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31 marzo 2008

Tentazione italiana: rompere il tabù nucleare

La rinascita dell' industria nucleare è un fenomeno globale: dalla Francia agli Stati Uniti, passando per la Russia e per la Cina, ovunque ci siano centrali atomiche in funzione si stanno mettendo in moto gli investimenti per cominciare a rimpiazzarle con una nuova generazione di reattori, più efficienti e più sicuri. In Francia, su 54 centrali una trentina andranno sostituite, la Russia ne ha in programma venti, mentre negli Stati Uniti ci sono 32 richieste di autorizzazione pendenti alla Nuclear Regulatory Commission per la costruzione di nuovi impianti. Per non parlare di Cina e India. Ma anche in Italia, unico Paese del G8 privo di centrali nucleari, il vento sta cambiando. Con la partecipazione dell' Enel alla costruzione dell' Epr, il nuovo reattore europeo di terza generazione a Flamanville, in Normandia, e l' acquisizione di quattro reattori operativi più altri due da completare in Slovacchia, il ritorno al nucleare dell' industria italiana è già cominciato. Finmeccanica, con Ansaldo Nucleare, è molto impegnata nella centrale di Cernavoda in Romania e partecipa allo sviluppo del reattore B1000 con la Westinghouse, che potrebbe diventare l' elemento pilota di molte operazioni future. Ora ne sono stati ordinati quattro dalla Cina, per cui a Genova ci si aspetta dei subappalti. Ansaldo e Sogin sono attive anche nel «decommissioning», un business in cui nei prossimi anni ci sarà molto da fare: si prevede la necessità di smantellare 2-300 reattori obsoleti da qui al 2020. Nel dibattito sempre più acceso sui danni dell' effetto serra e sull' eccessiva dipendenza dell' Italia dagli idrocarburi, si muove qualcosa anche sul fronte dell' opinione pubblica. Secondo un sondaggio svolto in febbraio dalla società specializzata Harris Poll per il Financial Times su diversi Paesi europei, gli italiani sono risultati i più nuclearisti di tutti, con un 58% di favorevoli all' atomo. E i politici, che ne stanno facendo un tema della campagna elettorale, se ne sono accorti. Per Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini il ritorno dell' Italia al nucleare è un cavallo di battaglia. Anche sul versante del Partito Democratico c' è qualche timida apertura. E di fronte alle riserve del ministro uscente Pier Luigi Bersani, che invita i nuclearisti a «fare due conti» invece di dare tutte le responsabilità agli ostacoli politici, per la prima volta alcuni industriali italiani in lotta contro il caro-greggio sono scesi sul piano pratico, ispirandosi al modello finlandese, dove la corsa al nucleare è già ripresa da anni con un reattore in costruzione e altri due in progetto. A2A, la multiutility nata dalla fusione tra Aem Milano e Asm Brescia, ha commissionato al Politecnico di Milano uno studio di fattibilità per la realizzazione di un presidio nucleare strutturato su almeno 4-6 impianti con una capacità installata di 10 o 15mila megawatt. Lo studio si occuperà anche dello stoccaggio delle scorie radioattive. Si tratta di rispondere a una serie di quesiti ingegneristici, geologici e finanziari, per offrire una possibile soluzione sulla scelta degli impianti, dei siti e dei costi che andrebbero affrontati nell' eventuale ricostituzione di un sistema nucleare italiano. Un compito essenziale per gettare le basi di un ragionamento obiettivo, che potrebbe aiutare la politica a superare le paure scatenate dall' incidente di Chernobyl e sfociate nel referendum dell' 87. L' esperienza finlandese, come quella italiana, parte dall' esigenza di abbattere la bolletta elettrica, molto sentita dalle industrie, grandi consumatrici di energia. La