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19 dicembre 2005

La major del web si buttano sulla telefonia

Dopo Google e Yahoo, ora ci si mette anche Microsoft: è sfrenata la corsa al VoIP da parte delle major della rete, che s'inseriscono ormai senza tanti complimenti nel business delle compagnie telefoniche. Evoluzioni ed accordi commerciali si susseguono a ritmo giornaliero: l'ultimo in ordine di tempo riguarda la stretta di mano tra Microsoft e l'operatore statunitense Mci, che hanno annunciato in questi giorni un'alleanza per estendere il servizio di instant-messaging di MSN anche all'affollato mercato della telefonia via internet.In questo modo Microsoft accelera il suo ingresso concreto nel mercato telefonico, tallonando a ruota servizi come quelli forniti da Skype, Google e Yahoo, che da poco tempo ha aggiunto al proprio nome la dicitura "with voice", a conferma anche formale della propria intenzione di partecipare alla partita del VoIP. Rispetto alle altre offerte, però, Microsoft ha dalla sua l'alleanza con un colosso della telefonia: una differenza non da poco. Il nuovo servizio, che combina la rete a banda larga di MCI con il software di Microsoft, sarà chiamato MCI Web Calling for Windows Live Call e sarà reso disponibile nella prima metà del 2006 attraverso Windows Live Messenger, l'erede di MSN Messenger, che ha oltre 185 milioni di utenti attivi in giro per il mondo e compete direttamente con i servizi di messaggistica istantanea di Aol e Yahoo.Il primo passo della strategia di Microsoft per entrare nel mercato della telefonia via Internet è stata l'acquisizione, in settembre, di Teleo, una piccola software house di San Francisco che ha sviluppato un sistema paragonabile a quello di Skype, capace di collegare uno speciale apparecchio telefonico al proprio pc e di raggiungere con questo un qualsiasi telefono, fisso o mobile che sia. Il neonato servizio Google Talk, invece, richiede che entrambi i conversatori abbiano pc e cuffie. L'accordo, stando a quanto dichiarato dalle due aziende, consentirà ai consumatori di effettuare chiamate al costo di 2,3 centesimi di dollaro al minuto (2 centesimi di euro). L'intenzione è di essere molto competitivi sul prezzo con le società presenti sul mercato: Skype, leader indiscusso di questo mercato, che è appena stato acquisito da eBay, offre chiamate per circa 2 centesimi di euro. Come i clienti di SkypeOut, anche gli utenti del servizio Microsoft/MCI dovranno comprare dei pacchetti prepagati e potranno eseguire chiamate a numeri fissi o mobili, cliccando dal pc sulla corrispondente voce nella loro lista di contatti. Al momento, Microsoft e MCI stanno testando una versione beta del servizio su diecimila utenti negli Stati Uniti, ma il test verrà presto esteso all'Europa in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Certo è che potenzialmente Microsoft è in grado di diventare una stella di prima grandezza della telefonia, se davvero riuscirà a trasformare i quasi 200 milioni di utenti dei servizi Msn in altrettanti clienti del suo VoIP. Il padre di Skype Niklas Zennström, svedese, 39 anni, geniale sviluppatore inviso ai potentati del copyright per aver lanciato qualche anno fa KaZaA (un sistema di condivisione di brani musicali scaricato da 370 milioni di persone), è convinto che la rivoluzione del VoIP sia destinata a sconquassare il mercato telefonico nel giro di pochi anni. Un'opinione certamente tendenziosa, ma non del tutto da buttar via. Skype è già stato scaricato 63 milioni di volte e sta affermandosi come l'offerta di comunicazione vocale con il più rapido tasso di crescita a livello globale (si prevede che raggiungerà i 240 milioni di utenti entro il 2008). E se anche Bill Gates si è lanciato in questo business, un motivo ci dev'essere. Resta ancora da superare lo scoglio della qualità. Le chiamate via Internet, come sa bene chi le usa, costano poco visto che la voce viaggia sul web aggirando i costi delle teleselezioni nazionali e internazionali, ma la commutazione di pacchetto non è l’ideale per mantenere la fluidità della conversazione, che a seconda dello stato delle linee soffre di rantoli, mancamenti e ritardi più o meno consistenti. Il problema non affligge i pregiati (e costosi) sistemi VoIP aziendali, ma può diventare un vero fastidio per gli utenti casalinghi, che sono il pubblico a cui si rivolgono i servizi di Msn. Ma la tecnologia si sviluppa a passi da gigante e la banda larga si diffonde nelle case della gente, dunque è lecito aspettarsi qualità sempre migliori e pc-telefonate sempre più facili. Se oggi come oggi la telefonata via Internet copre nicchie interessanti ma minoritarie di utenti e servizi, come le telefonate dirette “chiama con clic” dalle pagine web dei portali e dei siti di e-commerce, domani potrebbe davvero esplodere come servizio di massa. E Microsoft, come al solito, potrebbe sfruttare la sua posizione dominante nei sistemi operativi. Il telefono di Msn probabilmente è solo un assaggio, la vera partita si giocherà dotando Windows (e naturalmente Windows Mobile) di un supporto nativo al VoIP, di altissima qualità anche grazie alla collaborazione dei 25 esperti di Teleo. L'ingresso di Microsoft, insomma, può essere un segnale positivo per il mercato ma ha già acceso una spia d'allarme sul cruscotto di Skype. Una preoccupazione che ricorda quella che avevano qualche anno fa Jim Clark e Marc Andreessen, i fondatori di Netscape, all'annuncio dell'allora imminente arrivo di Explorer...

12 dicembre 2005

Informatica in ritardo, ma il futuro non è nero

Un miliardo di fatturato bruciato in quattro anni. E l' involuzione dell' industria informatica italiana continua: dopo un annus horribilis come il 2004, il 2005 non si annuncia molto migliore. «Solo il mondo consumer fa crescere l' hi-tech italiano - spiega Roberto Schisano, amministratore delegato di Getronics -. Mentre l' amministrazione pubblica continua a battere la fiacca e le imprese stanno ancora alla finestra, accumulando un ritardo sempre più vistoso rispetto all' Europa». Le famiglie italiane hanno speso quest' anno circa 33 miliardi di euro per le nuove tecnologie, con un incremento dell' 8,4% rispetto al 2004. E anche sull' anno prossimo le previsioni sono buone, con un aumento della spesa del 7,1%. Ma la domanda di hi-tech per intrattenimento domestico e personale non basta a tenere su il mercato. Alla fine del 2005, secondo dati Eito (European information technology observatory), la crescita della domanda italiana d' informatica sarà dell' 1,5% contro il 3,5% europeo, con una spesa pro capite di 1.064 euro contro una media europea di 1.487 e americana di 2.240. Se poi dai dati di settore si separano le tlc, il ritardo appare ancora più marcato. Non a caso il 10% delle 85 mila aziende che gravitano sul comparto è in crisi, cioè in fallimento o in liquidazione. «Sono evidenze - precisa Schisano - che non possono essere ridotte a questioni di settore, perché i Paesi che più investono in Ict sono anche i più competitivi e in crescita». Il letargo del sistema industriale italiano si vede in particolare sul comparto dei software e servizi, che rappresentano la vera anima del mercato It, non solo per la loro rilevanza sul totale, pari a poco meno del 70%, ma anche perché rappresentano il vero motore dei progetti e della domanda. «Il clima che si respira oggi in Italia sembra confinare l' innovazione a fattore di sopravvivenza piuttosto che di sviluppo: mentre l' hardware prosegue la sua corsa, spinto soprattutto dalla domanda di pc da parte delle famiglie - spiega Alberto Tripi, presidente di Federcomin, la federazione di settore più concentrata sui servizi -, il mercato dei software è sostanzialmente piatto e i servizi vanno indietro, con un calo che continua da anni». Tripi, il «re dei call-center», si è imbarcato quest' anno nell' avventura della sua vita, rilevando da Telecom Finsiel, cioè tutto quel che resta dell' informatica italiana di Stato, per accorparla al suo gruppo Cos. Con questa acquisizione, l' Italia ha messo la parola fine al sogno, vagheggiato a lungo, di creare un campione nazionale, fondendo Finsiel con le altre realtà più importanti della tradizione informatica nostrana, da Elsag (gruppo Finmeccanica) a Engineering, passando forse per Getronics, che ha inglobato l' eredità di Olivetti. Il progetto del grande polo informatico nazionale si è infranto proprio sulle difficoltà attraversate dal comparto, che bloccano le grandi ristrutturazioni. Ma Tripi vede buone prospettive di crescita: «Pensiamo alle crescenti esigenze d' informatizzazione delle amministrazioni locali, così come al gap d' innovazione da colmare per le piccole e medie imprese. Pensiamo a quei processi di convergenza tra settori differenti dell' Ict, che sull' esempio di realtà straniere molti gruppi italiani stanno perseguendo nella ridefinizione del loro business. Su questa strada le imprese informatiche possono trovare nuove opportunità di business». Insomma, qualcosa si muove sotto la cenere. Ma soprattutto per le piccole realtà, più flessibili e rapide nel cogliere le occasioni al volo. «La pressione in atto sui prezzi, tipica di un mercato in contrazione, favorisce le piccole imprese più innovative», spiega Luciano Marini, presidente di SoftPeople, azienda che l' anno scorso ha stupito il mercato mettendo a segno una crescita record, passando da 53 a 78 milioni di euro, e quest' anno arriva a quota 100. Dalle sei sedi sparse sul territorio, Softpeople fornisce ai propri clienti servizi abbastanza eterogenei, dalle soluzioni software per le imprese pubbliche e private alle infrastrutture di sicurezza e tlc, fino alla comunicazione via web e all' outsourcing della gestione della clientela. Il segreto della crescita sta in un' organizzazione aziendale davvero non comune: tante piccole Srl che agiscono sul mercato come delle business unit vere e proprie, ma con ampia libertà di manovra. Su un' organizzazione snella e flessibile punta anche Enterprise Digital Architects, uno spin-off italiano di Ericsson che si sta cimentando su tutti i settori più nuovi dell' Ict, dal Voip al digitale terrestre, dalla sicurezza all' outsourcing. «Per star dietro al ritmo dell' innovazione - spiega Luigi Caruso, amministratore delegato di Enterprise - bisogna seguire un' altra logica rispetto a quella pachidermica delle grandi aziende». Caruso, che dirigeva l' unità di business Enterprise prima ancora dello spin-off, concepisce il distacco dal colosso scandinavo come un' emancipazione necessaria per adeguarsi ai nuovi ritmi: «Le nuove piattaforme tecnologiche modificano rapidamente la domanda e richiedono un cambiamento fortissimo nella risposta delle imprese». Per questo Enterprise, che ha raddoppiato in quattro anni da 350 a 700 addetti, con un fatturato di 300 milioni, rifugge le strutture rigide e organizza il lavoro a progetti, concentrando l' operatività dei dipendenti su temi anche molto diversi a seconda delle necessità. E la contaminazione incrociata per stimolare intuizione e creatività ha già dato qualche frutto: Enterprise è stata la prima impresa in Italia a occuparsi di digitale terrestre ed è una delle poche aziende ad avere già ultimato la sperimentazione del WiMax, disseminando di antenne Roma e Torino. Commenta Caruso: «C' è una bella rivoluzione in atto».

