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30 novembre 2008

Eco-riconversioni per superare la crisi

Cinque progetti di riconversione industriale, un trend comune che emerge dal Nord al Sud della penisola: l'energia da fonti rinnovabili è il nuovo Eldorado, ricco di sussidi pubblici e di prospettive di sviluppo, su cui le imprese italiane puntano per susperare la crisi. Le eco-riconversioni ormai non si contano e i casi illustrati qui sono solo alcuni esempi di una vera e propria rivoluzione industriale in atto, che sta trasformando il tessuto produttivo del Paese. Basta fare alcuni numeri per rendersene conto. Con oltre 140 MW fotovoltaici installati e un giro d'affari sugli 800 milioni di euro solo nel 2008, in Italia il solare ha messo a segno un tasso di crescita del 500% rispetto all'anno precedente. E le prospettive di crescita, dati i generosi incentivi del conto energia entrati in vigore l'anno scorso, sono esponenziali. Nel 2009 si prevede l'installazione di altri 250 MW fotovoltaici, con un fatturato di 1.200 milioni. Un discorso analogo si può fare per l'eolico, in crescita quest'anno dai 2.700 MW installati a fine 2007 ai 3.400 previsti a fine 2008, con potenzialità di raddoppio entro il 2012, malgrado i tempi lunghissimi delle autorizzazioni. Per i biocarburanti, l'obbligo di miscelazione al 2% nel 2008 fino al 5,75% nel 2010, entrato in vigore ad aprile, sta causando un analogo boom, che coinvolge anche il settore agricolo. E questi dati descrivono solo lo sbocco a valle della filiera. Ma si sta mettendo in moto qualcosa anche a monte. Sorgono impianti di produzione di celle fotovoltaiche, parte lo sviluppo di pannelli cosiddetti "organici", che fanno a meno del silicio – con la innovativa joint venture fra Erg e PermasteelIsa - e si fa strada un primo tentativo di sfornare anche in Italia del silicio policristallino (la materia prima necessaria per le celle) da parte di Silfab, un'azienda fondata nel 2007 che ha già raccolto 84 milioni d'investimento da due partner asiatici, per cominciare a produrre nel 2009 in uno stabilimento a Borgofranco d'Ivrea. Sul fronte dell'eolico, il colosso danese Vestas ha inaugurato in aprile una nuova linea di produzione di aerogeneratori vicino a Taranto. Per i biocarburanti, il progetto Mambo di Assocostieri è all'avanguardia nell'estrazione di olio dalle microalghe su scala industriale. In pratica, è un intero comparto che nasce e prende il posto di altre produzioni ormai decotte.

PRIOLO
Chiusure e dismissioni degli stabilimenti petrolchimici - che negli anni Sessanta avevano portato nel Siracusano sviluppo economico e drammatiche conseguenze ambientali - lasciano oggi spazio per nuove produzioni. In questo processo s’inserisce il progetto di una raffineria di biodiesel della famiglia di petrolieri romani Jacorossi: l’impianto Ecoil produrrà, per un investimento di 33 milioni di euro, 200mila tonnellate di biodiesel all’anno e soddisferà così l’obbligo di miscelazione di tutto il carburante utilizzato in Sicilia. Occuperà 21 addetti e farà da terminale a una filiera agricola di 400mila ettari di piante oleaginose, generando almeno altri 300 posti di lavoro. Non avrà impatti sul suolo o sulle acque né emissioni in atmosfera, essendo biodegradabili sia la materia prima sia i prodotti.

RUSSI

La riforma comunitaria dell’industria saccarifera comporta la chiusura degli zuccherifici Eridania Sadam - che producevano circa la metà dello zucchero italiano - e la necessità di riconvertire ad altre produzioni le aree dedicate alla bieticoltura. Gli zuccherifici di Russi (Ravenna), Avezzano (L’Aquila), Castiglion Fiorentino (Arezzo), Fermo e Villasor (Cagliari), verranno riconvertiti in centrali alimentate a biomasse e oli vegetali per la produzione di energia elettrica (potenza complessiva 164 MW) dalla società PowerCrop, una joint venture fra il gruppo Falck e il gruppo Maccaferri, proprietario degli zuccherifici originari. La riconversione, con entrata in esercizio nel 2011, comporterà un investimento di 5-600 milioni complessivi e il mantenimento di 70-80 posti di lavoro per ogni impianto, oltre all’indotto agricolo.

CAIRO MONTENOTTE

Grazie a un investimento di 30 milioni di euro dell’armatore genovese Messina, l’ex Ferrania si trasformerà in Ferrania Solis e produrrà celle, moduli e impianti fotovoltaici con fornitura “chiavi in mano”. Storica produttrice di materiale fotografico, Ferrania è in crisi come tutte le aziende del comparto, da Kodak a Polaroid: l’attività è ormai ridotta al minimo e su 450 dipendenti, 300 sono in cassa integrazione. E’ stata recentemente acquistata da una cordata composta da Messina, Malacalza e Gavio, ma in luglio il gruppo Messina ha rilevato le quote degli altri due per realizzare uno stabilimento di pannelli, di cui in Italia c’è fortissima domanda. Inizialmente, Ferrania Solis occuperà direttamente una settantina di persone.

SCANDICCI
L’impianto ex-Electrolux passa dai frigoriferi al fotovoltaico e all’eolico. Con un investimento di 45 milioni in tre anni Energia Futura, società controllata dal fondo italo-americano Mercatech e dalla famiglia Lanari, la produzione verrà riconvertita in 3 linee produttive per l’assemblaggio di pannelli fotovoltaici e una linea di fabbricazione di rotori eolici. I 370 lavoratori saranno reimpiegati in scaglioni tra gennaio 2009 e il terzo trimestre del 2010. Energia Futura è attiva in tutte le fonti rinnovabili: fotovoltaico (sta costruendo in Sicilia l’impianto più grande d’Europa), termodinamico (partecipa agli studi Enea per il progetto Archimede), idroelettrico, eolico e biomasse.

MARZABOTTO
L’idea di un polo energetico sulle ceneri della cartiera Burgo di Marzabotto nasce dal progetto di Dufenergy, braccio energetico del gruppo acciaiero Duferco, d’installare una serie di impianti specializzati nella produzione di energia per i picchi di domanda. Sui 12 ettari occupati dalla cartiera - un impianto di produzione ad altissimo impatto ambientale già abbandonato e quindi destinato al progressivo degrado – saranno installati diversi impianti energetici di piccola taglia, fra cui un campo fotovoltaico, una centralina idroelettrica e un ciclo combinato a gas, per una potenza complessiva di 60 MW.

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Eco-riconversioni per superare la crisi

Cinque progetti di riconversione industriale, un trend comune che emerge dal Nord al Sud della penisola: l'energia da fonti rinnovabili è il nuovo Eldorado, ricco di sussidi pubblici e di prospettive di sviluppo, su cui le imprese italiane puntano per susperare la crisi. Le eco-riconversioni ormai non si contano e i casi illustrati qui sono solo alcuni esempi di una vera e propria rivoluzione industriale in atto, che sta trasformando il tessuto produttivo del Paese. Basta fare alcuni numeri per rendersene conto. Con oltre 140 MW fotovoltaici installati e un giro d'affari sugli 800 milioni di euro solo nel 2008, in Italia il solare ha messo a segno un tasso di crescita del 500% rispetto all'anno precedente. E le prospettive di crescita, dati i generosi incentivi del conto energia entrati in vigore l'anno scorso, sono esponenziali. Nel 2009 si prevede l'installazione di altri 250 MW fotovoltaici, con un fatturato di 1.200 milioni. Un discorso analogo si può fare per l'eolico, in crescita quest'anno dai 2.700 MW installati a fine 2007 ai 3.400 previsti a fine 2008, con potenzialità di raddoppio entro il 2012, malgrado i tempi lunghissimi delle autorizzazioni. Per i biocarburanti, l'obbligo di miscelazione al 2% nel 2008 fino al 5,75% nel 2010, entrato in vigore ad aprile, sta causando un analogo boom, che coinvolge anche il settore agricolo. E questi dati descrivono solo lo sbocco a valle della filiera. Ma si sta mettendo in moto qualcosa anche a monte. Sorgono impianti di produzione di celle fotovoltaiche, parte lo sviluppo di pannelli cosiddetti "organici", che fanno a meno del silicio – con la innovativa joint venture fra Erg e PermasteelIsa - e si fa strada un primo tentativo di sfornare anche in Italia del silicio policristallino (la materia prima necessaria per le celle) da parte di Silfab, un'azienda fondata nel 2007 che ha già raccolto 84 milioni d'investimento da due partner asiatici, per cominciare a produrre nel 2009 in uno stabilimento a Borgofranco d'Ivrea. Sul fronte dell'eolico, il colosso danese Vestas ha inaugurato in aprile una nuova linea di produzione di aerogeneratori vicino a Taranto. Per i biocarburanti, il progetto Mambo di Assocostieri è all'avanguardia nell'estrazione di olio dalle microalghe su scala industriale. In pratica, è un intero comparto che nasce e prende il posto di altre produzioni ormai decotte.
PRIOLO
Chiusure e dismissioni degli stabilimenti petrolchimici - che negli anni Sessanta avevano portato nel Siracusano sviluppo economico e drammatiche conseguenze ambientali - lasciano oggi spazio per nuove produzioni. In questo processo s’inserisce il progetto di una raffineria di biodiesel della famiglia di petrolieri romani Jacorossi: l’impianto Ecoil produrrà, per un investimento di 33 milioni di euro, 200mila tonnellate di biodiesel all’anno e soddisferà così l’obbligo di miscelazione di tutto il carburante utilizzato in Sicilia. Occuperà 21 addetti e farà da terminale a una filiera agricola di 400mila ettari di piante oleaginose, generando almeno altri 300 posti di lavoro. Non avrà impatti sul suolo o sulle acque né emissioni in atmosfera, essendo biodegradabili sia la materia prima sia i prodotti.
RUSSI
La riforma comunitaria dell’industria saccarifera comporta la chiusura degli zuccherifici Eridania Sadam - che producevano circa la metà dello zucchero italiano - e la necessità di riconvertire ad altre produzioni le aree dedicate alla bieticoltura. Gli zuccherifici di Russi (Ravenna), Avezzano (L’Aquila), Castiglion Fiorentino (Arezzo), Fermo e Villasor (Cagliari), verranno riconvertiti in centrali alimentate a biomasse e oli vegetali per la produzione di energia elettrica (potenza complessiva 164 MW) dalla società PowerCrop, una joint venture fra il gruppo Falck e il gruppo Maccaferri, proprietario degli zuccherifici originari. La riconversione, con entrata in esercizio nel 2011, comporterà un investimento di 5-600 milioni complessivi e il mantenimento di 70-80 posti di lavoro per ogni impianto, oltre all’indotto agricolo.
CAIRO MONTENOTTE
Grazie a un investimento di 30 milioni di euro dell’armatore genovese Messina, l’ex Ferrania si trasformerà in Ferrania Solis e produrrà celle, moduli e impianti fotovoltaici con fornitura “chiavi in mano”. Storica produttrice di materiale fotografico, Ferrania è in crisi come tutte le aziende del comparto, da Kodak a Polaroid: l’attività è ormai ridotta al minimo e su 450 dipendenti, 300 sono in cassa integrazione. E’ stata recentemente acquistata da una cordata composta da Messina, Malacalza e Gavio, ma in luglio il gruppo Messina ha rilevato le quote degli altri due per realizzare uno stabilimento di pannelli, di cui in Italia c’è fortissima domanda. Inizialmente, Ferrania Solis occuperà direttamente una settantina di persone.
SCANDICCI
L’impianto ex-Electrolux passa dai frigoriferi al fotovoltaico e all’eolico. Con un investimento di 45 milioni in tre anni Energia Futura, società controllata dal fondo italo-americano Mercatech e dalla famiglia Lanari, la produzione verrà riconvertita in 3 linee produttive per l’assemblaggio di pannelli fotovoltaici e una linea di fabbricazione di rotori eolici. I 370 lavoratori saranno reimpiegati in scaglioni tra gennaio 2009 e il terzo trimestre del 2010. Energia Futura è attiva in tutte le fonti rinnovabili: fotovoltaico (sta costruendo in Sicilia l’impianto più grande d’Europa), termodinamico (partecipa agli studi Enea per il progetto Archimede), idroelettrico, eolico e biomasse.
MARZABOTTO
L’idea di un polo energetico sulle ceneri della cartiera Burgo di Marzabotto nasce dal progetto di Dufenergy, braccio energetico del gruppo acciaiero Duferco, d’installare una serie di impianti specializzati nella produzione di energia per i picchi di domanda. Sui 12 ettari occupati dalla cartiera - un impianto di produzione ad altissimo impatto ambientale già abbandonato e quindi destinato al progressivo degrado – saranno installati diversi impianti energetici di piccola taglia, fra cui un campo fotovoltaico, una centralina idroelettrica e un ciclo combinato a gas, per una potenza complessiva di 60 MW.

