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24 settembre 2007

Aem-Edison: "Riaccendiamo i reattori"

Uno studio di fattibilità per rilanciare il nucleare in Italia. Una base tecnico-scientifica, da cui partire qualora il Paese decidesse di riaprire il discorso sull' atomo. Edison e Aem Milano hanno cominciato a lavorarci già da un po' , insieme con i cinque atenei milanesi e la Regione Lombardia. «Non vogliamo scavalcare la politica», precisa Giuliano Zuccoli, presidente di Edison e numero uno della nuova maxi-utility del Nord che unisce Aem con Asm Brescia. E spiega: «Vogliamo solo dare un contributo alla battaglia contro le emissioni nocive degli idrocarburi e contro il caro-energia, che attanaglia il sistema industriale italiano. Siamo convinti che l' atomo sia la via più realistica, al momento attuale, per alleviare entrambi i problemi». In pratica, si tratta di rispondere a una serie di quesiti ingegneristici, geologici e finanziari, per offrire una possibile soluzione sulla scelta degli impianti, dei siti e dei costi che andrebbero affrontati nell' eventuale ricostituzione di un sistema nucleare italiano. Un compito di non poco momento, ma essenziale per gettare le basi di un ragionamento obiettivo, che potrebbe aiutare la politica a superare le paure scatenate dall' incidente di Chernobyl e sfociate nel referendum anti-atomo dell' 87. «Per una volta, lasciamo parlare gli ingegneri», invita Zuccoli. Ma Edison - in cui Aem è partner dei francesi di Edf, grandi esperti di nucleare - non ha alcuna intenzione di riprendere il discorso da sola: «Ci vuole un consorzio di operatori per avviare questo progetto seriamente - fa notare Zuccoli - ed è quello che stiamo cercando di costituire». Dal punto di vista dei costi, ma anche sotto il profilo politico, la scelta del consorzio è inevitabile. «Puntiamo a seguire il modello finlandese - ipotizza Zuccoli - dove si sta costruendo, con tecnologia francese, la prima centrale nucleare europea di nuova generazione, proprio con l' obiettivo di abbattere le emissioni nocive». L' esperienza finlandese parte dalla fondazione di una società senza scopo di lucro cui partecipano 60 imprese della domanda e dell' offerta, impegnandosi a prelevare tutta l' energia prodotta dal nuovo impianto di Olkiluoto con dei contratti di lungo termine. Questo accordo ha annullato il rischio di mercato dell' operazione, consentendo di ottenere dalle banche un finanziamento a tasso molto favorevole. Così, malgrado il costo alto dell' impianto (stimato in quattro miliardi), si abbatte di molto il prezzo finale dell' energia: a Olkiluoto il megawattora costerà circa 30 euro, contro i 40-42 stimati da Edf per il nuovo reattore in progetto a Flamanville, in Normandia, e contro un prezzo medio di 75 euro sulla Borsa elettrica italiana. «Naturalmente, nello studio di fattibilità terremo conto delle strutture che ci sono già - ragiona Zuccoli - e anche del know-how che si è costruito nelle zone dei primi quattro reattori italiani di Trino Vercellese, Caorso, Latina e Garigliano, non ancora smantellati». Ma il punto dolente è un altro: «In Italia non esiste un sito nazionale di stoccaggio delle scorie radioattive e questo è un problema che va risolto, con un esame geologico approfondito della penisola per individuare la posizione più adatta». Lo studio di fattibilità si occuperà anche di questo, malgrado le analisi geologiche già portate a termine, che hanno indicato come sito ideale quello di Scanzano Jonico, poi abbandonato sull' onda delle resistenze locali. «Abbiamo ben presenti le forti resistenze a cui andremo incontro - ammette Zuccoli - ma non per questo siamo disposti a mettere la testa nella sabbia: che cosa sarà dell' Italia fra dieci anni, senza il nucleare? Avremo più inquinamento e più incertezze nell' approvvigionamento di energia rispetto ai nostri partner europei. Per non parlare dei prezzi del kilowattora, che resteranno altissimi. Le fonti rinnovabili sono un bel sogno, ma sono ancora troppo poco sviluppate per risolvere questi problemi in tempi brevi». Basterà uno studio, per dare le risposte ai resistenti?