5 dicembre 2005

Tornado Cina sulle materie prime

È la Cina, naturalmente! Dal petrolio al carbone, dall' oro ai diamanti, tutti i movimenti sul mercato delle materie prime quest' anno e negli anni a venire hanno un solo motore principale: la fame di crescita del colosso asiatico. L' effetto traino del boom che sta interessando il celeste impero, accoppiato a quello dei vicini indiani, farà aumentare d' ora in poi la domanda mondiale di energia dell' 1,6% all' anno, un ritmo ben più sostenuto degli anni scorsi, fino a raggiungere il 50% in più rispetto al fabbisogno attuale nel 2030. Di pari passo cresce il consumo di combustibili fossili, dal petrolio al gas naturale, passando per il carbone. La stessa Cina che spinge la domanda, per fare un esempio, ha in programma l' installazione di nuove centrali a carbone per 50 mila megawatt, una dimensione quasi equivalente alla potenza complessiva di generazione disponibile in Italia. Secondo il World Energy Outlook 2005, il rapporto annuale dell' Agenzia internazionale per l' energia, saranno necessari ben 17 mila miliardi di dollari d' investimenti (sarebbe a dire 1,86 miliardi al giorno), nel prossimo quarto di secolo per far fronte all' aumento del fabbisogno. Il petrolio resterà la principale fonte di energia primaria e la domanda mondiale, oggi a 85 milioni di barili al giorno, salirà a 115 milioni nel 2030. Il gas naturale, per cui l' Aie prevede una crescita folgorante del 75% (a un tasso medio annuo che supera il 2%), scavalcherà il carbone come fonte di energia primaria, mentre la quota percentuale del nucleare è prevista costante e quella delle fonti rinnovabili si manterrà irrisoria, sotto il 2%. In questo scenario si calcola che il prezzo del petrolio sia destinato a scendere un po' sulle prime, attorno ai 35 dollari, per poi stabilizzarsi a 39, un livello più alto rispetto agli ultimi quindici anni, ma non drammatico. «A patto - specifica Faith Birol, capo economista dell' Aie - che i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa siano in grado di estrarre ed esportare le maggiori quantità di idrocarburi richieste dal mercato». In caso contrario, lo scenario prevede che l' aumento dei prezzi cui abbiamo assistito quest' anno diventi strutturale, stabilizzando le quotazioni del greggio sui 52 dollari. Anche se poi la conseguenza sarebbe una contrazione della domanda e il rallentamento del Pil mondiale. Quanto sia cruciale il ruolo dell' area mediorientale nella produzione di idrocarburi si è dimostrato nelle ultime settimane, con la crisi del mercato del gas britannico, dove i prezzi hanno raggiunto in pochi giorni valori 10 volte superiori al normale e di conseguenza le quotazioni dell' elettricità sono schizzate a 80 sterline per megawattora, ben oltre i salatissimi prezzi italiani. «Le cause - spiega Davide Tabarelli del Rie - sono semplici: la capacità produttiva si riduce in presenza di continua crescita della domanda. La produzione del Mare del Nord, che fra il ' 95 e il 2000 era raddoppiata a 105 miliardi di metri cubi, da due anni è in sensibile calo e quest' anno si avvicinerà ai 90 miliardi. Al contrario, la domanda continua stabilmente a salire oltre i 100 miliardi». Sbalzi simili nel prezzo del gas sono accaduti negli stessi giorni anche in Germania e in Francia. Qui non ancora, ma l' Italia è l' unico Paese al mondo che abbia scelto di affidarsi al gas per gran parte della produzione elettrica, circa il 60% nel 2010, mentre negli altri Paesi industrializzati si continuerà ad usare abbondantemente il carbone e il nucleare. La vasta diffusione del carbone in diverse aree del globo ne fa un combustibile sempre più popolare, al riparo dalle incertezze geopolitiche mediorientali: i cinesi, al primo posto nella graduatoria dei produttori, quest' anno ne hanno consumato talmente tanto da far salire l' import del 30%, passando dalla parte degli importatori netti e imprimendo una netta impennata alle quotazioni mondiali. Il fenomeno potrebbe ripetersi anche nel 2006, ma sul lungo periodo la produzione cinese di carbone crescerà, fino a raggiungere nel 2010 la cifra record di 2,4 miliardi di tonnellate. È sempre Pechino ad alimentare l' aumento dei prezzi delle altre commodities: le quotazioni record dell' alluminio subiscono la pressione di una crescita annua dei consumi cinesi del 7,2%, mentre la corsa dell' oro va di pari passo con l' apertura dello Shanghai Gold Exchange e la liberalizzazione del commercio dell' oro nel celeste impero. Per la prima volta in oltre cinquant' anni, i cinesi possono accedere a una forma d' investimento considerata fino a ieri «degenerata» dal partito comunista, che l' aveva severamente proibita fin dai primi giorni del suo regime, nel lontano 1949. Il buon momento dell' oro, dell' argento e del platino, naturalmente, dipende anche dalla loro attrazione generale come beni rifugio contro la minaccia dell' inflazione. Perfino i diamanti, spinti dalla domanda cinese e indiana, brillano più che mai: i prezzi delle gemme grezze continuano a salire e l' offerta non riesce a tenere il passo, mentre i tradizionali centri di taglio soffrono la concorrenza spietata delle nuove realtà asiatiche.

21 novembre 2005

Eni, la nuova strategia di Scaroni

Nulla sarà più come prima. Il punto di svolta, per l' Eni di Paolo Scaroni, è il caso Gazprom. La lezione del brutto accordo russo - firmato in maggio dal direttore della divisione Gas & Power Luciano Sgubini, disfatto in ottobre con un blitz a Mosca da Scaroni in persona e riproposto in questi giorni in veste «ripulita», come Scaroni ha anticipato settimana scorsa nel «memorandum»in Turchia - porterà a San Donato una nuova politica del gas e nei prossimi mesi anche un avvicendamento al vertice fra Sgubini e Vincenzo Cannatelli, che ha lasciato la guida del mercato e del gas in Enel. Le mosse di Scaroni, che con il suo gesto ha dato corpo alla svolta, puntano tutte nella stessa direzione: allargare la torta del gas ad altri mercati di sbocco piuttosto che combattere, come si è fatto fino a oggi, per mantenere a tutti i costi il monopolio assoluto sul mercato italiano, controllando i rubinetti d' entrata per non far arrivare troppo metano. L' inversione di rotta comporterà un progressivo sbottigliamento dell' import, fino a trasformare l' Italia in un hub del gas europeo, com' era l' Olanda prima che i giacimenti nel Mare del Nord fossero sfiatati, e com' è oggi la Svizzera per il mercato elettrico continentale. A pilotare la svolta, secondo voci sempre più insistenti, dovrebbe essere proprio Cannatelli, che ha guidato fino a pochi giorni fa la scelta espansiva di Enel nel gas, trasformando l' ex monopolista elettrico nel secondo operatore del metano in Italia, con l' 11% del mercato. Le condizioni per saltare sul treno dell' export di gas ci sono tutte: il fabbisogno di metano in Europa sta crescendo rapidamente, di pari passo con la proliferazione di centrali elettriche a gas, e il Belpaese è piazzato proprio in mezzo al Mediterraneo, in posizione strategica di raccordo fra l' Europa continentale e i giacimenti di gas del Nord Africa e dell' Asia Centrale. Due metanodotti, più altri due in costruzione, ci collegano alla sponda sud del Mediterraneo, e altri due si dipartono a nord verso Russia e Olanda. Al centro della ragnatela, l' Italia può diventare il punto privilegiato d' interscambio, agendo sulle leve dell' import e dell' export a seconda delle convenienze. In questo quadro l' alleanza con Gazprom - rafforzata dal preaccordo in via di definizione, che allarga la collaborazione anche al petrolio - è altamente strategica: il Tag, infatti, attraversa tutto il Centro Europa e basterebbe mettersi d' accordo con i russi per piazzare insieme un po' del loro gas nei mercati intermedi, cammin facendo. Ma Scaroni non si accontenta dei tubi: «L' Italia - ha detto recentemente - si liberi dalla dipendenza dalle pipeline», costruendo impianti di rigassificazione per il gas naturale liquefatto (Gnl). Anche questa è una novità: dagli anni ' 60, quando è stato costruito il terminale di Panigaglia, l' Eni si è tenuta alla larga dai rigassificatori, considerati veicoli di concorrenza su un mercato in cui l' offerta doveva rimanere contenuta per non rischiare di abbattere i prezzi. Che cos' è successo nel frattempo? Sotto la guida di Vittorio Mincato, l' Eni è diventata la sesta potenza petrolifera mondiale e ha aumentato il suo output del 70% a 1,8 milioni di barili (olio e gas) al giorno. E d' ora in poi, con il caro greggio che manda i prezzi in orbita, crescere ai ritmi del passato sarà complicato. Perciò Scaroni preferisce aprire a nuovi orizzonti.

7 novembre 2005

Croazia, nuova frontiera della rete

Una nuova frontiera elettrica, che porterà l' Italia a confinare con la Croazia, saltando i vicini sloveni, potrebbe nascere ben presto dalle opportunità aperte con il via libera ministeriale alle merchant lines, le linee private d' interconnessione elettrica con l' estero per importare energia a basso costo. «Ci sono voluti cinque anni per partorire questo decreto - commenta Alessandro Clerici, responsabile del gruppo di lavoro sulle infrastrutture elettriche di Confindustria - ma ora finalmente i progetti bloccati dal vuoto normativo potranno andare in porto». Di progetti ne sono stati presentati ben 48, a suo tempo, all' esame del gestore della rete. Ma non tutte queste manifestazioni d' interesse sono destinate a realizzarsi: il decreto, già firmato dal ministro Claudio Scajola ma non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, spazza via l' ordine di lista precedente e impone di passare attraverso le forche caudine di Regioni e Comuni prima di ottenere la concessione. Gianni Locatelli, presidente di Trafigura Italia (società olandese leader mondiale nel trading di idrocarburi), ha discusso la settimana scorsa con Riccardo Illy, presidente del Friuli-Venezia Giulia, il suo progetto d' interconnessione con la Croazia, che metterà in collegamento la rete italiana con quella balcanica, dove arriva la corrente a buon mercato dalla Bulgaria e dalla Romania, oltre che dall' Ungheria e dalla Slovacchia. Il cavo sottomarino, progettato dalla Pirelli, potrebbe diventare così uno snodo essenziale per l' importazione di elettricità dai Balcani e dal Centro Europa, dove l' Enel si sta costruendo un impero nel nucleare. «Aumentare l' interconnessione con l' Est - commenta Locatelli, già direttore del Sole 24 Ore e della Rai - servirà anche a loro, prima o poi». La linea, concepita in partnership con la triestina Acegas e con il colosso croato delle infrastrutture Montmontaza, dovrebbe partire dalla stazione elettrica di Planais, nella Bassa Friulana, e inabissarsi nella laguna di Marano, per riemergere sulla costa croata a Punta Salvore, proprio a ridosso del confine con la Slovenia, e allacciarsi alla rete croata dell' alta tensione a Pisino, nel centro della penisola istriana. «In Croazia - fa notare Locatelli - un megawattora costa sui 35-40 euro, in Italia ormai siamo a 70, praticamente il doppio». Ma il progetto Trafigura-Acegas non è unico. Altri vorrebbero attaccare la spina in Slovenia, a sua volta terra di passaggio e di prezzi modici. Un consorzio paritetico italo-sloveno si è formato attorno alla compagnia slovena Istrabenz e a Iris, l' ex municipalizzata di Gorizia, con la partecipazione della Rete Ferroviaria Italiana, per collegare con appena 16 chilometri di cavo interrato le sottostazioni elettriche ferroviarie di Vrtojba (a Sud di Nova Gorica) e di Redipuglia (a Nord di Monfalcone). Anche su quest' idea il governatore Riccardo Illy è stato già consultato. Più a Nord, Energia del gruppo Cir (De Benedetti), ha un progetto d' interconnessione con l' Austria fra Udine e Arnoldstein. «Fra Italia e Austria c' è solo una linea di collegamento, la Lienz-Soverzene: noi vorremmo aggiungerne almeno un' altra, sfruttando le infrastrutture già esistenti», spiega Mario Molinari di Energia. Per la compagnia elettrica di De Benedetti non c' è necessità di trovare un partner oltre confine, visto che è già partecipata al 40% da Verbund, la più grossa azienda elettrica austriaca.

31 ottobre 2005

Slovacchia: l'Enel in un vicolo cieco?

