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31 ottobre 2008

Prove di Borsa elettrica

Una sala operativa spoglia, di pochi metri quadri, con un grande tabellone elettronico alla parete e cinque computer su un bancone a ferro di cavallo. La Borsa elettrica parte in sottotono, ma segna una svolta radicale nel mercato italiano dell' energia: «D' ora in poi gli operatori avranno uno sbocco sicuro su cui contare per mettere in vendita la propria produzione, un mercato che premia il merito economico e quindi chi vende al prezzo più basso». Giorgio Szegö, di origine ungherese, presidente del Gestore del mercato elettrico e docente di Economia dei mercati finanziari alla Sapienza, è convinto della centralità della Borsa per dare una forte spinta agli investimenti nel settore dell' energia e non ha nessuna intenzione di tirare per le lunghe la fase sperimentale: «Fino alla fine del mese le contrattazioni saranno solo virtuali, in attesa che tutti gli operatori interessati si siano dotati degli strumenti per partecipare. Da febbraio cominceranno le vere offerte, seppure senza la partecipazione attiva della domanda, che resterà limitata al Gestore di rete e all' Acquirente unico, gli unici soggetti che non hanno bisogno di un deposito di garanzia per partecipare agli scambi. La partenza completa, con l' ammissione piena alle contrattazioni di tutti i soggetti liberalizzati, è prevista in primavera, entro il primo aprile, ma per quanto mi riguarda potremmo anche partire a febbraio. I nostri terminali sono già pienamente operativi». Per imparare a nuotare, commenta Szegö con filosofia, bisogna buttarsi in acqua: «Gli esercizi sul tappeto servono a niente». In realtà è chiaro a tutti che una Borsa non può arrivare alla piena funzionalità da un giorno all' altro. Un mercato organizzato su base volontaria come quello appena avviato in Italia (e come tutti i grandi mercati esteri dell' energia, dal Nord Pool scandinavo al Powernext francese), ha bisogno di tempo per guadagnarsi il favore degli operatori, dimostrando di essere il punto d' incontro più efficiente tra la domanda e l' offerta. «Il nostro obiettivo - spiega Szegö - è attrarre il maggior numero possibile di scambi nella nostra orbita, in modo da ridurre al massimo le differenze fra i due mercati, quello delle negoziazioni pubbliche e quello dei contratti bilaterali. Agli operatori offriremo anche un servizio di contratti bilaterali standardizzati, come ci è stato richiesto da molti produttori. Quando il prezzo dell' energia fissato in Borsa diventerà la stella polare a cui guarderanno tutti, anche chi contratta all' esterno, avremo vinto la nostra scommessa». Del resto, se davvero l' Acquirente unico sarà costretto ad approvvigionarsi in Borsa, i volumi verranno assicurati «per decreto»: questo nuovo soggetto, che dall' inizio dell' anno ha finalmente assunto le funzioni di garante della fornitura del mercato vincolato, cui fa capo circa la metà dei consumi nazionali, sarà un gigante da oltre 100 miliardi di chilovattora. Per adesso, l' energia destinata al mercato vincolato confluisce in un sistema dedicato di vendita, il cosiddetto Stove, che continuerà a funzionare fino alla partenza completa della Borsa elettrica, con alcune modifiche sostanziali introdotte dall' inizio dell' anno, tra cui l' obbligo di partecipazione per tutte le centrali di grandi dimensioni e la possibilità per l' Acquirente unico di usufruire dei benefici derivanti dalle importazioni di energia dall' estero a prezzi più convenienti rispetto alla produzione nazionale. Se anche l' Acquirente unico dovesse procurarsi solo l' 80 per cento del suo fabbisogno in Borsa, comunque, il suo peso si farà sentire sul lato della domanda. Dall' altro lato, quello dell' offerta, si farà invece sentire il peso dell' Enel, che malgrado le dismissioni resta ancora di gran lunga il principale produttore di energia in Italia. «Terremo d' occhio il ruolo dell' Enel, cercando di evitare che abusi della sua posizione dominante - precisa Szegö - ma non bisogna fasciarsi la testa prima di essersela rotta: in tutti i mercati che si aprono alla liberalizzazione bisogna fare i conti con un incumbent che nei primi tempi ha un peso schiacciante. Nella Borsa spagnola dell' energia hanno avuto lo stesso problema, di dimensioni ben superiori alle nostre. A mano a mano che si costruiranno nuove centrali la quota Enel sulla produzione nazionale calerà in percentuale e i rapporti di forza diventeranno più equilibrati». La Borsa, del resto, non è altro che uno specchio del mercato: se il mercato è molto concentrato l' avvio degli scambi non modificherà questo dato di fatto. Ma la negoziazione pubblica, chiamando a produrre le centrali a partire da quelle che praticano i prezzi più bassi, introdurrà un elemento di concorrenza dinamica che finirà per privilegiare gli impianti più efficienti e per comprimere il livello dei prezzi. Prima che questi effetti positivi si concretizzino nelle tasche degli utenti, però, ci vorrà tempo.

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Ma quale bolla, in Italia manca il gas

Una settimana di freddo intenso è bastata per mettere in crisi le forniture nazionali di metano: in quattro giorni di maltempo l' Italia ha bruciato l' 8% delle riserve strategiche, 400 milioni di metri cubi di gas stoccati durante l' estate in giacimenti sotterranei, da usare soltanto in caso d' emergenza. «Il provvedimento del ministro Marzano dimostra che c' è bisogno di una maggiore quantità di gas e di una vera liberalizzazione a monte, come diciamo da anni - rileva Mauro D' Ascenzi, presidente di Federgasacqua, l' associazione che riunisce i distributori locali del gas - Il prezzo di questa carenza finiscono per pagarlo i consumatori anche nelle bollette. Se si vogliono diminuire le tariffe, l' unica vera soluzione è aumentare la quantità e l' accesso al gas liberalizzato». Altro che bolla del gas: «La tesi sostenuta da Vittorio Mincato non sta in piedi - puntualizza D' Ascenzi - come s' è visto in questi giorni d' emergenza. Sul mercato italiano non si rischia un eccesso di disponibilità, semmai una carenza grave, anche mettendo in conto i 6,5 miliardi di metri cubi di capacità di trasporto in più promessi dall' Eni». Su questo punto concordano anche l' Antitrust e l' Autorità di Sandro Ortis che già l' anno scorso, a conclusione di un' indagine comune, avevano contestato duramente la tesi di Mincato, con precisione profetica. È «purtroppo evidente - conferma oggi il presidente Ortis - che non ci troviamo nella ' bolla di gas' anche recentemente paventata». Occorre dunque «assicurare presto, per ragioni di sicurezza e per lo sviluppo di un mercato efficiente, una capacità d' offerta adeguatamente superiore alla domanda», ammonisce Ortis, ricordando fra l' altro la sua richiesta per la «terzietà di Snam Rete Gas e degli stoccaggi Stogit». In prospettiva, le carenze sul mercato del gas rischiano d' interferire anche con il corretto funzionamento del mercato elettrico. «In Italia la domanda di metano cresce molto rapidamente, circa del 4% l' anno, perché il gas è più efficiente per alimentare le centrali e inquina meno dell' olio combustibile - fa notare Sergio Garribba, direttore generale del ministero delle Attività Produttive. Tutte le prossime centrali elettriche - circa 8 mila megawatt già in costruzione e oltre 10 mila approvati ma non ancora cantierizzati - andranno a gas e quindi da qui al 2006 il fabbisogno aumenterà di molto. Ma l' offerta è ferma da anni. Da un lato la produzione domestica cala: l' anno scorso dalle profondità dell' Adriatico e della pianura padana sono stati estratti soltanto 13 miliardi di metri cubi (un miliardo in meno dell' anno prima), sugli 80 miliardi che l' Italia ha consumato. Dall' altro lato l' importazione è quasi ferma, da quando Eni ha congelato il potenziamento dei suoi gasdotti per timore di generare un eccesso di metano. Proprio su questo aspetto si concentra l' inchiesta per abuso di posizione dominante appena aperta dall' Antitrust contro il cane a sei zampe, accusato di una vera manovra ostruzionistica per strozzare quattro concorrenti. In previsione del potenziamento in seguito congelato, Edison Gas, Compagnia italiana del gas, Bridas Energy International e World Energy si erano aggiudicate le gare avviate dall' Eni in base alle norme antitrust per ospitare nei suoi tubi il loro gas, comperato direttamente in Algeria, ma poi si sono viste negare il diritto di trasportare il metano, già ottenuto con un primo contratto a valere dal 2007, per presunte irregolarità procedurali. E quindi sono rimaste al palo. Come loro, tutti gli altri operatori dipendono dalla buona volontà dell' Eni per approvvigionarsi, passando sui suoi gasdotti. «Costruitevi i vostri tubi», tuona Mincato. Ma il presidente Ortis si spinge oltre e sostiene che l' Eni, nel privatizzare la rete, dovrebbe conferirvi i metanodotti esteri: il tubo che attraverso l' Austria si collega alla rete siberiana, quello verso l' Olanda, il Transmed verso l' Algeria e il metanodotto libico, appena entrato in funzione. La preoccupazione di Ortis è che il possesso d' infrastrutture estere consenta all' Eni di mantenere comunque il controllo del mercato italiano, anche dopo l' uscita dal capitale di Snam Rete Gas. Un' altra soluzione, molto caldeggiata dal ministero, è lo sviluppo di nuovi terminali di rigassificazione, adatti all' importazione per nave di gas naturale liquefatto (Gnl), che oggi in Italia può essere ritrasformato in metano soltanto nell' impianto Snam di Panigaglia, in Liguria. «Il Gnl alla fine diventa metano - precisa Garribba - ma è una commodity un po' diversa, tant' è vero che il suo prezzo non è direttamente legato a quello del petrolio come il metano via gasdotto. Arrivando via nave, consente una maggiore diversificazione delle fonti: a seconda del fabbisogno si possono ordinare più o meno carichi e se non lo si trova in Nigeria o in Qatar si può ricorrere alle forniture dalla Malesia o dal Messico». I due impianti più vicini alla realizzazione sono la piattaforma ideata da Exxon Mobil e Qatar Gas (45%-45%) in alleanza con Edison (10%) a Porto Viro, nell' alto Adriatico, che ha ricevuto l' autorizzazione in novembre, e quella al largo di Livorno progettata da Falck e Belleli in collaborazione con Amga, che riceverà l' autorizzazione ad aprile. Il loro completamento andrà a tutto vantaggio della concorrenza sul mercato italiano e le conseguenze sui prezzi si faranno sentire. Ma si tratta comunque di tempi lunghi. «Nel frattempo - commenta D' Ascenzi - gli italiani rischiano di vedersi presentare un conto ancora più salato delle bollette attuali. Non sarebbe giunto il momento di ripensare ai meccanismi individuati per arrivare a una liberalizzazione, rilanciando il processo di aggregazione e di riorganizzazione del mercato?»