risposta a questo problema può venire solo da un consorzio. In Finlandia si sono raggruppate 60 imprese, impegnandosi a prelevare tutta l' energia prodotta dal nuovo impianto di Olkiluoto con contratti di lungo termine. Questo accordo ha annullato il rischio di mercato dell' operazione, consentendo di ottenere dalle banche un finanziamento a tasso molto favorevole. Così, malgrado l' elevato costo dell' impianto (stimato in 4 miliardi), si abbatte di molto il prezzo finale dell' energia: a Olkiluoto il megawattora costerà circa 30 euro, contro un prezzo medio di 75 euro sulla Borsa elettrica italiana. Meno della metà. * * * Pro Ricotti: «Può coprire il 20% del fabbisogno senza evidenti impatti sull' ambiente» Marco Ricotti, vicedirettore del dipartimento Energia del Politecnico di Milano, è stato chiamato da A2A ed Edison a stilare uno studio di fattibilità sul ritorno dell' Italia al nucleare. Si parte dall' esempio finlandese puntando alla realizzazione di un presidio nucleare da 15-20mila MW di potenza, quindi una decina di centrali. Perché sì al nucleare? «La questione va vista all' interno del problema energetico, che ha bisogno di risposte molteplici. Non si tratta di privilegiare il nucleare su altre fonti, ma di sfruttarle tutte nelle proporzioni adatte alle loro caratteristiche. Il nucleare si presta a fornire energia a basso costo a copertura del fabbisogno di base, con una piccola quantità di combustibile e un impatto nullo sull' ambiente». Come impatto nullo: e le scorie? «Le scorie prodotte da un presidio nucleare come quello preso in considerazione, che coprirebbe il 20-30% del fabbisogno energetico italiano, sono talmente ridotte da non presentare alcun problema. Ogni cittadino italiano produce circa 3.000 chili di rifiuti, di cui 100 tossici e di questi solo un chilo sarebbero nucleari. Ma in questo chilo rientrano anche le tute irraggiate degli addetti e gli strumenti utilizzati nel reattore. Le scorie pericolose, radioattive per più di 30 anni, peserebbero 50 grammi e finirebbero vetrificate in una sfera che sta nel palmo di una mano. Se gli altri Paesi trovano le risorse per stoccarle, perché non noi?» * * * Contro Zorzoli: «Difficile trovare nuovi siti e spingere le imprese a fare consorzi» Il problema essenziale? «È che l' Italia ha completamente smantellato il sistema di procedure su cui l' industria nucleare si regge». Gian Battista Zorzoli, esperto di energia e docente nei vari master dedicati all' argomento, non è un antinuclearista di principio ed è stato ai vertici dell' Enea e dell' Enel quando l' Italia era nel settore. Perché no al nucleare? «Lasciamo da parte la considerazione elementare che in un Paese dove non si riesce a costruire un termovalorizzatore sarebbe impossibile realizzare delle centrali nucleari. Resta un problema normativo di non poco conto: per costruire una centrale bisogna stilare un rapporto di sicurezza che a suo tempo era affidato alla direzione sicurezza e protezione del ministero dell' Industria. Senza questa struttura una centrale nucleare non è licenziabile. Ma quanti anni ci vorrebbero in Italia per rimettere in piedi un impianto regolatorio di questo tipo?». Me lo dica lei... «Tantissimi anni, mi creda. E poi i siti dove sono? Si parla dei siti originari, ma su quei terreni, dopo vent' anni, è ancora in corso lo smantellamento, per cui non sono praticabili: non si può costruire un impianto nuovo dove si sta ancora smantellando quello vecchio. Infine il progetto è finanziabile solo applicando il metodo finlandese, con un consorzio di imprese impegnate a ritirare l' energia a lungo termine. Questo consorzio dov' è? Per ora ho sentito solo dei forse. Come per Alitalia...»