Parlare slovacco non basta. «Per concludere con successo un affare a Bratislava, è meglio sapere anche il ceco. E magari il russo». Questa è l' opinione di Karol Schlosser, grande finanziatore del nucleare cecoslovacco e titolare di due contratti di leasing che rischiano d' intralciare il passaggio definitivo della proprietà di due terzi di Slovenské Elektràrne dalla mano pubblica alle tasche di Enel. «Contratti come questi - spiega Schlosser - che complicano la struttura proprietaria delle centrali a cui Enel è interessata, ce n' è più d' uno: sono serviti, negli anni a cavallo della separazione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca, a finanziare lo sviluppo del sistema elettrico del Paese». Prima della separazione, nel ' 93, Slovenské Elektràrne era un tutt' uno con Cez, la compagnia elettrica ceca che era sicura di ricomprarsi la sua quota in febbraio, nella gara poi vinta da Enel per 840 milioni di euro. Ora Enel è alle prese con le ultime battute dell' affare: a metà ottobre ha avuto l' approvazione del piano d' investimenti, dopo la crisi di fine agosto e la defenestrazione di Pavol Rusko: il ministro che ha accolto l' offerta di Enel al posto di Cez. In quell' occasione, il partito di Rusko è uscito dall' alleanza di governo e ora il premier Mikulàs Dzurinda governa con una coalizione di minoranza, incalzata dai nazionalisti di Vladimir Meciar per anticipare le elezioni ad aprile. Ma Enel, che rischia di vedersi sfumare l' affare sotto gli occhi in caso di un cambio di governo, spera di chiudere prima. «Stiamo cercando di districarci in queste complesse strutture proprietarie per staccare le centrali, come quella idroelettrica di Gabcikovo, che non sono comprese nel perimetro dell' acquisizione -, spiega Peter Mitka, superconsulente ceco di PriceWaterhouseCoopers, che ha guidato Enel nell' avventura slovacca - . Si tratta più che altro di questioni formali, che saranno sbrigate entro la fine dell' anno». A giudicare dalle ultime dichiarazioni di Fulvio Conti, amministratore delegato, i vertici di Enel sembrano convinti che l' affare sia pressoché concluso, tanto che hanno già trasferito a Bratislava 168 degli 840 milioni dovuti per il pagamento. Ma Mitka si dichiara all' oscuro dei contratti di leasing di Schlosser. Nel nuovo piano, Enel si è impegnata a investire ben 1,9 miliardi nello sviluppo della società, di cui almeno 1,5 andranno nel completamento dei due reattori nucleari di Mochovce, già costruiti a metà dalla ceca Cez prima della separazione fra i due Stati. Lo scoglio è lo scorporo dei due reattori di Jaslovské Bohunice (che dovranno essere dismessi entro il 2006-2008, nell' ambito degli accordi per l' ingresso nell' Unione Europea) e di tutte le pendenze pregresse sulla liquidazione del nucleare già in corso. Negli accordi di febbraio, il governo si è impegnato a scaricare Enel dagli oneri del Fondo di liquidazione, compreso il deficit del Fondo (390 milioni di euro), attualmente di pertinenza di Slovenské Elektràrne, che copre parte delle spese di liquidazione e paga al Fondo una tassa annuale di 70 milioni di euro. «Il governo ripete da mesi la sua intenzione di varare un decreto in questo senso - spiega Beata Balogova, direttrice dello Slovak Spectator - ma con tutte le grane che hanno, prima che si mettano d' accordo...». Ma il problema, forse, è un altro. Tutto il sistema nucleare cecoslovacco è stato costruito da Cez, in parte con finanziamenti russi: a partire da Jaslovské Bohunice e Mochovce, ora in Slovacchia, fino a Dukovany e Temelin, in Boemia. Cez è anche la casa madre di Skoda Praga, il braccio operativo del sistema atomico sovietico. «Su disegni russi - spiega Jozef Valach, esperto nucleare slovacco, che ha diretto per sette anni la centrale nucleare di Mochovce - Skoda ha costruito almeno una ventina di reattori in tutto l' Est Europa, simili a quelli attivi a Mochovce, di tipo VVER-440. Anche le due unità che Enel vorrebbe completare a Mochovce per compensare lo spegnimento dei due reattori di Jaslovske Bohunice sono dello stesso tipo. Tutte le componenti principali sono già installate, mi meraviglierebbe che Enel possa continuare la costruzione senza richiamare in azione le aziende ceche e russe che hanno cominciato vent' anni fa». Per Enel le prossime mosse saranno decisive. «Il problema non è solo la chiusura dell' acquisizione di Slovenské Elektràrne», fa notare Schlosser, che ha partecipato al finanziamento di diverse centrali nucleari e ora sollecita il riscatto dei due contratti di leasing prima del perfezionamento delle trattative con il governo di Bratislava. «Se Enel, come sembra, vuole continuare a partecipare alle privatizzazioni del nucleare in Est Europa, sarà bene che si metta in comunicazione con il sistema atomico russo, svincolandosi dai suoi rapporti di sudditanza con i francesi». Un' opinione che serpeggia anche fra i banchi del Parlamento slovacco e che potrebbe rimettere in discussione tutto se a Roma qualcuno non aprirà bene le orecchie.

10 ottobre 2005

Il conto di Kyoto lo pagano gli elettrici

Mezzo miliardo all' anno per Kyoto: questo è il conto, euro più euro meno, che le compagnie elettriche italiane dovranno pagare per rispettare le regole del protocollo. Tanto costano, alle quotazioni correnti, i 23 milioni di tonnellate di anidride carbonica che Bruxelles ci chiede di tagliare e che il sistema industriale italiano dovrà comprare sul mercato, se non vuole chiudere gli impianti incriminati. Centrali elettriche, ma anche acciaierie e cementifici, cartiere e vetrerie. Sono 1.240 in tutto le imprese che già nel triennio 2005-2007 devono ridurre le loro emissioni di gas serra. Eppure chi si aspetta che i tagli vengano distribuiti qua e là, pro quota, si sbaglia. I costi di Kyoto graveranno sulle spalle del sistema elettrico, con il rischio di un aumento delle bollette, già salatissime, che l' Authority ha quantificato in un 5-10%. «Abbiamo deciso di non distribuire i tagli a pioggia, ma di legarli all' andamento della produzione industriale, scegliendo i settori dove ci sono più margini d' intervento» spiega Corrado Clini, direttore generale del ministero dell' Ambiente, alla vigilia della pubblicazione del Piano nazionale di assegnazione (Pna) delle quote di anidride carbonica, da cui le imprese italiane apprenderanno quanti fumi può emettere ciascun impianto e quanto devono tagliare o comprare sul mercato dalle aziende più virtuose. Così potrà partire anche in Italia il meccanismo europeo dell' Emissions Trading, il mercato dei fumi, che si basa come dato di partenza su un tetto massimo di emissioni cui ogni membro dell' Ue doveva adeguarsi, fornendo le quote di assegnazione della CO2 impianto per impianto già nel lontano marzo 2004. L' Italia ha consegnato il piano con mesi di ritardo e i negoziati con Bruxelles si sono prolungati fino a quest' estate: in conclusione, al nostro Paese è stato chiesto di abbassare il tetto complessivo da 255,5 a 232,5 milioni di tonnellate di CO2 all' anno. I ritardi accumulati potrebbero costare cari alle imprese italiane, che entrano nel meccanismo dell' Emissions Trading quando le quotazioni dell' anidride carbonica sono già schizzate alle stelle: dai 7-8 euro a tonnellata del gennaio di quest' anno ai 23,9 euro di oggi. «Per fortuna - prevede Clini - è probabile che il governo finisca per offrire alle imprese più penalizzate permessi di emissione a basso costo acquisiti attraverso l' Italian Carbon Fund, il fondo istituito dall' Italia presso la Banca Mondiale per sostenere progetti di riduzione delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo». In questo caso, il costo complessivo si ridurrebbe a un quarto, perché le quotazioni di anidride carbonica su quei mercati non superano i 5-6 euro. «Poteva andare ben peggio - commenta Clini - considerando il fatto che inizialmente l' Italia si era impegnata a ridurre del 6,5% le emissioni complessive rispetto ai valori del ' 90. In realtà abbiamo spuntato un aumento del 10%». Eppure le imprese non sono soddisfatte: «Il rischio - fa notare Annalisa Oddone, responsabile ambiente di Confindustria - è di dover sostenere costi marginali molto elevati per ottenere modesti risultati nella riduzione delle emissioni, perché si va ad incidere su un sistema produttivo che presenta già un' altissima efficienza energetica». «Ma questi tagli - precisa Clini - derivano proprio dall' inesattezza dei dati che ci sono stati forniti dai diversi settori industriali. Prima siamo stati un anno fermi per colpa delle imprese, che non ci davano i numeri per stilare il piano. Poi, quando siamo andati a discuterli a Bruxelles, ci siamo accorti di avere in mano un quadro sovrastimato, soprattutto nel settore elettrico, rispetto a quel che risultava dalle statistiche europee. Non è colpa nostra se i consumi elettrici l' anno scorso sono cresciuti dell' 1,6%, contro il 3% previsto dai produttori».

3 ottobre 2005

L'energia pulita va in negozio

Non più solo scarpe, cravatte e telefonini. Lo shopping in corso Buenos Aires a Milano o in viale Parioli a Roma si arricchisce di una nuova merce sempre più ambita: l' energia. Con l' avanzare della liberalizzazione e la minaccia del caro-greggio che incombe, la domanda di energia intelligente da parte degli italiani cresce a vista d' occhio. Chi si butta sul solare, chi sull' eolico, chi sull' idroelettrico: «L' ascesa dell' oro nero rende sempre più appetibile l' energia prodotta da fonti rinnovabili e ormai siamo sommersi dalle richieste», spiega Giuseppe Zanardelli, uno dei primi imprenditori italiani a operare come grossista sul mercato liberalizzato dell' energia, che ora si appresta ad aprire una catena di 35 negozi specializzati in tutta la Penisola, da Bergamo a Trieste, da Genova a Napoli. «Nei nostri negozi - precisa l' imprenditore bresciano - venderemo una serie di prodotti utili per combattere il caro-energia, da un lato offrendo contratti di risparmio a chi può uscire dal mercato vincolato, cioè chiunque abbia una partita Iva, dall' altro pacchetti d' installazione per impianti solari di piccola generazione alle famiglie che desiderano autoprodurre la propria elettricità». Spinto dalla nuova forma d' incentivazione in conto energia, il solare sembra avviato verso un vero e proprio boom: negli uffici del Grtn giacciono già centinaia di domande per l' autorizzazione di nuovi impianti. E sul fronte dell' eolico, la fiducia degli investitori nell' unica quotata italiana, Actelios (gruppo Falck), schizzata da 6 a 17 euro dall' inizio dell' anno ad oggi, testimonia del clima di euforia che domina il settore. «Per la prima volta quest' anno i piccoli imprenditori che vengono da noi a comprare energia non cercano più solo lo sconto ma chiedono soprattutto forniture certificate da fonti rinnovabili», fa notare Zanardelli, talmente oberato dalle richieste da essere costretto a fondare una seconda società per lavorare in specifico sull' energia pulita. Non si tratta di un interesse esclusivamente etico, ma anche di un' esigenza di marketing. Il «bollino verde» sulla porta del negozio attira clienti, soprattutto se si lavora con il Nord Europa, dove l' utilizzo di energia verde può rappresentare una discriminante nella scelta di un prodotto. Anche all' Enel, leader mondiale nella produzione di energia da fonti rinnovabili, se ne sono accorti. «Quest' anno abbiamo superato i cento milioni di chilowattora di energia verde venduti, un quantitativo decisamente superiore alle nostre più rosee aspettative», conferma Luca Dal Fabbro di Enel Energia, il braccio retail dell' ex monopolista. «C' è un boom di richieste del nostro bollino verde - rileva Dal Fabbro - soprattutto nel mondo del turismo: dal Tanka Village del gruppo Ligresti al Parco di San Rossore, dall' Auditorium Parco della Musica di Roma alla Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia...». Grande interesse anche per l' efficienza energetica, che fa bene all' ambiente e anche al portafoglio. «Con il caro-bolletta - spiega Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club - cresce la domanda di risparmio energetico». E negli uffici dell' Autorità per l' energia piovono le domande (oltre 400 finora), di autorizzazione per costituire delle EsCo (Energy Service Company), specializzate in interventi per il miglioramento dell' efficienza energetica di aziende pubbliche e private.

26 settembre 2005

Carbone, piace a tutti ma nessuno lo usa

Il parere del governo in carica si conosce: «Entro il 2010 dovremo essere in grado di sostituire il petrolio con il carbone pulito e il gas», dice il ministro delle Attività Produttive Claudio Scajola. Perfino il ministro dell' Ambiente, Altero Matteoli, sostiene che «il carbone non va criminalizzato». E il premio Nobel Carlo Rubbia concorda: «Il carbone è oggi sulla terra il combustibile più ricco, ne abbiamo per 230-240 anni, contro i 30-40 anni di petrolio e gas». Un coro di consensi, eppure il piano di riconversione di Enel dal petrolio al carbone stenta ad avanzare. La trasformazione della centrale di Civitavecchia procede a rilento per le continue proteste locali, a Porto Tolle non sono ancora complete le lunghissime procedure autorizzative, mentre la battuta d' arresto per Rossano Calabro, destinata a uscire dal mercato se non si converte al carbone, è ormai considerata definitiva. E anche sull' ipotesi carbone per Montalto si sta scatenando un diluvio di polemiche. Perché? L' unico produttore italiano impegnato fortemente sul fronte del carbone oggi è l' Enel. Tutti gli altri fanno solo centrali a gas. Edison sta costruendo con ExxonMobil un terminale di rigassificazione da 4 miliardi al largo di Rovigo, che alla fine del 2007 consentirà d' importare dal Qatar 8 miliardi di metri cubi di gas all' anno, il 10% dei consumi italiani. «Il carbone non riduce le bollette degli utenti ma i costi di produzione delle aziende elettriche», sostiene Umberto Quadrino, presidente di Edison. E la battaglia di Eni contro il carbone è nota: prima del varo della riforma Marzano, che promuove il suo uso, l' ex amministratore delegato Vittorio Mincato è intervenuto davanti alla commissione Industria del Senato con un invito al legislatore ad essere «molto cauto nel sostenere la generazione di energia elettrica attraverso il carbone, perché il carbone più pulito inquina comunque molto». L' Enel invece è di tutt' altro avviso. «Con la conversione a carbone delle nostre centrali di Civitavecchia e Porto Tolle - spiega il nuovo amministratore delegato Fulvio Conti - ridurremo drasticamente i costi di produzione e così i prezzi dell' energia potranno scendere del 20 per cento, riavvicinando la bolletta italiana a quella media europea. Useremo una tecnologia all' avanguardia - spiega Conti - che riduce fino all' 80 per cento i livelli d' inquinamento rispetto agli impianti tradizionali» e consente di tagliare «anche del 18% le emissioni di anidride carbonica per chilowattora prodotto». Con le nuove tecniche di combustione, oltre ad abbattere il particolato, gli ossidi di azoto e di zolfo, si migliora talmente l' efficienza da ottenere un vantaggio anche sulle emissioni di carbonio, che alimentano l' effetto serra e sono ormai limitate per legge in base al protocollo di Kyoto. «Ma per fare un confronto corretto fra gas e carbone - sostiene Andrea Clavarino, presidente di Assocarboni - bisogna prendere in esame anche le emissioni precombustione, che nei giacimenti di gas da cui si approvvigiona l' Italia sono altissime: in particolare in Russia, la percentuale di CO2 nel gas naturale arriva al 20% del volume e al momento dell' estrazione viene semplicemente rilasciata nell' atmosfera. Mettendo a confronto le emissioni complessive, si scopre che fra gas e carbone non c' è poi tanta differenza». Non a caso il carbone galoppa: «Nel 2004 la domanda globale è cresciuta del 7%, un balzo più che doppio rispetto agli altri combustibili fossili (il petrolio è cresciuto del 3%, il gas del 2,7%) - spiega Clavarino -. Negli ultimi sei anni i consumi di steam coal, quello che serve per mandare avanti le centrali, sono cresciuti del 60 per cento». Già oggi viene dal carbone il 32% dell' elettricità europea e il 39% di quella mondiale, mentre in Italia la sua quota si ferma al 14%.