Via la cravatta per risparmiare energia

Via la cravatta. Per l'Eni è questa la parola d'ordine dell'estate. L’iniziativa, nata due anni fa, consiste nel sollecitare i dipendenti a un abbigliamento meno rigoroso in ufficio, con l’obiettivo di risparmiare energia. I risultati dell’iniziativa lo scorso anno sono stati molto positivi: alzando di un grado la temperatura interna dei suoi uffici, il Cane a sei zampe ha ottenuto un risparmio di energia elettrica di 302.000 kilowattora, pari a una diminuzione dei consumi di energia elettrica per climatizzazione del 9% e a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica di circa 175 tonnellate. Il risparmio economico derivato dall’iniziativa è stato investito in progetti di sostenibilità, nell'ambito di un impegno per l’efficienza energetica che è stato anche oggetto di una vasta campagna pubblicitaria, volta a spingere le famiglie italiane verso un consumo più razionale delle risorse energetiche. Ma l'Eni non è un caso isolato. Incoraggiare i dipendenti a togliere la cravatta in ufficio è una metafora per affrontare un argomento decisamente concreto, la sensibilizzazione sul tema dei consumi attribuibili all’uso smodato dei condizionatori d’aria durante i mesi estivi. In Spagna, dopo che un'azienda importante come Acciona ha raccomandato ai suoi 4.000 dipendenti un abbigliamento informale, è lo stesso governo a lavorare a un pacchetto di misure di risparmio energetico da proporre a tutti gli spagnoli. In Inghilterra il look tradizionale dell'uomo d'affari è mutato e non è difficile incontrare gli gnomi della finanza che si aggirano per la City in maniche di camicia. In Giappone è stata varata la campagna "cool biz", lanciata due anni fa dall'ex premier Junichiro Koizumi, che ha inaugurato il nuovo stile casual per i dipendenti pubblici e ha fatto risparmiare al Giappone 70 milioni di kilowattora. In Cina è stato il segretario Hu Jintao in persona a chiedere di indossare solo una camicia a maniche corte.

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Nucleare? Il modello giusto è finlandese

Nucleare, sì grazie. Nel dibattito sempre più acceso sull' eccessiva dipendenza del nostro Paese dagli idrocarburi, si stacca dal rumore di fondo una proposta: consorziamoci. Di fronte alle riserve del ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani, che invita i nuclearisti a «fare due conti» invece di dare tutte le responsabilità agli ostacoli politici, per la prima volta alcuni industriali italiani scendono sul piano pratico, ispirandosi al modello finlandese, dove la corsa al nucleare è già ripresa da anni con un reattore in costruzione e altri due in progetto. «Un intervento di consorzio su uno o due impianti nucleari di nuova generazione in Italia mi sembra fattibile - propone Giuliano Zuccoli, presidente di Edison e capo operativo di Aem Milano, oltre che della nuova superutility del Nord insieme ad Asm Brescia -. Il mio gruppo - sostiene Zuccoli - sta cercando di raccogliere le compagnie elettriche su questo progetto. La logica suggerisce di unire le forze: ma ci vuole un consenso generalizzato, perché se qualcuno resta fuori si metterà a fare opposizione». Gli fa eco Giuseppe Pasini, amministratore delegato del gruppo Feralpi e presidente di Federacciai: «Qualsiasi iniziativa si apra sul nucleare, noi acciaieri saremo disponibili a partecipare, per abbattere i costi del kilowattora e aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti». «Non si può puntare solo sulle fonti rinnovabili, ancora troppo poco efficienti - fa notare Pasini -. Ma per smussare l' opposizione dell' opinione pubblica al nucleare, basata su informazioni sbagliate, ci deve venire incontro la politica». La politica, per ora, sta a guardare. «Cominciare oggi da zero un programma nucleare - ipotizza Bersani - significherebbe mettere in bolletta una quota di prezzo molto alta: non si può discutere di nucleare, come di qualsiasi altro progetto, senza conti alla mano». È proprio questo che le imprese elettriche italiane e le industrie più energivore stanno facendo, insieme. Zuccoli vede bene il modello finlandese proprio per il vasto consenso che è riuscito a raccogliere nel Paese, dove le comunità locali si contendono i nuovi impianti, considerati un volano per lo sviluppo tecnologico del territorio. Un' alleanza di sessanta produttori, distributori e consumatori di elettricità ha consentito di finanziare la nuova centrale, che entrerà in funzione nel 2010, senza alcun costo aggiuntivo sulla bolletta elettrica e senza sussidi statali. «Solo un sodalizio di questo tipo può far uscire l' Italia dal vicolo cieco in cui si è cacciata, ma la scelta va fatta oggi, se non vogliamo che domani i nostri figli ci maledicano», insiste Zuccoli, che prevede uno scenario devastante per l' Italia da qui a dieci anni senza l' opzione nucleare: «Avremo molto più inquinamento che all' estero, l' energia sarà più cara e l' approvvigionamento più incerto». Per realizzare il suo progetto, Zuccoli punta alla collaborazione con partner internazionali: il pensiero è alla svizzera Atel, di cui Aem detiene il 5,8%, ma anche ai francesi di Edf, attraverso Edison. «Bisogna inserirsi nella rinascita del nucleare - sottolinea Zuccoli - ora che l' industria europea si sta muovendo per rimpiazzare le centrali obsolete, come in Francia o in Finlandia». La novità del modello finlandese sta nella capacità di coniugare i costi del nucleare con un sistema elettrico europeo pienamente liberalizzato, senza favoritismi da parte dello Stato o pianificazioni di stile sovietico. «L' esperienza finlandese - spiega Alessandro Clerici, presidente del gruppo di lavoro del World Energy Council sul futuro del nucleare in Europa e coordinatore della task force confindustriale sull' efficienza energetica - parte dalla fondazione di Tvo, formazione di una società senza scopo di lucro cui partecipano 60 imprese della domanda e dell' offerta, impegnandosi a prelevare ciascuna pro quota tutta l' energia prodotta dal nuovo impianto di Olkiluoto con dei contratti take or pay di lungo termine».

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Joi Ito

Non sono in molti a potersi vantare di aver buttato i libri alle ortiche per ben due volte. Joi Ito, venture capitalist fra i più arditi della New Economy, è uno di loro: ha abbandonato prima la Tufts University e poi l'università di Chicago per fare il dj a Tokio. Definito dal World Economic Forum come uno dei 100 leader del futuro, Joi è un consulente, manager e attivista fra i più interessanti della cultura digitale. Nato a Kyoto 39 anni fa ma educato negli Stati Uniti, Joi è tornato in patria da adolescente e ha costruito il suo successo agli albori di Internet in Giappone, dove ha fondato Neoteny, società di venture capital con cui ha raccolto finanziamenti per 20 milioni di dollari. E' stato fra i primi a investire nei blog e nei wiki, creando Six Apart, una software house specializzata che presiede tuttora, Technocrati, il principale indice di weblog con 7 milioni di utenti, e SocialText, un'impresa dedicata a integrare l'idea dei wiki nei software aziendali. E' consulente del governo giapponese e membro del board di Icann, la più importante autorità regolatrice del web. Ma soprattutto è impegnato nel sostegno della conoscenza condivisa attraverso il suo blog ed è stato uno dei fondatori di Creative Commons (www.creativecommons.it), l'organizzazione inventata dal giurista di Stanford Lawrence Lessig, per ridefinire la concezione di proprietà intellettuale nell'era digitale.
In che cosa consiste la sharing economy? Quale modello di business si può creare con la condivisione delle risorse in rete?
“La sharing economy non vuole distruggere i modelli di business dell'economia tradizionale, ma trovare un suo spazio al suo fianco. Nella fotografia amatoriale, per esempio, chiunque può scattare una fotografia e se è vero che le gallerie non guadagnano nulla, è comunque un settore che ha alle spalle un grande business, decisamente maggiore di quello della fotografia professionale. Allo stesso modo, ci sono diversi soggetti economici nella sharing economy: i produttori di software e di hardware e chi fornisce l’infrastruttura. Quindi non si guadagna più sul copyright, ma sugli strumenti che permettono alle persone di creare contenuti e di condividerli. L’industria che produce contenuti protetti da copyright non scomparirà, così come non è scomparso il segmento della fotografia professionale, ma si stabiliranno nuovi rapporti e nuovi equilibri. Io non credo che bisognerebbe permettere la condivisione di materiale sotto copyright, ma sono convinto che occorra consentire alle persone di condividere i contenuti prodotti da loro stessi”.
Ma i blog dei singoli, ad esempio, non hanno un marchio consolidato che permetta ai lettori di valutarli, nel bene e nel male. Come si risolvono questi problemi di valutazione?
“La questione si sta evolvendo, ma ci sono essenzialmente due meccanismi che determinano la valutazione dei blog. Il primo è la reputazione e già oggi un blogger ben conosciuto probabilmente ha una reputazione pari a quella di un redattore di un quotidiano. Ma esiste anche un secondo modello di autorevolezza online, incarnato tipicamente da Wikipedia, dato dal fatto che gli articoli, anonimi, devono riuscire a sopravvivere alla lettura di centinaia di migliaia di persone, con un meccanismo molto democratico. Quindi dei metodi alternativi esistono, oggi non conta più solo il marchio di una testata con un centinaio di anni di storia alle spalle e io credo che il pubblico si abituerà a sfruttare sia il modello della reputazione tipico dei blog, sia il modello anonimo e democratico di Wikipedia”.
Lei parla di una classe creativa universale che incarna questa nuovo modello di economia condivisa. Da come la descrive lei sembrerebbe un gruppo molto omogeneo, ma ci saranno pure differenze culturali fra queste persone a seconda della provenienza...
"Naturalmente le differenze ci sono. Ad esempio Internet e i blog sono molto di moda negli Stati Uniti, in Cina, in Iran e in Polonia. Oltre 200 milioni di americani hanno un indirizzo di posta elettronica e una ventina di milioni hanno un blog, mentre in Germania o in Italia molta gente non sa nemmeno che cosa sono. In alcuni Paesi asiatici e in Israele ci sono ormai più telefonini che persone. In Europa, invece, la televisione digitale è a uno stadio molto più avanzato che altrove. Ma la convergenza fra queste varie piattaforme è ormai talmente sviluppata che le diverse categorie cominciano a sovrapporsi e i consumatori di punta dei vari generi rientrano nello stesso calderone comune. Si forma così una classe sovranazionale, che secondo le stime più attendibili in Europa arriva a circa 35 milioni di persone mentre negli Stati Uniti sfiora i 40 milioni, con molte caratteristiche comuni. Ci sono più similitudini, ad esempio, fra i bloggers americani e iraniani che non tra gli abitanti dello stesso Paese che usano o non usano Internet".
Qual'è la funzione di questa classe creativa?
"Di fare da apripista ai consumi culturali e tecnologici del futuro. In generale si tratta di opinion leader, molto interessati alle novità ma con una spiccata tendenza al pensiero autonomo, alla creazione e allo scambio di contenuti piuttosto che alla fruizione passiva. Quindi con loro non funziona il normale ciclo di produzione: sviluppare nuove idee e nuovi prodotti per poi calarli dall'alto sul mercato con forti investimenti pubblicitari per diffonderli. Con questo target invece funziona meglio il procedimento contrario: bisogna indagare le mode e le necessità di questa gente e sviluppare prodotti che le soddisfino. In questo modo non serve investire cifre colossali in pubblicità: basta il passaparola, con cui si ottiene una diffusione molto più efficace spendendo poco".
Procedimento molto complesso. Proviamo a fare un esempio...
"La nascita dell'I-Mode è un buon esempio. La madre di questo sistema che ha rivoluzionato il mondo della telefonia cellulare si chiama Mari Matsunaga ed è una top manager di Ntt DoCoMo. Nei primi anni Novanta, Mari ha osservato come i ragazzini giapponesi si scambiassero messaggi usando i codici numerici dei cercapersone, gli antenati dei telefonini. Il primo pensiero è stato di creare uno strumento che rispondesse meglio alle loro esigenze e così è nato un sistema di messaggistica con le lettere dell'alfabeto, che facilitava molto le comunicazioni e ha avuto un successo istantaneo. Oggi Ntt fattura 8 miliardi di euro solo sul traffico I-Mode".
Dunque partire dal basso e far circolare le idee. Ma come la mettiamo con il copyright?
"Il problema della proprietà intellettuale è la questione fondamentale da risolvere: è la ragione principale per cui i media tradizionali non riescono a comunicare con questa classe creativa. Per cogliere lo spirito del tempo c'è bisogno di grande flessibilità e di grande libertà, altrimenti si rischia di soffocare la creatività dei singoli. Le normative vigenti in materia di copyright e i regolamenti fissi sulle architetture dei diversi sistemi di comunicazione non tengono conto di questi nuovi modelli di fruizione e finiscono per ostacolare l'emergere di killer application per i dispositivi mobili di nuova generazione, per la televisione interattiva e per tutti gli altri sistemi di comunicazione digitale".
Quindi?
"Quindi le media companies tradizionali devono convincersi che conviene anche a loro mettere in circolazione liberamente almeno una parte dei contenuti proprietari".

