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8 novembre 2008

Rosabeth Moss Kanter

Pochi guru del management si sono confrontati in maniera così approfondita con il cambiamento come Rosabeth Moss Kanter. Non il cambiamento pianificato dalle grandi corporation per seguire le evoluzioni del mercato, ma quello anarchico e creativo, che parte dal basso e si sparge come un virus, precedendo le indicazioni del mercato. Solo con un' azienda capace di operare sull' orlo del caos si può sopravvivere al ritmo sempre più rapido del mondo moderno, ha detto Moss Kanter nei suoi libri più famosi, da "Quando i giganti imparano a danzare" (Edizioni Olivares) a "Confidence" (Guerini e Associati). Lo stesso vale per un Paese come gli Stati Uniti, la più grande azienda in crisi con cui Moss Kanter si sia mai confrontata. Nel suo ultimo libro, "America the Principled" (Crown Business), la Grande Dame della gestione aziendale si lancia su un piano del tutto nuovo e quanto mai attuale.
L' azienda America è in crisi, sull' orlo della recessione. Si possono applicare le tecniche di buon management anche a un Paese?
«Certamente. Nel nostro caso sarebbe una benedizione, perché negli ultimi sette anni si è fatto esattamente il contrario. La naturale autostima degli americani è stata sopraffatta dalla retorica della paura. Al contrario, per far prosperare un' azienda, e anche un Paese, ci vuole fiducia in se stessi. Quando cominciamo a chiuderci, la competitività ne risente subito, sia a livello aziendale che a livello di sistema Paese, perché i punti forti dell' impresa americana sono l' innovazione e l' intraprendenza, non la manodopera a buon mercato. Innovazione e intraprendenza hanno bisogno di una mente aperta, di gente capace di sfidare i paradigmi e di fare qualcosa di nuovo, non di ripetere il passato».
Nel suo libro lei parla di un passaggio ulteriore, dopo la trasformazione dei dipendenti delle grandi multinazionali da colletti blu a colletti bianchi.
«Siamo già passati attraverso l' evoluzione della produzione dal manifatturiero al terziario. Anche quel poco che è rimasto di manifatturiero è fortemente dominato dalla tecnologia e dalla componente creativa. Ora, quello che vediamo nascere in quest' epoca è un nuovo tipo di terziario, ancora più evoluto rispetto alla prima ondata».
Lei la chiama economia del camice bianco. Che cosa intende?
«Il camice bianco è un simbolo per descrivere un' economia che trae valore dalle nuove scoperte della scienza e della tecnica. Le scienze della vita stanno diventando molto importanti per il business, insieme alle nuove tecnologie ambientali. Gli imprenditori ormai si basano molto sulla gente capace di scoprire nuove cose e quindi con un alto livello di istruzione».
Quale la differenza rispetto all' economia dei colletti bianchi?
«L' economia del camice bianco è diversa dal terziario della prima ondata, perché si basa molto di più su istituzioni fondamentalmente non-profit come le università, i laboratori scientifici, gli ospedali. In questa economia si stringono continuamente partnership tra aziende con università e si creano start-up con fondi federali. Insomma è un modo di fare business molto più complesso e articolato dei precedenti, che crea forti interdipendenze fra il pubblico e il privato».
Lei lo chiama capitalismo "value-based", basato sui valori...
«Esattamente: il business è sempre più mirato a fare del bene alla gente. Questo tipo di terziario è molto concentrato sui servizi sanitari, sulle tecnologie verdi, tutto quello che serve per mantenere in salute le persone e il pianeta. E' su questi temi che vedo il futuro della grande impresa, ma per promuoverli ci vuole molto ottimismo, grande apertura alle menti migliori che vengono dall' estero, università sempre più competitive. Gli Stati Uniti devono stare attenti a non restare indietro».

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