Gli inglesi vanno pazzi per il vento italiano

L' Italia viaggia con il vento in poppa: il 2007 è stato un anno da record per l' eolico, la più remunerativa delle energie pulite. Con 602 megawatt installati, l' anno scorso il parco eolico italiano è cresciuto del 28%. E il 2008 si annuncia ancora più fruttuoso, con una potenza aggiuntiva stimata di 8-900 megawatt. L' industria italiana è in corsa per accaparrarsi le postazioni migliori: là dove il vento soffia a 15 metri al secondo, sulle aspre montagne irpine e sulle serre della Sila o sulle coste della Sicilia e della Sardegna, il fior fiore della finanza fa la fila per investire. Tutti pronti a convincere i contadini a cedere il loro avamposto più turbinoso, a intercettare i «facilitatori» di pratiche meglio inseriti con le amministrazioni locali, a prospettare piogge di royalties sulle comunità. Ma per ora sono gli inglesi di International Power a vincere la partita dell' eolico in Italia. All' inizio di quest' anno, in complesso, la potenza installata nelle fattorie del vento italiane ha toccato i 2.725 MW. Di questi, solo nel 2007 ne sono stati installati 602 tra Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Molise. Un risultato che colloca l' Italia al quarto posto nella classifica europea, dopo la Germania, la Spagna e la Danimarca. Ma il meglio deve ancora venire. Le previsioni relative al 2008, sulla base delle richieste di autorizzazione in corso, indicano una potenza eolica aggiuntiva di 8-900 megawatt, salvo blocchi ambientalisti. L' eolico, infatti, è ancora al centro di furiosi bisticci. Da un lato c' è chi - come Legambiente o Greenpeace - lo considera la nuova panacea per affrancare l' Italia dalla schiavitù del petrolio. Dall' altro c' è chi - come Italia Nostra - lamenta gli inestetismi delle pale, «brutte» sullo sfondo delle dolci colline toscane o sulle coste della Sardegna. Malgrado le resistenze, nell' eolico investono un po' tutti. L' Enel, campione mondiale delle rinnovabili con oltre 19.000 MW di potenza idroelettrica, eolica, geotermica e solare, va a caccia di pale sia in Italia sia all' estero, dalla Francia alla Grecia. Per la conquista di Enertad (132 MW eolici, ma punta a raggiungere i 350 in due anni) è scesa in campo la Erg dei Garrone, impegnandosi in una partita molto combattuta contro la Alerion di Giuseppe Garofano. Nell' eolico hanno investito i Moratti con la Sardeolica, la Api dei Brachetti Peretti, il gruppo Falck, che sogna di installare una «dorsale del vento» dall' Inghilterra all' Italia fino al Marocco, e anche il gruppo De Benedetti con Sorgenia. La spagnola Iberdrola ha già iniziato lo shopping da noi. Ma il primo operatore eolico italiano è un colosso energetico inglese attivo nei cinque continenti, con una capitalizzazione di Borsa di 9 miliardi di euro e una potenza installata di circa 31.000 MW, di cui 1.232 di eolico. International Power ha da poco rilevato per 868 milioni di euro i 562 megawatt eolici ex-Ivpc, la società dell' avvocato avellinese Oreste Vigorito, re dell' eolico made in Italy. Ora la nuova società, rinominata IP Maestrale e guidata da Marco Ferrando, punta al raddoppio entro il 2012. Il punto di partenza sono quattro parchi eolici già in fase di realizzazione (91 MW) sparsi tra Basilicata, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il boom dell' eolico, d' altronde, non è solo un fenomeno italiano. Nel 2007, a livello globale, l' incremento registrato da questa fonte energetica è stato del 27%, con un balzo degli Stati Uniti di 5,2 gigawatt, seguiti dalla Spagna (+3,5 GW) e dalla Cina (+3,4 GW). Il giro d' affari globale di questo mercato supera ormai i 25 miliardi di euro. In Europa, l' incremento del 18% ha consentito di raggiungere i 56,5 GW installati. Buono anche il confronto con le altre fonti, visto che l' anno scorso l' eolico ha totalizzato il 40% delle nuove installazioni nella Ue. Dal 2000 sui 158 GW complessivamente installati nell' Unione europea, 47 sono eolici, 88 a gas, 9,6 a carbone, 4,2 a olio combustibile, 3,1 idroelettrici, 1,7 a biomasse e 1,2 nucleari.