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James Lovelock, ultimo appello del profeta di Gaia

La domanda non è quella giusta. Per James Lovelock, il biofisico inglese padre della teoria di Gaia, la questione non è più come bloccare l'effetto serra, ma come attrezzarci per affrontare al meglio l'inevitabile processo di riscaldamento del pianeta, che è già in atto. "Ormai è troppo tardi per fermare questo processo", spiega flemmatico il novantenne scienziato, che da mezzo secolo dispensa previsioni dal suo laboratorio, in un antico mulino in Cornovaglia, e ha appena pubblicato il suo ultimo libro, "The Vanishing Face of Gaia" (Penguin). Lovelock, Fellow della Royal Society e del Green College di Oxford, è noto soprattutto per aver messo a punto un metodo per lo studio dei clorofluorocarburi, che ha consentito di identificarli come principali responsabili del buco nell'ozono e ha portato al bando di questi gas dall'industria del freddo. Già negli anni Sessanta, indagando per la Nasa sulle possibili forme di vita su Marte, Lovelock cominciò a rendersi conto del riscaldamento della Terra e a denunciarne le conseguenze. "Se ci fossimo mossi allora - smettendo di bruciare combustibili fossili, per bloccare subito le emissioni umane di anidride carbonica - forse avremmo potuto ottenere qualche risultato. Invece non è stato fatto nulla: malgrado Kyoto, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera ha continuato ad aumentare. Arrivati a questo punto, non ha più senso parlare di sviluppo sostenibile. C'è un sacco di gente che viene da me per chiedermi di non dire queste cose, perché ci toglierebbero la volontà di agire. E' vero il contrario. Dire la verità sul riscaldamento del pianeta ci impone un'enorme mole di lavoro. Ma non è lo stesso lavoro che vorrebbero fare loro". Lovelock conserva fino in fondo la verve polemica di sempre. Per decenni, la sua decisione di avallare l'energia nucleare pur di combattere l'effetto serra, gli ha alienato le simpatie dei compagni ambientalisti. Ma questo non lo ha fatto recedere. Oggi, man mano che le sue previsioni sul riscaldamento del pianeta si rivelano vicine alla realtà, questa posizione attrae sempre maggiori consensi. Tranne che ormai lui stesso l'ha superata. Sembra quasi che le sue teorie nascano dalla passione per l'eresia a tutti i costi. “Neanche per idea”, ribatte reciso. “La mia principale aspirazione è vivere in pace con tutti, ma non posso impedirmi di vedere le cose che accadono”. Nella sua ultima provocazione, Lovelock sostiene che nulla potrà più impedire alla Terra di diventare largamente inabitabile e quindi non si vede l'utilità di puntare tanto sulle fonti alternative: “E' come passare il tempo a sistemare le sedie sdraio sul ponte, mentre il Titanic affonda”. Le vere emergenze, invece, sono altre: il cibo e l'acqua. "Entro la fine di questo secolo, vaste zone del pianeta diventeranno desertiche. Questo porterà a enormi migrazioni di massa verso le aree più abitabili, nelle zone artiche, dalla Groenlandia alla Siberia. L'umanità, decimata dalla fame e dalle epidemie, finirà per ridursi a un quarto di quello che è oggi, forse meno". Una catastrofe. “Veramente, mi sembra già tanto che l'umanità sopravviva. E credo che sarà così. Eventi di questo tipo sono accaduti altre volte: fra le diverse glaciazioni ci sono state delle strozzature in cui l'umanità si è ridotta a non più di duemila esemplari. Oggi è più evoluta e quindi dovrebbe esserle più facile resistere. E' la prima volta nella vita della Terra che una specie si dimostra capace di capire come funziona e perfino di modificare il corso delle cose”. I dati forniti dall'ultimo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change – fa notare lo scienziato - coincidono sostanzialmente con le sue previsioni, dando come probabile un innalzamento della temperatura media fra 1,1 e 6,4 gradi entro la fine di questo secolo. "Siamo tutti consapevoli di cosa comporti questo per l'umanità, solo che non tutti lo dicono chiaramente". Già un aumento di due gradi - concordano i climatologi - porterebbe alla desertificazione di buona parte delle superfici coltivabili, compresa la Corn Belt americana e il Sud dell'Europa. Lo scioglimento dei ghiacciai europei e andini causerebbe gravissime siccità. “Questa è la vera emergenza: per affrontarla bisognerebbe puntare molto sul cibo sintetico, sulla desalinizzazione e sullo sviluppo di tecnologie nuove in campo alimentare”. Per Lovelock, la logica è chiara: la nostra unica possibilità di sopravvivenza non verrà dal ritorno alla natura, ma dal sempre maggiore ricorso alla tecnologia. Non a caso, dopo la pubblicazione della sua ultima fatica, il padre di Gaia si sta dedicando con entusiasmo al progetto di un viaggio nello spazio offertogli da Richard Branson, fondatore della Virgin Galactic, per il suo novantesimo compleanno, che festeggerà in luglio. “Così finalmente potrò osservare Gaia dall'esterno”, si rallegra, entusiasta delle prove in assenza di gravità a cui si sta sottoponendo.

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29 novembre 2008

E noi scommettiamo sull'anidride carbonica

L' economia del carbonio entra nel mirino della grande finanza. Tra i mercati delle materie prime, quello della CO2 mostra ormai la crescita più promettente e svolge un ruolo-chiave nel consentire alle aziende di pianificare la loro strategia ambientale, offrendo trasparenza nei prezzi. Il programma di scambi in Europa per il 2008 è stimato in ben 46 miliardi di euro e a livello globale risultano avviati 940 progetti legati al Clean Development Mechanism (Cdm) del Protocollo di Kyoto, in grado di generare oltre due miliardi di «carbon credits». Si tratta di centrali a energia rinnovabile, di sostituzione delle vecchie tecnologie inefficienti o di recupero di energia là dove viene sprecata. In tutto il mondo le società finanziarie e le banche d' affari stanno investendo in questi progetti, che generano crediti di carbonio nei Paesi in via di sviluppo. I finanziamenti del venture capital sono arrivati a 5,18 miliardi di dollari nel 2007, con un aumento del 44% rispetto al 2006. Ultimo esempio, l' accordo annunciato fra il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) e il gruppo finanziario belga-olandese Fortis per supportare una serie di progetti «verdi» in Uzbekistan, Macedonia, Yemen e Ruanda, Paesi dove le attività di Cdm finora erano inesistenti. In base al Protocollo di Kyoto - che riconosce anche gli investimenti condotti dai Paesi sviluppati in quelli meno avanzati - questi progetti generano crediti di carbonio, liberamente negoziabili poi sui vari mercati mondiali. Se un' azienda di un Paese industrializzato supera il suo tetto di emissioni, è lì che dovrà andare a comprare i diritti ad inquinare, a un prezzo medio di 20 euro a tonnellata di anidride carbonica. «La crescita di questo comparto è inevitabili, anche grazie alla crescente pressione su tutta la filiera produttiva degli idrocarburi, dall' estrazione fino ai trasporti marittimi, che riduce l' offerta di petrolio e gas proprio mentre sta crescendo la richiesta delle popolazioni in via di sviluppo, soprattutto quella cinese», spiega Harris Antoniou, amministratore delegato di Fortis Energy, Commodities & Transportation. In questo modo i prezzi degli idrocarburi salgono e i progetti di generazione di energia da fonti rinnovabili diventano remunerativi. «Malgrado la battuta d' arresto dei mercati - sostiene Antoniou - non c' è dubbio che il comparto delle energie alternative abbia un grandissimo futuro e continui a crescere a ritmi sostenuti». Le decisioni politiche che si continuano a prendere nei Paesi industrializzati, del resto, confermano il trend. La Ue si è data dei traguardi precisi per il 2020, con un taglio delle emissioni di gas serra del 20%, che saliranno al 30% in caso di accordi internazionali più restrittivi, e un obiettivo vincolante del 20% nella produzione di energia alternativa, compreso un 10% di utilizzo di biocarburanti. «Sono valori che porranno l' Europa all' avanguardia di questo mercato, dov' è già oggi in posizione di leader», osserva Antoniou, che apprezza soprattutto l' eolico danese e il fotovoltaico tedesco. Ma anche a livello globale si sta andando verso un' accelerazione. Il processo di rinnovo del Protocollo di Kyoto dopo il 2012, anno in cui scade il periodo di adempimento, è già cominciato e l' Ipcc (il Gruppo intergovernativo sui mutamenti climatici che lo scorso anno ha vinto il premio Nobel per la pace) ha indicato alcuni traguardi precisi: una riduzione del 25-40% delle emissioni dei Paesi industrializzati entro il 2020 e una globale del 50-85% entro il 2050. La novità più importante è l' affacciarsi degli Stati Uniti a un sistema di «cap and trade» simile a quello europeo. Per l' economia del carbonio potrebbe essere la svolta decisiva.

