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24 novembre 2008

Fred Turner

Un modello insulare, in cui prevale la creatività individuale ma le singole posizioni sono molto più fragili, se confrontate con quelle dei lavoratori dipendenti inseriti nelle organizzazioni gerarchizzate degli anni Cinquanta e Sessanta. "E' questa - secondo Fred Turner, autore di From Counterculture to Cyberculture (Chicago University Press) e docente a Stanford - la principale eredità del pensiero controculturale sessantottardo, sfociato poi nella rivoluzione digitale degli anni Novanta". Un'eredità controversa, che Turner ha studiato a fondo fin dalla nascita di Silicon Valley e oggi si rifiuta di celebrare acriticamente, com'è ormai diventato usuale nella mitologia della nuova frontiera cibernetica.
Le piace quest'uomo nuovo emerso dalla rivoluzione hi-tech?
"Il problema non è tanto se piace o non piace a me, quanto se piace a se stesso. O meglio, se questa organizzazione magmatica e flessibile dei processi produttivi riesce a soddisfare le necessità economiche e sociali di vaste masse di lavoratori che ormai ne sono coinvolte. E se non è così, come si può fare a migliorarla. Mi pare che sotto la patina dorata del mito, sia questo aspetto di critica sociale che manca".
Critica sociale?
"Sì, chiamiamola proprio così. Sulla nuova era digitale si sono scritte e dette molte frasi iperboliche. Ne ricordo una per tutte, coniata dalla leggendaria guru di Silicon Valley, Esther Dyson: "Il ciberspazio è il paese della conoscenza e l'esplorazione di questo paese può diventare la missione più elevata per un'intera società". Ma com'è possibile che tanta gente si sia fatta prendere dalla frenesia letteraria della nuova frontiera, paragonando una serie di macchine collegate fra di loro a un nuovo paesaggio, a un luogo diverso dalla realtà? Quando smetteremo di parlare a vanvera, scopriremo che il ciberspazio non è affatto un luogo diverso, ma fa parte della stessa banale realtà concreta in cui ci muoviamo tutti. Solo con la mente sgombra di miti potremo confrontarci con le ricadute di queste tecnologie e i nuovi modelli organizzativi che ne derivano".
All'atto pratico?
"E' molto semplice: negli ultimi vent'anni è scomparsa una certa organizzazione sociale e ne è sorta un'altra. E' scomparso l'uomo-azienda, che passava la sua vita nella stessa compagnia più o meno dalla culla alla tomba, attraversando così gli alti e bassi della congiuntura, ed è nata una nuova generazione di lavoratori autonomi, che si muovono continuamente da un progetto all'altro a seconda delle esigenze produttive del momento. In pratica, le incertezze e i rischi del mercato sono stati scaricati in larga parte dalle spalle delle aziende a quelle dei lavoratori. Questo crea una maggiore libertà d'impresa, che naturalmente fa bene al ciclo produttivo, ma anche una serie di disguidi. Tanto per dirne uno, non è chiaro quanto a lungo sia possibile reggere uno stile di lavoro così instabile, affannoso nei periodi pieni, frustrante nei periodi morti. Sulle ansie e lo sfinimento derivanti da questo stile di vita è nata un'ampia fioritura letteraria: basta andarsela a leggere per capire che i tanto decantati lavoratori della conoscenza arriveranno agli anni della pensione (semmai ci arriveranno) molto meno rilassati dei baby boomers".
Insomma, sotto il mito si cela un incubo?
"Non dico questo. Certo è che il mito andrebbe un po' sfatato. Tutti questi cowboy del ciberspazio sono molto interessanti e soddisfatti finché sono giovani, mobili, slegati da qualsiasi contesto sociale. Ma non appena cercano di uscire dalla disgregazione sociale e di riprendere possesso della loro vita concreta, stringendo dei legami con altre persone concrete, cominciano ad emergere i conflitti e si scopre che un sistema di produzione di questo tipo ammette solo una dedizione totale".
Ma se la nuova frontiera elettronica è davvero così invivibile, da dove nasce il mito?
"La retorica della frontiera elettronica può essere spiegata in vari modi. Da un lato il ritorno di un'ideologia pionieristica tipica dell'immaginario americano, di cui anche la controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta era imbevuta. Dall'altro lato lo sforzo deliberato dell'industria elettronica di abbellire con qualche svolazzo filosofico le nuove esigenze produttive. Infine c'è da dire che il ciberspazio è davvero un luogo affascinante, pieno di nuove opportunità. Basta non farsi abbagliare, restare con i piedi per terra e prenderlo per quello che è: un mercato come un altro, con tutti i suoi pregi e difetti, i suoi vantaggi e le sue trappole".
Dominare la rete e non farsi dominare, dunque. Ma come?
"Innanzitutto riconnettendo i due domini, quello della realtà e quello della rete. L'idea di poter trasformare la società basandosi solo sulla comunicazione e non sulla politica è un'illusione pericolosa. La società si regge sulle istituzioni e la rete non può farne a meno: la suggestione individualistica e anarchica portata avanti da molti protagonisti del web, convinti che basti un blog a cambiare il mondo, va sfatata. Andiamo a vedere come sono finite tutte le proteste virtuali organizzate con grandi sbandieramenti contro la guerra in Iraq: risultati zero. Bisogna uscire dall'autismo e dal narcisismo dei bloggers e riconnettere la rete alle istituzioni".
Ma come si fa a dare un ruolo pubblico alla rete?
"Si tratta innanzitutto di uscire dagli spazi virtuali e costruire spazi reali di coscienza civica, in cui includere le reti virtuali come una parte di questa nuova realtà. Se continueremo a rinchiuderci negli spazi angusti della cibercultura, rischiamo di uscire definitivamente dal mondo della politica. E questo significa diventare irrilevanti".

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