In Spagna il primo impianto acchiappa-fumi

Sorgerà a Puertollano, in Spagna, il primo impianto del mondo di cattura della CO2 a monte della combustione. A realizzarlo sarà l' Enel, insieme a Edf, Iberdrola, Edp, Siemens e altri, riuniti nella società Elcogas che gestisce una centrale a carbone gassificato a cento chilometri a Sud di Madrid. La cattura e lo stoccaggio della CO2 è una delle misure previste dal pacchetto energia presentato a gennaio dalla Commissione Ue. Bruxelles chiede alle aziende energetiche europee un impegno formale a sviluppare progetti che consentano entro il 2030 di stoccare sottoterra - prevalentemente in giacimenti di metano ormai esauriti - una buona quota di CO2. L' obiettivo è arrivare a una dozzina di impianti in Europa per un investimento complessivo di circa 6 miliardi di euro. Le principali imprese energetiche europee hanno creato a questo fine la Zero Emissions Platform. L' impianto pilota di Puertollano, che prevede la separazione della CO2 in precombustione e la produzione di idrogeno, sarà avviato nella prima metà del 2009 con un investimento previsto di 18,5 milioni di euro, di cui 15,6 forniti dal consorzio e il resto da istituti scientifici spagnoli.

A Bruxelles non piacciono le maxi sovvenzioni

Con oltre 175 euro a megawattora, l' Italia è il Paese della Ue che concede gli incentivi più alti alle fonti rinnovabili. Questo il responso dell' ultimo rapporto di Bruxelles. Come nel precedente studio, la Commissione boccia il sistema dei certificati verdi e in generale i modelli di sostegno in cui il regolatore determina la quantità di generazione da fonti rinnovabili necessaria per raggiungere i propri obiettivi e impone un corrispondente obbligo di immissione. Questo tipo di incentivi, usati in sette Paesi dell' Unione - fra cui l' Italia, il Regno Unito e la Svezia - sono ritenuti meno efficaci rispetto ai sistemi in cui il regolatore fissa un livello di incentivo senza imporre alcun obbligo d' immissione. La Spagna è il modello cui guarda Bruxelles: offre ai suoi operatori eolici incentivi attorno agli 80 euro a megawattora ed è al secondo posto in Europa per lo sviluppo di questa fonte, contro i quasi 150 euro del Belgio e gli oltre 125 del Regno Unito, che sono ben più indietro. L' Italia è considerata il fanalino di coda, insieme alla Francia. A tre anni dalla scadenza del 2010, peraltro, l' Unione nel suo complesso non sembra in grado di rispettare gli obiettivi, dato che nel 2007 la quota di rinnovabili copriva a malapena il 15% della generazione totale, a fronte di un obiettivo finale del 21%. Il ritardo dipende soprattutto dal rallentamento dell' idroelettrico, che copre ancora il 65% della generazione rinnovabile europea e soffre del riscaldamento del clima.

21 marzo 2008

Robert Kaplan

Perché persiste un gap fra le ambizioni di un' azienda e la sua performance? Questa è la domanda che si è posto vent' anni fa Robert Kaplan, uno dei più famosi docenti della Harvard Business School. La sua risposta è contenuta in un articolo pubblicato nel ' 92 sulla Harvard Business Review assieme a David Norton: «Perché nella maggior parte delle aziende esiste una frattura tra la formulazione della strategia e la sua esecuzione». In quello studio, che ha cambiato la vita di molte multinazionali, Kaplan formula anche la sua soluzione al problema: un sistema che consenta di tradurre la strategia dell' impresa in un insieme coerente di modelli di performance, facilitandone la misurabilità. Da allora ad oggi, quasi la metà delle 1.000 imprese di Fortune ha adottato esplicitamente questo modello di misurazione della performance, chiamato Balanced Scorecard. Il suo modello punta a spostare il focus dei manager dal successo finanziario immediato alla sostenibilità di lungo periodo della loro strategia.
Se le istituzioni finanziarie avessero seguito i suoi consigli, forse la crisi dei subprime si sarebbe evitata?
«La Balanced Scorecard induce certamente una visione di lungo termine che le istituzioni finanziarie non hanno saputo mantenere in questi ultimi anni. Ma non si può dire che seguendo il mio modello la crisi si sarebbe evitata. Anzi, direi che alla luce di questa esperienza dovrò dare più peso alla gestione del rischio».
Il suo sistema ha retto bene a fenomeni più recenti come la globalizzazione o la diffusione della web economy?
«La base del modello è rimasta sempre valida, ma nel corso del tempo abbiamo aggiornato una serie di dettagli».
Di solito si compete crescendo, con fusioni e acquisizioni...
«Strutture nuove creano problemi organizzativi nuovi, difficoltosi quanto quelli che cercano di risolvere. Nel tentativo di cambiare paradigma si creano e si lasciano in eredità sistemi che poi si rifiutano di morire, mentre una grande quantità di conoscenza implicita viene persa strada facendo. Troppo spesso manca un efficace coordinamento tra i diversi settori della stessa azienda».
Gli insuccessi delle aziende non derivano solo da strategie sbagliate...
«Le strategie possono anche essere sbagliate, ma molto più spesso i problemi derivano dalla mancata attuazione della strategia. In molte aziende la strategia non è condivisa, il suo grado di attuazione non è misurabile, i processi non sono progettati in linea con le priorità strategiche e le risorse non sono allocate in loro funzione. L' organizzazione, la formazione e i sistemi di incentivazione sono sviluppati a compartimenti stagni. Troppe imprese hanno una strategia formale, ma nessun modo pratico per esprimerla ai dipendenti, oppure non hanno gli obiettivi della strategia collegati al budget. Le domande che bisogna farsi sono ovunque le stesse».
Quale consiglio darebbe all' amministratore delegato di una grande impresa?
«Gli direi semplicemente di andare da uno dei suoi dipendenti e di fargli questa domanda: "Per favore, può spiegarmi la mia strategia?". Se è in grado di spiegargliela, vuol dire che la sua gestione funziona».