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30 ottobre 2008

Dan Ahrens

Alcool e gioco d'azzardo, tabacco e armi: per molti sono strumenti di perdizione, in cui non investirebbero mai i propri soldi. Ma il vizio paga. E le aziende che lo promuovono non conoscono crisi. Ne sa qualcosa Dan Ahrens, un vivace texano che ha fondato due anni fa insieme a Eric McDonald il Vice Fund, proprio nel momento in cui diventava di moda la "finanza etica". Negli ultimi dodici mesi terminati con il 31 agosto, il Vice Fund ha messo a segno una crescita del 21%, contro l'11,45% dell'indice S&P 500.
Dopo i fondi socialmente responsabili, ecco un fondo davvero irresponsabile. Perché ha deciso di andare controcorrente?
"Non abbiamo niente contro la finanza etica, in via di principio. Ma nel momento in cui i mercati andavano male, fra il 2001 e il 2002, ci siamo accorti che i titoli delle aziende attive negli alcolici, nel gioco d'azzardo, nel tabacco e nelgli armamenti, continuavano a mettere a segno performance soddisfacenti, in netta controtendenza. Così abbiamo deciso di approfondire l'argomento e da questo studio è nato il Vice Fund".
Quattro settori soltanto rappresenta un universo piuttosto limitato da cui scegliere. Saranno poche centinaia di titoli…
"Non lo considero uno svantaggio. Questo ristretto numero di titoli da cui scegliere ci consente di identificare e investire nelle idee migliori sul lungo periodo. Non siamo interessati a perseguire la crescita fulminea, ma seguiamo un po' la filosofia di Warren Buffett. Siamo molto concentrati nella ricerca di aziende solide che ci sembrano sottovalutate e quando investiamo in un titolo, di solito lo teniamo per molto tempo. Al momento attuale ne abbiamo soltanto 45, distribuiti abbastanza equamente tra i quattro settori, anche se il tabacco pesa un po' meno degli altri tre".
E il sesso?
"Investiremmo volentieri anche in questo settore, ma è povero di grandi aziende quotate. Molti ci hanno suggerito di comprare azioni Playboy: è un'dea divertente, ma non è un buon titolo. Quando investiamo, non andiamo mica alla ricerca del vizio in quanto tale. Anche in questo settore si puo restare con il cerino in mano se non si sta attenti. In generale il vizio è un business fiorente, ma non tutto quello che è vizio paga".
Il settore più rappresentato nel vosto fondo è la difesa, che non rientra precisamente nell'area del vizio…
"Abbiamo incluso molte aziende della difesa nel nostro portafoglio proprio perché i fondi socialmente responsabili le evitano e noi puntiamo a essere identificati come un'alternativa a questi fondi. Per di più con tutti i conflitti in corso si tratta di un settore molto remunerativo. Fra i primi dieci titoli del Vice Fund ci sono ben quattro aziende di questo comparto: L-3 Communications, Northrop Grumman, United Technologies e United Defense Industries. Il nostro investimento più consistente in assoluto è L-3 Communications, un'azienda molto all'avanguardia sul fronte della guerra tecnologica. La sua specialità sono i sistemi informativi e di riconoscimento, le attrezzature per la sorveglianza e le scatole nere degli aerei, tutti dispositivi che saranno al centro di ogni azione militare nei prossimi anni. Infatti L-3 è un titolo molto dinamico".
Anche Anheuser-Busch, un'azienda molto più tradizionale, è fra i vostri investimenti principali…
"E' il secondo, dopo L-3. E' un titolo che ci piace molto: stabile, remunerativo in ogni contesto. Che i mercati vadano bene o male, i tassi d'interesse siano alti o bassi, la gente continua a bere in ogni caso. Fra i nostri primi dieci titoli abbiamo anche Fortune Brands (produttore di Absolut, ma anche di altri liquori molto conosciuti negli Usa) e Constellation Brands, che produce e distribuisce 200 marche di birra. Non sono titoli molto dinamici, ma crescono sempre in maniera costante. Anheuser-Busch è il più grande produttore di birra del mondo, ha il 50% del mercato americano e sta crescendo molto all'estero con una serie di acquisizioni. Gli analisti erano convinti che avesse raggiunto il suo apice già qualche anno fa e quindi il titolo era un po' sottovalutato. Invece ha continuato a guadagnare quote di mercato, con l'aiuto di un ottimo marketing, e sta dando grandi soddisfazioni agli investitori, sia in anni di crisi che di prosperità".
Si continua anche a fumare, malgrado i rischi alla salute sempre più evidenti?
"Mentre il mercato del tabacco è in declino negli Usa, nel resto del mondo sta crescendo rapidamente. Le aziende di questo settore sono sempre più ricche e pagano alti dividendi. Fra i primi dieci titoli del nostro portafoglio abbiamo sia Altria (la casa madre di Philip Morris) che British American Tobacco".
Malgrado i problemi legali e le campagne anti-fumo in tutto il mondo occidentale, lo considera un business in crescita sul lungo periodo?
"I rischi legali sono già inclusi nel prezzo di questi titoli. Anzi, sono decisamente sottovalutati proprio per paura delle multe, che ormai mi sembrano vicende del passato. Non bisogna dimenticare che i problemi legali e la forte ostilità nei confronti del fumo sono concentrati perloppiù negli Stati Uniti. Il mercato globale, al contrario, cresce e i marchi più noti - come Marlboro o Davidoff - si espandono, spesso rimpiazzando marchi locali all'estero. Quindi non vedo perché considerarlo un business di corto respiro".
Il terzo titolo nel vostro portafoglio, dopo L-3 e Anheuser-Busch, è Harrah's Entertainment, il gigante dei casinò. Anche questo è un settore in crescita?
"Fenomenale. Da un lato l'avvento del gioco d'azzardo online, dall'altro le leggi favorevoli ai casinò promulgate negli ultimi anni da vari Stati americani, hanno generato un boom senza precedenti. Harrah's, con 28 casinò in 13 Stati diversi, è un colosso. Ma c'è un'enorme fioritura d'iniziative in questo campo, anche piccole ma molto remunerative: scommesse sui cavalli e sui cani, giochi reali e virtuali. Tutti in grande crescita".
Ma queste attività non hanno più successo in tempi di crisi?
"E' un vecchio cliché che non trova riscontri nella realtà: il vizio non è un settore difensivo. E' semplicemente scorrelato con l'andamento dei mercati. I titoli in cui abbiamo investito hanno messo a segno ottime performance nel 2000, 2001 e 2002, in tempi di crisi, ma anche nel 2003, quando i mercati andavano benissimo. Tant'è vero che nel 2003 il nostro fondo ha superato sia l'S&P 500 che il Dow Jones".

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29 ottobre 2008

Ray Dalio

I tassi d'interesse in risalita tagliano le gambe ai bond: un dato di fatto da cui non si sfugge o un mito da sfatare? Ray Dalio, tra i massimi esperti americani di obbligazioni a livello globale, propende per la seconda ipotesi, soprattutto nelle attuali condizioni ambientali, che consentono di spostarsi agevolmente da un mercato all'altro per andare controcorrente.
I rialzi dei tassi stanno mettendo a dura prova il mercato obbligazionario americano e la pressione si estende anche all'Europa. Lei cosa consiglia?
"Consiglio di aspettare che il tasso sui Fed Funds arrivi al 4,25%, che sarà il suo picco, e i rendimenti dei Treasury a dieci anni al 5,75%. A quel punto si può essere sicuri che la politica monetaria della Fed avrà già raffreddato abbastanza l'economia per rendere i bond americani di nuovo attraenti. Per quanto mi riguarda, ricomincerò a comprare già quando i Treasury a dieci anni saranno arrivati al 5,25%, se l'economia mostrerà segni di rallentamento, come ad esempio due decimi di punto in più sulla disoccupazione rispetto al tasso più basso raggiunto dopo la recessione, finora il 5,6%. Nel frattempo, consiglio di andarsi a cercare altrove condizioni ambientali migliori".
Difficile, visto che l'economia americana continua a fare da traino per gran parte del mondo…
"Anche questo è un mito da sfatare. L'economia mondiale, che nell'ultimo decennio sembrava sempre più sincronizzata su un'unica lunghezza d'onda - quella americana - oggi è di nuovo una cacofonia di mercati che corrono in direzioni divergenti. Merito dei banchieri centrali, che ragionano in maniera indipendente gli uni dagli altri".
Quindi?
"Mentre la Fed rialza i tassi per raffreddare un'economia in crescita troppo rapida, il Giappone si è appena avviato verso un periodo di crescita sostenuta. L'Asia sta decelerando dopo una corsa a perdifiato e l'America Latina anche, dopo una modesta espansione. L'Europa invece continuerà a crescere adagio. Ma anche all'interno di queste aree ci sono singole economie nazionali che non vanno al passo con il resto: una delle Borse che ha fatto meglio quest'anno, con un balzo nell'ordine del 20%, è quella ungherese, che sta in Europa, mentre fra le peggiori c'è quella thailandese, che sta in Asia".
Lei come sfrutta questa cacofonia?
"Vado in giro per il mondo a cercarmi le obbligazioni prezzate in maniera più attraente, soprattutto fra quelle dove gli emittenti hanno un profilo di rischio in via di miglioramento. Il maggior valore che si può trarre dalle obbligazioni si trova dove il rischio di credito viene prezzato in maniera inefficiente dal mercato".
Quali sono i segnali da guardare?
"Bisogna combinare una visione macroeconomica globale con un minuzioso processo di selezione dei singoli titoli. La maggiore o minore volatilità dei mercati e la tenuta dei vari settori sono dati importanti di cui tener conto. Fondamentale è anche costruire un portafoglio che abbia molte parti in movimento, in modo da bilanciare le varie fasi dei cicli economici in giro per il mondo".
In pratica?
"I nostri investimenti obbligazionari sono sparsi su 30 Paesi, 40 settori e 10 diverse valute. Questa diversificazione ci tiene al riparo dai problemi delle singole economie nazionali".
Che vantaggi vi ha portato?
"Nel 2002, quando il dollaro è caduto, noi avevamo importanti posizioni su valute più piccole come la corona norvegese o il dollaro neozelandese, che sono andate molto bene quell'anno, con guadagni del 30-40%. Il 2002 è stato l'anno di Enron e WorldCom, la gente si è fatta prendere dal panico ed è uscita in massa dai corporate bond. Noi invece abbiamo aumentato la nostra esposizione sia sui titoli più sicuri che su quelli ad alto rendimento. E difatti nel 2003 c'è stato il rally dei corporate bond. Ora però abbiamo ridotto la nostra esposizione sui corporate, soprattutto ad alto rendimento, perché sarà difficile che continuino a correre".
Quali sono i Paesi che privilegiate?
"Solo il 30% dei nostri investimenti obbligazionari sono negli Stati Uniti. Il 70% sono bond non denominati in dollari. Un altro terzo è in euro, un po' meno di un decimo in yen, il 7% in sterline e il 6% in dollari canadesi. Il resto sono spiccioli. Per quanto riguarda i Paesi, dopo gli Stati Uniti viene il Canada, poi la Germania, il Regno Unito e l'Olanda".