22 settembre 2005

L'irresistibile ascesa dell'etichetta intelligente

Il codice a barre può fare molte cose per un tubetto di dentifricio, ma non può rivelare al padrone del negozio la sua provenienza o il suo sapore, né comunicargli quando è stato tirato giù dallo scaffale o se qualcuno sta cercando di rubarlo. Inoltre il codice a barre è capace di dire tutto quello che sa solo se messo faccia a faccia con un lettore, a pochi centimetri di distanza. Mai potrebbe farlo senza tirare fuori il tubetto di dentifricio dal carrello del supermercato e men che meno al buio, cioè attraverso una confezione già incartata o uno strato di ghiaccio, condensa, sporco. Le etichette intelligenti Rfid, dotate di un minuscolo chip e di un'antennina in grado di trasmettere via radio le informazioni utili sull'oggetto che le ospita, invece, sono capaci di fare tutto ciò. Ecco perché stanno sostituendo i codici a barre in moltissimi prodotti di largo consumo. Wal-Mart, il più grande dettagliante del mondo, ha imposto ai suoi fornitori l'uso dei radio tag in tutta la catena logistica entro la fine di quest'anno e anche in Europa le più grosse catene di supermercati, come Tesco e Metro, stanno sperimentando: Metro ha aperto un grande negozio basato su questa tecnologia alla periferia di Duesseldorf e Tesco ha fatto lo stesso a Hazel Grove, vicino a Manchester. Non stupisce l'ottimismo di Kevin Ashton, direttore dell'AutoID Center del Massachusetts Institute of Technology (punto di riferimento centrale dello studio su questa tecnologia nel mondo), che calcola "venti miliardi di tags in uso entro il 2006 e mille miliardi entro il 2010". Ma la nuova frontiera dei chip Rfid, detti anche radio tag, sta nel terziario. Dai servizi bancari alle cantine di stagionatura del parmigiano, dalle sale del pronto soccorso ai pacchi postali, passando per i biglietti della metropolitana e per gli skipass. In Giappone, grazie all'iMode, i cellulari dotati di chip Rfid possono già essere utilizzati per i micropagamenti. Negli Stati Uniti la JP Morgan Chase ha lanciato in giugno una nuova carta di credito chiamata Blink, che oltre alla tradizionale banda magnetica dispone di un chip a radiofrequenza capace di dialogare con uno speciale lettore a diversi metri di distanza. Con questo nuovo sistema i clienti potranno pagare il conto in meno di 20 secondi, il che dovrebbe ridurre sensibilmente le attese alla cassa. Stesso discorso, in Italia, per gli impianti di risalita sulle Dolomiti, dove a partire dall'ultima stagione invernale 4 milioni di pass sono stati muniti di chip Rfid per sveltire le code degli sciatori. Nel consorzio di latterie sociali mantovane Virgilio, invece, l'Rfid viene utilizzato, affogato in una placca di caseina, per facilitare la tracciabilità delle forme nel corso del processo di stagionatura, che dura diversi mesi. Poi c'è l'universo della sanità: dalla tracciabilità del farmaco al monitoraggio del tempo di permanenza di un paziente in ospedale. Tutti usi già sperimentati negli Stati Uniti. In realtà la tecnologia alla base dei radio tag, chiamata Radio Frequency Indentification, è applicata da anni sotto diverse forme nei processi industriali. I sistemi anti taccheggio, ad esempio, sono uno degli usi più comuni, ma anche il telepass si basa sullo stesso concetto: un circuito radio ridotto ai minimi termini che nella sua forma più tipica dispone di un'antenna ricevente, un trasmettitore, una batteria e una memoria. Nati dalla ricerca militare nei primi anni del dopoguerra, questo tipo di apparecchi - molto più voluminosi e costosi di un radio tag - vengono usati in tutto il mondo per identificare oggetti in transito, ad esempio per localizzare vagoni merci sulla rete ferroviaria o colli sui tapis roulant di un centro d'interscambio logistico, per definire con esattezza il contenuto di un container o di un camion anche mentre questo è in movimento, per dialogare con le componenti di una catena di montaggio nell'industria automobilistica… Il salto di qualità che sta segnando il passaggio dell'Rfid dalle applicazioni industriali a quelle retail dipende dalla progressiva miniaturizzazione del chip, che ora non ha più nemmeno bisogno di una batteria perché sfrutta direttamente il segnale radio inviato dal lettore per attivarsi. L'assenza di batterie garantisce ai radio tag passivi una durata illimitata, un peso irrisorio e un costo minimo (dai 5 ai 50 centesimi di euro a seconda della capienza). Il chip, non più spesso di un capello, viene incastonato tra due fogli di carta insieme a un'antenna sottilissima - avvolta a spirale attorno al microprocessore - per produrre un'etichetta non più grande di quella del codice a barre. Anzi, oggi viene spesso incastonato nella stessa etichetta del codice a barre, per consentire una doppia lettura. Ma può venire immesso tranquillamente anche nel ciclo produttivo, ad esempio inserendolo nel tessuto dei capi di abbigliamento (come ha fatto Prada nel suo famoso megastore interattivo di Soho, a Manhattan). E' proprio questo che preoccupa le associazioni impegnate sul fronte della tutela della privacy, che temono scenari alla Grande Fratello con milioni di chip inseriti in tutti i prodotti di consumo, capaci di comunicare alle case di produzione tutti i nostri movimenti, gusti e abitudini. Katherine Albrecht, fondatrice e presidente di Caspian (Consumers Against Supermarket Privacy Invasion and Numbering), ha lanciato una vera e propria crociata contro i radio tag negli Stati Uniti, sostenendo che molti produttori le utilizzano in gran segreto per controllare meglio i propri canali di vendita e scatenando una profonda diffidenza nei consumatori per questa nuova tecnologia. "Una lattina di aranciata sarà il nuovo volto nascosto del Grande Fratello", ammonisce la Albrecht. La risposta di Ashton e compagni alle critiche della vestale della privacy sono prudenti, ma ferme: "I chip più pervasivi saranno quelli più economici, cioè quelli senza batteria, il che riduce drasticamente a meno di cinque metri la distanza da cui un oggetto può essere tracciato. Sarà quindi impossibile per i produttori seguire i loro prodotti fin dentro le nostre case. Ma anche se fosse possibile, come potrebbero seguire miliardi di tag e riuscire a dare un senso a questa enorme massa d'informazioni?" Malgrado ciò, l'AutoID Center consiglia ai suoi clienti, cioè a tutte le grandi multinazionali dei prodotti di consumo, da Procter & Gamble a Unilever, di informare sempre con accuratezza in quali prodotti è inserito un radio tag e di offrire alla gente la possibilità di neutralizzarli con un apparecchio che potrebbe essere collocato all'uscita di ogni supermercato.

19 settembre 2005

Skype, l'ammazzabolletta arriva sul cellulare

Skype, con il suo servizio di voce su protocollo Internet, sta rivoluzionando il mondo della telefonia fissa. Ma non è che l' inizio: dal fisso ormai si può passare al mobile, con almeno tre programmi. Niklas Zennstrom e Janus Friis, i due fondatori di Skype, hanno aperto i loro codici in primavera e nel giro di pochi mesi è cominciata la fioritura: tra le applicazioni più interessanti c' è un software americano, iSkoot, e due europei, IPdrum e Jajah Mobile. In più, la settimana scorsa, prima di firmare l' accordo con eBay, i due scandinavi hanno concluso la prima alleanza ufficiale di Skype con un operatore mobile, il tedesco E-Plus. I norvegesi di IPdrum sono stati i primi. Con questo software di trasferimento è possibile fare e ricevere chiamate con il telefonino in modalità IP, cioè usando la connessione a banda larga del pc e quindi spendendo molto meno. Il vantaggio è eclatante soprattutto per le telefonate internazionali. Il trucco è facile se si ha un pc sempre acceso con una connessione a banda larga, il programma Skype già caricato e una Sim associata: bisogna chiamare il secondo cellulare, collegato con il pc attraverso un cavetto Usb, e dare il numero con cui si vuole essere collegati. Il software norvegese usa il pc come router per trasferire gratuitamente la chiamata dal primo al terzo telefonino, che può anche essere dall' altra parte del globo. Resta il costo della telefonata locale: abbattibile con le tariffe agevolate degli operatori per un numero predefinito. I due fratelli Guedalia, fondatori di iSkoot, hanno messo in rete il loro prodotto alla fine di agosto per 10 dollari all' anno e sono già sommersi dalle richieste, perché elimina la chiamata locale, riducendola a un semplice sms. Il messaggio può contenere un numero telefonico normale o la sigla di un altro utente Skype. Il software iSkoot estrae dal messaggio il numero da chiamare e usa il pc di casa come ponte per avviare la conversazione direttamente in modalità IP, un processo che normalmente dura dagli otto ai quindici secondi. Se la chiamata è verso un altro utente Skype, è gratis. Altrimenti costa due o tre cent al minuto per il Nord America, l' Europa o l' Estremo Oriente, qualcosa in più per i Paesi in via di sviluppo. Tipico frutto di Kendall Square, il quartiere di Cambridge che si estende attorno al Massachusetts Institute of Technology, iSkoot è un prodotto già molto sofisticato, ampiamente testato e messo in vendita da una compagnia abbastanza strutturata da reggere l' impatto di una vasta clientela. Jacob Guedalia, laureato in fisica all' Istituto Weizmann, è una vecchia conoscenza negli ambienti più innovativi di Boston, perché ha già avviato e venduto tre diverse start-up, fra cui Mobilee, un' azienda che produce sistemi di riconoscimento della voce, ceduta l' anno scorso a Nms Communications per 13 milioni di dollari. I principali operatori mobili nordamericani, come Verizon o Cingular, lo prende molto sul serio, tanto che hanno già minacciato di verificare la legalità del loro sistema. Gli austriaci di Jajah, che hanno appena messo in rete una versione beta del loro software, rientrano in una categoria diversa: non si appoggiano al software Skype ma si considerano suoi diretti concorrenti, perché operano anche nel campo del fisso, lasciando però dialogare liberamente i loro clienti con gli utenti Skype (che invece è un sistema chiuso). La versione Jajah Mobile per i telefonini funziona solo dai cellulari con un browser da cui bisogna collegarsi direttamente al sito di Jajah per poi chiamare in modalità IP anche qui soprattutto sulle telefonate internazionali o ad altri utenti Jajah o Skype.