17 marzo 2008

La carta di E.on spariglia il risiko dell'energia

L' Italia è al centro della strategia di espansione di E.on verso il Mediterraneo. Il colosso tedesco, la più grande compagnia energetica del mondo a capitale interamente privato, ha appena costituito una nuova società, E.on Italia, in cui sono confluite tutte le attività già esistenti - Thüga e Dalmine Energie, attive nella distribuzione e vendita di gas e di elettricità - e in cui verranno integrate le centrali Endesa e il rigassificatore in costruzione al largo di Livorno dopo l' accordo con Enel.Con le nuove centrali E.on si collocherà al terzo posto fra gli operatori italiani, a un' incollatura da Edison. Ma punta ben più in alto. «Per noi l' Italia è un mercato dal grande potenziale, nel quale puntiamo a un ruolo da leader e a quote rilevanti sia nel gas, sia nell' energia - spiega Klaus Schaefer, ad di E.on Italia -. L' Italia è un investimento strategico di lungo periodo: stiamo lavorando all' interconnessione Nord-Sud delle reti di trasporto del gas europee e se l' Italia saprà dotarsi dei rigassificatori l' alleanza con noi può diventare fortissima». Sbocco sul Mediterraneo In pratica, lo sbocco sul Mediterraneo che il gigante di Dusseldorf stava cercando in Spagna con il tentativo fallito di comprare Endesa, ora si sta spostando sull' Italia: «Con l' ingresso nel Mediterraneo - precisa Schaefer - E.on allarga ancora di più la sua equilibrata e distribuita presenza europea». Una presenza molto ingombrante nella prospettiva di quella che Schaefer chiama «l' inevitabile integrazione del mercato energetico europeo». Con lo spacchettamento di Endesa, Enel si porta così in casa un potente rivale, molto ben radicato soprattutto nel Nordest del Paese, dove risiede il grosso dei suoi clienti, e ben deciso a dar fastidio anche a Eni nel mercato del gas. Closing a giugno Non a caso il perimetro della cessione - a sei mesi dalla chiusura dell' Opa di Enel e Acciona su Endesa - è ancora ben lontano dall' essere definito, così come il prezzo d' acquisto. Il termine per il closing, concordato con il numero uno di E.on, Wulf Bernotat, e ribadito qualche giorno fa dall' ad di Enel Fulvio Conti, è fissato a giugno. Conti però deve prima mettersi d' accordo con Asm Brescia (ora in A2A), che controlla il 20% di Endesa Italia e che aveva già accantonato i fondi per acquisire anche il resto, attribuito invece a E.on dagli accordi internazionali. La potenza di fuoco Si tratta di un patrimonio produttivo da oltre 7 megawatt di potenza, che comprende cinque centrali termoelettriche - in parte ereditate dalla stessa Enel con la privatizzazione del 2001 - una buona capacità idroelettrica e sette parchi eolici, oltre a una partecipazione nel rigassificatore di Livorno. Le trattative, a quanto pare, vanno per le lunghe. Chi si affretterebbe, del resto, a mettersi in casa un competitor di questo peso? E.on, da parte sua, non ha fretta. Costruisce una centrale a gas in Piemonte, a Livorno Ferraris, che entrerà in funzione nel giro di poche settimane. Fa trading e vende elettricità ai clienti industriali. Allarga la base di mercato con una serie di partecipazioni nelle utilities locali, dall' Amga di Udine alla marchigiana MeTeMa, passando per la lombarda EnerCom. Fornisce gas a 850mila utenti sparsi su 340 Comuni attraverso le sue reti di distribuzione e di vendita. Prepara la sua struttura societaria e la sua squadra in attesa del big bang. Nominato l' amministratore delegato Klaus Schaefer e il capo della divisione commerciale Luca Dal Fabbro, strappato a Enel, ora si attende il closing su Endesa per scegliere il capo della produzione, che potrebbe anche provenire dal versante spagnolo. Sul fronte commerciale, le seconde linee del management sono già designate, le altre posizioni saranno riempite nelle prossime settimane. Oltre alle sedi istituzionali di Milano e Roma, E.on Italia avrà un cuore operativo a Verona, cui faranno capo i clienti del Nordest e anche le attività di supporto ai servizi commerciali nazionali, come il call center e le fatturazioni. Un mercato in tre blocchi Un' articolazione che già suggerisce quale direzione prenderanno le alleanze del nuovo arrivato sul mercato italiano, che potrebbe diventare il centro gravitazionale su cui si concentreranno le attenzioni delle ex municipalizzate del Nordest, molto in ritardo nel loro processo di aggregazione. Con l' ingresso del nuovo player s' intravedono così tre grandi blocchi, oltre agli ex monopolisti Eni e Enel, nel futuro del mercato italiano dell' energia: a Nordovest i francesi di Edf, con Edison e A2A, a Nordest i tedeschi di E.on con le ex municipalizzate locali, al Centro Suez con Acea. Sorgenia, Hera e Iride prima o poi dovranno scegliere da che parte stare.