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27 ottobre 2008

L'Orso non gioca a risiko

Il tracollo dei mercati rischia di spazzare via il risiko delle utilities. Solo A2A e Asm Brescia hanno fatto in tempo a convolare a nozze prima della bufera, anche se continuano a vivere da separate in casa. Tutte le altre, da Genova a Bologna, da Roma a Trieste, sono rimaste con il cerino in mano. A Genova, il sindaco Marta Vincenzi ha appena messo un punto finale a un processo di aggregazione che andava avanti da mesi con difficoltà: «Il comune di Genova non ritiene che il tentativo di aggregazione tra Iride, Hera ed Enìa debba protrarre tavoli di lavoro che fino a oggi non hanno prodotto alcun risultato». Il problema, oltre che politico/strategico è finanziario. Il valore dei concambi spesso viene considerato ingiusto dall' una o dall' altra parte, come nel caso di Marta Vincenzi, secondo cui la maggiore capitalizzazione di Hera non giustifica un concambio ritenuto troppo sfavorevole. «Il vero tema - sostiene Vincenzi - è quello del concambio, che non è slegato dal tema della governance e del piano industriale», dato che un rapporto di cambio sfavorevole «segna ricadute sui bilanci comunali». Più chiaro di così. In realtà lo stop del Comune non spaventa più di tanto il presidente dell' utility genovese, Roberto Bazzano, che ha continuato a trattare con i presidenti di Hera, Tomaso Tommasi di Vignano, e di Enìa, Andrea Allodi, ma è un fatto che le scadenze elettorali di Bologna e Reggio Emilia impongono tempi molto stretti. A meno che non si voglia procedere ad alleanze parziali, fra Enìa e Hera o fra Enìa e Iride. Il presidente di Enìa, Andrea Allodi, ha sostenuto che tutte le ipotesi «sono aperte». Ma con questo ritmo si rischia di rimandare il tutto alla primavera inoltrata, dopo l' insediamento dei nuovi sindaci. Con la fusione Gdf-Suez, nel frattempo, Acea è uscita dalla scena del risiko delle utilities, ma è attesa la definizione dell' intesa con il nuovo colosso post fusione. L' ipotesi più gettonata è la creazione di una holding controllata dai romani, che a sua volta deterrebbe tre società: produzione e vendita in mano al gruppo franco-belga, reti in mano ad Acea. Sempre che il neo sindaco di Roma Gianni Alemanno non decida di cavalcare l' onda liberista, cedendo una parte del proprio 51% a GdfSuez, che già controlla l' 8,6% dell' utility, anche considerando il debito di 8 miliardi di euro che grava sulle casse del comune. Sull' onda di questa eventualità, Acea è una delle poche azioni a rimanere a galla a Piazza Affari. Sembra accantonato anche il progetto del grande polo del Nord Est, malgrado gli sforzi del presidente di Ascopiave, Gildo Salton. Ma non per questo regna l' immobilismo. Anzi, proprio la necessità di trovare soluzioni alternative sta portando soprattutto le società più piccole (e vulnerabili) ad attivarsi sul fronte partnership e acquisizioni. Agsm Verona vuole trovare un alleato nella vendita di elettricità e gas, al quale cedere una quota di minoranza di Agsm Energia. Così il presidente Gian Paolo Sardos Albertini ha rilanciato l' idea della partnership, citando tra i candidati i nomi di A2A e della tedesca E.on, ma anche quello «della controllata italiana dei francesi di Gaz de France», Italcogim Energie. A Venezia, invece, oltre alle partnership si pensa anche alla Borsa. L' amministratore delegato di Veritas, Andrea Razzini, l' ha proposta ai soci e il consiglio di amministrazione avrebbe già preso contatti con Ubm (gruppo Unicredit) quale possibile candidato al ruolo di global coordinator dell' Ipo. Il progetto è però a uno stadio embrionale e la crisi dei mercati non aiuta. Spostandosi ancora più a Est, la Iris di Gorizia è corteggiata sia da AcegasAps (Trieste-Padova) che da Amga Udine, ma ha deciso di indire un bando internazionale per il settore energia, che può contare su circa 50 mila clienti. Così tra i due litiganti rischia di vincere qualche colosso nazionale o internazionale, con tempi che, a questo punto, verranno dilatati non poco. La tedesca E.on, in primis, già forte nella vendita in Italia e ora rafforzatasi notevolmente nella produzione, grazie all' acquisto degli asset della ex Endesa Italia. Una soluzione che certamente non piacerà ai vertici di AcegasAps e Amga, che avevano già reso pubbliche le loro offerte, da 100 e 92 milioni.

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Acea, il triangolo di Alemanno

Un corteggiamento lungo, ma infruttuoso. Hera, Iride, Enìa,ci hanno provato in tutti i modi a realizzare con Acea un maxi polo conepicentro romano, che facesse da contraltare a quello lombardo di A2A. Ma allafine sono rimaste al palo di fronte al peso di un azionista sempre piùingombrante: la franco-belga Suez, in via di fusione con Gaz de France. MaFrancesco Gaetano Caltagirone, uno degli azionisti chiave di Acea, con i suoi2-3 miliardi di liquidità in tasca, non considera ancora chiusa la partita. Afine estate aveva investito una piccola quota di quella liquidità per saliredal 3 al 5% di Acea e diventando così il terzo socio della multiutility,davanti a Schroder (4,9%) ma dietro a Suez (8,6%) e al Comune di Roma (51%).Oggi sembra sempre più interessato a diventare l'ago della bilancia se nonaltro per non sentirsi solo nella scomoda stretta fra socio pubblico (Comunedi Roma) e socio francese. La scelta di sostituire Fabiano Fabiani al verticedella multiutility, in anticipo di un anno sulla scadenza del mandato, conGiancarlo Cremonesi, presidente dell'associazione dei costruttori romani, èun omaggio allo spoil system ma indica anche che qualcosa si sta muovendo. Nonsfugge a nessuno, infatti, che c'è bisogno di un assetto istituzionale solidoper affrontare il discorso dell'azionariato e Alemanno non ha voluto aprire ledanze con un board nominato dall'amministrazione Veltroni. E che quindi nonrispondesse a lui.> Gli addetti ai lavori segnalano con un certo interesse la presenza in Aceadi Italcogim, una società controllata al 60& da Gaz de France e al 40% dallaCamfin di Marco Tronchetti Provera. Italcogim, secondo alcune indiscrezioni,potrebbe essere coinvolta nel riassetto societario della multiutility romana,anche se il sindaco Gianni Alemanno finora ha sempre smentito ufficialmenteogni intenzione di scendere sotto il 51% di Acea. In realtà la società suspinta di Fabiani e dell'amministratore delegato Andrea Mangoni, sta trattandoda mesi con i francesi, con contatti ad altissimo livello fino al nuovo capo,Gérard Mestrallet. Obiettivo: cedere loro una quota consistente di Acea (finoal 20%), facendoli affiancare, magari in un secondo tempo, da un altro socioitaliano.> Alemanno - sostenuto dall'ex assessore al Bilancio della Regione LazioAndrea Augello, oggi senatore di An - deve ancora decidere se fermarsi al 40 oal 30%. Ma l'ipotesi di ridare un po' di ossigeno alle casse comunali,afflitte da un debito di 8 miliardi, non gli dispiace.> La chiave di volta del riassetto sta nella fusione Suez-Gaz de France, cheha portato le due società a mettere a fattor comune i propri asset in Italiae ha costretto Suez a disfarsi della belga Distrigaz per motivi di antitrust.Per aggiudicarsi Distrigaz, l'Eni ha offerto in cambio Romanagas (gruppoItalgas), vale a dire la rete di distribuzione del gas nella capitale. Suezdovrebbe conferire Romanagas (valore preliminare 1,1 miliardi) a una dellequattro società in cui verrà articolata la nuova galassia capitolinadell'energia. Con il riassetto - su cui Acea sta lavorando da mesi insieme aDresdner Kleinwort, Lazard e allo studio Chiomenti - verrà superata l'attualestruttura, che comprende anche la joint venture Acea-Electrabel, controllataal 59/41% da Acea e Suez e azionista al 50% di TirrrenoPower, una delle gencouscite dallo spezzatino dell'Enel.> Alla fine dell'operazione - che potrebbe arrivare a maturazione nei primimesi del 2009 - la galassia romana si articolerebbe in una società diproduzione elettrica con dentro AceaElectrabel, a maggioranza francese, una didistribuzione con all'interno Romanagas, a maggioranza Acea, una per iltrading, che si dovrà occupare degli approvvigionamenti di gas, e una per lavendita di energia e gas. Alle ultime due jv verrebbero conferiti gli asset diItalcogim, attualmente controllata al 60-40 da GdF e Camfin, attraverso laholding Energie Investimenti. La maggioranza di queste due società è ancoraaperta e dipende anche dal valore attribuito a Romanagas in sede di closing,previsto per mercoledì, 29 ottobre. Sulla composizione finaledell'azionariato Acea pesano tutte queste incognite, ma è già chiaro che gliassetti finali, con i francesi decisamente rafforzati, si giocherà su untriangolo che legherà il Comune a Suez-Gdf e a Caltagirone.

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Acea, il triangolo di Alemanno

Un corteggiamento lungo, ma infruttuoso. Hera, Iride, Enìa,ci hanno provato in tutti i modi a realizzare con Acea un maxi polo conepicentro romano, che facesse da contraltare a quello lombardo di A2A. Ma allafine sono rimaste al palo di fronte al peso di un azionista sempre piùingombrante: la franco-belga Suez, in via di fusione con Gaz de France. MaFrancesco Gaetano Caltagirone, uno degli azionisti chiave di Acea, con i suoi2-3 miliardi di liquidità in tasca, non considera ancora chiusa la partita. Afine estate aveva investito una piccola quota di quella liquidità per saliredal 3 al 5% di Acea e diventando così il terzo socio della multiutility,davanti a Schroder (4,9%) ma dietro a Suez (8,6%) e al Comune di Roma (51%).Oggi sembra sempre più interessato a diventare l'ago della bilancia se nonaltro per non sentirsi solo nella scomoda stretta fra socio pubblico (Comunedi Roma) e socio francese. La scelta di sostituire Fabiano Fabiani al verticedella multiutility, in anticipo di un anno sulla scadenza del mandato, conGiancarlo Cremonesi, presidente dell'associazione dei costruttori romani, èun omaggio allo spoil system ma indica anche che qualcosa si sta muovendo. Nonsfugge a nessuno, infatti, che c'è bisogno di un assetto istituzionale solidoper affrontare il discorso dell'azionariato e Alemanno non ha voluto aprire ledanze con un board nominato dall'amministrazione Veltroni. E che quindi nonrispondesse a lui.> Gli addetti ai lavori segnalano con un certo interesse la presenza in Aceadi Italcogim, una società controllata al 60& da Gaz de France e al 40% dallaCamfin di Marco Tronchetti Provera. Italcogim, secondo alcune indiscrezioni,potrebbe essere coinvolta nel riassetto societario della multiutility romana,anche se il sindaco Gianni Alemanno finora ha sempre smentito ufficialmenteogni intenzione di scendere sotto il 51% di Acea. In realtà la società suspinta di Fabiani e dell'amministratore delegato Andrea Mangoni, sta trattandoda mesi con i francesi, con contatti ad altissimo livello fino al nuovo capo,Gérard Mestrallet. Obiettivo: cedere loro una quota consistente di Acea (finoal 20%), facendoli affiancare, magari in un secondo tempo, da un altro socioitaliano.> Alemanno - sostenuto dall'ex assessore al Bilancio della Regione LazioAndrea Augello, oggi senatore di An - deve ancora decidere se fermarsi al 40 oal 30%. Ma l'ipotesi di ridare un po' di ossigeno alle casse comunali,afflitte da un debito di 8 miliardi, non gli dispiace.> La chiave di volta del riassetto sta nella fusione Suez-Gaz de France, cheha portato le due società a mettere a fattor comune i propri asset in Italiae ha costretto Suez a disfarsi della belga Distrigaz per motivi di antitrust.Per aggiudicarsi Distrigaz, l'Eni ha offerto in cambio Romanagas (gruppoItalgas), vale a dire la rete di distribuzione del gas nella capitale. Suezdovrebbe conferire Romanagas (valore preliminare 1,1 miliardi) a una dellequattro società in cui verrà articolata la nuova galassia capitolinadell'energia. Con il riassetto - su cui Acea sta lavorando da mesi insieme aDresdner Kleinwort, Lazard e allo studio Chiomenti - verrà superata l'attualestruttura, che comprende anche la joint venture Acea-Electrabel, controllataal 59/41% da Acea e Suez e azionista al 50% di TirrrenoPower, una delle gencouscite dallo spezzatino dell'Enel.> Alla fine dell'operazione - che potrebbe arrivare a maturazione nei primimesi del 2009 - la galassia romana si articolerebbe in una società diproduzione elettrica con dentro AceaElectrabel, a maggioranza francese, una didistribuzione con all'interno Romanagas, a maggioranza Acea, una per iltrading, che si dovrà occupare degli approvvigionamenti di gas, e una per lavendita di energia e gas. Alle ultime due jv verrebbero conferiti gli asset diItalcogim, attualmente controllata al 60-40 da GdF e Camfin, attraverso laholding Energie Investimenti. La maggioranza di queste due società è ancoraaperta e dipende anche dal valore attribuito a Romanagas in sede di closing,previsto per mercoledì, 29 ottobre. Sulla composizione finaledell'azionariato Acea pesano tutte queste incognite, ma è già chiaro che gliassetti finali, con i francesi decisamente rafforzati, si giocherà su untriangolo che legherà il Comune a Suez-Gdf e a Caltagirone.