21 settembre 2007

Michael Hoffman

Non sempre l' etica negli affari si può imporre con delle leggi, per quanto stringenti. Situazioni come quella dei giocattoli cinesi di Mattel, del latte artificiale Nestlé per i bambini africani o delle protesi Dow Corning al silicone sono talmente delicate da gestire che le regole scritte spesso non aiutano. «In molti casi le peggiori decisioni del management s' inseriscono in un' area grigia e a prima vista possono sembrare perfettamente legittime: solo in seguito si scopre che invece hanno causato gravi danni». Per questo Michael Hoffman, guru bostoniano dell' etica aziendale, è convinto che un Ethics Officer, più sensibile alle sottili distinzioni fra giusto e sbagliato, dovrebbe essere chiamato automaticamente a partecipare alle decisioni dei vertici aziendali.
Come si costruisce una cultura etica che impedisca disastri come quello capitato alla Mattel o alla Dow Corning?
«Ci dev' essere una rete capillare di controlli interni, con ispettori che visitino gli impianti anche di sorpresa, senza alcun preavviso, per verificare che i prodotti siano appropriati. I controlli devono essere estesi a tutta la produzione, anche all' estero. E questa è la parte più difficile, in particolare quando si ha a che fare con Paesi complicati come la Cina. Ma ci vogliono soprattutto delle persone che tirino le fila di questa rete e abbiano la capacità d' interfacciarsi sia con la produzione che con i decisori, con chi ha il potere di assumere e licenziare il top management».
Quindi con il consiglio d' amministrazione...
«Esattamente. E' ormai una quindicina d' anni che le corporation americane hanno creato la figura del Chief Ethics Officer (EO), una guida strategica e operativa che deve vigilare sulla conformità dell' operato dell' azienda alle buone regole di condotta etica. Ma in generale l' EO fa parte del management e viene ascoltato solo raramente dal consiglio d' amministrazione. Questo crea un chiaro conflitto d' interesse: da un lato l' EO non ha l' autorità sufficiente per imporsi sul top management, dall' altro lato è molto difficile per lui giudicare e denunciare la condotta morale di chi, come l' amministratore delegato, ha il potere di assumerlo e licenziarlo. Ecco perché io propongo che l' EO sia messo in relazione diretta con il consiglio, a cui dovrebbe poter riportare direttamente, quasi come un revisore dei conti».
Ma per questo non ci sono già le normative anti-frode come la Sarbanes-Oxley?
«Le leggi di questo tipo sono sempre utili. Più ancora della Sarbanes-Oxley, che si rivolge solo alle società quotate, sono state utili le Federal Sentencing Guidelines for Organizations, che hanno imposto una serie di regole contro le truffe finanziarie, le molestie sessuali, i prodotti pericolosi. Le aziende non sono costrette a seguirle, ma in pratica lo fanno perché se succede un guaio il giudice ne tiene conto. Se le FSGO vengono applicate a puntino, in caso di denuncia la magistratura tende a perseguire i singoli manager, ma non la società».
Dunque le regole sono importanti...
«Importanti ma non decisive. Non dimentichiamo che Enron, ad esempio, aveva un codice etico lungo 72 pagine. "Scripta manent", dicono. Ma in questo caso non è servito a nulla. Non sono determinanti le dichiarazioni scritte, ma le persone. La cultura dell' etica deve partire dai valori, non dagli obblighi».
Il problema è che i manager in generale non sono concentrati sull' etica ma sul business.
«E' uno sbaglio, perché l' etica porta business. Compriamo più volentieri i prodotti di una società che tratta bene i suoi dipendenti, che non sporca l' ambiente, che non dà in giro bustarelle...».
L' etica nel business può diventare uno strumento di marketing?
«Spero qualcosa di più, ma anche. E' importante però che le belle cose propagandate nelle pubblicità siano vere al cento per cento, altrimenti rischiano di diventare controproducenti».