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Il club dell'eolico è sempre più affollato

Diventa sempre più affollato il club dei signori del vento, che fino a pochi anni fa era riservato a una ristretta cerchia di adepti. L'ultimo arrivato è Carlo Toto, rimasto appassionato di eliche anche dopo la cessione di AirOne. L'imprenditore abruzzese, che un anno fa si era impegnato a far diventare Alitalia la quarta compagnia aerea europea, oggi si dedica ai mulini a vento nella provincia di Foggia, con due campi eolici che dovrebbero entrare in funzione nel giro di due anni. Complessivamente, tenendo conto di un terzo campo eolico in dirittura d'arrivo con gli iter autorizzativi, la Toto Costruzioni installerà 110 megawatt, per un investimento complessivo attorno ai 150 milioni di euro. Ma Toto non è certo l'unico nuovo membro del club. Dal Walter Burani all'ex Montedison Giuseppe Garofano, da Gaetano Maccaferri a Ferdinando Brachetti Peretti, sono in tanti a comprare il vento fra i volti noti dell'imprenditoria italiana. Garofano, ex amministratore delegato di Montedison e stratega finanziario del gruppo Ferruzzi fino ai primi anni '90, è oggi leader della compagine azionaria di Alerion, società quotata che vanta cinque parchi eolici operativi in Italia, per un totale di 89 MW installati. Il piano aziendale prevede la costruzione entro l’anno prossimo di quattro nuovi parchi, che porteranno a 204 i MW installati in Italia da Alerion. Ma la lista degli imprenditori conquistati dal business del vento comprende i settori più disparati. La moda, per esempio: Walter Burani, marito di Mariella, ha investito nell’eolico con due società quotate, Greenvision e Bioera. Tra i cementieri, Carlo Pesenti con Italgen sta investendo in campi eolici soprattutto all'estero: in Marocco, Egitto e Turchia. In Emilia ci ha pensato invece Gaetano Maccaferri, presidente dell’omonimo gruppo e di Unindustria Bologna: è entrato nel settore con la Seci Energia, che si è poi alleata con Api Nòva Energia del petroliere Ferdinando Brachetti Peretti. L'obiettivo è di costruire campi eolici in Italia e all'estero, con 200 MW già in fase di sviluppo. Col vento in poppa, naturalmente, vanno anche le compagnie energetiche che già da anni operano in questo segmento. Oggi l'azienda leader dell'eolico italiano è il gruppo britannico International Power, con la controllata Ip Maestrale: 550 MW che rappresentano una quota di poco inferiore al 15%. A seguire, si spartiscono quasi alla pari metà del mercato Enel Green Power, Edison Energie Speciali, la tedesca E.on, la Fri-EL dei fratelli altoatesini Gostner e la Ivpc di Oreste Vigorito, uno dei pionieri del vento italiano, con oltre 1000 MW di pale in gestione, di cui più di un terzo di sua proprietà. Enel Green Power punta molto anche all'estero: ha appena firmato un accordo con la società tedesca SoWiTec per sviluppare assieme 850 MW eolici in Cile. Edison vuole raggiungere entro il 2014 una potenza installata di 800 MW eolici, il doppio di oggi, in Italia e all'estero. La tedesca E.on, che possiede quasi 2000 MW eolici in giro per il mondo, in Italia ha ereditato i campi eolici di Endesa, che Enel ha dovuto dismettere. Sorgenia, invece, ha il grosso della sua capacità in Francia, dove controlla il secondo operatore eolico del Paese, ma ha appena inaugurato due campi in Campania e in Puglia. I neofiti del vento, del resto, sono in pieno boom anche a livello internazionale. Il Times ha elencato nella sua Green Rich List i ricchi del mondo che hanno messo più soldi nelle fonti rinnovabili, eolico in testa. Nella classifica compaiono americani, svedesi, britannici, francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, cinesi, indiani, danesi, sudafricani e israeliani. Il primo della lista è Warren Buffett, che ha investito una parte del suo impero da 30 miliardi di euro nell'eolico e nello sviluppo di auto elettriche, seguito da Bill Gates, con i suoi 29 miliardi di euro di patrimonio. Al terzo posto della lista del Times, il fondatore di Ikea, lo svedese Ingvar Kamprad, uomo da 25 miliardi di euro. Gli americani sono 35, molti dei quali provenienti da Silicon valley, che negli ultimi mesi si sta sempre più convertendo dai chip dell'informatica alle tecnologie verdi. Un esempio su tutti è quello dei fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Ma non ci sono solo i sostenitori di Obama: tra i nuovi pionieri dell'economia verde c'è anche il petroliere texano di simpatie repubblicane T. Boone Pickens, che sta finanziando il Windy Texas Panhandle, il più vasto progetto mai intrapreso nell'eolico, per ridurre la dipendenza energetica degli Usa dall'estero.

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Ma c'è anche un'Italia pulita

Ad Acerra le tammurriate e gli scontri di piazza. A Montecorvino i blocchi ferroviari. A Rapolla le carte bollate. Per le infrastrutture italiane non c' è pace: dovunque si voglia costruire un termovalorizzatore o un elettrodotto, ma anche un collegamento ferroviario, una bretella autostradale o un parco eolico, c' è chi grida «no». E alla fine vince quasi sempre chi grida più forte, mentre i comuni cittadini si tengono gli ingorghi, le immondizie per strada e l' energia elettrica più cara e inquinante d' Europa. Gli americani la chiamano sindrome Nimby («Not in my backyard», Non nel mio cortile), o nella sua variante più perniciosa, Banana («Build absolutely nothing anywhere near anyone», Non costruire assolutamente nulla da nessuna parte vicino a nessuno) e i militanti del rifiuto vengono gratificati dal nomignolo Cave People («Citizens against virtually everything», Cittadini contro virtualmente tutto). Ma c' è chi non ha voglia di fare l' uomo delle caverne. Da Brescia a Trezzo sull' Adda, da Trieste a Piacenza, anche in Italia gli impianti modello non mancano, sostenuti dalla popolazione o addirittura richiesti a gran voce come sta succedendo in questi giorni a Giffoni Valle Piana, un paese del Salernitano a 13 chilometri da Montecorvino, che sta cercando in tutti i modi di far installare un termovalorizzatore sul proprio territorio, allettato dalla prospettiva di una pioggia di tre milioni di euro l' anno nelle casse del Comune, con cui costruire nuove strutture per i cittadini. «A Milano - spiega Andrea Gilardoni, docente alla Bocconi e direttore scientifico del Nimby Forum - quando abbiamo avviato la rivoluzione della raccolta differenziata e la costruzione del termovalorizzatore Silla 2, siamo stati "aiutati" dall' emergenza rifiuti. Nel ' 94, quando sono diventato presidente dell' Amsa, c' erano i sacchi neri per le strade e la gente era scioccata. Allora il grosso delle immondizie milanesi finiva nella discarica di Cerro Maggiore e solo il 5% veniva raccolto in maniera differenziata. Sviluppare la raccolta differenziata e costruire il termovalorizzatore significava togliere affari alle discariche. Ma davanti all' emergenza il "partito della discarica" è stato sconfitto rapidamente. Già all' inizio del ' 96 un terzo delle immondizie veniva raccolto in maniera differenziata. In pochi mesi abbiamo costruito due impianti di separazione e compostaggio e avviato la costruzione di Silla 2, un termovalorizzatore ancora oggi all' avanguardia». Rivoluzioni di questo tipo non mancano. A Brescia, dove dal lontano ' 72 funziona un sistema di teleriscaldamento simile a quello di Vienna (che descriviamo qui sotto), dal ' 98 un terzo del fabbisogno di elettricità e calore necessari agli abitanti viene dal termoutilizzatore che ingoia i rifiuti della città. «Per di più, i 55 euro che servono a smaltire una tonnellata di rifiuti nel nostro impianto, contro gli 85 euro necessari a smaltirli in una discarica, rappresentano un notevole risparmio», spiega Renzo Capra, presidente di Asm Brescia. L' impatto ambientale è bassissimo (le emissioni annuali sono inferiori a quelle di un camion), l' impatto visivo molto piacevole (le pareti di pannelli di vetro si confondono con il blu del cielo) e i rifiuti da fonte di problemi sono diventati una fonte di energia e di ricchezza. Non a caso gli abitanti di Brescia sono fieri del loro termoutilizzatore. «In queste vicende è essenziale instaurare un rapporto corretto con la popolazione», spiega Guido Berro, presidente di Federambiente, che riunisce circa 250 aziende d' igiene urbana in tutta Italia. «Bisogna illustrare bene - insiste Berro - le caratteristiche dell' impianto, senza nascondere nulla. Molto spesso è l' autorità che bara e questo crea sfiducia e malcontento. Quando invece s' instaura un rapporto decente, la popolazione capisce. A meno che non ci sia dietro chi attizza la rivolta per interessi poco chiari, come succede in questi giorni in Campania. Allora il braccio di ferro diventa molto più duro». «La trasparenza dell' impresa costruttrice - conferma Salvatore Giammusso, a.d. di Actelios, la società del gruppo Falck che fa termovalorizzatori - è cruciale. Ma anche la fermezza delle autorità. Nel caso della Campania mi pare che si percepisca un atteggiamento nuovo, che non premia chi grida di più. E questo è un notevole passo avanti». «Per vincere la diffidenza degli italiani, però, è fondamentale che la comunità scientifica assuma un ruolo più importante e avvii un' azione educativa su queste tematiche, inquinate da una coscienza ambientale terribilmente confusa», sostiene Alessandro Beulcke, presidente della società di comunicazione Allea, che ha lanciato il Nimby Forum mettendo attorno a un tavolo le maggiori aziende italiane impegnate sul fronte delle infrastrutture, dalle Ferrovie all' Aem, la comunità scientifica e i ministeri dell' Ambiente e delle Attività produttive, per analizzare il fenomeno e affrontarlo con coerenza. La sindrome Nimby nasce dunque dalla scarsa conoscenza, dalla diffidenza e dal limitato interesse per la cosa pubblica degli italiani. E il risultato si vede. In Italia ci sono 47 termovalorizzatori, di cui solo tre al Sud. In Germania e Francia oltre il doppio. In Italia ci sono 74 metri di cavi ad alta tensione per ogni chilometro quadrato. In Germania 110. La nostra rete idrica perde il 40% di quello che trasporta e al Sud 7 persone su 10 devono fare i conti con forniture a singhiozzo. L' elenco potrebbe continuare a lungo. «Allo sviluppo di un sistema infrastrutturale pensato oltre mezzo secolo fa si oppongono di solito tre fattori: problemi finanziari, burocratici e di Nimby - spiega Gilardoni - . Ma i tre fattori sono molto legati fra loro: le questioni burocratiche sono influenzate dalla sindrome di Nimby, perché spesso è l' opposizione locale il granellino di sabbia che inceppa l' ingranaggio burocratico». E gli investimenti tardano a farsi vedere nei luoghi dove i meccanismi sono perennemente inceppati.

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La major del web si buttano sulla telefonia