12 settembre 2005

Scaroni cambia cappello e opinione

A quattro mesi dalla nomina a capo dell' Eni, Paolo Scaroni si presenta la prossima settimana al mercato con qualche prima indicazione sui suoi piani per il futuro e gli analisti non cessano di aggiornare all' insù i target di prezzo, in attesa di consistenti novità. Ma in questo periodo di assestamento il nuovo timoniere dell' unica vera multinazionale italiana si è perfettamente sintonizzato sulla diversa lunghezza d' onda: se prima, quand' era a capo di Enel, era tutto per il carbone, ora è tutto per il gas; se prima si batteva per la neutralizzazione della rete Snam (di cui era il principale cliente), ora sembra deciso a difendere il suo asset fino in fondo. Cambiamento legittimo: come ha scritto nel suo libro Professione manager, l' interesse dell' azienda è sovrano. Ma data la profonda rivalità delle due società che si è trovato a guidare, oggi la sua posizione è particolarmente delicata, anche perché senza precedenti. Il primo nodo importante cui va incontro Scaroni è la cessione della rete: «Procederemo a breve allo scorporo della rete Snam dall' Eni», ha dichiarato l' interventista Claudio Scajola, lasciando tutti interdetti. In realtà, la rete è già stata scorporata e anche parzialmente privatizzata (l' Eni ne controlla circa il 50%), ma quel che intende Scajola è ben altro: una vera e propria smobilitazione, al di sotto del 20 per cento o addirittura del 5 per cento, come chiedono le autorità regolatrici. Vittorio Mincato, del resto, aveva già deciso di mollare. E lo stesso Scaroni, quand' era all' Enel, si era spinto molto in là sulla necessità di neutralizzare la rete, magari fondendola con Terna: «Fra Terna e la rete Snam ci possono essere delle sinergie vere», ragionava all' inizio del 2003. «Ho esaminato attentamente quello che è successo in Inghilterra tra National Grid e Lattice - precisava, sostenuto dall' allora ministro delle Attività produttive Antonio Marzano, che aveva già incaricato Mediobanca e Goldman Sachs di studiare i particolari di fusione e privatizzazione delle due reti - e ho visto che le sinergie hanno superato le aspettative». Ma ora che è passato ai vertici del cane a sei zampe, Scaroni ha cambiato idea: «Le terapie suggerite dall' Authority sono un unicum in Europa», è stato il suo commento critico alla recente relazione annuale di Alessandro Ortis, che chiede da anni l' uscita di Eni dalla rete. «Nella seconda direttiva europea - ha insistito Scaroni - non si parla di terzietà ma solo di separazione della rete». Altro che neutralizzazione. Il dietro-front è stato profetico: nel corso del suo recente incontro con Silvio Berlusconi a Sochi, sul Mar Nero, Vladimir Putin ha indicato il suo interesse per una partecipazione diretta di Gazprom nella rete Snam. La prospettiva di una smobilitazione precipitosa, entro il luglio 2007, come quella che si profila, ha acceso dunque l' appetito dei concorrenti stranieri, soprattutto alla luce del responso dell' Antitrust sull' operazione gemella, con cui l' Autorità di Antonio Catricalà si è opposta al trasferimento di una corposa quota azionaria di Terna alla Cassa depositi e prestiti, se non ridurrà drasticamente la sua partecipazione in Enel, ora al 10%. Anche per Snam Rete Gas si prospettava il timone della Cassa, che ha già il 10% dell' Eni. Ma ora il ruolo della Cdp è congelato. E Scaroni si trova a fronteggiare i primi pretendenti con le spalle un po' scoperte. Sulla questione dei combustibili più convenienti, il manager fa oggi altre valutazioni e sottolinea come il problema centrale sia ampliare l' offerta di gas. Scaroni, che aveva messo il carbone al centro della strategia di Enel per la prima volta nella storia della compagnia, nei suoi tre anni di gestione non si era mai stancato di rimarcare l' eccessiva dipendenza dell' Italia dal gas: «In Europa l' energia elettrica viene prodotta al 70% da carbone e nucleare, mentre in Italia al 70% da olio combustibile e gas. Il risultato di questa differenza si traduce in un costo del kilowattora diverso: se il costo variabile, ovvero il costo del combustibile di un kilowattora, in Italia è 100, allora in Germania è 55, in Spagna è 53 e 38 in Francia. «Da questi numeri si può capire perché l' energia elettrica prodotta in Italia costi di più che nel resto d' Europa», spiegava nel maggio 2003. La predilezione per il carbone per il capo di un' azienda elettrica in cerca di competitività era inevitabile. Ma la riscossa del carbone promossa da Scaroni mandava su tutte le furie Vittorio Mincato, preoccupato dal rischio incombente di un eccesso di gas nel caso venissero a mancare i consumi delle centrali Enel. La strategia di Scaroni - accusava Mincato - vorrebbe sacrificare l' obiettivo di un ambiente più pulito sull' altare di un' ipotetica riduzione dei costi». Ora che è passato all' Eni, Scaroni del gas dice: «Capisco le preoccupazioni dell' Autorità - commenta Scaroni - per un andamento che si acuisce quando il prezzo del greggio sale. Anche l' Eni è preoccupato, ma vorrei ricordare che dall' avvio della liberalizzazione le tariffe del gas hanno registrato un calo dell' 8% in termini costanti».

1 settembre 2005

Codice a barre contro "radio tag": non c'è gara

Il codice a barre può fare molte cose per un tubetto di dentifricio, ma non può rivelare al padrone del negozio la sua provenienza o il suo sapore, né comunicargli quando è stato tirato giù dallo scaffale o se qualcuno sta cercando di rubarlo. Inoltre il codice a barre è capace di dire tutto quello che sa solo se messo faccia a faccia con un lettore, a pochi centimetri di distanza. Mai potrebbe farlo senza tirare fuori il tubetto di dentifricio dal carrello del supermercato e men che meno al buio, cioè attraverso una confezione già incartata o uno strato di ghiaccio, condensa, sporco. Le etichette intelligenti dotate di un minuscolo chip chiamato radio tag, invece, sono capaci di fare tutto ciò. Ecco perché sono avviate a sostituire i codici a barre. Gillette ha già cominciato a inserire queste etichette intelligenti in tutti i suoi prodotti (pare ne abbia ordinate un miliardo al produttore, Alien Technology) e Wal-Mart, il più grande dettagliante del mondo, ha deciso d'imporre ai suoi primi cento fornitori l'uso dei radio tag in tutta la catena logistica entro la fine di quest'anno, mentre gli altri 12mila fornitori avranno tempo fino alla fine dell'anno prossimo per adeguarsi. Anche in Europa le più grosse catene di supermercati, come Tesco e Metro, stanno sperimentando: Metro ha inaugurato qualche mese fa a Rheinberg, vicino a Duesseldorf, un negozio tutto basato su questa tecnologia e Tesco ha fatto lo stesso a Hazel Grove, vicino a Manchester. Non stupisce la previsione dell'istituto di ricerca Vdc, secondo cui il mercato dei radio tag sta crescendo del 25% all'anno. E nemmeno l'ottimismo di Kevin Ashton, direttore dell'AutoID Center del Massachusetts Institute of Technology (punto di riferimento centrale dello studio su questa tecnologia nel mondo), che calcola "venti miliardi di tags in uso entro il 2006 e mille miliardi entro il 2010". In realtà la tecnologia alla base dei radio tag, chiamata Radio Frequency Indentification e abbreviata in RFID, è già in uso da anni a monte dei supermercati, sotto diverse forme di applicazioni industriali. I sistemi anti taccheggio, ad esempio, sono uno degli usi più comuni, ma anche il Telepass si basa sullo stesso concetto: un circuito radio ridotto ai minimi termini che nella sua forma più tipica dispone di un'antenna ricevente, un trasmettitore, una batteria e una memoria. Nati dalla ricerca militare nei primi anni del dopoguerra, questo tipo di apparecchi - molto più voluminosi e costosi di un radio tag - vengono usati in tutto il mondo per identificare oggetti in transito, ad esempio per localizzare vagoni merci sulla rete ferroviaria o colli sui tapis roulant di un centro d'interscambio logistico, per definire con esattezza il contenuto di un container o di un camion anche mentre questo è in movimento, per dialogare con le componenti di una catena di montaggio nell'industria automobilistica… Il salto di qualità che sta segnando il passaggio dell'RFID dalle applicazioni industriali a quelle retail dipende dalla progressiva miniaturizzazione del chip, che ora non ha più nemmeno bisogno di una batteria perché sfrutta direttamente il segnale radio inviato dal lettore per attivarsi. L'assenza di batterie garantisce ai radio tag passivi una durata illimitata, un peso irrisorio e un costo minimo (dai 5 ai 50 centesimi di euro a seconda della capienza). Il chip, non più spesso di un capello, viene incastonato tra due fogli di carta insieme a un'antenna sottilissima - avvolta a spirale attorno al microprocessore - per produrre un'etichetta non più grande di quella del codice a barre. Anzi, al momento attuale viene spesso incastonato nella stessa etichetta del codice a barre, per consentire una doppia lettura. Ma in teoria potrebbe venire immesso direttamente nel ciclo produttivo, ad esempio inserendolo nel tessuto dei capi di abbigliamento (come ha fatto Prada nel suo famoso megastore interattivo di Soho, a Manhattan). E' proprio questo che preoccupa le associazioni impegnate sul fronte della tutela della privacy, che temono scenari alla "Grande Fratello" con milioni di chip inseriti in tutti i prodotti di consumo, capaci di comunicare alle case di produzione tutti i nostri movimenti, gusti e abitudini. Katherine Albrecht, fondatrice e presidente di Caspian (Consumers Against Supermarket Privacy Invasion and Numbering), ha lanciato una vera e propria crociata contro i radio tag negli Stati Uniti, sostenendo (forse a ragione) che non solo Gillette ma molti altri produttori la utilizzano già da tempo in gran segreto per controllare meglio i propri canali di vendita e scatenando una profonda diffidenza nei consumatori per questa nuova tecnologia. "Una lattina di aranciata sarà il nuovo volto nascosto del Grande Fratello", ammonisce la Albrecht. La risposta di Ashton e compagni alle critiche della vestale della privacy sono prudenti, ma ferme: "I chip più pervasivi saranno quelli più economici, cioè quelli senza batteria, il che riduce drasticamente a meno di cinque metri la distanza da cui un oggetto può essere tracciato. Sarà quindi impossibile per i produttori seguire i loro prodotti fin dentro le nostre case. Ma anche se fosse possibile, come potrebbero seguire miliardi di tag e riuscire a dare un senso a questa enorme massa d'informazioni?" Malgrado ciò, l'AutoID Center consiglia ai suoi clienti, cioè a tutte le grandi multinazionali dei prodotti di consumo, da Procter & Gamble a Unilever, di informare sempre con accuratezza in quali prodotti è inserito un radio tag e di offrire alla gente la possibilità di neutralizzarli con un apparecchio che potrebbe essere collocato all'uscita di ogni supermercato.

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20 luglio 2005

Utilities a caccia di tecnologia

Liberalizzazione significa competizione. Un cambiamento epocale per le utilities italiane, ben sottolineato dai dati: dal 1995 al 2003, le ex-municipalizzate diventate società per azioni sono passate da 12 a 448, la maggior parte di esse mantengono una partecipazione pubblica più o meno consistente, otto sono quotate in Borsa, e ben 274 sono finora gli accordi strategici che coinvolgono aziende multiutility. Un fenomeno nel fenomeno: la liberalizzazione del mercato dell'energia prevede la separazione societaria tra azienda di vendita e azienda di distribuzione. Tutto questo obbliga aziende che fino a qualche anno fa hanno operato in regime protetto a misurarsi in un'area competitiva e a ragionare in termini di utili e di produttività interna, cosa che genera forti esigenze in tema di innovazione tecnologica e naturalmente grandi opportunità per i fornitori It. In particolare si aprono prospettive per tutte le tecnologie di telelettura, destinate a rivoluzionare il mercato dell'energia elettrica, consentendo una diversificazione delle tariffe che indurranno una rimodulazione dei consumi e, alla lunga, un progressivo livellamento dei picchi di domanda, quelli che oggi mettono tanto in difficoltà il sistema elettrico nazionale, fino a causare occasionali blackout. Non a caso è la stessa Authority per l'energia, guidata da Sandro Ortis, a spingere le aziende elettriche verso i contratti flessibili e multiorari, istituendo l'obbligo di completare l'installazione dei nuovi contatori digitali entro il 2008 per i distributori di elettricità che servono più di 50mila clienti, entro il 2009 per quelli di minori dimensioni.In realtà, per quanto riguarda Enel la gigantesca operazione è già a uno stadio avanzatissimo. L'ex ad Paolo Scaroni, infatti, ha annusato l'affare per tempo e ha stretto un accordo con Ibm per concepire insieme un contatore intelligente e, ancora più importante, un sistema di "governo" totalmente remotizzato, che consente (con collegamenti telematici realizzati attraverso la stessa rete elettrica) non solo la lettura istantanea ma anche le operazioni più disparate: maggiore o minore potenza, sospensioni, riattivazioni e appunto il più volte annunciato contratto "multiorario", che è già in sperimentazione su milioni di utenze. Una volta a regime, la rete di distribuzione avrà 30 milioni di contatori che "dialogheranno" con 350 mila concentratori, a loro volta collegati al centro di controllo. Dal contatore alla prima centralina di zona i segnali vengono modulati sullo stesso cavo che porta la corrente. La centralina di zona comunica poi con i centri amministrativi attraverso linee cellulari Gsm. Quali sono i vantaggi? Oltre al pieno prelievo della potenza massima disponibile, il cliente può controllare in tempo reale l'energia consumata sia nel bimestre in corso che in quello precedente, conoscere la tariffa in atto, conoscere in ogni momento l'effettivo consumo e ottenere l'attivazione o la modifica del contratto. Con l'avvio della telelettura è inoltre possibile ottenere la bolletta calcolata sulla base dell'energia effettivamente utilizzata, senza pagare più acconti né conguagli.L'ex monopolista ha già piazzato, gratis, il contatore digitale a tre quarti dei suoi utenti, che rappresentano circa l'85% degli allacci elettrici italiani, e dovrebbe completare l'opera entro la fine del 2005. Per sostituire i 30 milioni di contatori italiani la spa elettrica spenderà alla fine 2,1 miliardi di euro. Ma dal 2006 prevede di risparmiarne, grazie alla maggiore efficienza e ai minori costi di gestione, almeno 500 l'anno. Le municipalizzate che gestiscono i clienti delle grandi città (come Milano, Torino e Roma) faranno, gioco forza, lo stesso. Asm Brescia ha già stretto un accordo con Enel per usare lo stesso sistema sui suoi 200mila utenti entro la fine del 2006. Non solo: Ibm adatterà e venderà l'apparecchio e la soluzione di controllo remoto, con un primo contratto di esclusiva di 12 anni, sui mercati mondiali. Per un affare che vale, si stima, fino a 120 miliardi di euro per 700 milioni di contatori, di cui 200mila in Europa. Sul mercato cinese c'è già un primo contatto: sulla base di una commessa del valore di 50 milioni di euro, il colosso cinese National Machinery and Equipment Import sta fornendo i componenti nevralgici per 6 dei 30 milioni di super-contatori che si stanno installando in Italia, guadagnandosi una posizione di primo piano tra la platea dei fornitori. Ma in un secondo tempo, in base agli accordi, le sue linee di montaggio lavoreranno a tutto vapore per equipaggiare con il nuovo contatore anche un gran numero di impianti elettrici cinesi.