14 settembre 2007

Compagnie petrolifere a corto di uomini

Ma il petrolio non era agli sgoccioli? Si fa per dire: le riserve conosciute dureranno almeno altri quarant' anni e quelle sconosciute chissà... Sia come sia, l' industria petrolifera con annessi e connessi prospera ormai da tre-quattro anni, con le quotazioni del greggio messe al bello stabile e margini sempre più appetitosi. Gli investimenti per cercare oro nero e altri idrocarburi - dagli scisti bituminosi al gas naturale - oltre i confini del possibile, nei territori più freddi e nei mari più profondi, stanno diventando remunerativi e il boom di esplorazione e produzione cresce di giorno in giorno. Tutta la filiera ne sta beneficiando, dai servizi di mappatura e di progettazione agli studi geologici per gli scavi, dai tubi per il trasporto ai servizi ambientali, fino alla cantieristica e alla raffinazione. Unico limite: le risorse umane. «Ci servono specialisti ma fatichiamo a trovarli: il mercato del lavoro è talmente tirato che ormai i grandi operatori sono costretti a richiamare gli esperti più anziani dalla pensione», si lamenta Dario Scaffardi, direttore generale di Saras. E in tutto il settore si sente la stessa musica. «Quella che manca di più è la fascia mediana, già abbastanza esperta da assumere responsabilità strategiche ma non ancora a livello di top management», spiega Andrea Magnabosco, uno dei pochi headhunter italiani specializzati nel settore, responsabile della divisione engineering di Hays. Il problema parte da un dato di fondo: l' industria petrolifera esce da oltre un decennio di vacche magre, con il prezzo del greggio schiacciato sotto i trenta dollari al barile e a tratti addirittura sotto i dieci, da fine anni Ottanta a fine anni Novanta. «In questo lasso di tempo - spiega Magnabosco - c' è stato un blocco totale. Nessuno assumeva, nessuno formava nuovi quadri intermedi, il settore era paralizzato». Lo sfruttamento degli idrocarburi più difficili da trovare non era remunerativo e quindi l' esplorazione si è fermata, pochissimi giacimenti sono stati scoperti, la produzione ristagnava. Ma l' economia continuava a correre e a bruciare petrolio nei suoi ingranaggi. Dopo l' attacco alle Torri Gemelle è iniziata una lenta risalita, spinta dalle turbolenze geopolitiche e soprattutto dalla crescente domanda asiatica. Dal 2005 le quotazioni del greggio oscillano fra i 50 e i 70 dollari al barile, con punte - come in questi giorni - oltre i 75. E gli esperti prevedono che rimarranno a lungo su questi livelli. «Da allora si è rimesso tutto in moto, ma questo è un business ad alta specializzazione e il periodo di stasi ha creato un vuoto generazionale fra gli anziani esperti e i giovani neolaureati, che diventa sempre più difficile da colmare», sostiene Magnabosco. Non a caso il gruppo della famiglia Moratti, specializzato nella raffinazione, quest' anno ha dovuto richiamare dalla pensione una decina di esperti, per attività di coordinamento nella gestione di importanti commesse. «In particolare le figure di cantiere, costrette a trascorrere gran parte dell' anno in lunghe trasferte internazionali, si fanno sempre più rare», conferma Scaffardi. «Rispondiamo alle tensioni del mercato con la formazione interna, affiancando le nuove leve ai nostri grandi specialisti, ma anche con campagne di reclutamento all' estero, ad esempio in Turchia e Romania», spiega Antonio Vietti, direttore risorse umane di Foster Wheeler, multinazionale americana specializzata nella progettazione e costruzione di grandi impianti nel settore petrolifero, chimico, farmaceutico, alimentare e di produzione di energia. «Puntiamo molto a far crescere le persone dall' interno», ribatte Patrizia Bonometti, direttore risorse umane di Tenaris Europa, il maggior produttore e fornitore a livello globale di tubi e servizi per l' esplorazione e la produzione di petrolio e gas. «Abbiamo un programma interno abbastanza completo, che ci evita di andare sul mercato del lavoro per trovare profili già formati», sostiene Bonometti. Nella società controllata dalla famiglia Rocca il primo mese di formazione di base dei giovani neolaureati si svolge in Argentina e continua poi per due anni nella sede di provenienza. «Investiamo molto sulle nuove leve e in questo modo si crea un forte senso di appartenenza», commenta Bonometti. Il rischio di farsi portar via un giovane formato all' interno, dunque, si mantiene entro limiti accettabili. Ma con l' aria che tira sul mercato, anche ingegneri, chimici e geologi possono diventare mercenari.