Dopo Google e Yahoo, ora ci si mette anche Microsoft: è sfrenata la corsa al VoIP da parte delle major della rete, che s'inseriscono ormai senza tanti complimenti nel business delle compagnie telefoniche. Evoluzioni ed accordi commerciali si susseguono a ritmo giornaliero: l'ultimo in ordine di tempo riguarda la stretta di mano tra Microsoft e l'operatore statunitense Mci, che hanno annunciato in questi giorni un'alleanza per estendere il servizio di instant-messaging di MSN anche all'affollato mercato della telefonia via internet.In questo modo Microsoft accelera il suo ingresso concreto nel mercato telefonico, tallonando a ruota servizi come quelli forniti da Skype, Google e Yahoo, che da poco tempo ha aggiunto al proprio nome la dicitura "with voice", a conferma anche formale della propria intenzione di partecipare alla partita del VoIP. Rispetto alle altre offerte, però, Microsoft ha dalla sua l'alleanza con un colosso della telefonia: una differenza non da poco. Il nuovo servizio, che combina la rete a banda larga di MCI con il software di Microsoft, sarà chiamato MCI Web Calling for Windows Live Call e sarà reso disponibile nella prima metà del 2006 attraverso Windows Live Messenger, l'erede di MSN Messenger, che ha oltre 185 milioni di utenti attivi in giro per il mondo e compete direttamente con i servizi di messaggistica istantanea di Aol e Yahoo.Il primo passo della strategia di Microsoft per entrare nel mercato della telefonia via Internet è stata l'acquisizione, in settembre, di Teleo, una piccola software house di San Francisco che ha sviluppato un sistema paragonabile a quello di Skype, capace di collegare uno speciale apparecchio telefonico al proprio pc e di raggiungere con questo un qualsiasi telefono, fisso o mobile che sia. Il neonato servizio Google Talk, invece, richiede che entrambi i conversatori abbiano pc e cuffie. L'accordo, stando a quanto dichiarato dalle due aziende, consentirà ai consumatori di effettuare chiamate al costo di 2,3 centesimi di dollaro al minuto (2 centesimi di euro). L'intenzione è di essere molto competitivi sul prezzo con le società presenti sul mercato: Skype, leader indiscusso di questo mercato, che è appena stato acquisito da eBay, offre chiamate per circa 2 centesimi di euro. Come i clienti di SkypeOut, anche gli utenti del servizio Microsoft/MCI dovranno comprare dei pacchetti prepagati e potranno eseguire chiamate a numeri fissi o mobili, cliccando dal pc sulla corrispondente voce nella loro lista di contatti. Al momento, Microsoft e MCI stanno testando una versione beta del servizio su diecimila utenti negli Stati Uniti, ma il test verrà presto esteso all'Europa in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Certo è che potenzialmente Microsoft è in grado di diventare una stella di prima grandezza della telefonia, se davvero riuscirà a trasformare i quasi 200 milioni di utenti dei servizi Msn in altrettanti clienti del suo VoIP. Il padre di Skype Niklas Zennström, svedese, 39 anni, geniale sviluppatore inviso ai potentati del copyright per aver lanciato qualche anno fa KaZaA (un sistema di condivisione di brani musicali scaricato da 370 milioni di persone), è convinto che la rivoluzione del VoIP sia destinata a sconquassare il mercato telefonico nel giro di pochi anni. Un'opinione certamente tendenziosa, ma non del tutto da buttar via. Skype è già stato scaricato 63 milioni di volte e sta affermandosi come l'offerta di comunicazione vocale con il più rapido tasso di crescita a livello globale (si prevede che raggiungerà i 240 milioni di utenti entro il 2008). E se anche Bill Gates si è lanciato in questo business, un motivo ci dev'essere. Resta ancora da superare lo scoglio della qualità. Le chiamate via Internet, come sa bene chi le usa, costano poco visto che la voce viaggia sul web aggirando i costi delle teleselezioni nazionali e internazionali, ma la commutazione di pacchetto non è l’ideale per mantenere la fluidità della conversazione, che a seconda dello stato delle linee soffre di rantoli, mancamenti e ritardi più o meno consistenti. Il problema non affligge i pregiati (e costosi) sistemi VoIP aziendali, ma può diventare un vero fastidio per gli utenti casalinghi, che sono il pubblico a cui si rivolgono i servizi di Msn. Ma la tecnologia si sviluppa a passi da gigante e la banda larga si diffonde nelle case della gente, dunque è lecito aspettarsi qualità sempre migliori e pc-telefonate sempre più facili. Se oggi come oggi la telefonata via Internet copre nicchie interessanti ma minoritarie di utenti e servizi, come le telefonate dirette “chiama con clic” dalle pagine web dei portali e dei siti di e-commerce, domani potrebbe davvero esplodere come servizio di massa. E Microsoft, come al solito, potrebbe sfruttare la sua posizione dominante nei sistemi operativi. Il telefono di Msn probabilmente è solo un assaggio, la vera partita si giocherà dotando Windows (e naturalmente Windows Mobile) di un supporto nativo al VoIP, di altissima qualità anche grazie alla collaborazione dei 25 esperti di Teleo. L'ingresso di Microsoft, insomma, può essere un segnale positivo per il mercato ma ha già acceso una spia d'allarme sul cruscotto di Skype. Una preoccupazione che ricorda quella che avevano qualche anno fa Jim Clark e Marc Andreessen, i fondatori di Netscape, all'annuncio dell'allora imminente arrivo di Explorer...

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Guerra degli acquedotti: attacco alle privatizzazioni

La battaglia per l' acqua diventa sempre più politica. «L' acqua è come l' aria, è un bene comune e non va privatizzato», dice il ministro dell' Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, inserendosi nella guerra in corso fra Rifondazione e la Margherita sul ddl Lanzillotta di liberalizzazione dei servizi locali. «Ma a differenza dell' aria - spiega più pacatamente Mauro D' Ascenzi, presidente di Federutility - l' acqua non arriva da sola nelle case, dev' essere incanalata e depurata con massicci investimenti in infrastrutture che costano molti soldi. O ce li mette lo Stato o si deve consentire a società industriali, pubbliche o private che siano, di organizzare un servizio secondo criteri di produttività ed efficienza. Per fare questo, però, mancano i margini: le tariffe italiane sono le più basse d' Europa». S' innesca così un circolo vizioso: il servizio costa poco per cui è scadente, ma proprio per questo non si può far pagare di più. E via con l' acqua minerale, di cui noi italiani siamo i maggiori consumatori d' Europa. Giocando sull' equivoco tra la materia prima acqua, che appartiene per legge al demanio pubblico, e la gestione delle infrastrutture che la trasportano, si può arrivare molto lontano. Nichi Vendola è arrivato ad affidare l' Acquedotto Pugliese, il più grande d' Europa, al guru dell' acqua «bene comune» Riccardo Petrella, salvo poi dimissionarlo a fine anno per manifesta incapacità gestionale, ma ribadendo nel contempo «l' immutata mission dell' Acquedotto Pugliese, ovvero la pubblicizzazione dell' acqua, così come previsto anche nel programma elettorale della coalizione di governo». Sulle barricate dell' «acqua pubblica» e gratuita, Vendola si trova in buona compagnia: da Franco Giordano a padre Alex Zanotelli, dall' Arci alle Acli, dall' Associazione Italia-Nicaragua alla diocesi di Termoli, da Mani Tese alla Rete Lilliput, dal Wwf a Pax Christi, dalla Fiom ai Cobas. Tutti insieme nel comitato promotore del progetto di legge d' iniziativa popolare per la «ripubblicizzazione dell' acqua», che viene proposto in questi giorni all' attenzione degli italiani con migliaia di banchetti. Di più. «Basta parole: moratoria subito!» si legge nel sito del Forum italiano dei movimenti per l' acqua, che chiede di bloccare anche i processi di liberalizzazione già in corso, in primis quello di Palermo, dove si è impedito più volte a colpi di blocchi stradali lo svolgimento della gara di affidamento dei servizi idrici provinciali, conclusa faticosamente la settimana scorsa. «Il problema fondamentale - dice D' Ascenzi - è che la gestione tradizionale delle risorse idriche regge un sistema clientelare basato sulla diffusa illegalità, soprattutto nel Sud, dove le reti non a caso fanno acqua da tutte le parti. L' Acquedotto Pugliese, che serve milioni di persone senza far pagare loro un centesimo di acqua e ne impiega migliaia, ai tempi del manuale Cencelli equivaleva a un ministero, tanto era il peso elettorale delle sue clientele». È soprattutto in difesa di questo sistema che a 12 anni dal varo della legge Galli di riforma dei servizi idrici, largamente inapplicata, si ritorna a mettere in discussione i principi della libera concorrenza. E così, mentre in Europa crescono i grandi gruppi specializzati nella gestione efficiente delle risorse idriche - da Veolia a Suez, a Thames Water - in Italia le utility restano frammentate e gestite in economia. Per la gioia dei signori delle autobotti.

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Alla pompa non si fa il pieno di concorrenza

Se volete un pieno davvero economico, fate una capatina in Austria: lì un litro di benzina costa in media 86 cent (in Italia 1,08 euro). Ma anche in Francia, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia si viaggia sotto un euro al litro e in tutti gli altri Paesi dell' Unione (tranne Olanda e Danimarca) il prezzo medio è inferiore al nostro. Si tratta di mercati dove la fiscalità è molto alta (circa due terzi del prezzo alla pompa, come in Italia) e quindi la benzina non può costare 40 cent come negli Usa, dove allo Stato va meno di un terzo. Eppure, la vivace concorrenza che regna su questi mercati spinge il prezzo al ribasso. Cosa che in Italia non succede. E le prospettive non sono rosee: da gennaio a marzo qui il prezzo industriale della benzina è aumentato del 9,1% (contro un +6,4% negli altri Paesi europei), mentre ulteriori rincari sono previsti a giorni, con effetti a cascata su altri prodotti tradizionalmente collegati, come gli ortofrutticoli. E' per questo che un dossier sulla mancanza di concorrenza nel mercato italiano dei carburanti, firmato da Auchan, Carrefour, Finiper e Coop, giace da qualche giorno sul tavolo di Mario Monti. Comitato «Naturalmente il governo potrebbe incidere sulla fiscalità e proprio a questo scopo stiamo costituendo un comitato congiunto con i consumatori, per individuare quali potrebbero essere le misure condivise - spiega il sottosegretario alle Attività produttive Giovanni Dell' Elce -. Ma il problema vero sta soprattutto nei vincoli che in Italia continuano a limitare lo sviluppo di una rete di distribuzione moderna. I regolamenti locali, che creano diversificazioni ingiustificate da regione a regione, andrebbero uniformati e snelliti». «Del prezzo alla pompa, il 68% va in tasse e il 20% circa in materia prima, a seconda delle quotazioni internazionali. L' unica parte contendibile del prezzo della benzina in Italia è quel 12% che resta e va a remunerare l' investimento, a pagare i gestori, gli impianti e a coprire il trasporto, di regola via mare visto che quasi tutte le raffinerie stanno sulle isole», spiega Piero De Simone dell' Unione petrolifera, che rappresenta i proprietari del 70% delle pompe di benzina italiane. «E' vero - conferma De Simone - che il 12% si potrebbe comprimere se il sistema fosse più efficiente, se i benzinai fossero di meno e, quindi, vendessero di più, se non vivessero di solo carburante ma anche di altri prodotti, come all' estero, e se ci fossero più distributori fai-da-te. Ma una rete così estesa non si smantella dall' oggi al domani». Soprattutto se la si ostacola. «La riforma del ' 98 prevedeva un taglio di 7mila impianti in tre anni - commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Faid, che rappresenta la grande distribuzione - ma a sei anni di distanza l' operazione non è ancora conclusa. Oggi in Italia ci sono oltre 22mila distributori contro i 15mila in Francia e in Germania, gli 11mila nel Regno Unito e gli 8500 in Spagna. La vendita diretta della benzina a prezzi scontati nei centri commerciali è quasi a zero: in Italia sono solo quattro i distributori a insegna nostra, mentre in Francia il 55% delle vendite passa per questo tipo di canali. Eppure, il mancato ammodernamento della rete dei carburanti costa al Paese uno 0,1% del Pil, in termini di caro- benzina. In pratica, è lo stesso problema che mantiene sproporzionatamente alti anche i prezzi negli alimentari e nel tessile». «Nel nostro centro commerciale di Nichelino - chiarisce Cesare Magni di Carrefour, che ha 3 dei 4 benzinai della grande distribuzione in Italia - per tutto febbraio abbiamo venduto la benzina a 8 centesimi di meno rispetto al prezzo consigliato dalle compagnie petrolifere. Con un effetto domino sui benzinai circostanti, per cui i consumatori di tutto il Torinese ne hanno beneficiato. Ma se riuscissimo ad aprire altri distributori nei nostri 40 ipermercati potremmo arrivare a sconti ancora più alti». Lo sconto discende dai volumi (un benzinaio Carrefour smercia 10 milioni di litri l' anno, contro una media italiana di un milione e mezzo di litri), ma anche dal fatto che la grande distribuzione compra la benzina direttamente dalle raffinerie. Autorizzazioni «Ci auguriamo di poter installare una stazione di servizio a bandiera Auchan in quanti più possibili dei nostri 38 centri commerciali», sottolinea Benoit Lheureux, capo di Auchan-Rinascente, che finora è riuscito ad aprirne soltanto una nel centro commerciale di Bussolengo, alle porte di Verona. Auchan ha chiesto le relative autorizzazioni in tutte le regioni dov' è presente, ma gli ostacoli burocratici sono infiniti. «Il blocco - spiega Magni - deriva, soprattutto, da due ordini di norme, quelle che definiscono una certa area a numero chiuso, dove non si può aprire un distributore se prima non se ne elimina un altro (in Lombardia addirittura altri due), e quelle che creano un' area di esclusiva fra le varie stazioni di servizio. Ma siccome in Italia di benzinai ce ne sono tantissimi, dovunque se ne voglia aprire uno nuovo ce n' è sempre già un altro». Anche Giuseppe Fabretti, vicepresidente Coop, ha tentato invano di fare breccia nei regolamenti regionali per installare qualche benzinaio nei 67 centri commerciali della catena. «A questo punto - ragiona Fabretti - non ci resta che ricorrere a Bruxelles, perché la deregulation è ferma».