11 luglio 2005

L'Acquedotto Pugliese e i deliri di Petrella

Chi si ricorda di Cochabamba? Arroccata in una vallata andina a 2.400 metri d' altezza, la terza città della Bolivia ebbe il suo quarto d' ora di notorietà cinque anni fa, quando si trovò in prima linea nella battaglia anti-globalizzazione: di fronte all' aumento delle tariffe seguito alla privatizzazione dei servizi idrici, la popolazione scese in piazza contro la società californiana cui era stato appaltato il servizio, la Bechtel, mettendo a ferro e fuoco la cittadina per mesi, con morti e feriti, fino alla ri-pubblicizzazione del servizio. Per tutti i combattenti no global, quella sanguinosa battaglia è la tappa centrale nella guerra per l' acqua come bene comune. Da Cochabamba a Bari: «Il mio Acquedotto Pugliese nasce sotto la bandiera della ri-pubblicizzazione», annuncia il governatore Nichi Vendola. Ad agitare quella bandiera, Vendola ha messo Riccardo Petrella, l' economista spezzino docente di Mondializzazione all' Università cattolica di Lovanio e «no global dell' acqua», come si definisce lui stesso, cui viene affidata la presidenza del più grande acquedotto d' Europa, il terzo del mondo. Un grosso ente con 20mila chilometri di tubi attraverso quattro regioni e quasi 5 milioni di utenti, diventato società per azioni nel 1999, grazie a un mutuo ventennale di 392 miliardi a carico dello Stato, concesso dal governo D' Alema. L' acquedotto è ritornato in utile da tre anni, grazie alla cura impartitagli dall' industriale della pasta Francesco Divella, chiamato a gestirlo dall' allora governatore di centro-destra Raffaele Fitto, nella prospettiva di una futura privatizzazione. Ora il professore no-global è stato espressamente incaricato di fare marcia indietro, mettendo fine alla «gestione economicistica» di Divella, che Vendola ha rimproverato a Fitto durante tutta la campagna elettorale, anche se la privatizzazione dell' Acquedotto Pugliese è un obbligo di legge posto in capo alla Regione all' atto stesso del trasferimento della proprietà e la sua inadempienza potrebbe essere sanzionata dal governo. Punto e a capo, dunque. Ma siamo davvero davanti a un' «ubriacatura da privatizzazione», come la chiama Vendola? A una «mercificazione» dei diritti fondamentali, come la chiama Petrella? «Mi sembra che il dilemma pubblico-privato sia un' alternativa mal posta», commenta Nicola Rossi, ordinario di Economia politica a Tor Vergata, che è stato il consigliere economico del governo D' Alema. Per il deputato diessino, il punto fondamentale è un altro: qual è la missione che si vuole dare all' Acquedotto? «Il primo obiettivo è senz' altro portare a termine il massiccio programma d' investimenti che ci si è prefissi», puntualizza Rossi. E aggiunge con aria scettica: «Mi auguro che il nuovo consiglio sia in grado di farlo». In effetti l' Acquedotto è un' azienda molto complessa, con un giro d' affari di oltre 300 milioni e duemila dipendenti: chi l' amministra dovrà realizzare il piano d' investimenti da oltre 3,2 miliardi di euro, programmato fino al 2017, per eliminare il più possibile le perdite dalle reti idriche (49,5% in Puglia, contro una media del 29% a livello nazionale), riammodernarle, realizzare i potabilizzatori e altre infrastrutture. «Per realizzare un piano di questa portata ci vuole una governance chiara, lineare, non complicata come quella che si va costruendo», specifica Rossi. Il secondo obiettivo, secondo l' economista diessino, «dovrebbe essere di far uscire l' Acquedotto dalla nicchia provinciale», che gli va stretta. Anche questa non è una missione facile, soprattutto se finisce ingarbugliata nelle pastoie ideologiche. «Spetta ora alla Regione Puglia - ammonisce Rossi - l' onere della prova che un acquedotto pubblico funzioni bene quanto uno privatizzato». E la dimostrazione potrebbe avere conseguenze di vasta portata, se la generica impostazione «pubblico è bello» - che Vendola vuole applicare anche alla società di gestione degli aeroporti (Seap) e al settore sanitario - dovesse influenzare le future scelte dell' Unione sulle liberalizzazioni. «Come tutte le questioni serie - fa notare Antonio Massarutto, uno dei massimi esperti italiani di acqua, docente all' università di Udine e ricercatore dello Iefe-Bocconi - la questione idrica va affrontata seriamente, al riparo dalle frasi fatte, dalla demagogia e dai condizionamenti ideologici». E' ovvio ad esempio che quando si parla di privatizzazione non è certo la proprietà pubblica delle risorse idriche che si vuol mettere in discussione, come sembrerebbe dagli slogan no global sul «diritto all' acqua». «L' acqua è e resta una risorsa di proprietà comune e come tale inalienabile, semmai è in discussione la necessità d' introdurre un po' di logica economica nella pianificazione degli interventi e nei diritti di utilizzo», specifica Massarutto. «Chi teme che la privatizzazione porti a un business dell' acqua sulla pelle dei consumatori e dell' ambiente - argomenta Massarutto - dovrebbe forse riflettere sul fatto che il vero business, nel modello basato sulla gestione pubblica, lo hanno fatto i costruttori di opere e impianti spesso inutili, a spese dei contribuenti. Per non parlare dei signori delle autobotti siciliane, che sfruttano proprio le inefficienze del servizio pubblico per vendere a peso d' oro l' acqua agli utenti lasciati a secco».

25 giugno 2005

Prezzi fermi, ma è solo un trucco

Mette un freno al caro-energia con una rimodulazione dei rimborsi sugli oneri di sistema, rilancia la sfida dell' opzione nucleare, affronta la questione delle compensazioni locali per facilitare l' insediamento di nuove centrali elettriche, riprende in mano le nomine all' Authority, dove mancano da quasi un anno tre commissari. Claudio Scajola il decisionista sembra intenzionato a imprimere una svolta alla politica energetica italiana. Ma non tutti sono d' accordo con il suo primo atto ufficiale, visto da molti come un ennesimo esempio di finanza creativa. Il decreto con cui il ministro delle Attività produttive succeduto a Marzano ha fermato l' aumento delle tariffe elettriche previsto per fine mese «è solo un palliativo», secondo il presidente e ad di Edison, Umberto Quadrino. «Può essere una soluzione momentanea per non aumentare tariffe e bollette, ma il problema di fondo resta: le aziende italiane pagano l' energia il 30% in più dei loro competitor europei, perché serve una politica industriale che risolva le nostre carenze strutturali», commenta Emma Marcegaglia, vice presidente di Confindustria con delega per l' energia. E c' è addirittura chi prefigura una distorsione pericolosa dei meccanismi di mercato, come Davide Tabarelli, direttore del Rie (Ricerche industriali energetiche). «Non bisogna farsi prendere dall' ansia da inflazione: i segnali di prezzo vanno lasciati liberi, se si vuole che siano efficienti», precisa Tabarelli. Il prezzo è un segnale importante di autoregolazione del mercato: quando sale, alla lunga incide sui consumi, come sta accadendo con le benzine. La scelta di agire subito, invece, tradisce il nuovo stile interventista del ministro. «Speriamo - commenta Tabarelli - che applichi lo stesso interventismo anche a politiche più di sostanza». Scajola si è sentito in dovere di fermare l' ennesima impennata - dopo i rincari dei primi due trimestri dell' anno - diluendo il peso sulle tariffe elettriche degli oneri di sistema, a cominciare dai cosiddetti stranded cost, i costi incagliati, riconosciuti agli operatori per gli investimenti legati a scelte di politica sociale sostenuti nel passato e non più recuperabili con la liberalizzazione del mercato elettrico. Il rimborso degli stranded cost prevede una compensazione di circa 1.400 milioni di euro, di cui circa mille destinati alle casse di Enel e gli altri 400 suddivisi fra Endesa e Tirreno Power, le due società che si sono aggiudicate le gen.co cedute dall' ex monopolista. Grazie al decreto appena varato, solo 300 dei 1.400 milioni di euro verranno rimborsati subito. Il resto (più gli interessi) sarà spalmato con un meccanismo di rateizzazione da qui al 2009. Il progetto allo studio prevedeva anche l' ipotesi di una cartolarizzazione dei rimborsi Cip6 per le energie rinnovabili e assimilate, che però ha bisogno di tempi tecnici più lunghi, coinvolgendo un pool di istituti finanziari, e verrà messa a punto nelle prossime settimane. Va da sé che i relativi sovracosti verranno girati ai consumatori, in futuro. La speranza è che allora il barile di petrolio ci costi qualche euro in meno e l' alchimia della produzione elettrica riesca ad avvicinare i costi italiani a quelli europei. «E' prevedibile che nei prossimi 18 mesi il prezzo dell' energia cali - spiega Sergio Agosta, ad del Gme, che controlla la Borsa elettrica - non solo grazie a un rallentamento del caro-greggio, ma anche grazie all' ampliamento della capacità produttiva e all' evoluzione del mix italiano verso fonti meno care, che si vanno realizzando con le nuove centrali in costruzione». Il governo spera dunque di non pesare troppo sulle tasche dei consumatori, facendoli rientrare nel debito quando il prezzo dell' energia sarà più contenuto. Ma la prospettiva di un contenimento dei prezzi si scontra con altri provvedimenti, che vanno in direzione opposta. «Gli aggravi causati dall' applicazione del protocollo di Kyoto e dall' imposizione dell' Ici sulle turbine delle centrali elettriche sono destinati a far lievitare ulteriormente i costi di produzione dell' energia di almeno 450 milioni l' anno, con un conseguente impatto sulle bollette», rileva Giordano Serena, presidente di Assoelettrica, che raggruppa le aziende produttrici. «Attendiamo i necessari indirizzi dal governo», si lamenta invece il presidente dell' Authority Sandro Ortis - per la revisione complessiva della struttura tariffaria, che potrebbe introdurre una vera e propria rivoluzione nei consumi degli italiani. E' anni che si parla di questa riforma, annunciata come imminente già all' inizio del 2000, ma ancora largamente indefinita. L' attuale «fascia sociale», infatti, andrebbe modificata: a oggi assegna una quota agevolata di energia semplicemente a chi è in grado di accontentarsi di un contatore tarato sui 3 chilowatt di consumi istantanei massimi (tipico caso del single benestante), penalizzando chi consuma di più, ad esempio le famiglie numerose, anche a bassissimo reddito. L' Authority, per la verità, ha lavorato sodo, producendo un corposo documento di consultazione con una proposta precisa per rimediare a questa stortura e cogliere le nuove opportunità tecnologiche per orientare i consumi in maniera più equa e più efficiente rispetto alla produzione e distribuzione di elettricità. Ma il nodo sta nel governo, che doveva elaborare i criteri e gli indici di calcolo della nuova fascia sociale alla quale legare le agevolazioni. E non l' ha ancora fatto.