Nuove tecnologie al servizio del pianeta

Per quanto tempo ancora avremo energia? Dipende da come la utilizziamo. Su questo concetto si fondano le campagne per il risparmio energetico del governatore della California Arnold Schwarzenegger e le "lenzuolate" del ministro Pier Luigi Bersani, le ricerche della Toyota sui veicoli ibridi e il boom delle fonti energetiche rinnovabili. In tutti questi campi, l'innovazione tecnologica ha dato e darà un contributo chiave allo sviluppo sostenibile del pianeta. Le imprese, gli enti locali e le associazioni impegnati nella riduzione dei consumi energetici, fanno ampio uso di mezzi informatici per conseguire i propri obiettivi e monitorare i risultati. Nell'ultimo decennio, l'introduzione di tecnologie digitali ha portato a progressi spettacolari sul fronte dell'efficienza energetica, sia nel campo della produzione elettrica che in quello dei trasporti. La progressiva sostituzione delle vecchie centrali a olio combustibile e a gas con le nuove a ciclo combinato, che producono elettricità insieme a calore, ha portato a un raddoppio dell'efficienza e a un dimezzamento delle emissioni. Lo stesso processo è in corso nell'industria automobilistica, che sforna veicoli sempre più sofisticati, come le auto ibride, in grado di abbassare moltissimo i consumi alternando automaticamente il motore a scoppio con quello elettrico. Ma è nel settore della domotica che l'ICT applicata all'energia ha segnato una vera e propria rivoluzione dei consumi. L'architettura bioclimatica, che si sta affermando soprattutto in Germania, in Francia e nel Regno Unito, ma comincia a far capolino anche in Italia, ha bisogno delle tecnologie informatiche per coordinare i vari sistemi di riscaldamento e raffrescamento. In Italia si consumano circa 185 milioni di tonnellate di idrocarburi all'anno, 10 litri al giorno pro-capite. Questo fabbisogno è coperto per l'85% da importazioni, con una spesa di 11,7 miliardi di euro, che grava sulla nostra bilancia commerciale. Di tutti gli idrocarburi bruciati in Italia, 28 milioni di tonnellate sono da attribuire agli usi residenziali delle famiglie, corrispondenti al 16% del totale. Il riscaldamento a sua volta rappresenta la voce di gran lunga più pesante sui consumi energetici delle famiglie (68%) e costituisce oltre la metà delle spese di gestione per la casa degli italiani. Inoltre, mentre il totale nazionale dei consumi energetici mostra tassi d'incremento minori all'1% annuo, il settore residenziale aumenta i propri consumi del 2%, con una progressiva perdita di efficienza. Per il riscaldamento si bruciano ogni anno circa 14 miliardi di metri cubi di gas, 420mila tonnellate di gasolio, oltre a 2,4 milioni di tonnellate di combustibili solidi, soprattutto legna e un po' di carbone. Così facendo si riversano nell'aria 380.000 tonnellate di sostanze inquinanti, come ossidi di azoto e monossido di carbonio. Dopo il traffico, il riscaldamento è la maggiore causa d'inquinamento delle nostre città. Le caldaie sono responsabili del 20% circa delle emissioni di PM10 in una città come Milano, molto di più nei mesi freddi d'inverno. Oltre alle sostanze propriamente dette inquinanti, con il riscaldamento si riversano nell'atmosfera tonnellate di anidride carbonica (CO2), sostanza che contribuisce all'effetto serra. La combustione di un litro di gasolio produce circa 2,65 kg di CO2. Ciò vuol dire che una casa di 200 metri quadri che consuma 30 litri di gasolio al metroquadro in un anno butta in atmosfera quasi 8 tonnellate di CO2. L'Italia con l'adesione al protocollo di Kyoto si è fissata obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del 6,5% entro il 2012 rispetto ai valori registrati nel 1990. Ma per ora le emissioni italiane di CO2 non accennano a diminuire, al contrario continuano ad aumentare. Gli edifici italiani presentano uno dei maggiori consumi specifici per metro al giorno, a parità di temperatura. Questo significa che il nostro patrimonio residenziale è tra i più inefficienti d'Europa. In pratica, è chiaro che il processo di riscaldamento e raffrescamento non è gestito correttamente. Lo spazio per migliorare, dunque, è molto ampio. Nella casa intelligente l'automazione, le tecnologie per il risparmio energetico e per la comunicazione si sposano per ottimizzare le sinergie tra i sistemi e per ottenere il massimo comfort rispettando l’ambiente. Nella realizzazione dell’edificio bioclimatico si presta particolare attenzione ai materiali impiegati e alla coibentazione. I climatizzatori a pompa di calore - che sfruttano la differenza di temperatura del sottosuolo per scaldare e raffrescare gli ambienti - provvedono sia al riscaldamento invernale sia alla climatizzazione estiva. Il principio di funzionamento della pompa di calore e la gestione autonoma di ogni singola macchina consentono un risparmio energetico del 40-45% rispetto agli impianti tradizionali. Una pompa di calore produce anche l'acqua calda sanitaria a temperatura di utilizzo, risparmiando fino al 50% sui consumi rispetto ad altri sistemi. Se poi si aggiunge un impianto solare e fotovoltaico sul tetto, tutta l'energia necessaria alla vita quotidiana, compresa quella per l'illuminazione e gli elettrodomestici, viene generata sul posto e il sistema diventa completamente autosufficiente. L'abbinamento di questi impianti con dispositivi di controllo e programmazione dà come risultato una casa energeticamente molto efficiente, che si adatta con flessibilità alle esigenze sempre variabili dei suoi abitanti. In questo tipo di edifici l'automazione non viene solo concepita come l'applicazione di una serie di apparecchiature per "motorizzare" porte, tende e illuminazione, ma si cerca di privilegiare il concetto di controllo, di comunicazione e d'integrazione tra i sistemi. La presenza di tecnologie digitali rende la casa facile da gestire e soprattutto aperta alle continue innovazioni. La combinazione di calore terrestre, solare termico ed energia fotovoltaica con i più moderni componenti per facciate e la distribuzione dell'energia all'interno degli edifici consente già ora di fornire l'approvvigionamento energetico necessario a un'abitazione di circa 200 metri quadri semplicemente mediante l'impiego di energie rinnovabili. 8 tonnellate all'anno di CO2 risparmiate.

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26 ottobre 2008

Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività

Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale - scrive Florida nel suo studio - non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania. Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia - conclude - è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta". Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro". "Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo". "Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera - sostiene Florida - non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?

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24 ottobre 2008

Piol: "L'informatica italiana rovinata dalla politica"

C' era una volta la grande informatica italiana, rappresentata dai due colossi Olivetti e Italsiel, progenitrice di Finsiel, che oggi si appresta a passare di mano da Telecom Italia al gruppo Cos dell' imprenditore romano Alberto Tripi: un passaggio importante per un settore ormai sull' orlo della crisi di nervi. Ma qual è il quadro in cui si consuma questa svolta? «Dopo la crisi di Olivetti, purtroppo dell' informatica italiana è rimasto ben poco», commenta Elserino Piol, uno dei pionieri dell' elettronica nostrana e del venture capital nel settore hi-tech, autore di un libro dal titolo emblematico, Il sogno di un' impresa, dedicato alla parabola di Ivrea. «Anzi - aggiunge Piol - si può dire che nell' hardware non sia rimasto proprio niente». Nel software e nei sistemi, invece, sopravvive un esercito di 13-15 mila imprese, soprattutto distributori, integratori e piccole software house. Ma di realtà strutturate, con un numero di addetti sufficiente a fare innovazione in proprio, anche qui resta poco. A parte Finsiel (4 mila addetti), Engineering (3 mila), Elsag (2.800) e Datamat (1.750), tutti gli altri gruppi medio-grandi hanno ceduto il passo alle multinazionali estere, come Ibm, Eds, Sap, Siemens e naturalmente Getronics, che si porta dentro quanto resta di Olivetti. Il 2004, in particolare, è stato un annus horribilis per il settore: da Finmatica, recentemente fallita, a Finmek, passando per Oli.it, le amministrazioni controllate non si contano. Sotto il profilo dell' occupazione, questo significa un' emorragia continua di posti di lavoro. Non a caso l' Italia si colloca al quart' ultimo posto in Europa, con il 3,9%, per numero di addetti del settore «It» sul totale della forza lavoro, contro una media europea del 5,5% e contro il 9% della Svezia, l' 8,5% della Danimarca, il 7% dell' Olanda. Solo Spagna, Portogallo e Grecia vengono dopo di noi. E l' emorragia di posti di lavoro continua: nel 2005, infatti, si va incontro a un taglio del 2% alle spese della pubblica amministrazione, previsto nella Finanziaria, che si rifletterà immediatamente sulla spesa informatica. «L' industria informatica italiana - spiega Piol - è troppo legata alle commesse pubbliche, è rimasta ancorata al vecchio sistema monopolistico, in cui il rapporto con il mondo politico era più importante della competitività. Ma con l' avvento delle gare pubbliche le cose cambiano. Come si spiega la crescita di Accenture, Cap Gemini o Eds, che in pochi anni sono diventate dei colossi? Hanno riempito il vuoto lasciato dalle aziende nostrane». Ora che Finsiel è stata rilevata dal gruppo Cos di Alberto Tripi, che l' ha sottratta all' abbraccio di Accenture, si potrebbe sperare in un' inversione di tendenza... «Certo è sempre meglio che sia rimasta in mano italiana piuttosto che diventare una divisione di Accenture - commenta Piol - ma bisogna vedere quali saranno le linee di sviluppo. Se si tratta semplicemente di darle una risistemata per portarla in Borsa è un conto, se invece si riesce ad attirare un nuovo management e a renderla competitiva, la sfida si fa interessante». Per Piol il caso Finsiel non è un discorso nuovo: era vicepresidente e direttore operativo del gruppo Olivetti quando nel 1992 la società passò dall' Iri alla Stet, invece che fondersi con Olivetti come lui aveva caldeggiato per anni. «Cedendo Finsiel alla Stet - ricorda Piol - vennero risolti i problemi finanziari, ma finì in un gruppo che si occupava di un business del tutto estraneo, dove fu marginalizzata fin dall' inizio, progressivamente subordinata al management di Telecom e fortemente demotivata. Tant' è vero che allora Finsiel costò alla Stet 750 miliardi di lire, mentre ora vale molto meno». La fusione con Olivetti, che allora era nella top ten mondiale dell' informatica (alla fine degli anni' 80 aveva addirittura superato Siemens), avrebbe creato una potenza informatica italiana di primo piano sul panorama globale. «Ma una fusione pubblico-privato di quelle dimensioni avrebbe comportato una gestione del personale e delle risorse molto diversa - sottolinea Piol - e i politici che si sono messi di mezzo lo sapevano. Finsiel non avrebbe più potuto servire per assumere i figli dei ministri o dei sottosegretari». La crisi di Ivrea, però, non dipese solo dalla politica, ma anche dagli assalti di Carlo De Benedetti alla Société Générale de Belgique o alla Mondadori ... «Le difficoltà di Olivetti - specifica Piol - come di tutte le altre aziende del settore in quel periodo, derivarono dalla progressiva riduzione dei margini. Per limitare lo strapotere dell' Ibm, infatti, negli anni Ottanta tutti noi produttori cominciammo a supportare standard alternativi, così il baricentro dell' industria informatica su spostò verso sistemi aperti che costavano di meno. Questo mise molto in difficoltà Ibm ma anche il resto del settore ne soffrì, perché sotto l' ombrello dei margini Ibm (oltre il 50%), in fondo si lavorava comodi. All' improvviso, nell' 89, i margini per i pc scesero anche sotto il 20% e i contraccolpi sui bilanci furono disastrosi. Per questo Olivetti si spostò verso le telecomunicazioni». Ma l' operazione Omnitel e Infostrada, con la successiva scalata a Telecom, finì per spazzare via il resto. «Non sarei però pessimista sul destino dell' informatica italiana - dice Piol -. Nuovi treni per l' innovazione sono pronti a partire: basta salirci sopra. Stm, Pirelli e Finmeccanica stanno lì a dimostrarlo. L' Italia dovrebbe adottare un politica tecnologica verticale, cioè mirata alle principali aree d' innovazione, come ad esempio il Wi-Fi o il WiMax. L' importante è non piegarsi ai desiderata degli incumbent, che hanno interesse a ritardare l' ingresso nel mercato di queste innovazioni dirompenti».