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28 novembre 2008

Internet? E' più attraente di Wall Street

Per decenni, i migliori laureati in scienze economiche si sono misurati con le sfide della finanza, dove l’analisi matematica in determinate circostanze può tramutarsi in denaro sonante. Ma oggi la massa di dati offerta dai mercati finanziari, su cui i giovani economisti disegnavano i loro modelli, è stata eclissata dal flusso gigantesco d’informazioni che passa attraverso i server delle grandi Internet companies. Chi è capace di prevedere il comportamento dei consumatori e di influenzarlo organizzando le offerte nella maniera più efficace, vince il jackpot della rete. Così la magia del marketing, nella sua versione online, è diventata misurabile, orientabile con un algoritmo. E più attraente di Wall Street. Infatti è qui che si stanno affollando le menti migliori della ricerca economica mondiale. Hal Varian è considerato uno dei pionieri di questo movimento. Economista dell’università della California a Berkeley, di cui è stato il rettore fino al 2001, Varian è noto a legioni di studenti per il suo popolare testo di microeconomia, ma è anche un grande esperto di economia dell’informazione, co-autore di “Information Rules”. Dall’estate scorsa è diventato il capo economista di Google, dove sta costruendo un team di economisti, statistici e analisti per contribuire alla strategia del gigante della rete. Un’opera che aveva già avviato da consulente esterno e a cui ora ha deciso di dedicarsi a tempo pieno. “Dopo aver studiato per anni le tribù della Silicon Valley, alla fine mi sono fatto accettare e ora sono uno di loro”, ha dichiarato recentemente al Wall Street Journal. Varian aveva già costruito nel tempo una nutrita squadra di analisti quantitativi. “Il team degli economisti andrà a completare queste risorse già esistenti”, ha spiegato. “Google – precisa – ha una straordinaria infrastruttura per l’analisi dei dati, oltre a un management molto ricettivo all’utilizzo di metodi quantitativi e disponibile a investire in questo campo. Cosa potrei desiderare di meglio?” L’attenzione di Larry Page e Sergey Brin per la ricerca econometrica non stupisce, visto che proprio su un algoritmo ben calibrato si basa la fortuna di Google: nel 2006 ha ricavato oltre 10 miliardi di dollari dalle entrate pubblicitarie e solo 112 milioni dalle altre attività. Le entrate pubblicitarie derivano essenzialmente dal modello matematico su cui si basa AdWords, il servizio che organizza la pubblicazione degli annunci. L’ordine in cui compaiono le voci pubblicitarie, infatti, dipende dal costo per click pagato dai diversi committenti, ma anche dal “quality score”, cioè dalla frequenza con cui gli annunci vengono cliccati, calcolata in base alle serie storiche e alla rilevanza delle parole chiave scelte dal committente per far comparire il suo annuncio. Il mix delle varie voci è stato calibrato in maniera tale da generare in media il 45% di ricavi in più per ogni ricerca, rispetto ai ricavi di Yahoo. Il principale competitor di Google ammette di aver perso centinaia di milioni di dollari su questo fronte e di dare la caccia da anni all’algoritmo giusto, senza successo. Non a caso anche Yahoo sta cercando di costruire una squadra di ricercatori per contrastare la corsa di Google. La prima recluta importante è stato Michael Schwarz, un promettente microeconomista di Harvard e autore di un paper molto chiacchierato proprio sul modello pubblicitario di Google. Ma il chief data officer di Yahoo, Usama Fayyad, conta di reclutarne un’altra dozzina, che andranno ad arricchire i laboratori di Yahoo Research, diretti da Prabhakar Raghavan, un ex veterano di Ibm Research passato alla concorrenza nel 2005. “Sarò deluso se lo sforzo di Yahoo nella ricerca di base non dovesse dare al mondo un premio Nobel”, ha dichiarato recentemente Fayyad. Belle parole. Ma nella pratica, l’obiettivo centrale di Yahoo, come quello dei rivali di Mountain View, è registrare che cosa fanno ogni giorno milioni di consumatori e studiare come i servizi offerti online possano influenzare il loro comportamento. A questo serve la pletora di servizi gratuiti che cercano di diffondere, da Gmail a Google Earth, fino al nuovissimo Knols, che punta a soppiantare Wikipedia. Il problema è agganciare la ricerca di base a questi obiettivi. E molti dubitano che gli ingegneri impegnati nella gestione quotidiana dell’azienda abbiano tempo o voglia di realizzare le idee del team di ricercatori. Un altro potenziale ostacolo al raggiungimento di questi obiettivi è la protezione della privacy. Infortuni come quello accaduto a Aol quando ha reso pubbliche per sbaglio una serie d’informazioni sui suoi utenti, o pratiche scorrette come la complicità con il governo cinese nella persecuzione dei suoi oppositori, rischiano di portare a una progressiva disaffezione del pubblico, che potrebbe non essere più disposto ad affidare tutti i propri dati a un’idrovora così potente e potenzialmente pericolosa. Ma per il momento i segnali d’inquietudine nell’opinione pubblica sono molto contenuti. Di conseguenza le Internet companies guardano con crescente interesse ai loro database per trasformarli in una fonte di reddito. E se saranno capaci di includere nel loro business plan le trovate dei nuovi economisti che li affiancano senza dare troppo nell’occhio, potrebbero persino riuscirci.

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Modello Finlandia: l'atomo va in banca

Costruire una centrale nucleare non è un' impresa semplice. Niente a che fare con le dimensioni finanziarie di un ciclo combinato a gas. Costi e tempi sono molto più impegnativi. Ma il caro-greggio e le limitazioni di Kyoto fanno pendere la bilancia del mercato internazionale verso l' atomo, perciò gli appalti si moltiplicano. Dopo la Georgia, anche in South Carolina è partito l' ordine alla Westinghouse per due reattori AP1000 da 1100 MW ciascuno, piazzato dalla South Carolina Gas and Electricity, una delle più grosse utilities americane. «Prezzo complessivo, chiavi in mano: 9,8 miliardi di dollari, ovvero 6,3 miliardi di euro, cioè 2.800 euro per kilowatt», riferisce Alessandro Clerici, responsabile del gruppo di lavoro sul nucleare del World Energy Council e vicepresidente della Commissione Energia di Confindustria. «Un bel salto rispetto ai 2 mila euro per kilowatt della prima centrale europea di terza generazione, la finlandese Olkiluoto3», fa notare Clerici, che è appena rientrato dalla Scandinavia, dove ha accompagnato una delegazione di Energy Lab con Giuliano Zuccoli per prendere contatto con gli amici finlandesi. L' interesse degli italiani si concentra in particolare sulle modalità di finanziamento. Il reattore, un Epr da 1.600 MW che entrerà in funzione nel 2011, è stato ordinato nel 2005 alla joint-venture franco tedesca Areva-Siemens dalla Tvo, una società senza scopo di lucro in cui si raccolgono sessanta azionisti, fra operatori elettrici e industriali della carta. Il consorzio si è impegnato a ritirare a prezzo di costo tutta l' energia prodotta, per soddisfare il proprio fabbisogno. Così ha abbattuto il rischio di mercato ed è riuscito a farsi finanziare l' investimento dalle banche all' 80%, con un tasso molto contenuto, del 5%. Ecco come hanno fatto i finlandesi a ridurre il costo dell' investimento a 2 mila euro al kilowatt, che tradotto in termini di produzione significa 15 euro a megawattora. Basta aggiungere altri 15 euro - tra costi standard di gestione, acquisto del combustibile (che ha un' incidenza minima), trattamento dopo l' utilizzo e smantellamento finale dell' impianto - per ottenere il prezzo dell' energia a bocca di centrale: 30 euro a MWh. Ma attenzione, anche il modello finlandese non riesce a fermare la cavalcata delle materie prime. In questi tre anni il prezzo dell' acciaio è raddoppiato, quello del rame quintuplicato. E l' effetto si vede, confrontando i costi del primo Epr con quelli del secondo, su cui sono già partite le richieste di autorizzazione. Tvo, guidata dal presidente Pertti Simola, sarà anche stavolta della partita. Ma i costi di costruzione per Olkiluoto4 - si legge nei primi studi di fattibilità - saranno molto più salati: da 2000 a 2800 euro al kilowatt, in linea con quelli americani. Tradotti in termini di produzione: 21 euro al MWh, più i soliti 15 di gestione, per un prezzo finale dell' energia di 36 euro al MWh. Sempre la metà di un megawattora a gas, ma un pò meno conveniente. Un trend destinato a continuare: fra cinque anni, in pieno boom di richieste, i prezzi saranno certamente più alti e i termini di consegna più lunghi. Sul modello finlandese si possono anche calcolare i tempi: per Olkiluoto4 si sa già che ci vorranno 11-12 anni. Due per la valutazione d' impatto ambientale, uno per l' autorizzazione governativa, che comporta un voto in Parlamento, un altro per la licenza di costruzione dall' Authority nucleare, altri due per le gare d' appalto, 5-6 per la costruzione materiale della centrale.

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Locatelli: "E' guerra contro le merchant lines"

Arenati sul Carso della burocrazia, in una guerra di trincea dove tutti si sparano addosso, ma non riescono ad avanzare di un millimetro. Nemmeno le merchant lines di Gianni Locatelli, giornalista di lungo corso (negli anni Ottanta diresse il “Sole 24 Ore”) e oggi presidente di Trafigura Italia, filiale italiana di un gruppo inglese da 30 miliardi di dollari specializzato nel trading dei combustibili e sbarcato a Milano con la liberalizzazione. A cosa servono delle linee d'interconnessione? "Ad arricchire l'offerta, aumentare la concorrenza e importare energia un po' più conveniente della nostra. Sulle Borse estere l'energia costa il 20-30% in meno rispetto all'Italia, comprarla lì è un bell'affare. Per di più, importando energia già pronta, in genere con cavi invisibili su tracciati di pochi chilometri, si evita di costruire in Italia impianti che qui non si riescono a fare, come le centrali nucleari". Va bene, sono utili al Paese. E a voi? “Siamo dei trader, compriamo e vendiamo energia sulla Borsa elettrica italiana e su quelle straniere come Powernext. Ma per ridurre i rischi un trader deve verticalizzare la sua attività, con un po' di produzione o una linea d'importazione dedicata, senza oneri di trasmissione. Una centrale a ciclo combinato a gas l'abbiamo già vicino a Gorizia, un'altra la stiamo costruendo a Greve in Chianti. In contemporanea lavoriamo sulle linee d'interconnessione”. Ma... “Siamo alle prese con gli ostacoli più incredibili. Abbiamo in piedi tre progetti diversi, tutti sul confine orientale che è il più attraente dal punto di vista dei prezzi: due con la Slovenia e uno con la Croazia, con cavi interrati o sottomarini, quindi l'impatto ambientale è minimo. Eppure non andiamo né avanti né indietro”. In che senso? “I rapporti con il territorio sono buoni, i Comuni interessati al tracciato sono d'accordo, ma abbiamo grosse difficoltà con la Regione e con i gestori della rete. Fra Terna e Eles, il gestore sloveno, è in corso un rimpallo kafkiano, in cui ognuno dice: non ti possiamo dare il via se non hai avuto prima il via dal nostro omologo. E noi lì a cercare di farli parlare fra di loro. Sembra quasi che facciano apposta a non tirare su il telefono per mettere i bastoni fra le ruote”. E va avanti così da molto tempo? “Siamo stati fra i primi a proporre delle linee d'interconnessione con la Slovenia e la Croazia, i nostri sono fra quei 42 progetti autorizzati con la prima normativa, nel 2002. Quindi è cinque anni che ci lavoriamo”. E la Regione? “Anche dalla Regione ci sono fortissime resistenze. Fino a un paio di anni fa, sembrava tutto tranquillo: il presidente Riccardo Illy si era dimostrato addirittura favorevole e ci aveva ricevuti insieme ad Acegas, l'utility triestina con cui siamo in partnership. Poi si è arenato tutto. Non riusciamo nemmeno a farci rispondere dall'assessore competente, Lodovico Sonego: gli ho scritto due lettere, una a metà marzo e una a metà aprile, per chiedere un incontro. Non ha risposto a nessuna delle due. Se andiamo avanti così perderemo un'altra estate. Bisognerebbe vincolare gli enti locali a dare il loro parere in tempi congrui”. Non è un problema solo vostro... “Me ne rendo conto, ma non mi consola. Se almeno dicessero chiaro che queste linee non si possono fare, rivolgeremmo i nostri investimenti da un'altra parte. Non si può bloccare delle imprese per anni senza spiegare perché”. E' così per tutte le infrastrutture. “A maggior ragione dovrebbero essere contenti di avere una linea elettrica, con un bassissimo impatto ambientale, piuttosto che una centrale a carbone. Cosa c'è di più pulito di una linea ad alta tensione? Non sporca, non comporta l'importazione di carburante, diminuisce l'impatto degli impianti di produzione. Mi sembra che dovrebbe suscitare solo reazioni positive”.