10 settembre 2007

Emergenza rifiuti: Bassolino ci guadagna

Spariti i cumuli d'immondizie per le strade, roghi sempre più rari, ma l´emergenza in Campania non è finita: il sequestro cautelare, che ha bloccato le casse di Fibe, controllata da Impregilo, rischia d'interrompere il ciclo dei rifiuti e di fermare i lavori per il termovalorizzatore di Acerra, quasi pronto, mentre le discariche avviate dal nuovo commissario, Alessandro Pansa, saranno presto sature. La risposta di Impregilo si chiama Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano, ex candidato sindaco, ex commissario anti-corruzione al Viminale, oggi presidente di Fibe e Fibe Campania, le due società accusate di aver gestito per anni un appalto che, secondo i giudici napoletani, "già sapevano di non poter rispettare". "Ma il problema di fondo è un altro: qualcuno ha interesse a mantenere l'emergenza rifiuti, perché ci guadagna. Del resto, se c'è bisogno di un commissario dal '94 e ancora oggi non si riesce a implementare un piano di smaltimento datato 2000, vuol dire che c'è qualcosa che non va. Il ciclo non è tanto complicato da realizzare, in altre regioni le difficoltà sono state affrontate e superate senza drammi. Qui invece è tutto fermo da oltre dieci anni", sostiene Ferrante. Con una produzione regionale di circa 7.500 tonnellate al giorno e un costo di smaltimento di 7,7 centesimi al chilo, è facile intravvedere la dimensione economica della questione. Il settore rifiuti in Campania rappresenta una delle più grosse aree d'affari di tutto il Mezzogiorno, gestita in larga parte nell'illegalità. Aprire l’accesso al settore privato rappresenta una scommessa importante per il potere politico regionale. In pratica, Fibe è accusata di non aver confezionato bene il combustibile da rifiuti, le famose ecoballe, che sarebbero di cattiva qualità e quindi impossibili da bruciare. Nell'ambito della stessa inchiesta, Antonio Bassolino, commissario dal 2000 al 2004, è stato rinviato a giudizio per truffa ai danni dello Stato. Ma il fallimento, più che tecnico, sembra squisitamente politico. La peculiarità del ruolo di Fibe sta scritta nel contratto di assegnazione: tutte le immondizie prodotte in Campania vanno consegnate ai sette impianti di produzione di ecoballe, dove Fibe ne diviene proprietaria. Da qui vanno smistate, in parte verso i termovalorizzatori, paralizzati dai moti di piazza, e in parte nei siti di stoccaggio che Fibe ha proposto a decine, ma sono sempre stati scartati dal commissariato. L'accumulo di rifiuti negli impianti di produzione ha causato la crisi del sistema. E' evidente la convenienza di Impregilo a portare a termine l'incarico assegnatole in Campania, così come ha fatto in altri 500 siti in giro per il mondo, tra cui nel 2006 a Wuppertal in Germania, a Joenkoeping in Svezia e a Kyoto in Giappone. L'energia prodotta da rifiuti è rivendibile a non meno di 18 centesimi a kilowattora: con le quote disponibili, si arriverebbe a 100mila euro giornalieri medi. Per lo smaltimento del resto, Fibe doveva percepire un compenso pari a circa 5 dei 7,7 centesimi al chilo di partenza. Un volume d'affari di 350mila euro giornaliseri. Perché rinunciare a tutto questo bendiddio?È qui che emerge l'inconciliabilità di due visioni opposte del ciclo dei rifiuti. Da una parte, quella del commissariato Bassolino che promuoveva una presenza massiccia del sistema pubblico. Dall'altra, quella della giunta precedente che aveva previsto e disegnato una delega più libera al sistema privato. Il gettone di presenza mensile incassato da Bassolino per fare il commissario era di 10.000 euro. Il nuovo commissario, il prefetto Alessandro Pansa, eredita oltre 600 milioni di debiti.