14 marzo 2008

Jim Collins

Le imprese gestite bene non devono aver paura delle crisi globali come quella che stiamo attraversando oggi. Per Jim Collins - autore di due classici del management come «Good to Great» e «Built to Last» - è proprio nei tempi difficili che si distinguono meglio le imprese buone da quelle cattive. «Il mio messaggio ai bravi leader è: abbracciate i tempi difficili come buoni amici, non respingeteli come un nemico». Il tono messianico tradisce la ricerca dell' assoluto, che Jim Collins persegue meticolosamente fin dai tempi in cui insegnava a Stanford, vent' anni fa. Ma le argomentazioni sono solidamente piantate in anni e anni di analisi gestionale. Nei suoi libri si descrive un metodo universale che dovrebbe servire per arrivare alla gestione ottimale.

Ma è una visione apparentemente statica: resta valida anche nei periodi di grande turbolenza?

«Al contrario, proprio nei periodi turbolenti il mio metodo diventa particolarmente utile. In epoche come queste è ancora più importante avere un leader di alto livello, quello che ho chiamato "Livello 5", che non sia focalizzato sulla sua carriera ma solo sugli interessi dell' azienda, che persegua lealmente il bene comune senza perdersi nei giochetti di potere o farsi distrarre dagli interessi clientelari dei gruppi che gli gravitano intorno».

Talvolta venire a patti con il potente di turno può portare vantaggi all' azienda...

«Sono sempre vantaggi di corto respiro. Dalle mie ricerche ho capito che scendere a compromessi, anche per motivi che lì per lì possono sembrare validi, alla lunga mina la solidità dell' impresa».

Quindi l' integrità fa premio sul resto. E la competenza?