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23 ottobre 2008

L'Orso non gioca a risiko

Il tracollo dei mercati rischia di spazzare via il risiko delle utilities. Solo A2A e Asm Brescia hanno fatto in tempo a convolare a nozze prima della bufera, anche se continuano a vivere da separate in casa. Tutte le altre, da Genova a Bologna, da Roma a Trieste, sono rimaste con il cerino in mano. A Genova, il sindaco Marta Vincenzi ha appena messo un punto finale a un processo di aggregazione che andava avanti da mesi con difficoltà: «Il comune di Genova non ritiene che il tentativo di aggregazione tra Iride, Hera ed Enìa debba protrarre tavoli di lavoro che fino a oggi non hanno prodotto alcun risultato». Il problema, oltre che politico/strategico è finanziario. Il valore dei concambi spesso viene considerato ingiusto dall' una o dall' altra parte, come nel caso di Marta Vincenzi, secondo cui la maggiore capitalizzazione di Hera non giustifica un concambio ritenuto troppo sfavorevole. «Il vero tema - sostiene Vincenzi - è quello del concambio, che non è slegato dal tema della governance e del piano industriale», dato che un rapporto di cambio sfavorevole «segna ricadute sui bilanci comunali». Più chiaro di così. In realtà lo stop del Comune non spaventa più di tanto il presidente dell' utility genovese, Roberto Bazzano, che ha continuato a trattare con i presidenti di Hera, Tomaso Tommasi di Vignano, e di Enìa, Andrea Allodi, ma è un fatto che le scadenze elettorali di Bologna e Reggio Emilia impongono tempi molto stretti. A meno che non si voglia procedere ad alleanze parziali, fra Enìa e Hera o fra Enìa e Iride. Il presidente di Enìa, Andrea Allodi, ha sostenuto che tutte le ipotesi «sono aperte». Ma con questo ritmo si rischia di rimandare il tutto alla primavera inoltrata, dopo l' insediamento dei nuovi sindaci. Con la fusione Gdf-Suez, nel frattempo, Acea è uscita dalla scena del risiko delle utilities, ma è attesa la definizione dell' intesa con il nuovo colosso post fusione. L' ipotesi più gettonata è la creazione di una holding controllata dai romani, che a sua volta deterrebbe tre società: produzione e vendita in mano al gruppo franco-belga, reti in mano ad Acea. Sempre che il neo sindaco di Roma Gianni Alemanno non decida di cavalcare l' onda liberista, cedendo una parte del proprio 51% a GdfSuez, che già controlla l' 8,6% dell' utility, anche considerando il debito di 8 miliardi di euro che grava sulle casse del comune. Sull' onda di questa eventualità, Acea è una delle poche azioni a rimanere a galla a Piazza Affari. Sembra accantonato anche il progetto del grande polo del Nord Est, malgrado gli sforzi del presidente di Ascopiave, Gildo Salton. Ma non per questo regna l' immobilismo. Anzi, proprio la necessità di trovare soluzioni alternative sta portando soprattutto le società più piccole (e vulnerabili) ad attivarsi sul fronte partnership e acquisizioni. Agsm Verona vuole trovare un alleato nella vendita di elettricità e gas, al quale cedere una quota di minoranza di Agsm Energia. Così il presidente Gian Paolo Sardos Albertini ha rilanciato l' idea della partnership, citando tra i candidati i nomi di A2A e della tedesca E.on, ma anche quello «della controllata italiana dei francesi di Gaz de France», Italcogim Energie. A Venezia, invece, oltre alle partnership si pensa anche alla Borsa. L' amministratore delegato di Veritas, Andrea Razzini, l' ha proposta ai soci e il consiglio di amministrazione avrebbe già preso contatti con Ubm (gruppo Unicredit) quale possibile candidato al ruolo di global coordinator dell' Ipo. Il progetto è però a uno stadio embrionale e la crisi dei mercati non aiuta. Spostandosi ancora più a Est, la Iris di Gorizia è corteggiata sia da AcegasAps (Trieste-Padova) che da Amga Udine, ma ha deciso di indire un bando internazionale per il settore energia, che può contare su circa 50 mila clienti. Così tra i due litiganti rischia di vincere qualche colosso nazionale o internazionale, con tempi che, a questo punto, verranno dilatati non poco. La tedesca E.on, in primis, già forte nella vendita in Italia e ora rafforzatasi notevolmente nella produzione, grazie all' acquisto degli asset della ex Endesa Italia. Una soluzione che certamente non piacerà ai vertici di AcegasAps e Amga, che avevano già reso pubbliche le loro offerte, da 100 e 92 milioni.

22 ottobre 2008

Scajola: prima le scorie, poi le centrali

Nucleare «scelta indispensabile», annuncia Silvio Berlusconi nelle dichiarazioni programmatiche al Senato. Nucleare «a tappe forzate», ribadisce Claudio Scajola. E Stefania Prestigiacomo, ministro dell' Ambiente, si associa. Tutti d' accordo, nel nuovo governo, sul rientro del nostro Paese in questo settore. Ma prima di parlare di ritorno al nucleare, c' è un dossier aperto sul tavolo di Scajola, alla pagina «deposito unico nazionale» dei rifiuti radioattivi. La commissione E c' è una commissione - composta da 11 rappresentanti dei ministeri interessati, delle Regioni, dell' Apat e dell' Enea - che dal 27 marzo, su incarico di Pier Luigi Bersani, sta lavorando per identificare un' alternativa a Scanzano Jonico, il sito individuato nel 2003 come il più adatto a un deposito di profondità nelle miniere di salgemma. «Entro giugno - spiega Raffaele Ventresca del ministero dell' Ambiente - daremo i primi risultati». Rilancio o non rilancio, questo sito va comunque trovato, perché le scorie nucleari sono una bomba a orologeria che ticchetta da oltre vent' anni, da quando nell' 87 è stato spento Arturo, a Caorso, l' ultimo reattore della stagione atomica italiana. Sicurezza «zero» Una bomba sparsa sul territorio in circa 150 depositi, grandi e piccoli, in condizioni di sicurezza precarie. Trino, Caorso, Latina e Garigliano, oltre all' impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo e i centri di ricerca ex Enea di Saluggia, Casaccia e Trisaia, sono ancora tutti o in parte da bonificare. Ma altri tipi di rifiuti radioattivi continuano a essere prodotti al ritmo di 500 tonnellate l' anno. Il 90% è di natura medicale, come gli aghi di radio o le sorgenti ospedaliere al cesio e al cobalto, che possono essere facilmente trafugate dai depositi provvisori. Basterebbe abbinarli a un chilo di esplosivo plastico convenzionale, per arrivare a confezionare bombe sporche, capaci di contaminare aree fino a diversi chilometri quadrati. Deposito di superficie Va da sé che tutto questo materiale - dal più radioattivo che ci mette decenni a decadere al più innocuo che resta pericoloso solo per pochi giorni - va concentrato in un solo sito, più facilmente controllabile. «Non sarà un deposito di profondità, come quello immaginato a Scanzano, ma un deposito di superficie, simile all' impianto di Habog che abbiamo visitato a Borssele, in Olanda, per renderci conto della relazione con la popolazione e l' ambiente circostante», precisa Ventresca. Il deposito olandese è inserito in una zona industriale densamente popolata, dove le sue pareti arancioni, coperte di formule di Einstein e Planck, risaltano come un' opera d' arte. Centro di ricerca «L' impianto italiano non sarà un puro e semplice deposito, ma dovrà essere inserito in un centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello», aggiunge Ventresca. Il sito verrà individuato «attraverso un coinvolgimento partecipativo delle comunità locali» e la commissione spera vivamente che una buona comunicazione aiuti a sollecitare delle autocandidature, com' è avvenuto anche in Francia per il centro dell' Aube. Centri di superficie, come quello francese e olandese, ci sono anche in Spagna, a El Cabril, o in Belgio, a Dessel, mentre la Svezia e la Germania hanno optato per depositi di profondità, più complicati da individuare ma «tombali» per l' eternità. Il Regno Unito e la Finlandia, oltre al deposito di superficie, ne stanno costruendo anche uno in profondità.