20 giugno 2005

L'alternativa spagnola al monopolio dell'Eni

Più concorrenza nel gas. Questo chiede il mercato e su questo stanno ripartendo i progetti congelati, primo fra tutti il terminale di rigassificazione di Livorno. L' impianto, che avrà una capacità di circa 4 miliardi di metri cubi all' anno, sarà il primo terminale offshore costruito in ambito europeo e verrà collocato a una ventina di chilometri al largo della costa toscana. «L' impianto entrerà in funzione nel 2007» spiega Jesus Olmos, amministratore delegato di Endesa Europa e presidente di Endesa Italia, che ha appena concluso un' alleanza con la municipalizzata di Genova, Amga, per acquisire pariteticamente il controllo del progetto. L' accordo, firmato a Madrid, prevede un investimento complessivo nell' ordine dei 400 milioni: il colosso iberico dell' energia e la multiutility ligure si attesteranno sul 51% del capitale della società Olt Offshore, mentre il restante 49% delle azioni farà capo a un gruppo d' imprenditori locali. Endesa e Amga si spartiranno al 50% la capacità del terminale, destinata a rifornire il mercato italiano in cui già operano i due partner. «Livorno - commenta Olmos - sarà l' unica alternativa all' Eni e per noi è molto importante trovare una fonte di approvvigionamento più competitiva, per alimentare le nostre centrali a gas, che attualmente hanno una capacità di generazione di 2.400 megawatt, ma sono destinate a salire a 3.800». Il trasporto via nave di gas naturale liquefatto dai giacimenti ai punti di approdo, per la conseguente rigassificazione e immissione nella rete locale, sta diventando in tutto il mondo l' alternativa più credibile al classico metanodotto: da un lato consente di ricorrere a fornitori diversi, in Paesi produttori dall' Estremo Oriente al Sud America, con i quali non esiste un collegamento via gasdotto, aumentando la concorrenza con i fornitori tradizionali, dall' altro lato utilizza una modalità più flessibile, che ha minori perdite di carico. Come hanno già detto l' Antitrust e l' Authority per l' energia nella loro recente indagine congiunta sullo stato della liberalizzazione, «è soprattutto dallo sviluppo di nuovi terminali di rigassificazione che potrà arrivare un significativo contributo alla concorrenza». E infatti uno dei principali interventi previsto dal decreto di riordino del settore energetico riguarda la realizzazione di diversi terminali. Ma gli impianti già autorizzati, di Brindisi (Enel e British Gas) e di Rovigo (Edison, ExxonMobil e il Qatar), procedono a rilento. Mentre si scontrano con un ostacolo dietro l' altro i progetti di Rosignano (Edison, Bp e Solvay), Trieste e Taranto (Gas Natural), Gioia Tauro (Gruppo Sensi) e Priolo (Erg e Shell). L' unico progetto che sembrerebbe davvero in dirittura d' arrivo è quello di Livorno, dove la soluzione offshore rappresenta una garanzia di salvaguardia dell' ambiente molto apprezzata a livello locale, che ha consentito di superare a maggioranza lo scoglio della Conferenza servizi, malgrado la posizione molto critica del Comune di Pisa, deciso a dar battaglia al Tar del Lazio, e la richiesta d' indire un referendum locale avanzata dai Verdi, preoccupati dalle ricadute dei lavori sulle secche della Meloria. Ora si attende a breve il decreto interministeriale dall' Ambiente e dalle Attività produttive, che dovrebbe dare il via al progetto. «Dal nostro punto di vista - spiega Raffaele Ventresca, responsabile della direzione per la valutazione d' impatto ambientale del ministero - il terminale di Livorno va benissimo. Vorremmo solo qualche informazione in più sull' altro progetto, quello di Rosignano, pochi chilometri più a Sud, che è stato respinto dalla Regione ma sta presentando una variante in questi giorni». Gilberto Dialuce, il suo omologo alle Attività produttive, è ancora più ottimista: «Livorno arriverà al traguardo in poche settimane, stiamo accelerando al massimo perché è un progetto strategico». Ma nelle pieghe dell' accordo fra Endesa e Amga si nasconde una bomba a orologeria che potrebbe rallentare anche la realizzazione di questo impianto. Nella compagine societaria di Olt Offshore, oltre alla partecipazione del gruppo Belleli, c' è anche un 15% del gruppo Falck, che considera l' ingresso di Endesa «una palese violazione dei patti parasociali» e del suo diritto di prelazione sulle azioni Olt. Per far valere i suoi diritti, Falck sta per intraprendere una serie di azioni legali, anche in Spagna, che potrebbero disturbare non poco l' avanzamento del progetto. Il gruppo Falck è da tempo in guerra con il socio Aldo Belleli, accusato in una serie di cause di aver compiuto operazioni finanziarie costosissime, che hanno comportato la distrazione di oltre 10 milioni di euro dalle casse delle società. E. finché non si troverà un accordo fra i due, sarà difficile che il progetto più strategico per il mercato italiano del gas possa decollare.

13 giugno 2005

Biotech, la salvezza della medicina

Ci sono voluti trent' anni di ricerche, ma ora la lenta rivoluzione del biotech sta arrivando a maturazione. Lo dice l' ultimo rapporto di Ernst & Young. Lo dimostrano le major farmaceutiche, che stanno cercando di fare man bassa in questo settore. E lo conferma George Morrow, numero due di Amgen, la più grossa azienda biotech del mondo, alleata in Italia con Dompé. «Metà dei farmaci approvati dalla Food and Drug Administration l' anno scorso erano di origine biologica», spiega Morrow. Nelle malattie più gravi, come il cancro, ormai quasi tutti i 400 prodotti attualmente in fase di test su pazienti a livello mondiale sono medicine biotecnologiche molto specifiche, che evitano i terribili effetti collaterali della chemioterapia. Tredici dei farmaci biotech più venduti al mondo sono dei blockbuster che, da soli, garantiscono incassi superiori al miliardo di dollari all' anno. Di questi, cinque sono prodotti da Amgen, che nel 2004 ha fatto 10,6 miliardi di dollari di fatturato e 2,4 di utili (con 2 miliardi d' investimenti in ricerca). «Con l' ultima ondata di farmaci biotech anticancro - precisa Morrow - il più grande killer di questo secolo è stato ridotto, nella maggioranza dei casi, a una malattia cronica ma controllabile». Trent' anni di scoperte biologiche, di progressi nella mappatura del genoma umano e di manipolazioni sempre più esotiche ci hanno introdotto in questa nuova età dell' oro dei farmaci biotech, che sembra annunciare la fine dell' era delle pillole. «La differenza, rispetto alle medicine di sintesi, è che i farmaci biotech vengono sempre spinti dalla comunità scientifica, più che dalle esigenze commerciali: si tratta quindi di una rivoluzione medica, oltre che industriale», commenta Morrow. Non a caso la nascita di aziende biotech (ce ne sono oltre 1.800 in Europa, contro le 1.500 statunitensi) è spesso legata ai centri più avanzati di ricerca universitaria e segue lo sviluppo a rete tipico dell' attività scientifica. «Le migliori menti universitarie cercano lavoro da noi, perché noi rappresentiamo la nuova frontiera. A differenza delle major farmaceutiche, molto dipendenti da singoli farmaci a larga diffusione, noi cerchiamo di concentrarci sui bisogni insoddisfatti dei pazienti, anche se si tratta di esigenze settoriali. E risolvere i problemi dei pazienti, anche i più astrusi, è il primo obiettivo di chiunque abbia una formazione medica», sottolinea Morrow. Questa strategia paga: «Le major tradizionali hanno sempre meno prodotti promettenti in via di approvazione e cercano continue partnership con aziende biotech, imitando il nostro modello di sviluppo», commenta Morrow. Novartis, ad esempio, ha spostato il suo principale centro di ricerca dalla Svizzera a Cambridge (Massachusetts), mettendone a capo un ricercatore accademico, Mark Fishman di Harvard. Malgrado ciò, il 67% dei farmaci arrivati l' anno scorso ai test clinici nel mondo erano biotecnologici. Si tratta di prodotti sofisticati, quindi generalmente più costosi, perché va sempre garantita la massima qualità di stoccaggio, conservazione e somministrazione: «Produrre farmaci da organismi viventi è un processo molto più complesso rispetto alla farmacia tradizionale, sia per l' investimento iniziale nelle tecnologie di produzione, sia per i costi del materiale e le alte competenze necessarie», spiega Sergio Dompé, con cui Amgen sta sviluppando in Italia diversi farmaci. Sono molecole più grandi e delicate di quelle di sintesi, che vanno somministrate per via endovenosa o per iniezione, solitamente in un ambulatorio medico. Ma colpiscono molto precisamente nel segno, quasi senza effetti collaterali. E fanno baluginare la tanto agognata era della farmacologia personalizzata. «Restano però grandi differenze fra le diverse aree del mondo», precisa Morrow, che si occupa dello sviluppo internazionale del business di Amgen. Quasi l' 80% dei 17 miliardi riversati l' anno scorso dagli investitori sul settore sono finiti negli Stati Uniti. «Le differenze culturali e la diversa sensibilità delle amministrazioni pubbliche giocano un ruolo importante in questa corsa - fa notare Morrow. - Da noi in California lo Stato ha lanciato un bond da 3 miliardi di dollari per finanziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali» . «Mentre in Italia al momento attuale - precisa Dompé - c' è la peggiore legge al mondo in questo campo, che non solo non finanzia, ma proibisce completamente la ricerca sulle cellule staminali degli embrioni».

6 giugno 2005

Italia-Ucraina, il patto d'acciaio

Chi l' ha detto, che in Europa per l' acciaio non c' è futuro? L' accordo di collaborazione fra l' italiana Duferco e l' Industrial Union of Donbass, che sarà firmato venerdì a Kiev alla presenza del premier ucraino Yulia Timoshenko, di Gianfranco Fini, Adolfo Urso e dell' amministratore delegato di Sviluppo Italia, Massimo Caputi, dimostra il contrario. Con l' incrocio di partecipazioni fra il gruppo Duferco di Bruno Bolfo e il primo produttore ucraino di acciaio, si gettano le basi per un nuovo modello di mantenimento delle attività siderurgiche in un' economia sviluppata. Unendo la produzione di acciaio grezzo in Est Europa, competitiva, con l' attività di trasformazione e distribuzione ad alto valore aggiunto dell' Europa occidentale. Le due aziende, dopo avere già collaborato alla privatizzazione della siderurgia ungherese con il consorzio Dunaferr, venerdì concluderanno una joint venture fra l' impianto ucraino di colate continue di Dneprovsk e lo stabilimento Duferco di Giammoro in Sicilia, prima linea di produzione italiana di travi d' acciaio per le costruzioni. Con lo scambio di partecipazioni, che comporta un investimento da 35 milioni per gli ucraini a Giammoro e di 25 milioni per l' azienda italiana a Dneprovsk, Duferco si assicura l' esclusiva della produzione del colosso ucraino, l' unico nella regione mineraria del Donbass a continuare indisturbato la sua attività dopo la rivoluzione degli arancioni, grazie agli ottimi rapporti del suo presidente Sergey Taruta con il nuovo presidente ucraino, Viktor Yuschenko. «Lo stabilimento di Dneprovsk - spiega Antonio Gozzi, amministratore delegato di Duferco con Massimo Bolfo, responsabile del trading, in cui la Duferco è leader mondiale - si affaccia sul fiume Dnepr e quindi l' acciaio viene caricato direttamente sulle navi che lo portano in Sicilia attraverso il Mar Nero e il Mediterraneo». Nell' impianto di Giammoro, che sorge sul mare a 20 chilometri da Messina, sono in via di costruzione le banchine adatte a ricevere le grandi navi ucraine. L' accordo - reso possibile anche dal supporto di Sviluppo Italia - avrà una ricaduta sulla competitività dello stabilimento e sulla crescita in occupazione. «Per sfruttare le forniture dall' Ucraina - aggiunge Gozzi - è previsto un ampliamento del laminatoio e la realizzazione di un grande centro di lavorazione per l' acciaio nelle costruzioni». Proprio dall' esigenza di potenziare le forniture per l' edilizia, uno dei pochi settori che non si possono delocalizzare, nasce quest' operazione, in controtendenza rispetto a quello che sembrava il declino ormai inarrestabile del settore, con le chiusure di Thyssen Krupp a Terni e il passaggio della Lucchini alla russa Severstal. «Ormai siamo alla delocalizzazione selvaggia verso i Paesi del terzo mondo - commenta Gozzi, che insegna Economia e gestione delle imprese logistiche all' università di Genova -. Ma attenzione a non esagerare: su alcune produzioni la delocalizzazione è antieconomica, perché i costi e i tempi di trasporto contano». Non che Duferco rifugga dalla delocalizzazione: l' azienda di Bolfo - che nel 2004 ha prodotto 6,3 milioni di tonnellate di acciaio e ne ha commercializzati 16, con un giro d' affari di 6,8 miliardi di dollari e un utile netto di 270 milioni - è presente in 40 Paesi con 11mila dipendenti ed è il primo investitore industriale italiano in Russia con la sua Viz Stahl di Ekaterinburg. «Ben venga la delocalizzazione intelligente - puntualizza Gozzi -, non solo mirata alla ricerca di manodopera a basso costo: in Est Europa, dove abbiamo stabilimenti in 11 Paesi, abbiamo imparato molte cose. A Ekaterinburg abbiamo una produzione avanzatissima di lamierino magnetico con tecnologia russa: per noi è stata un' avventura basata sull' innovazione. E anche un' opportunità per creare un avamposto commerciale in un luogo straordinario, a cavallo fra l' Europa e l' Asia, sugli Urali». Non a caso la Duferco di Ekaterinburg è diventata l' impresa chioccia di uno dei distretti italiani all' estero recentemente avviati, con il sostegno del ministero delle Attività produttive. Attorno alla sua sede si sono installate imprese italiane dei settori più diversi, dal biomedicale (Esaot) alle vernici (Stoppani), dalla meccanica ai tubi. Sempre in joint venture con aziende locali. «Se si vuole arrestare il declino delle esportazioni - fa notare Gozzi - bisogna sfruttare meglio l' antico spirito dei fondaci, con cui le nostre repubbliche marinare creavano le loro reti all' estero». Senza dimenticare la produzione in Italia, quando ne vale la pena.