«Un buon leader deve conoscere il settore in cui si muove, ma i dettagli tecnici sono irrilevanti. Le doti di carattere sono molto più importanti: dev' essere testardo ma umile, ambizioso ma disciplinato. Malgrado le differenze tra i diversi settori e i mutamenti introdotti dalle nuove tecnologie, dalla globalizzazione o dalle strette regolatorie, ci sono alcuni fatti fondamentali che non cambiano mai nella gestione aziendale. E' di quelli che si deve occupare».

Qual è il segreto delle aziende che riescono a superare la mediocrità e a entrare nei libri di storia?

«L' importanza essenziale del fattore umano emerge sempre in tutte le aziende di successo, da P&G a General Electric, da Philip Morris a Microsoft. Un' azienda che ha gli uomini giusti nei posti giusti può superare brillantemente qualsiasi sfida e qualsiasi imprevisto, dall' esaurimento del petrolio alla terza guerra mondiale. Per questo un buon leader deve modellare tutte le sue strategie sul "chi", non sul "cosa" o sul "come"».

Dovrebbe occuparsi solo di risorse umane?

«Questa è la sua prima responsabilità. Se riesce ad assumere le persone giuste nel team di comando e a schierarle nelle mansioni che sono più portate a fare è già a metà dell' opera. D' altra parte non deve avere tentennamenti nel licenziare: quando capisce che un suo collaboratore non è adatto a quel ruolo, deve rimuoverlo».

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Jim Collins

Le imprese gestite bene non devono aver paura delle crisi globali come quella che stiamo attraversando oggi. Per Jim Collins - autore di due classici del management come «Good to Great» e «Built to Last» - è proprio nei tempi difficili che si distinguono meglio le imprese buone da quelle cattive. «Il mio messaggio ai bravi leader è: abbracciate i tempi difficili come buoni amici, non respingeteli come un nemico». Il tono messianico tradisce la ricerca dell' assoluto, che Jim Collins persegue meticolosamente fin dai tempi in cui insegnava a Stanford, vent' anni fa. Ma le argomentazioni sono solidamente piantate in anni e anni di analisi gestionale. Nei suoi libri si descrive un metodo universale che dovrebbe servire per arrivare alla gestione ottimale.
Ma è una visione apparentemente statica: resta valida anche nei periodi di grande turbolenza?
«Al contrario, proprio nei periodi turbolenti il mio metodo diventa particolarmente utile. In epoche come queste è ancora più importante avere un leader di alto livello, quello che ho chiamato "Livello 5", che non sia focalizzato sulla sua carriera ma solo sugli interessi dell' azienda, che persegua lealmente il bene comune senza perdersi nei giochetti di potere o farsi distrarre dagli interessi clientelari dei gruppi che gli gravitano intorno».
Talvolta venire a patti con il potente di turno può portare vantaggi all' azienda...
«Sono sempre vantaggi di corto respiro. Dalle mie ricerche ho capito che scendere a compromessi, anche per motivi che lì per lì possono sembrare validi, alla lunga mina la solidità dell' impresa».
Quindi l' integrità fa premio sul resto. E la competenza?
«Un buon leader deve conoscere il settore in cui si muove, ma i dettagli tecnici sono irrilevanti. Le doti di carattere sono molto più importanti: dev' essere testardo ma umile, ambizioso ma disciplinato. Malgrado le differenze tra i diversi settori e i mutamenti introdotti dalle nuove tecnologie, dalla globalizzazione o dalle strette regolatorie, ci sono alcuni fatti fondamentali che non cambiano mai nella gestione aziendale. E' di quelli che si deve occupare».
Qual è il segreto delle aziende che riescono a superare la mediocrità e a entrare nei libri di storia?
«L' importanza essenziale del fattore umano emerge sempre in tutte le aziende di successo, da P&G a General Electric, da Philip Morris a Microsoft. Un' azienda che ha gli uomini giusti nei posti giusti può superare brillantemente qualsiasi sfida e qualsiasi imprevisto, dall' esaurimento del petrolio alla terza guerra mondiale. Per questo un buon leader deve modellare tutte le sue strategie sul "chi", non sul "cosa" o sul "come"».
Dovrebbe occuparsi solo di risorse umane?
«Questa è la sua prima responsabilità. Se riesce ad assumere le persone giuste nel team di comando e a schierarle nelle mansioni che sono più portate a fare è già a metà dell' opera. D' altra parte non deve avere tentennamenti nel licenziare: quando capisce che un suo collaboratore non è adatto a quel ruolo, deve rimuoverlo».