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Counterculture to cyberculture

Le pagine sono ingiallite, piene di indirizzi e numeri di telefono ormai inutili, infarcite di prodotti caduti in disuso, pervase da un afflato ideale dal sapore antico. Ma il "Whole Earth Catalog" - particolarmente nella sua ultima versione del '71 ("The Last Whole Earth Catalog"), che ha venduto un milione di copie e vinto il National Book Award - potrebbe essere la via più diretta per capire il Web 2.0. Che c'entrano le giacche di renna stile cowboy, i libretti d'istruzioni per allevare api o coltivare marijuana, con le ultime sfide tecnologiche del ventunesimo secolo? Che legame può esistere fra Internet, nata dai laboratori del ministero americano della Difesa, e l'idealismo romantico degli anni Sessanta, profondamente contrario alla modernità e alle sue macchine? Il ponte che unisce l'enciclopedia della controcultura hippy e la moderna rivoluzione cibernetica si chiama Stewart Brand. E' su questa figura chiave del pensiero anarchico e comunitario americano che s'incentra il bellissimo "From Counterculture to Cyberculture" (Chicago University Press) di Fred Turner, direttore del dipartimento di Comunicazione alla Stanford University ed ex giornalista del Boston Globe. Brand e compagni, che negli anni Sessanta avevano sintetizzato lo spirito dei tempi con il loro "Whole Earth Catalog", hanno continuato a tessere la loro rete fra le comuni delle colline a Nord di San Francisco e Silicon Valley fino a ripetere il miracolo nei primi anni Ottanta, con la nascita del Whole Earth 'Lectronic Link (Well), mitico precursore di Internet. Il network elettronico consentiva ai suoi membri di discutere attraverso una forma di messaggistica istantanea tutti gli argomenti che stavano loro più a cuore, dagli sviluppi della tecnologia all'ultimo disco dei Grateful Dead. Facciamo un altro salto di vent'anni ed è facile capire che cosa ne è stato di Well: oggi è il Web 2.0. In questo vasto arco di tempo la figura di Stewart Brand emerge puntualmente al centro degli incroci più interessanti fra utopia e bit, fornendo un contributo decisivo alla visione della tecnologia come uno strumento potenzialmente controculturale. Man mano che i computer diventano più piccoli e flessibili, più diffusi e interconnessi, dal network raccolto attorno al Whole Earth Catalog si sviluppa prima il Whole Earth 'Lectronic Link, poi il Global Business Network, paladino della New Economy, infine la rivista "Wired", Bibbia della comunità open source. E Brand è sempre lì a tirare le fila sulle barricate anti-gerarchiche, impegnato a trasferire gli ideali comunitari dall'utopia sessantottarda alla realtà della comunità peer-to-peer. Non è l'unico, naturalmente. Il matematico Norbert Wiener, il designer Buckminster Fuller, il filosofo Marshall McLuhan gettano le basi teoriche del movimento. E attorno a Brand gravitano altre figure importanti, come il primo direttore di "Wired" Kevin Kelly, lo scrittore Howard Rheingold, la giornalista Esther Dyson. Theodore Roszak, guru della controcultura e dell'ambientalismo americano, diventa un acceso sotenitore della causa degli hacker come simboli del dissenso e dell'antiautoritarismo moderno. Timothy Leary, paladino delle droghe psichedeliche negli anni Sessanta, oggi definisce il pc "l'Lsd degli anni Novanta". John Perry Barlow, paroliere dei Grateful Dead, ha chiamato la comunità virtuale "l'ultimo grido delle comuni di frontiera". Lo stesso Steve Jobs ha creato e promosso Apple presso i suoi fan con l'immagine di un'impresa controculturale. E il motto di Google, "Don't be evil", è un chiaro riferimento agli ideali dei figli dei fiori. Ma il ruolo di Brand è senza dubbio il più centrale, sempre in testa rispetto agli altri per l'intero percorso. E oggi il suo messaggio è sulla bocca di tutti, dalle aule del Congresso ai piani alti delle multinazionali, dagli alberghi di Davos ai testi sacri del management. Lo stesso Turner non è l'unico ad aver esplorato le connessioni fra controcultura e cybercultura. Già un decennio fa il sociologo Mark Dery aveva suggerito nel suo libro "Escape Velocity" che la rivoluzione dei pc poteva essere chiamata anche "Counterculture 2.0". Un'altra versione della stessa storia è stata scritta da John Markoff - giornalista del New York Times famoso per una serie di articoli sulla caccia e la cattura del famoso hacker Kevin Mitnik - in "What the Dormouse Said: How the 60th Counterculture Shaped the Personal Computer" (Viking). E perfino in Italia Enrico Beltramini si è cimentato nell'arte dei paralleli con "Hippie.com" (Vita e Pensiero). Ma l'opera di Turner riesce ad esaurire l'argomento per il rigore straordinario delle argomentazioni e la dovizia di riferimenti e di particolari. Resta da chiedersi, al di là delle origini teoriche, quali sono le conseguenze pratiche di quest'associazione per noi oggi. La prima ricaduta pratica è la velocità. Alla luce di queste motivazioni, risulta molto più comprensibile il ritmo frenetico dell'innovazione nel mondo peer-to-peer. E' chiaro che diventa più facile innovare se alla base c'è una passione utopistica, non solo un generico desiderio di successo. Guidati da un ideale collaborativo, diventa più facile mettere in rete gratuitamente il proprio software. E se alla fine qualcun altro riesce ad arrivare più lontano utilizzando le nostre risorse non ci si sente defraudati. Con alle spalle un network di questo tipo, si fa meno fatica anche superare la perdita delle vecchie sicurezze: l'uomo nuovo uscito dal terremoto della New Economy non si aspetta più una vita tranquilla, da dipendente della stessa corporation dalla culla alla tomba, ma una storia professionale frammentata e flessibile, sempre in movimento, dentro e fuori da progetti e team temporanei, in un processo di constante auto-educazione. Cambiando l'ambiente imprenditoriale, cambia di conseguenza anche il ruolo del governo, cui viene affidato sempre più il ruolo di regolatore in questa ondata di liberalizzazioni. Trasformazioni che conosciamo già, ma lette attraverso la storia di Stewart Brand prendono un sapore diverso, un vago aroma di cannabis...

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21 ottobre 2008

I compensi imbarazzanti dei manager strapagati

Ripartita Wall Street, ripartita l'economia americana, sono ripartiti anche i compensi dei top manager. E i risultati sono imbarazzanti. Cambia la posizione di qualche nome a seconda delle classifiche, ma i numeri sono sempre quelli: tra 141 e 148 milioni di dollari per Reuben Mark di Colgate-Palmolive, 75 milioni per Steve Jobs di Apple, 70 milioni per George David di United Technologies, tra 54 e 60 milioni per Henry Silverman di Cendant, 54 milioni per Sanford Weill di Citigroup (in pensione dallo scorso ottobre), tra 53 e 67 milioni per Richard Fuld di Lehman Brothers e avanti così, con Larry Ellison di Oracle a quota 40 milioni, Richard Kovacevich di Wells Fargo a quota 37 o James Cayne di Bear Stearns a quota 34. Dopo due anni di contrazione dei compensi, nel 2003 la serie A dei top manager americani è tornata a giocare sulla luna, con un aumento dei compensi che tra i meglio pagati - come Reuben Mark, Larry Ellison o Steve Jobs - è arrivato anche a decuplicare la paga del 2002. In generale il balzo è dovuto soprattutto all'incasso delle stock options. Nel caso di Reuben Mark, tanto per fare un esempio, gran parte delle sue entrate dipendono dalle opzioni che gli erano state concesse dieci anni fa: allora valevano 4 milioni e potevano essere incassate solo nel caso di un aumento dell'80% del titolo. Ma in questi dieci anni, sotto la guida di Mark (che siede da vent'anni sul trono dell'impero del dentifricio), il titolo Colgate è aumentato del 286%, più del doppio dell'indice S&P 500. E così Mark le ha incassate. Si tratta di eccezioni, naturalmente: la media dei compensi intascati dai capi delle 500 maggiori aziende americane è aumentata "solo" dell'8%, arrivando alla miserrima cifra di 6,6 milioni (circa 200 volte la paga media di uno dei loro dipendenti). E dimostrando ancora una volta che guidare una grande azienda in Nord America conviene più che in Europa. I compensi medi degli ad delle maggiori aziende europee, infatti, sono ben più bassi: si va da 3,1 milioni in Francia a 2,6 milioni in Svizzera a 2,3 milioni nel Regno Unito, per scendere fino a 1,4 milioni in Olanda e Belgio o 1 milione in Germania. La differenza dipende dal fatto che i consigli d'amministrazione europei tendono a ragionare in termini nazionali, più che globali. Anche quando si tratta di multinazionali che operano su tutti i continenti, la paga dei capi azienda resta comunque legata alle medie correnti nel Paese di riferimento. E considerando che i lavoratori europei guadagnano un terzo di meno dei lavoratori americani, anche le differenze fra i top manager diventano più comprensibili. Altrimenti si rischia di esporsi alla collera dei piccoli azionisti. Com'è successo a Anders Moberg, ex ad di Ikea, che l'anno scorso è stato chiamato a risanare Ahold, la multinazionale olandese colpita da uno dei peggiori scandali societari europei, prima di Parmalat. Lo scorso settembre, Moberg è stato aggredito dai piccoli azionisti furiosi contro gli incentivi che gli erano stati offerti e ha dovuto tagliare la sua paga - destinata a superare i 10 milioni di dollari - della metà. Anche i portafogli delle star europee della categoria sono molto meno gonfi di quelli dei colleghi d'oltre Atlantico: Daniel Vasella, capo di Novartis, ha superato di poco i 12 milioni nel 2003, come Chris Gent di Vodafone. John Browne di Bp ha intascato poco più di 10 milioni, come Igor Landau di Aventis, e Josef Ackermann di Deutsche Bank non è arrivato a 10. Lindsay Owen-Jones di L'Oréal ha superato gli 8 milioni e Jorma Ollila di Nokia si è fermato a quota 7,5. Marcel Ospel di Ubs ha sfiorato quota 6. Tom McKillop di AstraZeneca e Matthew Barrett di Barclays si sono messi in tasca 5,5 milioni. E così avanti, con Peter Brabeck-Letmathe di Nestlé a quota 5,2, Franck Riboud di Danone, Jean-Pierre Garnier di GlaxoSmithKline e Martin Bouygues a 4,9. Come si vede dall'elenco mancano in gran parte i tedeschi, anche perché in Germania non c'è obbligo di rendere pubblici i compensi dei capi azienda. Se ci fosse, è probabile che un manager come Juergen Schrempp di DaimplerChrysler sarebbe entrato nella classifica (Deutsche Bank, invece, ha scelto la trasparenza volontaria). Fra gli italiani, l'ultimo che ha fatto la sua comparsa in questo Gotha è Paolo Fresco, con 4,6 milioni nel 2002. Sia in Nord America che in Europa, nella ristretta cerchia dei meglio pagati si nota un certo affollamento di manager impegnati nei settori meno colpiti dalla crisi: parecchi sono banchieri, qualcuno vende materie prime, altri guidano aziende farmaceutiche, alimentari o produttrici di articoli per la cura personale, altri ancora sono impegnati nell'informatica o nelle tlc. Mancano i capi delle compagnie aeree e delle compagnie automobilistiche, due settori fra i più colpiti. Questo non significa che il compenso dei capi si rifletta necessariamente sulla performance dell'azienda. Larry Ellison, uno dei manager meglio pagati d'America, non ha dato molte soddisfazioni agli azionisti nell'ultimo tirennio: Oracle ha dato un rendimento negativo del 54%, contro un -19% dell'indice S&P 500. Ma tra i manager americani c'è anche chi la paga non la piglia per niente: John Chambers, che ha guidato Cisco Systems per gli ultimi nove anni, dal 2001 ha preso un salario annuale di 1 dollaro e non ha più ricevuto bonus in cash. John Wren, capo del gigante della comunicazione pubblicitaria Omnicom, ha rinunciato a ogni bonus in cash, insieme ad altri top manager della sua azienda, per consentire una maggiore generosità negli incentivi ai dipendenti dei livelli più bassi. Malgrado ciò, Wren ha guadagnato 875.000 dollari e non rischia di finire sotto i ponti. Negli ultimi tre anni, la sua azienda ha messo a segno un utile netto medio del 28%. Tra gli esempi positivi, uno dei capi azienda che ha creato più ricchezza per i suoi azionisti senza pretendere compensi stratosferici è Warren Buffett, che si è accontentato di un compenso medio di 1 milione negli ultimi tre anni e ha prodotto un rendimento del 19% per gli azionisti di Berkshire Hathaway. Steve Ballmer, di Microsoft, ha prodotto un rendimento del 27% contro una paga di 2,3 milioni. E Meg Whitman - prima e unica donna citata nelle classifiche del valore - ha fatto anche meglio: per un compenso di 3,4 milioni ha offerto un rendimento del 292% ai fortunati azionisti di eBay. Jeff Bezos, poi, svetta per la sua modestia. Da quando ha portato Amazon.com a Wall Street nel '97, ha prodotto in media un rendimento annuale del 58%, pur prendendo una paga da fame: 82.000 dollari. Se fosse ancora in lista, varrebbe la pena di calcolare su questi stessi parametri la performance di Paolo Fresco nei confronti degli azionisti Fiat.