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27 novembre 2008

Il salvataggio del Warren Buffett della Valcamonica

E' Romain Zaleski, il "Warren Buffett della Valcamonica", la prima vittima italiana della crisi dei subprime. Un anno fa la sua società, la Carlo Tassara (praticamente un hedge fund) aveva un avanzo patrimoniale di 5 miliardi ai valori correnti e gli attivi erano pari al 160% del debito. Era ritenuta solvibile e corretta. Oggi ha all'attivo partecipazioni che valgono 6 miliardi, 5 dei quali in società quotate. Al passivo ha debiti verso le banche per oltre 6 miliardi. Nel frattempo, evidentemente, Zaleski ha fatto qualche scommessa sbagliata, usando denaro preso a prestito per i suoi investimenti. Le banche italiane, preoccupate dal crollo di un pilastro del sistema, gli hanno offerto un piano di salvataggio. Ma lui ha detto di no. Il raider amante delle macchine d'epoca non è disposto a uscire di scena in silenzio.
PARTECIPAZIONI PESANTI
Il problema sta nel fatto che a garanzia dei prestiti ricevuti (1,3 miliardi), le azioni della Carlo Tassara sono in pegno presso alcune banche straniere, principalmente la francese Bnp e la britannica Royal Bank of Scotland. Ora le due banche gli hanno chiesto di rientrare. Ma quelle azioni non sono azioni qualsiasi. La Carlo Tassara, in questi anni, ha comprato partecipazioni "pesanti", fondamentali per gli equilibri di potere in alcuni santuari della finanza italiana come Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca. Zaleski controlla la Mittel, di cui è presidente Giovanni Bazoli, che guida il consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo. E conta in Edison, A2A, Montepaschi, Popolare di Milano, Ubi Banca. In pratica, è il perno attorno a cui gira buona parte del sistema. Un ruolo niente affatto casuale. Se il finanziere franco-polacco è riuscito a entrare in tutti i salotti buoni della finanza italiana, vuol dire che a questi santuari faceva comodo così.
ANGELI CUSTODI
Non è dunque un caso che le banche italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Ubi Banca, Bpm e Mps) siano immediatamente accorse al suo fianco, per impedirgli di vendere le sue azioni in Borsa, il che farebbe scendere ancora il valore dei rispettivi titoli. I suoi cinque angeli custodi gli avevano offerto un piano in due fasi. Il primo passaggio era una ricapitalizzazione da 200 milioni di euro della Carlo Tassara. Il secondo passaggio era il salvataggio vero e proprio: un finanziamento da 1,3 miliardi, che doveva servire a Zaleski per ripagare i suoi debiti con Bnp Paribas e Royal Bank of Scotland. In cambio il portafoglio della finanziaria - dov'è custodito il 5% di Intesa SanPaolo, il 2% di Generali, Mediobanca e Ubi, il 10% di Edison e il 2,5% di A2A, più quote di altre società minori italiane ed estere, come l'azienda siderurgica bresciana Metalcam, da cui era partito - doveva essere svuotato con calma, per evitare il crollo delle azioni coinvolte, già tanto provate da questa infelice stagione di Borsa. L'impero finanziario costruito in questi anni da Zaleski, che vale oltre 6 miliardi di euro, doveva essere messo in mano a Pierfrancesco Saviotti, il banchiere di Merrill Lynch che si era preso l'incarico di smontarlo pezzo a pezzo, in pratica un commissario delle banche impegnate nel salvataggio. I potenziali acquirenti non mancano. Pochi giorni fa, l'imprenditore romano Francesco Gaetano Caltagirone aveva detto di essere interessato ad aumentare la partecipazione in Generali e a valutare Mediobanca. Ma all'ultimo momento Zaleski si è tirato indietro: questa "liquidazione extragiudiziale" non gli piace. Cercherà di trovare da solo le risorse per chiudere le posizioni verso le banche estere. Che non significa «arrivederci e grazie», perché la situazione patrimoniale della finanziaria bresciana non è certo florida e quindi ha bisogno di una moratoria da parte delle banche italiane per non andare in bancarotta. Ma Zaleski vorrebbe liquidare gli istituti stranieri non più attraverso il finanziamento bancario, bensì vendendo le azioni date in garanzia, tra cui il 3% del capitale di Intesa Sanpaolo. Alla quale verrebbe chiesta, così come alle altre quattro, una moratoria di dodici mesi sugli interessi relativi all' attuale esposizione, pari a circa 5 miliardi. Su questo è iniziata una nuova trattativa.
DA OUTSIDER A INSIDER
Romain Zaleski è uno dei pochi outsider che siano stati capaci di infiltrarsi e diventare parte di un sistema chiuso e opaco come quello italiano, dove l'appartenenza alla "famiglia" era (e in parte è ancora) fondamentale per poter operare. Tutto il contrario dei sistemi anglosassoni di mercato, molto più simili a una democrazia rappresentativa, dove gli outsider di solito prosperano. Non dimentichiamo che Enrico Cuccia, il grande manovratore della finanza italiana fino alla sua morte nel 2000, era siciliano di Patti.
LA STORIA DI UN MAVERICK
Il percorso di Zaleski dimostra una straordinaria capacità di reagire alle avversità, a partire da quando riuscì a trasmettere alla resistenza polacca un messaggio suggeritogli da sua madre mentre gli uomini della Gestapo la stavano arrestando sotto i suoi occhi, a Varsavia nel 1944. Aveva 11 anni. La sua azione disperata gli costò un soggiorno a Buchenwald. Dopo la liberazione, ritrova la sua famiglia a Parigi, dove si laurea nel '58 all'École nationale supérieure des mines. La sua formazione ingegneristica lo porta a lavorare in diverse aziende metallurgiche, fino all'arrivo in Italia nell'84, quando gli viene affidato il risanamento della Carlo Tassara, un'azienda siderurgica familiare con sede in Valcamonica sull'orlo del dissesto. Zaleski la risana e l'acquisisce: negli anni la trasforma in una holding di partecipazioni, passando dalla siderurgia alla finanza pura. Il suo primo assalto al sistema di Mediobanca è la scalata della Falck con i soldi della Comit nel '96: un'operazione che gli ha fruttato una plusvalenza di 300 milioni di euro. Nel 2000 è appoggiato da Giovanni Bazoli nella battaglia per la Montedison, che ha coinciso con la scomparsa di Enrico Cuccia e il tramonto di Mediobanca. Ora la sua storia sembrava finita. Ma non è mai detta l'ultima parola.

Acqua: Milano prima o poi in mani straniere

I consulenti sono al lavoro per raggiungere l' equilibrio fra le partecipazioni azionarie di Milano e Brescia nella grande multiutility del Nord, che si va formando con la promessa di nozze entro l' autunno fra Aem e Asm. Un rompicapo non da poco, visto che Brescia controlla quasi il 70% della sua ex-municipalizzata, mentre Milano solo il 42,2% della sua. «La soluzione migliore - spiega Luigi Prosperetti, economista della Statale e consulente del primo governo Prodi sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali - sarebbe l' incorporazione nella nuova società anche della gestione dei rifiuti e del ciclo idrico milanese, che darebbe più peso al Comune nella fusione e maggiore omogeneità alle attività delle due utility». Prosperetti era vice presidente di Aem quando fu avviata la sua privatizzazione, nel lontano ' 93, e fin da quel momento aveva caldeggiato insieme a Marco Vitale, allora assessore al Bilancio, l' incorporazione del ciclo idrico in Aem. Quattordici anni dopo A quattordici anni di distanza si continua a parlarne, malgrado la rapida evoluzione del quadro competitivo a livello nazionale ed europeo. Oggi si tratterebbe di trasferire a un' azienda quotata la proprietà di due Spa a capitale interamente pubblico: l' Azienda Milanese Servizi Ambientali (Amsa) e la Metropolitana Milanese (MM), cui la giunta Albertini ha affidato nel 2003 la gestione del ciclo idrico. «Speriamo che stavolta il sindaco Letizia Moratti ce la faccia», si augura Prosperetti. Ma non sembra probabile. A livello comunale infuriano le accuse di voler «privatizzare l' acqua». E i gendarmi comunitari della concorrenza non vedrebbero certamente di buon occhio, oggi, un conferimento del ciclo idrico senza gara. Lanfranco Senn, economista della Bocconi e nuovo presidente della Metropolitana Milanese, se ne rammarica. Cicli Si è perso molto tempo? «Troppo. Oggi l' assegnazione del ciclo idrico ad Aem senza metterlo in gara sarebbe impensabile. E al di là delle risse ideologiche che ne deriverebbero, mettendo sul mercato l' acqua di Milano, considerata un fiore all' occhiello delle utilities italiane, non è affatto detto che l' Aem vinca la gara». Del resto le gare si fanno apposta perché vinca il migliore... «Il problema è che ormai siamo entrati in un circolo vizioso. Da un lato è evidente che i servizi locali dalla gestione privata hanno tutto da guadagnare: così si evitano, almeno in parte, le faide di carattere personale, le appartenenze ideologiche, le protezioni clientelari tipiche del pubblico. I privati sono molto più bravi ad applicare la best practice nella gestione: le economie di scala, il controllo di qualità, la selezione del personale, il livello del management sono quasi sempre migliori. Quindi per gli utenti il cambio è vantaggioso e alla lunga è lì che andremo a parare, alla privatizzazione». E allora perché non farla subito? «Ci sono ostacoli politici e c' è appunto il circolo vizioso di cui parlavo. Se è vero che il punto d' arrivo è la privatizzazione, è anche vero che in Italia abbiamo perso una ventina d' anni per far crescere dei player capaci di competere a livello europeo e globale. Mentre noi dormivamo, i francesi, gli inglesi e i tedeschi andavano avanti. Ora giocano sulle eccellenze che hanno sviluppato e sono capaci di muovere grandi interessi finanziari: le banche scommettono su di loro, non su di noi. In Italia non è remunerativo scommettere sulle utility e così mancano fondi per fare investimenti. Insomma, tutto il sistema è bloccato. C' è poco da stupirsi, poi, se sono sempre loro a vincere le gare». Lei mi sta dicendo che non possiamo mettere i nostri servizi locali sul mercato perché finirebbero per essere mangiati dai francesi o dai tedeschi? E quindi, dopo aver perso vent' anni nelle dispute ideologiche, ora ne perdiamo altri venti perché gli altri sono diventati più bravi di noi? «In pratica, oggi il problema da porsi è: arrivati a questo punto, la strada per la riqualificazione dei servizi passa attraverso fasi o bisogna fare un salto?» Me lo dica lei... «Dal punto di vista giuridico, la privatizzazione non è strettamente necessaria. Ma è anche vero che se non diamo uno scossone la via all' efficienza sarà molto lunga...». Quindi? «Il primo passo è politico. Per noi esperti è facile indicare la strada, ma è la politica che deve tradurre la teoria in pratica. Il caso del ddl Lanzillotta è un classico esempio di un Paese che fa ancora dell' ideologia il criterio delle sue scelte. L' esclusione dell' acqua dalle liberalizzazioni dei servizi locali è un passo anacronistico, un cedimento politico che ci costerà caro. Inglesi, tedeschi, francesi e perfino gli spagnoli sono più pragmatici. Per riuscire a competere sul piano internazionale, bisogna uscire dall' approccio ideologico e far crescere un approccio pragmatico alla gestione del patrimonio pubblico». Come risolvere questo blocco? «Bisogna sfatare il mito del privato assetato di guadagni e dedito di principio al ladrocinio. È evidente che l' acqua è un bene pubblico e devono averla tutti, così come l' energia devono averla tutti. Ma non è detto che un ente pubblico sia più efficace di un privato a soddisfare questa legittima esigenza dei cittadini, così come non è detto che lo sia per l' energia, per il gas, per il telefono, per i treni o per gli aerei. Capisco che sull' acqua possa insorgere qualche timore in più, ma basta mettere in piedi dei contratti di gestione fatti bene, sotto rigoroso controllo pubblico, per garantire a tutti che al centro del processo ci sia l' interesse dell' utente». Ora però lei non è più solo un esperto, ha anche un incarico operativo... «Sempre all' interno di un' azienda che è al cento per cento del Comune di Milano». Avrà ben riflettuto sulle linee strategiche da prendere... «Per dare un ritorno agli investimenti, bisogna alzare il livello della gestione. Ed è quello che cercheremo di fare. Ma la buona volontà a livello locale non basta. È Roma che deve darsi il più velocemente possibile un percorso pragmatico che ci consenta di crescere a livello di sistema, come hanno fatto gli inglesi e i francesi. Altrimenti sarà inutile lamentarsi se l' acqua di Milano passerà prima o poi in mani straniere».