7 settembre 2007

Caos da scrivania? Fa bene agli utili

C' è il minicaos: uno scaffale in un angolo dell' open space, un tabellone pieno di bigliettini, un cassetto nascosto. C' è il caos verticale. Il disordine viene impilato per sembrare armonioso, ammonticchiando in perfetto equilibrio riviste, documenti, grafici e fotografie alla rinfusa. C' è il caos cumuliforme: nel vasto mucchio selvaggio che si allarga sulla scrivania finiscono seppelliti dossier interi, cartelle d' archivio insieme a oggetti di cancelleria e bucce d' arancia. C' è il caos satellitare, quello che viene esiliato lontano, in magazzini esterni all' ufficio per carenza fisica di spazio. E poi c' è il caos ciclico, quello che monta e rifluisce come una marea a intervalli regolari, settimanali, stagionali o perfino annuali, a seconda dei ritmi del lavoro. In ognuno di questi casi c' è sempre un capoufficio, un partner, un collega che cerca di porre rimedio, di contenere o in casi gravi di fare piazza pulita. E' opinione diffusa che un tavolo disordinato danneggi l' efficienza e molte corporation - da General Motors a Ups, passando per Ibm - impongono ai dipendenti la cosiddetta Clean Desk Policy, con tanto di premi e sanzioni rigorose per i trasgressori. Ma i risultati? «In realtà è illusorio pensare di poter eliminare completamente il disordine e molti studi dimostrano che l' ordine imposto dall' alto può addirittura danneggiare la produttività», spiega Maria Vittoria Giusti, psicologa del lavoro e partner nella società di ricerca del personale Mindoor. «Per produrre qualcosa di valido bisogna mettere in moto un processo creativo - fa notare Giusti - che non parte mai dall' ordine». Semmai l' ordine meticoloso può servire come struttura di contenimento a chi si senta insicuro oppure per dare serenità a un capo che si ferma all' apparenza. Ma la sua utilità non è affatto dimostrata. Anzi. Da un sondaggio della società americana PsyMax Solutions risulta chiaro il collegamento fra scrivania caotica e stipendio alto, che relega gli ordinati a un salario inferiore ai 35mila dollari all' anno. Ma allora a che servono gli organizzatori professionali, che ormai nascono come funghi? Negli Stati Uniti sono già 4.000 aziende, riunite nella National Association of Professional Organizers, che sguinzagliano in giro per il Paese squadre lautamente pagate, capaci di fare piazza pulita in poche ore di interi paesaggi cognitivi, radendo selvaggiamente al suolo elaborate montagne di carta e preziose miniere di sapere. Ma anche in Europa l' industria degli organizzatori professionali prospera. Si racconta di un' azienda di Francoforte messa in ginocchio dal passaggio di un simile ciclone: per mesi i dipendenti non sono stati più capaci di trovare le loro carte. Eric Abrahamson, professore alla Columbia University e autore di «A Perfect Mess» (Little, Brown & Co) va ancora più in là: il caos, assicura, fa bene alla produzione. Il disordine, dice Abrahamson, è robusto e adattabile. Il disordine è inclusivo, poiché abbraccia ogni sorta di elementi casuali. Il disordine è narrativo: si può imparare molto sulla gente dai suoi detriti, mentre l' ordine è un libro sigillato. Il disordine è naturale, accade da solo. Invece per mettere ordine ci vuole tempo e fatica. Tempo e fatica sprecati, sostiene Abrahamson: in base ai suoi calcoli, chi ha un tavolo vuoto impiega il 36 per cento di tempo in più per recuperare il materiale che gli serve. E cita la famosa frase di Albert Einstein, re dei creativi disordinati: «Se una scrivania stracarica indica una mente stracarica, che cosa indica una scrivania vuota?»

