che passa da un’invenzione all’altra e non si lascia scoraggiare nemmeno quando finisce per radere al suolo la sua casa sperimentando un nuovo martello a motore, con cui peraltro fara’ fortuna. Da un episodio all’altro Homer si trasforma da magnate della birra in re delle zucche, fino alla classica fondazione di una internet company, dimostrando una fantasia imprenditoriale non da poco. E’ lui, ci dicevamo nei simposi universitari, il simbolo di quest’epoca sempre in movimento, dove le gerarchie aziendali sono andate gambe all’aria e le carriere lunghe una vita stanno gradualmente scomparendo. Sbagliato. In realta’, dagli studi piu’ recenti sembra dimostrato che l’uomo-azienda esiste ancora. Anzi, semmai i tempi di permanenza medi dei dipendenti in una stessa societa’ si stanno addirittura allungando, perlomeno nel mondo anglosassone, che era quello apparentemente piu’ colpito dall’affermazione di una cultura aziendale piu’ frammentaria e dinamica. Secondo una monumentale ricerca sul futuro del lavoro condotta dall’Economic and Social Research Council e pubblicata dal British Journal of Industrial Relations (Blackwell) a cura di Peter Nolan e Stephen Wood, che insegnano all’Universita’ di Leeds e di Sheffield, il mondo del lavoro si presenta oggi con caratteristiche molto piu’ convenzionali di quanto si tenda a credere ed e’ percorso da trend che vanno addirittura in direzione opposta ai miti piu’ affermati. Ad esempio l’impiego full time nel mondo anglosassone resta ampiamente dominante e interessa nove dipendenti su dieci. Le lunghe carriere interne a un’azienda non sono affatto scomparse, anzi: la permanenza in uno stesso incarico si e’ addirittura allungata da sei a sette anni e mezzo nell’ultimo decennio. Non emerge inoltre un aumento dell’imprenditorialita’: mentre i lavoratori indipendenti erano aumentati rapidamente dal 5 all’11% del totale tra il ’79 e l’84, oggi siamo ridiscesi al 7%. Questi e altri trend individuati da Nolan e Wood dimostrano che la rivoluzione digitale, pur nel suo dirompente impatto sulle organizzazioni aziendali a tutte le latitudini, in fondo ha avuto meno conseguenze di quanto si credesse comunemente. In particolare il famoso “company man”, dato per morto gia’ nel ’95 da Anthony Sampson, uno dei futurologi piu’ seguiti dagli studiosi di gestione aziendale, e’ ancora vivo e sembra piu’ in forma che mai. Nel suo famoso libro “Company Man: the Rise and Fall of Corporate Life” (HarperCollins), Sampson descriveva lo sfaldamento della cultura aziendale tipica delle grandi corporation, basata su una rigida struttura piramidale lungo la quale si riusciva ad ascendere piu’ facilmente per carriera interna piuttosto che paracadutandosi ai piani alti dall’esterno. Oggi, diceva Sampson in piena rivoluzione digitale, l’uomo-azienda che si identifica completamente con la filosofia della sua corporation e raggiunge una simbiosi perfetta con il suo ambiente di lavoro, tanto da perdere di vista la sua identita’ individuale, non potrebbe piu’ esistere, data la profonda trasformazione imposta dalle nuove tecnologie alla vita delle aziende. Ormai e’ il dinamismo, il talento individuale, la capacita’ di distinguersi dagli altri che vengono privilegiati sulla fedelta’ e la capacita’ di uniformarsi a un modello imposto dall’alto. In effetti, bastava fare un giro a Silicon Valley o dalle parti di Redmond per rendersi conto che la struttura classica dell’organizzazione tentacolare che non lascia spazio all’individuo era scomparsa. Ma non completamente. Ad esempio alla Bbc, un colosso nel mondo dei media globali con 27mila dipendenti e un bilancio annuale di oltre due miliardi e mezzo di sterline, si annidava ancora un uomo-azienda di energia non comune, Will Wyatt, che malgrado la rivoluzione digitale e tutte le altre rivoluzioni precedenti di cui ormai nessuno si ricorda e’ riuscito a rimanere al suo posto per ben 34 anni, scalando la piramide interna fino a diventare vice-direttore generale sotto John Birt e registrando con puntigliosita’ anglosassone tutti i trionfi e le carognate della mitica emittente pubblica britannica. Le sue osservazioni sono appena uscite in un capolavoro della cultura aziendale sulle rive del Tamigi, “The Fun Factory” (Aurum Press), che potrebbe essere preso ad esempio come un peana del concetto di uomo-azienda. Nel rivelare i complotti interni (tutti falliti) rivolti ad impedire al candidato esterno Greg Dyke di diventare il nuovo direttore generale, Wyatt si tradisce con una frase che andrebbe eletta a inno del company man: “Spesso penso che la Bbc trovi difficile assimilare i nuovi venuti”. La sua estrema diffidenza nei confronti degli esterni ci rimanda – mutatis mutandis - all’autobiografia di Jack Welch (“Jack Straight from the Gut”, Warner Business Book). Il mitico amministratore delegato di General Electric è stato un tipico uomo-azienda: approdato fresco di laurea, nel ’60, al regno delle apparecchiature elettriche per occuparsi dell’espansione di GE nella plastica, Neutron Jack ha scalato l’intera piramide aziendale fino a raggiungere la cima nell’81, per restarci poi vent’anni esatti, nei quali ha decuplicato gli utili e trasformato General Electric in una conglomerata che tocca praticamente tutti gli aspetti della vita umana. Imbevuto fino alle ossa di cultura aziendale, Welch l’ha modellata dal di dentro a sua immagine e somiglianza, per passare poi il testimone al suo clone Jeffrey Immelt, a sua volta un uomo-azienda che lavora in GE dall’82 e ha succhiato la cultura aziendale con il latte, visto che suo padre ci ha lavorato per ben 38 anni. Tutto il contrario del “manager volante” che si era affermato negli anni Novanta, quando una carriera tutta interna era diventata un incomodo più che un vanto per chiunque aspirasse alla cima. Tipico esempio di quest’attitudine è stata la nomina alla guida di Ibm di Lou Gerstner, un uomo di McKinsey che si era girato diverse blue chip (da American Express a Nabisco) prima di approdare a Big Blue nel ’93. Nel suo libro “Who Says Elephants Can’t Dance” (HarperBusiness), uscito alla fine dell’anno scorso, Gerstner sostiene a spada tratta che nessuno venuto dall’interno avrebbe potuto salvare Ibm, come – modestia a parte – è riuscito a fare lui. Fatto sta che il suo successore, Sam Palmisano, è in Ibm dal 1973. E che negli ultimi tempi Big Blue non gode di buona stampa su alcuni affarucci gestiti disinvoltamente ai tempi di Gerstner.