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17 ottobre 2008

Blog aziendali, dal marketing al knowledge management

Quanto può contare un blog a supporto delle strategie di comunicazione e delle campagne di marketing è facilmente immaginabile. Ormai quasi tutte le grandi aziende ne fanno ampio uso per arricchire i propri rapporti con il pubblico. Ma l'uso dei blog come strumenti di knowledge management interni alle organizzazioni è ancora poco conosciuto, pur essendo di pari se non maggiore importanza. Moltissime corporation, da Sun Microsystems a Ibm, da Gm a Hewlett Packard, hanno un sistema di blog accessibili solo dall'interno, protetti da un firewall, per condividere i progetti con i colleghi. Altre, come GE, utilizzano addirittura blog aperti anche per gli scambi aziendali. Su Edison's Desk, il blog del dipartimento di ricerca e sviluppo di GE, i ricercatori mettono in rete di tutto, dai nuovi progetti in materia di energie rinnovabili alle promesse dei materiali autopulenti. Si tratta di una rivoluzione, non solo sul fronte del concetto di proprietà intellettuale, ma anche sul fronte della governance in senso lato. Vedi il caso di Mark Jen, diventato una cause célèbre l'anno scorso, quando fu licenziato da Google dopo aver riferito nel suo blog qualche dettaglio di troppo sulla sua vita aziendale. Già oggi un caso simile sarebbe impensabile. Ma viene da chiedersi: perché i blogs stanno soppiantando le intranet aziendali? E come possono contribuire alla gestione della conoscenza interna? La risposta alla prima domanda è banale: sono facili da avviare, molto convenienti nella gestione quotidiana e inducono al dialogo continuo e informale. Tutta un'altra cosa rispetto alla rigidezza paludata delle intranet aziendali. La seconda risposta necessita di una piccola introduzione: a cosa serve il cosiddetto knowledge management? Serve a preservare l'expertise dell'organizzazione anche quando i depositari di queste conoscenze se ne vanno in pensione (l'attuale curva demografica rappresenta una grave preoccupazione per le multinazionali del mondo industrializzato) e a mettere in comune queste risorse per addestrare le nuove leve. Serve a fornire informazioni che esulano dal loro campo specifico d'attività a tutti i dipendenti. Serve ad evitare di perdere tempo per reinventare soluzioni a problemi già risolti. Per ottenere questo risultato bisogna superare una serie di barriere. La prima è indurre gli esperti a mettere in comune la propria expertise, a meno che la comunicazione non faccia già direttamente parte del loro mestiere. Se è vero che tutto il valore di un lavoratore sta in quello che sa (e che gli altri non sanno), perché dovrebbe improvvisamente metterlo in comune? Il rischio di perdere parte del proprio valore rende la maggior parte degli esperti riluttanti ad aprire i propri forzieri, a maggior ragione se si tratta di conoscenze tecniche strategiche per l'azienda. Di conseguenza, il primo passo sulla strada del knowledge management parte sempre da un cambiamento complessivo di prospettiva nella cultura aziendale. Il passaggio dalla mentalità da "cane da guardia" del proprio sapere alla cultura della condivisione, comporta un incoraggiamento esplicito da parte dell'azienda a mettere in comune le proprie conoscenze. Un'altra barriera è la diffidenza degli altri a riconoscere un oscuro collega come esperto di qualcosa. La terza barriera è individuare la collocazione dei flussi del sapere all'interno dell'organizzazione e intercettarli. Per superare questi tre ostacoli, di non poco conto, è molto più adatto un sistema flessibile, informale e facile da aggiornare tutti i giorni piuttosto che un database rigido e suddiviso per argomenti, come quelli che sono stati usati fino ad oggi. Ecco la risposta alla seconda domanda. I blogs stanno trasformando in maniera radicale e dando sostanza a tutti i sistemi di knowledge management del mondo. Il nuovo software consente agli esperti di integrare perfettamente questa attività nel loro ambiente naturale di lavoro, come se fosse un nuovo browser, annotando in tempo reale i siti da segnalare come parte della loro area di expertise. Supera i formalismi e le gerarchie dei sistemi tradizionali. Polverizza le normali classificazioni per categorie, introducendo una maggiore flessibilità nella ricerca delle informazioni, reperibili anche direttamente attraverso i nomi degli esperti, una volta riconosciuti come tali. In questo modo offre alle organizzazioni la possibilità di attingere non solo a un banale archivio di documenti già creati, ma direttamente alla conoscenza dei propri dipendenti - passati e presenti - rinnovata in tempo reale dagli scambi e dalle discussioni interne. L'ultimo passo, che già si vede spuntare in qualche blog aziendale fra i più avanzati, è la certificazione del valore delle informazioni fornite, attraverso il "voto" degli utenti o addirittura attraverso un processo di "peer review" nel caso di contenuti scientifici. Un buon indirizzo per approfondire l'argomento o semplicemente dare un'occhiata a qualche blog aziendale, è http://www.eu.socialtext.net/bizblogs/index.cgi, la directory più completa dei blog delle aziende Fortune 500. La lista è partita da una polemica avviata da Chris Anderson, direttore di Wired e autore di "The Long Tail" (http://www.thelongtail.com), sulla scarsa attenzione delle grandi multinazionali al femonemo dei blog: dalla lista risulta che solo l'8% di queste aziende utilizzano ad oggi dei blog aziendali aperti al pubblico. Un mese fa era il 4%.

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15 ottobre 2008

La strategia del dynamic pricing

Quando Michael Eisner prese le redini della Walt Disney nell'84, una delle sue prime decisioni fu di raddoppiare i prezzi dei biglietti d'ingresso ai parchi, nella convinzione che il pubblico sia disposto a pagare molto di più quando la qualità del prodotto è nettamente superiore a quella dei concorrenti. Eisner vinse la sua scommessa e mise a segno profitti miliardari, rilanciando così un'azienda che sembrava sull'orlo del collasso. Con lo stesso sistema, sempre negli anni Ottanta, Paul Girolami trasformò Glaxo in una potenza mondiale, lanciando Zantac a un prezzo doppio rispetto al rivale Tagamet della SmithKline e facendone il farmaco anti-ulcera più venduto del decennio. Altri tempi, quando il magico potere di attrazione della qualità superiore si pagava in dollaroni sonanti. Oggi non è più così. La pirateria di tutti i generi, il commercio elettronico, la demonizzazione delle multinazionali e negli ultimi due anni anche gli eccessi di produzione hanno enormemente compresso la possibilità delle aziende di mettere in conto grandi premi di qualità rispetto ai prodotti rivali meno ambiti. Una Coca non costa ormai più di una Pepsi e nessuna delle due oggi costa più di vent'anni fa. I prezzi dei CD sono sulla via del declino, colpiti al cuore dalla pirateria informatica. I DVD seguiranno. I chimici di vari continenti stanno imparando a copiare i principi attivi coperti da brevetto per produrre farmaci illegali (vedi il Viagra fai-da-te del farmacista Roberto Tafuri di Santa Maria Capua Vetere). E qualsiasi software comprato in un negozio del Terzo mondo è quasi certamente una copia contraffatta dell'originale, venduta a prezzi stracciati. Per di più nell'era dell'informazione i concorrenti nascono come funghi dalla sera alla mattina: basta andare a vedere gli effetti del commercio elettronico sulle librerie tradizionali, sugli agenti di viaggio o sulle assicurazioni per farsi un'idea. Perfino le regole che premiavano i monopoli sono rivoluzionate: da eBay a Monster.com, anche i piccoli annunci di compravendita o di lavoro che rendevano particolarmente ambiti i giornali capozona, non sono più quelli di una volta. E la marea montante delle informazioni, che consente ai consumatori di scoprire rapidamente quali sono le offerte più vantaggiose disponibili sulla piazza, sta facendo il resto. Tempi duri, insomma, per chi si occupa di decidere quanto far pagare alla gente un certo prodotto. Gli errori non sono più consentiti e le scelte arbitrarie rischiano di aprire voragini devastanti nei bilanci aziendali. Non stupisce, dunque, che la strategia dei prezzi sia diventata uno dei temi in cima all'ordine del giorno delle Business School di tutto il mondo. Shantanu Dutta, docente di marketing alla London Business School e uno dei guru più seguiti in questa trascurata disciplina, ha appena lanciato un corso tutto incentrato sulle tecniche da applicare nella difficilissima ricerca del valore "ottimale" da attribuire a un prodotto. E grazie agli sforzi di una schiera di accademici, consulenti e tecnomani, i più sofisticati metodi per decidere se il prezzo è giusto stanno uscendo dall'esclusivo club delle linee aeree e dell'industria turistica per dilagare anche negli altri settori. Ma le ricerche di Dutta confermano che spesso le decisioni sui prezzi sono ancora frammentarie, condizionate da una disordinata massa di input provenienti dai compartimenti aziendali più diversi, dal marketing alle vendite, dalla produzione alla contabilità. Per non parlare di partner esterni come i distributori, i grossisti o i dettaglianti. Bob Phillips, un altro esperto in materia molto seguito, attualmente in forza alla Stanford Business School, conferma: "Non è raro scoprire che manca all'interno di aziende anche molto articolate una figura specificamente incaricata di decidere qual'è il prezzo giusto per ogni prodotto". Phillips è il fondatore di Talus, una software house che ha svolto un ruolo pionieristico nell'ambito del dynamic pricing, la metodologia più seguita nell'ambito del commercio elettronico per determinare il prezzo giusto. Si tratta di un approccio estremamente flessibile, che tende a usare tecniche stile asta per captare le indicazioni del mercato a seconda delle diverse circostanze e a fare continui aggiustamenti in base alle fluttuazioni dei dati di partenza. Scott McNealy, a.d. di Sun Microsystems, è il più noto fautore del dynamic pricing, su cui scrisse uno storico saggio sulla Harvard Business Review nel 2001, in cui decretò la morte del prezzo di listino. Ora è ben vero che questo tipo di tecniche hanno largamente attecchito sia in uscita che in entrata, con l'utilizzo sia di aste elettroniche per la determinazione dei prezzi al dettaglio che di gare d'appalto elettroniche tra i fornitori per scegliere il migliore offerente, ma in realtà il listino è ancora vivo e vegeto. Si basa però sempre più su input dinamici e su software molto sofisticati, che in questi anni di vacche magre per l'hi-tech sono stati fra i pochi a mettere a segno tassi di crescita a due cifre. Per risolvere i loro dilemmi in materia di prezzi, molte aziende si sono procurate uno dei diversi software in commercio che inghiottono milioni di dati su vendite passate, prezzi attuali, inventari e condizioni di mercato, per poi buttar fuori sofisticate ipotesi sull'equilibrio ideale per la massimizzazione dei profitti in ogni linea di prodotto e categoria di clienti. La catena di negozi di abbigliamento giovanile Gap usa il software di Profitlogic, DHL preferisce Zilliant e Ford è cliente di Manugistics, il gigante delle soluzioni per il business in cui nel 2000 è confluita anche Talus. Resta il fatto che un software non è certo la panacea per risolvere il problema delle scelte sui prezzi. "Quando la gente pensa al dynamic pricing - commenta Phillips - immagina asettici schermi di computer e liste di numeri che cambiano ogni dieci minuti. In realtà, le applicazioni più efficaci di questo concetto si decidono a livello più alto, in dibattiti interni alle aziende di ben più vasto respiro". Anche utilizzando un software, infatti, sono sempre gli uomini a decidere. La maturazione dei manager conta molto di più dell'evoluzione delle macchine.