3 settembre 2007

Islanda e Italia, unite dalla geotermia

Un buco profondo quattro-cinque chilometri per scaldare e illuminare un' intera nazione: in Islanda, terra di vulcani, ci sono vicini. In Italia, invece, si procede a fatica. Il Paese natale dell' energia geotermica, partita con Francesco De Larderel agli inizi del Novecento, oggi fa molta resistenza, anche se l' Enel ce la mette tutta per sfruttare una delle fonti rinnovabili più ricche e promettenti che abbiamo a disposizione. I giacimenti di «petrolio bianco» sono facili da individuare, perché di solito si accompagnano a manifestazioni superficiali come fumarole, geyser o sorgenti d' acqua calda, fenomeni attribuiti dagli antichi a divinità sotterranee e utilizzati già da etruschi e romani per le loro terme. «In certe regioni della terra, dove le placche tettoniche confinano tra di loro e dove le forze geologiche spostano in superficie le masse magmatiche, il calore sprigionato dal centro del pianeta arriva a portata di mano, offrendoci una delle poche fonti rinnovabili costanti, a differenza del sole e del vento, di cui è nota l' estrema instabilità», spiega Gennaro De Michele, responsabile della ricerca Enel. Da qui il grande interesse di questa risorsa, che l' Italia possiede in quantità, soprattutto in Toscana, Lazio, Campania e Sardegna. Il centro nevralgico dello sfruttamento è nella zona boracifera di Larderello, in Toscana, dove le centrali geotermiche dell' Enel producono circa 5 miliardi di kWh l' anno, coprendo oltre un quarto del fabbisogno regionale, l' 1,5% dei consumi elettrici italiani. L' Italia è al quarto posto nel mondo - dietro a Stati Uniti, Filippine e Messico - per la produzione geotermoelettrica. Ma basta guardare al Nord Atlantico per capire quanto si potrebbe fare di più. In Islanda l' energia geotermica copre al 95% il riscaldamento delle famiglie, delle serre per la floricoltura e delle vasche per l' itticoltura, oltre a una bella fetta del fabbisogno elettrico. Ma non basta: gli islandesi hanno sviluppato nuove tecnologie per catturare il calore della terra anche là dove non arriva in superficie, trivellando a profondità di chilometri, in prossimità delle camere magmatiche. Da lì prevedono di estrarre tanta energia da liberare completamente il Paese dalla schiavitù degli idrocarburi. È questo il sogno di Gudmundur Friedleifsson, dell' Iceland GeoSurvey, il massimo esperto islandese di geotermia e responsabile del Deep Drilling Project. «L' Italia e l' Islanda - commenta Friedleifsson, che conosce bene il nostro Paese - si somigliano per l' intensa attività vulcanica, ma si differenziano per l' utilizzo delle fonti geotermiche: mentre l' Italia si trova in forte deficit energetico, l' Islanda ha eliminato il problema utilizzando a fondo questa risorsa straordinaria». «In Italia la sperimentazione è più difficile - spiega De Michele - perché i campi geotermici stanno in zone molto popolate». Ad esempio il Monte Amiata, dove lo sfruttamento di questa risorsa è bloccato dalla resistenza dei gruppi ambientalisti. Nel quinquennio 2007-2012 l' Enel progetta di costruire, con quasi 500 milioni d' investimento, cinque nuovi impianti geotermici, di cui quattro nelle zone storiche e uno sull' Amiata, dove però gli ambientalisti sostengono che la geotermia nuoce alla salute dei cittadini. «In realtà - controbatte De Michele - lo sfruttamento della geotermia non produce sostanze inquinanti né aumenta le emissioni di anidride carbonica rispetto a quelle già presenti allo stato naturale, mentre le acque reflue vengono reiniettate nel sottosuolo per mantenere stabile il ciclo e quindi non hanno alcun impatto ambientale». Non a caso il futuro della geotermia si sta giocando lontano dall' Italia: a Soulz, nella fossa tettonica del Reno fra Strasburgo e Karlsruhe, una delle zone più densamente popolate d' Europa, è in corso di realizzazione un prototipo industriale che punta a sfruttare il calore della terra anche lì dove mancano depositi naturali di acqua, allargando quindi di molto le possibilità di applicazione. L' acqua, in questo caso, viene iniettata dall' alto in pozzi profondi cinque chilometri, dove si scalda e risale in superficie lungo altri pozzi per poi venire impiegata come fluido energetico. La sperimentazione della tecnologia HDR (Hot dry rock), finanziata dall' Unione Europea e dal governo svizzero, va avanti da dieci anni e sarà completata l' anno prossimo, con l' entrata in produzione di un impianto da 6 megawatt. Da qui in poi, la strada è segnata: sfruttando questa potenzialità l' Europa potrebbe ottenere da una fonte stabile e inesauribile l' equivalente di tutta la sua produzione nucleare. Ma non sul Monte Amiata.