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Dopo il tabacco, i cibi grassi sotto accusa

Prima c'è stato il tabacco. Poi la finanza allegra. Ora è il turno dell'industria alimentare. E all'orizzonte si profila un'ondata di cause per l'effetto serra. Per i consumatori, insomma, non c’è dubbio: la scelta dei prodotti da acquistare, che siano beni di consumo o investimenti, non discende esclusivamente dalla responsabilità dei singoli, ma anche da come il prodotto viene presentato. In altre parole: come faccio a sapere che il fumo fa male o che il grasso delle patatine può mandarmi all'altro mondo, se la casa produttrice non lo scrive chiaramente sul pacchetto? Messa così, la domanda sembra stupida. Eppure il problema della responsabilità giuridica delle aziende nei confronti delle scelte dei consumatori sta diventando uno degli snodi centrali del marketing di questo millennio. E gli effetti pratici sono già sotto gli occhi di tutti: dopo anni passati a offrire barrette di cioccolato e formaggini sempre più grandi, la Kraft ha appena annunciato l’intenzione di ridurre le dimensioni delle sue porzioni e di smettere di pubblicizzare i suoi prodotti nelle scuole. Si tratta chiaramente di una mossa difensiva, in previsione di doversi discolpare in tribunale per i problemi di obesità degli americani. Ed è anche il primo segnale che ormai dall'era del "più a meno" siamo passati all'era del "meno è più". La Kraft, del resto, non è la prima azienda alimentare a mettere le mani avanti: qualche mese fa la Pepsi ha deciso di eliminare i grassi più dannosi dalle sue patatine Frito-Lay, molto popolari fra i bambini, mentre la rivale Coca-Cola cominciava a recedere dai contratti di esclusiva che la legano a moltissime scuole. Fra i colossi dell'alimentare, insomma, si sta scatenando una concorrenza del tutto nuova: si fa a chi taglia di più, come se il cibo fosse nocivo quanto le sigarette. E' la stessa sindrome da cui sono state colpite le multinazionali del tabacco dopo decenni di conflittualità e miliardi di risarcimenti: per Philip Morris o R.J. Reynolds ormai il basso profilo è d'obbligo e l'ammonimento ai consumatori sui pericoli del fumo campeggia chiaramente su ogni pacchetto. Malgrado nel campo alimentare la conflittualità sia ancora ai primordi e per ora si stia concentrando soprattutto sulle catene di fast-food, è evidente che Kraft (del gruppo Altria come Philip Morris) o Pepsi non vogliono farsi cogliere impreparate. Non più tardi della settimana scorsa John Banzhaf, un professore alla Law School della George Washington University, ha mandato alle sei principali catene americane di fast-food - McDonald's, Burger King, Wendy's, Kentucky Fried Chicken, Taco Bell e Pizza Hut - una lettera di diffida in cui sostiene che l'alto contenuto di grassi e di zuccheri di alcuni loro prodotti può creare assuefazione e che questo fatto andrebbe indicato chiaramente su ogni menu. Per il momento la reazione dei magistrati sembra piuttosto scettica. Il parere di Robert Sweet, il giudice di New York che ha rigettato una causa intentata da due adolescenti obesi, è inequivocabile: “Nessuno è obbligato a mangiare da McDonald’s. Non è compito della legge proteggere la gente dai propri eccessi”. Assomiglia molto al commento di Milton Pollack, il giudice che ha respinto qualche mese fa una causa intentata da alcuni investitori danneggiati dallo sboom dei tecnologici contro Merrill Lynch e il suo analista di punta Henry Blodget. A differenza di altri investitori, che in effetti avevano comperato ingenuamente titoli hi-tech attraverso Merrill Lynch basandosi sulle false promesse di Blodget e quindi sono stati rimborsati, i querelanti ricorsi al giudice Pollack si sono rivelati degli speculatori perfettamente coscienti del rischio che stavano correndo: “Ora questa gente – è la tagliente risposta del giudice – spera di sfruttare la legge come un’assicurazione gratuita contro le perdite in Borsa”. Spesso è difficile distinguere fra ignari consumatori truffati e speculatori a caccia di aziende con la coda di paglia cui spillare dei soldi, ma è proprio su questo stretto crinale che corre oggi l’uomo del marketing, impegnato a propagandare un prodotto pur rispettando il diritto dei consumatori a essere correttamente informati anche dei suoi lati negativi. Naturalmente la gestione del risparmio presenta problemi diversi dall’industria alimentare. Mentre a un’azienda che vende tonno in scatola per poter scaricare ogni responsabilità dovrebbe essere sufficiente scrivere chiaramente sulla confezione che cosa c’è dentro (magari specificando anche le calorie), davanti alla scelta di un fondo d’investimento anche il consumatore più accorto e informato può perdersi nel labirinto dei pro e dei contro. Ecco dove il paternalismo delle aziende - cioè la manipolazione cosciente delle scelte dei consumatori - diventa utile e talvolta necessario, secondo un recente studio di Cass Sunstein e Richard Thaler, due docenti alla Law School dell’università di Chicago considerati due colonne dell’economia comportamentale. Nel loro studio intitolato “Libertarian Paternalism”, appena pubblicato dall’American Economic Review, Sunstein e Thaler spiegano come le scelte dei consumatori siano spesso dettate da considerazioni del tutto irrazionali, facilmente influenzabili con dei trucchi elementari: “Se a un gruppo di pazienti si dice che cinque anni dopo una certa operazione il 90 per cento degli operati è ancora vivo e a un altro gruppo si dice che il 10 per cento degli operati è morto, la maggior parte del primo gruppo sceglierà l’operazione mentre nel secondo gruppo la maggioranza sarà contraria”. Di conseguenza – concludono Sunstein e Thaler - la responsabilità delle aziende nelle scelte dei consumatori è molto maggiore di quanto si pensi e va esercitata con grande oculatezza, perché spingere i clienti ad agire contro i propri interessi finirà prima o poi per danneggiare le aziende stesse. “E’ falso – spiegano Sunstein e Thaler – pensare che la gente tenda a prendere delle decisioni che vanno nel suo interesse. Tutti gli esperimenti intrapresi negli ultimi anni lo dimostrano”. Ed è altrettanto falso che le aziende possano semplicemente offrire delle asettiche informazioni e poi ritirarsi in buon ordine lasciando che i clienti sbaglino da soli: “In moltissime situazioni, i vertici dell’organizzazione sono obbligati a prendere delle decisioni che influenzeranno in una maniera o nell’altra le scelte dei consumatori. Questo vale sia per il settore pubblico che per quello privato”. Tali decisioni – concludono Sunstein e Thaler - non sono mai neutrali: possono essere prese tenendo conto solo degli interessi immediati dell’azienda, di quelli dei consumatori o di entrambi. Ma in ultima analisi, per mantenere in piedi un rapporto duraturo e corretto, è il benessere dei consumatori che va considerato l’obiettivo primario.

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Il conto di Kyoto lo pagano gli elettrici

Mezzo miliardo all' anno per Kyoto: questo è il conto, euro più euro meno, che le compagnie elettriche italiane dovranno pagare per rispettare le regole del protocollo. Tanto costano, alle quotazioni correnti, i 23 milioni di tonnellate di anidride carbonica che Bruxelles ci chiede di tagliare e che il sistema industriale italiano dovrà comprare sul mercato, se non vuole chiudere gli impianti incriminati. Centrali elettriche, ma anche acciaierie e cementifici, cartiere e vetrerie. Sono 1.240 in tutto le imprese che già nel triennio 2005-2007 devono ridurre le loro emissioni di gas serra. Eppure chi si aspetta che i tagli vengano distribuiti qua e là, pro quota, si sbaglia. I costi di Kyoto graveranno sulle spalle del sistema elettrico, con il rischio di un aumento delle bollette, già salatissime, che l' Authority ha quantificato in un 5-10%. «Abbiamo deciso di non distribuire i tagli a pioggia, ma di legarli all' andamento della produzione industriale, scegliendo i settori dove ci sono più margini d' intervento» spiega Corrado Clini, direttore generale del ministero dell' Ambiente, alla vigilia della pubblicazione del Piano nazionale di assegnazione (Pna) delle quote di anidride carbonica, da cui le imprese italiane apprenderanno quanti fumi può emettere ciascun impianto e quanto devono tagliare o comprare sul mercato dalle aziende più virtuose. Così potrà partire anche in Italia il meccanismo europeo dell' Emissions Trading, il mercato dei fumi, che si basa come dato di partenza su un tetto massimo di emissioni cui ogni membro dell' Ue doveva adeguarsi, fornendo le quote di assegnazione della CO2 impianto per impianto già nel lontano marzo 2004. L' Italia ha consegnato il piano con mesi di ritardo e i negoziati con Bruxelles si sono prolungati fino a quest' estate: in conclusione, al nostro Paese è stato chiesto di abbassare il tetto complessivo da 255,5 a 232,5 milioni di tonnellate di CO2 all' anno. I ritardi accumulati potrebbero costare cari alle imprese italiane, che entrano nel meccanismo dell' Emissions Trading quando le quotazioni dell' anidride carbonica sono già schizzate alle stelle: dai 7-8 euro a tonnellata del gennaio di quest' anno ai 23,9 euro di oggi. «Per fortuna - prevede Clini - è probabile che il governo finisca per offrire alle imprese più penalizzate permessi di emissione a basso costo acquisiti attraverso l' Italian Carbon Fund, il fondo istituito dall' Italia presso la Banca Mondiale per sostenere progetti di riduzione delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo». In questo caso, il costo complessivo si ridurrebbe a un quarto, perché le quotazioni di anidride carbonica su quei mercati non superano i 5-6 euro. «Poteva andare ben peggio - commenta Clini - considerando il fatto che inizialmente l' Italia si era impegnata a ridurre del 6,5% le emissioni complessive rispetto ai valori del ' 90. In realtà abbiamo spuntato un aumento del 10%». Eppure le imprese non sono soddisfatte: «Il rischio - fa notare Annalisa Oddone, responsabile ambiente di Confindustria - è di dover sostenere costi marginali molto elevati per ottenere modesti risultati nella riduzione delle emissioni, perché si va ad incidere su un sistema produttivo che presenta già un' altissima efficienza energetica». «Ma questi tagli - precisa Clini - derivano proprio dall' inesattezza dei dati che ci sono stati forniti dai diversi settori industriali. Prima siamo stati un anno fermi per colpa delle imprese, che non ci davano i numeri per stilare il piano. Poi, quando siamo andati a discuterli a Bruxelles, ci siamo accorti di avere in mano un quadro sovrastimato, soprattutto nel settore elettrico, rispetto a quel che risultava dalle statistiche europee. Non è colpa nostra se i consumi elettrici l' anno scorso sono cresciuti dell' 1,6%, contro il 3% previsto dai produttori».

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