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14 ottobre 2008

Paul Krugman

“L’Italia ha bisogno di uno stimolo forte, come del resto l’Europa intera. Tagliare le tasse è una via rischiosa, ma in assenza di una politica monetaria espansionistica c’è poco altro da fare per dare un colpo di gas alla crescita”. Paul Krugman, professore di Economia a Princeton e commentatore politico sul New York Times, non è certo un appassionato di deficit di bilancio. Per stimolare l’economia italiana ed europea partirebbe da una politica monetaria diversa da quella applicata fino ad oggi dalla Banca centrale europea.
Tagliare i tassi, quindi. Non le pare un po’ tardi?
“In effetti il treno della ripresa è passato da un bel po’, ma l’Europa non ci è ancora montata sopra. La crisi più nera è superata, ma la crescita non ingrana. Perché dunque insistere con una politica monetaria che chiaramente non funziona? Sembra quasi che la crescita economica europea non interessi ai banchieri di Francoforte”.
In effetti il loro compito si limita a garantire la stabilità dei prezzi…
“Ma com’è possibile impostare una politica monetaria solo sulla difesa dall’inflazione? Se la minaccia viene da una direzione diversa che cosa si fa, si guarda da un’altra parte?”
C’è sempre la politica fiscale…
“Anche su quella la libertà di manovra è molto limitata dal Patto di stabilità, concentrato a regolare il deficit su base annuale, che tutto sommato conta poco. Sarebbe molto più sensato prendere in considerazione il peso complessivo del debito e limitare quello, o tenere sotto controllo il deficit dando un lasso di tempo più lungo di un anno per rientrare. Da quando sono entrate in vigore, le restrizioni imposte alla politica monetaria e alla politica fiscale europea hanno sicuramente aggravato la crisi, anziché alleviarla”.
Quindi via con i tagli alle tasse?
“E’ un buon sistema per rimettere in moto la domanda, ma va usato con giudizio, altrimenti si rischia di accumulare troppo debito”.
Preferisce altre misure di stimolo, come l’aumento della spesa pubblica?
“Fra le due possibilità nel caso italiano preferirei senz’altro tagliare le tasse, che da voi sono molto alte. I tagli fiscali non possono sostituire del tutto una politica monetaria espansiva, ma sono la misura che più le si avvicina. La spesa pubblica, invece, andrebbe semmai alleggerita ulteriormente, riformando il sistema pensionistico, che è troppo pesante”.
C’è già stato un tentativo in questo senso…
“Resta un sistema eccessivo, che incide troppo sul Pil. Non bisogna dimenticare che la popolazione europea – e in particolare quella italiana – sta invecchiando molto più rapidamente della popolazione americana. In queste condizioni un sistema pensionistico come il vostro non è più sostenibile. Non si può caricare sulle spalle dei giovani un peso di queste dimensioni e poi pretendere anche che si mettano a correre per far crescere l’economia”.
Quindi riforme strutturali…
“Sì, le riforme strutturali sono il segreto dei pochi Paesi europei, come il Regno Unito o la Spagna, che sono riusciti a mantenere un buon ritmo di espansione anche negli anni più difficili. La Germania invece è ferma, perché non ha messo a segno le riforme più urgenti, come quella del mercato del lavoro”.
E’ un problema anche italiano…
“Certo. Se si vuole stimolare la competitività dell’Italia bisognerebbe intervenire anche sul mercato del lavoro”.
In che modo?
“Bisogna essere chiari su un punto: la correlazione fra domanda e offerta vale anche per il mercato del lavoro. Se il governo riuscisse a far scendere i costi delle nuove assunzioni, le aziende assumerebbero di più e la disoccupazione scenderebbe”.
Quindi maggiore flessibilità?
“Maggiore flessibilità e maggiori incentivi alla mobilità. Assumere e cambiare lavoro deve diventare più facile, più naturale. Anche la contrattazione sui salari dovrebbe essere più flessibile. Queste sono le ragioni per cui negli Stati Uniti si creano più posti di lavoro che in Europa”.
Ma così non si rischia d’importare in Europa anche i problemi di povertà che lei tanto critica nel suo Paese?
“La disoccupazione è il male maggiore. Le disuguaglianze sono il male minore. Prima bisogna combattere la disoccupazione, poi le disuguaglianze, applicando misure che non interferiscano troppo con il mercato del lavoro. Quando i sussidi sono talmente alti da disincentivare la gente a trovarsi un lavoro, come in Germania, le ricadute sono devastanti”.

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13 ottobre 2008

Pubblicità in fuga dal piccolo schermo?

Il programma s'interrompe, parte lo spot pubblicitario. Bidop. Bidop. Bidop. Questo è il rumore di un videoregistratore digitale quando salta uno spot: per l'industria televisiva, è un rumore che fa accapponare la pelle. Più che un segno di pacifico nomadismo, assomiglia al grido di guerra dei nuovi barbari. Le tecnologie digitali, già temutissime rivali, non si limitano più a erodere l'audience televisiva dirottando il pubblico verso nuovi media, ma passano ormai ad attaccare il cuore stesso del business: la pubblicità. Le implicazioni del salto dello spot sono devastanti: la percezione dell'inutilità degli annunci televisivi sta già avendo le prime ricadute sulle attribuzioni dei budget pubblicitari. E quando questa perdita di efficacia comincerà a essere documentata, l'effetto domino potrebbe essere repentino. In un settore basato su costi fissi come quello televisivo, anche un piccolo calo degli introiti pubblicitari può causare notevoli danni ai profitti, innescando un circolo vizioso che passa per il taglio al budget dei programmi e finisce nell'ulteriore perdita di audience. TiVo e compagni potrebbero diventare la killer application (nel senso letterale del termine) che farà pendere la bilancia dai media tradizionali, finanziati e controllati dai pubblicitari, verso i nuovi media, finanziati e controllati dai consumatori. Per ora, i videorecorder digitali che consentono il salto dello spot (oltre il 70% dei loro possessori li usano così) possono vantare una penetrazione del 10% negli Usa e del 15% in Giappone, mentre in Europa sono su percentuali ancora molto modeste. Ma i ritmi di crescita stanno accelerando. E cominciano a uscire i primi studi che mettono seriamente in dubbio l'efficacia della pubblicità televisiva, in particolare per i marchi più maturi dei beni di largo consumo. "Negli ultimi cinquant'anni, le emittenti hanno ricavato una sorta di tassa fissa dalle aziende produttrici di beni di largo consumo. Ma ho l'impressione che siamo entrati in una nuova fase, in cui queste aziende si stanno accorgendo che gli spot televisivi non funzionano più", spiega Andrew Shore, analista di Deutsche Bank e autore dello studio più approfondito sul rendimento della pubblicità televisiva per i marchi maturi. "Le spese di questo tipo - secondo Shore - sono la prossima voce destinata a cadere sotto la scure delle grandi multinazionali". Non stiamo parlando di noccioline: dei 500 miliardi di dollari spesi quest'anno nel mondo in pubblicità, circa il 40% finirà in spot televisivi. Ma per i colossi americani dei beni di largo consumo la "tassa alle tv" arriva al 60% di tutte le spese pubblicitarie, cioè circa 12 miliardi l'anno scorso. E secondo lo studio di Shore, gran parte di questi soldi è stata spesa a vuoto. Dopo aver esaminato la ricaduta degli investimenti pubblicitari televisivi sull'aumento dei volumi e degli utili nei principali 23 marchi dei prodotti di largo consumo lungo un arco di tre anni, Shore sostiene infatti che quegli spot hanno prodotto un ritorno positivo solo nel 18% dei casi sul breve termine e nel 45% dei casi sul lungo termine. Nella migliore delle ipotesi, quindi, meno della metà di quei soldi valeva la pena di essere spesa. Un'affermazione ardita, che non tutti condividono. Secondo Robert Heath, docente di marketing all'università di Bath, è riduttivo calcolare le ricadute della pubblicità televisiva in base al puro e semplice ritorno sull'investimento: "Anche quando sono deliberatamente ignorati, i messaggi pubblicitari televisivi vengono comunque assorbiti a livello inconscio. E siccome la memoria implicita dura molto più a lungo della memoria esplicita, le immagini che associamo a un marchio, una volta imparate non si dimenticano più". Ma il tentativo di Shore di calcolare in maniera più precisa le ricadute degli investimenti pubblicitari in tv suscita il plauso di molte aziende. Jim Stengel, capo del marketing di Procter & Gamble (principale inserzionista Usa con 2,8 miliardi spesi in pubblicità l'anno scorso), tuona: "Muoviamo 500 miliardi di dollari all'anno con meno disciplina e meno dati di quanti ne abbiamo in mano per decidere se spendere centomila dollari in altri settori". P&G è l'unica casa produttrice di beni di largo consumo che ha cominciato recentemente a usare dei modelli basati sulle vendite per stimare il ritorno sugli investimenti nelle campagne pubblicitarie e anche dai suoi calcoli emergono forti dubbi sull'efficacia degli spot televisivi tradizionali. Già solo l'avvento della tv via cavo, con la conseguente frammentazione dell'audience (vent'anni fa le "big three" Abc, Nbc e Cbs avevano l'80% dell'audience, oggi il 40%) sta rendendo la pubblicità televisiva obsoleta. Figurarsi l'arrivo dei videoregistratori digitali. Ma se è vero che gli spot tradizionali non funzionano più, quali sono le alternative? Per trovare altri canali bisogna fare i conti con la proliferazione dei media. I ragazzini americani passano ormai oltre 7 ore alla settimana alla consolle dei videogiochi, i quattro quinti delle famiglie hanno un allacciamento a Internet, di cui un quarto a banda larga (sarà la metà nel 2008) e un altro quarto ad alta velocità. Ne approfittano le pubblicità interattive, in cui si può rispondere a determinati segnali nei programmi tv attraverso il telecomando, un telefonino o Internet. Si usano gli sms per far partire campagne di marketing virale. Si mettono provocazioni in rete con metodi da guerilla marketing. Chuck Fruit, capo del marketing di Coca-Cola, ha recentemente dichiarato l'intenzione di abbandonare la tv per portare le bollicine fra i giovani con il cinema, la musica, i videogiochi, attraverso il product placement. Nel 2004 la spesa di Coca-Cola in pubblicità televisiva è scesa del 60%. Nel frattempo, il gigante di Atlanta ha aperto delle aree chiamate Coke Red Lounge nei centri commerciali, dove si può sentire musica o vedere un film e dove i giovani possono rilassarsi con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Lo stesso ha fatto anche la Campbell, aprendo una catena di Soup Sanctuaries, dove offre una minestra rigenerante ai forzati dello shopping. La promozione attraverso esperienze positive s'inserisce perfettamente nel tentativo di vendere uno stile di vita più che un prodotto. Aziende come Estée Lauder o Starbucks si basano su questa concezione già da anni: sono molto parche nelle spese pubblicitarie e fanno piuttosto assegnamento sull'esperienza positiva dei clienti e sul loro passaparola. L'anno scorso Amazon ha bloccato una campagna televisiva giudicata inefficace e da allora si basa su promozioni dirette o su incentivi come la spedizione gratuita per attirare clienti. Di qui a soppiantare la tv, naturalmente, c'è tantissima strada da fare. Ma la fuga dal piccolo schermo è già cominciata. Bidop.

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