29 maggio 2005

Pubblicità in fuga dal piccolo schermo?

Il programma s'interrompe, parte lo spot pubblicitario. Bidop. Bidop. Bidop. Questo è il rumore di un videoregistratore digitale quando salta uno spot: per l'industria televisiva, è un rumore che fa accapponare la pelle. Più che un segno di pacifico nomadismo, assomiglia al grido di guerra dei nuovi barbari. Le tecnologie digitali, già temutissime rivali, non si limitano più a erodere l'audience televisiva dirottando il pubblico verso nuovi media, ma passano ormai ad attaccare il cuore stesso del business: la pubblicità. Le implicazioni del salto dello spot sono devastanti: la percezione dell'inutilità degli annunci televisivi sta già avendo le prime ricadute sulle attribuzioni dei budget pubblicitari. E quando questa perdita di efficacia comincerà a essere documentata, l'effetto domino potrebbe essere repentino. In un settore basato su costi fissi come quello televisivo, anche un piccolo calo degli introiti pubblicitari può causare notevoli danni ai profitti, innescando un circolo vizioso che passa per il taglio al budget dei programmi e finisce nell'ulteriore perdita di audience. TiVo e compagni potrebbero diventare la killer application (nel senso letterale del termine) che farà pendere la bilancia dai media tradizionali, finanziati e controllati dai pubblicitari, verso i nuovi media, finanziati e controllati dai consumatori. Per ora, i videorecorder digitali che consentono il salto dello spot (oltre il 70% dei loro possessori li usano così) possono vantare una penetrazione del 10% negli Usa e del 15% in Giappone, mentre in Europa sono su percentuali ancora molto modeste. Ma i ritmi di crescita stanno accelerando. E cominciano a uscire i primi studi che mettono seriamente in dubbio l'efficacia della pubblicità televisiva, in particolare per i marchi più maturi dei beni di largo consumo. "Negli ultimi cinquant'anni, le emittenti hanno ricavato una sorta di tassa fissa dalle aziende produttrici di beni di largo consumo. Ma ho l'impressione che siamo entrati in una nuova fase, in cui queste aziende si stanno accorgendo che gli spot televisivi non funzionano più", spiega Andrew Shore, analista di Deutsche Bank e autore dello studio più approfondito sul rendimento della pubblicità televisiva per i marchi maturi. "Le spese di questo tipo - secondo Shore - sono la prossima voce destinata a cadere sotto la scure delle grandi multinazionali". Non stiamo parlando di noccioline: dei 500 miliardi di dollari spesi quest'anno nel mondo in pubblicità, circa il 40% finirà in spot televisivi. Ma per i colossi americani dei beni di largo consumo la "tassa alle tv" arriva al 60% di tutte le spese pubblicitarie, cioè circa 12 miliardi l'anno scorso. E secondo lo studio di Shore, gran parte di questi soldi è stata spesa a vuoto. Dopo aver esaminato la ricaduta degli investimenti pubblicitari televisivi sull'aumento dei volumi e degli utili nei principali 23 marchi dei prodotti di largo consumo lungo un arco di tre anni, Shore sostiene infatti che quegli spot hanno prodotto un ritorno positivo solo nel 18% dei casi sul breve termine e nel 45% dei casi sul lungo termine. Nella migliore delle ipotesi, quindi, meno della metà di quei soldi valeva la pena di essere spesa. Un'affermazione ardita, che non tutti condividono. Secondo Robert Heath, docente di marketing all'università di Bath, è riduttivo calcolare le ricadute della pubblicità televisiva in base al puro e semplice ritorno sull'investimento: "Anche quando sono deliberatamente ignorati, i messaggi pubblicitari televisivi vengono comunque assorbiti a livello inconscio. E siccome la memoria implicita dura molto più a lungo della memoria esplicita, le immagini che associamo a un marchio, una volta imparate non si dimenticano più". Ma il tentativo di Shore di calcolare in maniera più precisa le ricadute degli investimenti pubblicitari in tv suscita il plauso di molte aziende. Jim Stengel, capo del marketing di Procter & Gamble (principale inserzionista Usa con 2,8 miliardi spesi in pubblicità l'anno scorso), tuona: "Muoviamo 500 miliardi di dollari all'anno con meno disciplina e meno dati di quanti ne abbiamo in mano per decidere se spendere centomila dollari in altri settori". P&G è l'unica casa produttrice di beni di largo consumo che ha cominciato recentemente a usare dei modelli basati sulle vendite per stimare il ritorno sugli investimenti nelle campagne pubblicitarie e anche dai suoi calcoli emergono forti dubbi sull'efficacia degli spot televisivi tradizionali. Già solo l'avvento della tv via cavo, con la conseguente frammentazione dell'audience (vent'anni fa le "big three" Abc, Nbc e Cbs avevano l'80% dell'audience, oggi il 40%) sta rendendo la pubblicità televisiva obsoleta. Figurarsi l'arrivo dei videoregistratori digitali. Ma se è vero che gli spot tradizionali non funzionano più, quali sono le alternative? Per trovare altri canali bisogna fare i conti con la proliferazione dei media. I ragazzini americani passano ormai oltre 7 ore alla settimana alla consolle dei videogiochi, i quattro quinti delle famiglie hanno un allacciamento a Internet, di cui un quarto a banda larga (sarà la metà nel 2008) e un altro quarto ad alta velocità. Ne approfittano le pubblicità interattive, in cui si può rispondere a determinati segnali nei programmi tv attraverso il telecomando, un telefonino o Internet. Si usano gli sms per far partire campagne di marketing virale. Si mettono provocazioni in rete con metodi da guerilla marketing. Chuck Fruit, capo del marketing di Coca-Cola, ha recentemente dichiarato l'intenzione di abbandonare la tv per portare le bollicine fra i giovani con il cinema, la musica, i videogiochi, attraverso il product placement. Nel 2004 la spesa di Coca-Cola in pubblicità televisiva è scesa del 60%. Nel frattempo, il gigante di Atlanta ha aperto delle aree chiamate Coke Red Lounge nei centri commerciali, dove si può sentire musica o vedere un film e dove i giovani possono rilassarsi con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Lo stesso ha fatto anche la Campbell, aprendo una catena di Soup Sanctuaries, dove offre una minestra rigenerante ai forzati dello shopping. La promozione attraverso esperienze positive s'inserisce perfettamente nel tentativo di vendere uno stile di vita più che un prodotto. Aziende come Estée Lauder o Starbucks si basano su questa concezione già da anni: sono molto parche nelle spese pubblicitarie e fanno piuttosto assegnamento sull'esperienza positiva dei clienti e sul loro passaparola. L'anno scorso Amazon ha bloccato una campagna televisiva giudicata inefficace e da allora si basa su promozioni dirette o su incentivi come la spedizione gratuita per attirare clienti. Di qui a soppiantare la tv, naturalmente, c'è tantissima strada da fare. Ma la fuga dal piccolo schermo è già cominciata. Bidop.

9 maggio 2005

Scaroni e Mincato: carbone contro gas

Il caro vecchio metano, a cui tutti gli italiani sono abituati? O il carbone nero e polveroso, ma tanto più economico? Per non parlare del nucleare, che tutti rimpiangono ma nessuno vuole? La scelta su quale fonte puntare in Italia per la generazione elettrica del futuro si sta compiendo adesso. Se n' è accorto Paolo Scaroni, amministratore delegato di Enel, che nel suo ultimo piano strategico ha annunciato l' intenzione di raddoppiare da qui al 2008 la capacità di generazione elettrica da carbone dell' operatore dominante sul mercato italiano. Se n' è accorto anche Vittorio Mincato, che da molti mesi batte la grancassa contro il carbone a favore del gas naturale, di cui guarda caso detiene il monopolio. E se n' è accorta la gente di Civitavecchia, dove Enel vuole riconvertire a «carbone pulito» una vecchia centrale a olio combustibile (Torre Valdaliga), non più competitiva e sostanzialmente ferma. Nei piani dell' ex monopolista, ai 2 mila megawatt di Torre Valdaliga dovranno aggiungersi almeno i 2.600 di Porto Tolle e altri 1.200 di Rossano Calabro, per permettere all' Enel di rimpiazzare quasi del tutto, da qui al 2010, il problematico e caro olio combustibile. La scelta è molto importante, se è vero, come risulta da uno studio del ministero delle Attività produttive, che nel giro di 15 anni il fabbisogno di energia elettrica degli italiani è destinato a crescere del 25%. «Le fonti che sceglieremo per coprire la nuova domanda e per sostituire le vecchie centrali obsolete saranno determinanti per la formazione del prezzo dell' energia elettrica nei prossimi decenni», fa notare Giordano Serena, presidente di Assoelettrica. Mentre gli altri operatori italiani costruiscono quasi solo comode centrali a gas, Enel è sempre più concentrata sull' aspetto del taglio dei costi: da un lato con il nucleare all' estero, visto che in Italia le barriere sono insuperabili, e dall' altro con il carbone al posto dell' olio, enti locali permettendo. «Andiamo verso una dipendenza eccessiva del nostro sistema elettrico dal gas - commenta il presidente di Enel, Piero Gnudi -. Se vogliamo modificare la struttura dei costi dell' energia dobbiamo fare largo uso del carbone, vittima di pregiudizi». Oltre all' assenza di energia nucleare, la principale anomalia italiana è proprio l' uso limitato del carbone, che non supera il 13% della produzione elettrica, mentre l' Europa si basa per almeno due terzi sull' accoppiata nucleare e carbone. Se la strategia di Enel andrà in porto, l' uso del carbone in Italia crescerà al 24% (contro un 31% di media europea) e il riequilibrio del mix di combustibili potrebbe far scendere del 20-25% il prezzo dell' energia in Italia, oggi di gran lunga il più elevato d' Europa. Ma le resistenze sono fortissime, come dimostra l' irritata reazione di Mincato, che ha insistito più volte a favore del gas: secondo il numero uno di Eni, il carbone «non è poi così economico come qualcuno crede», ed è comunque incompatibile con i vincoli ambientali imposti dal protocollo di Kyoto. «È inutile - commenta Serena - mettere a confronto le strategie di Scaroni e Mincato. Il core business dell' uno è produrre energia, dell' altro è vendere idrocarburi. Ognuno fa il suo mestiere». E sullo sfondo incombe la stretta finale sulle nomine ai vertici delle due aziende di Stato, che radicalizza le rivalità, anche perché Scaroni è considerato un pretendente al trono di Mincato. Stavolta è proprio il petroliere a ergersi a paladino dell' ambiente: «Per ridurre la Co2 - sostiene Mincato - la strada più efficace resta la progressiva sostituzione del carbone e dell' olio combustibile con il gas naturale». E Legambiente, con il suo pregiudiziale «no al carbone», gli dà ragione, scatenando fortissime resistenze locali ai piani di riconversione di Enel. Ma è proprio su questo punto che arrivano le contestazioni più dure dal fronte pro-carbone. Come ha dimostrato Enel portando gli amministratori locali di Porto Tolle a visitare le più avanzate centrali a carbone del mondo, ad Haramachi in Giappone e a Mai Liao nell' isola di Taiwan, il carbone non è più quello di una volta. Rispetto a una centrale a olio, il carbone pulito riduce l' inquinamento del 70%. Restano, è vero, le emissioni di anidride carbonica. «Ma per fare un confronto fra gas e carbone - sostiene Andrea Clavarino, presidente di Assocarboni - bisogna prendere in esame anche le emissioni precombustione, che nei giacimenti di gas da cui si approvvigiona Eni sono altissime». Non a caso, da quando il governo norvegese ha imposto una carbon tax sull' industria estrattiva, nei giacimenti di gas del Mare del Nord si sta sperimentando il sequestro geologico della Co2 in strati acquiferi profondi, che potrebbe risolvere il problema. Anche per il carbone. «Se funzionerà il sequestro geologico della Co2 - dice Clavarino - il carbone avrà fatto bingo...».