10 marzo 2008

Acerra: A2A non rifiuta più

Tre gare andate deserte: per rilevare il termovalorizzatore di Acerra, tassello fondamentale nel ciclo dei rifiuti campano che il commissario Gianni De Gennaro sta cercando di rimettere in moto, finora non si è presentato nessuno. I lavori sono fermi, mentre le immondizie si accatastano per le strade di Napoli. Fisia, la società di Impregilo che lo ha costruito, è stata bloccata nel giugno scorso da un sequestro della magistratura. E le due imprese più interessate, il colosso francese Veolia e la lombarda A2A, che gestisce l' impianto modello di Brescia, alla fine si sono tirate indietro. «Mancavano le condizioni», fanno sapere. Ma ora è cambiato qualcosa. Con due decreti in pochi giorni, il governo uscente ha rimosso gli impedimenti fondamentali, che bloccavano l' affidamento da mesi. Ha eliminato gli stretti limiti normativi che mettevano fuorilegge, per carenza di potere calorifico, le eco-balle prodotte dai sette impianti esistenti e sempre più intasati, che così potranno essere bruciate direttamente, salvo rivolte di piazza. E ha risolto il problema della redditività, estendendo ai nuovi termovalorizzatori campani gli incentivi Cip6. Con queste premesse, le aziende aspiranti potrebbero starci: i segnali che trapelano da Brescia e da Veolia Italia sono chiari. «Siamo molto interessati - spiega Antonio Bonomo, responsabile del settore energia per l' Asm ora fusa in A2A -. Ma, se partecipiamo alla gara, vogliamo essere sicuri di poter andare fino in fondo. Siamo abituati a fornire ai cittadini un servizio di qualità e a mantenere le promesse». Il quarto bando è imminente, ci sta lavorando il commissario liquidatore Goffredo Sottile. «Uscirà nel giro di una settimana - conferma Sottile - e poi bisogna attendere le offerte. Nel giro di un paio di mesi potremmo avere affidato l' appalto. Con la trattativa privata avremmo potuto accelerare i tempi, ma abbiamo preferito la gara, che innesca meccanismi di concorrenza più trasparenti. Dobbiamo fare presto, ma vogliamo anche evitare cha l' operazione vada deserta una quarta volta». Non tutti i problemi, naturalmente, sono stati risolti. Permangono le incertezze politiche e di ordine pubblico, con il sindaco di Acerra, Espedito Marletta, che minaccia ricorsi al Tar contro gli ultimi decreti del governo, e il senatore Tommaso Sodano, capolista in Campania per la Sinistra Arcobaleno, che lo sostiene nella sua battaglia decennale contro il termovalorizzatore. Combattuta a colpi di occupazioni, blocchi ferroviari e guerriglia urbana. L' unico punto sul quale le aziende pretendenti sono tranquille è l' impianto, considerato dagli interessati uno dei più avanzati d' Europa sotto il profilo delle emissioni. Per completarlo basterebbero 5 mesi di lavoro e 70 milioni di euro. Poi, terminate le necessarie verifiche, si potrebbe cominciare a smaltire in loco l' enorme montagna di immondizie accumulate in questi anni di crisi sul territorio campano: sei milioni di tonnellate di eco-balle già pronte, più altre 250mila tonnellate di rifiuti arretrati, di cui 4 mila per le strade di Napoli. E crescono. «Il termovalorizzatore sarebbe in grado di bruciarne 600 mila all' anno, producendo abbastanza energia elettrica da soddisfare una cittadina di medie dimensioni», spiega l' amministratore delegato d di Impregilo, Alberto Rubegni. Per ora, invece, la soluzione più praticata per tamponare la crisi è l' export di pattume: a 215 euro la tonnellata, 400 mila euro al giorno ai ritmi attuali, da sette anni i rifiuti campani vanno ad alimentare diversi termovalorizzatori tedeschi, fra cui Wuppertal e Colonia: costruiti in anni recenti dalla stessa Fisia che ad Acerra non riesce ad andare né avanti né indietro.