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30 giugno 2008

Scajola mette in orbita il partito dell'atomo

Sei mesi per definire la strategia energetica nazionale, con l' obiettivo di diversificare le fonti, rilanciare il nucleare, facilitare la costruzione di rigassificatori, limitare il ricorso alle importazioni, promuovere la sicurezza, l' efficienza e la sostenibilità ambientale. Al termine del processo, Claudio Scajola e Stefania Prestigiacomo convocheranno una conferenza nazionale energia-ambiente. Ma chi dovrebbe gettare le basi di questo impianto? La politica energetica italiana finora è stata disegnata da un minuscolo drappello di professionisti, riuniti nella Direzione Generale Energia, all' interno del Dipartimento Competitività del ministero dello Sviluppo Economico e guidati da Sara Romano dall' inizio dell' anno scorso. Un' unità battagliera, ma debole, assillata da sempre dalla carenza di personale e dalla scarsa capacità di spesa. E i compiti futuri della direzione, che non riporta nemmeno direttamente al ministro, già fanno tremare le vene ai polsi dei suoi componenti. Da qui la decisione di Scajola di rivoluzionare tutto il ministero, elevando l' Energia da Direzione generale a Dipartimento, da aggiungersi agli altri tre su Competitività, Regolazione del Mercato e Politiche di Sviluppo. «La politica energetica è un aspetto chiave per la competitività e la sicurezza di un Paese, tanto che negli Stati Uniti c' è addirittura un ministero dedicato», commenta Guido Possa, senatore di Forza Italia e consigliere in tema di energia molto ascoltato non solo dallo stesso Scajola, ma anche da Silvio Berlusconi, di cui è amico d' infanzia. Possa, esperto in materia di controllo e sicurezza dei reattori (che ha insegnato al Politecnico di Milano) e da sempre portabandiera del ritorno al nucleare ed è convinto che la scelta politica del governo vada riempita di uomini e di contenuti in tempi brevi, se non si vuole perdere il treno della rinascita dell' atomo a livello internazionale. «Per rimettere in piedi tutto l' impianto normativo e di sicurezza ci vorranno mesi di lavoro a tempo pieno di una task force dedicata all' interno del ministero. Bisogna ridisegnare un' Authority che si occupi solo di questo, con uno staff di 4-500 persone, non le 40-50 che l' Apat dedicava a questa materia. Ai cittadini deve essere garantito il massimo dell' informazione e della sicurezza, se si vuole operare una scelta bipartisan. E non c' è altro modo per fare il nucleare, se non trovare un consenso nazionale, perché un piano strategico di 8-10 centrali che dura sessant' anni non si può certo rimettere in discussione a ogni cambio di governo». Sicurezza e trasparenza è appunto quello che dovrà fornire il nuovo Dipartimento Energia. La ristrutturazione è in via di stesura in un Dpcm che dovrebbe essere pronto in tempi brevi: comprenderà anche l' integrazione delle competenze sulle comunicazioni e il commercio estero, fino alla passata legislatura affidate a due ministeri separati. «L' energia è il banco di prova del governo», fa notare Sergio Garribba, predecessore di Sara Romano e ora consulente di Scajola. Garribba, che ha insegnato «impianti nucleari» al Politecnico di Milano, è uno dei nomi che girano per la guida del nuovo dipartimento. «Il ministero - aggiunge - deve diventare una macchina compatta per affrontare questa sfida». Nel piano di sviluppo collegato alla finanziaria 2009, il governo è delegato a emanare i decreti con i criteri per la localizzazione degli impianti e dei sistemi di stoccaggio delle scorie, oltre alle misure di compensazione per le popolazioni interessate. Tra i principi generali della delega c' è già la possibilità di dichiarare i siti aree d' interesse strategico nazionale. Non sfugge a nessuno che la realizzazione di un piano nucleare esiga di ricondurre al centro il potere strategico e decisionale, ora delegato in gran parte agli enti locali. «E' un problema che va risolto», sostiene Fulvio Conti ormai da mesi. Ma su questo aspetto cruciale il governo resta molto prudente. * * * La parabola delle centrali in Italia 1 gennaio 1964 Diventa operativa la prima centrale a Latina. Seguiranno poi quelle di Garigliano (giugno 1964), Trino Vercellese (gennaio 1965) e Caorso (dicembre 1981). 26 aprile 1986 Esplode il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl da cui fuoriesce una nube radioattiva che contamina buona parte d' Europa, Italia compresa. Oltre 300 mila gli evacuati. 8 novembre 1987 Referendum contro il nucleare in Italia. I «sì» stravincono con l' 80,6% dei voti. Il referendum vieta anche la partecipazione dell' Italia alla realizzazione di impianti all' estero. 17 febbraio 2005 Enel rientra nell' atomo comprando l' utility slovacca Slovenske Elektrarne e il 30 maggio 2005 sigla l' accordo con Edf per partecipare alla costruzione dell' Epr. 15 maggio 2008 Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nelle dichiarazioni programmatiche al Senato definisce il nucleare una «scelta indispensabile» per l' Italia.

20 giugno 2008

Charles O'Reilly

Per avere successo sul lungo periodo, una grande impresa deve trovare il modo di conciliare e perseguire obiettivi apparentemente in conflitto. Charles O' Reilly, professore alla Business School di Stanford, e uno dei più quotati esperti internazionali di leadership e innovazione, ha coniato il termine «organizzazione ambidestra».
Che cosa intende con il concetto di «ambidestra»?
«I manager davvero visionari non devono arrendersi al conflitto fra prodotti di alta o bassa qualità, fra strategia prudente o rischiosa, fra profitti di breve o di lungo periodo. Devono trovare un modo per conciliare yin e yang in una stessa organizzazione, anche se sembrano andare in direzioni opposte secondo una visione standard».
In pratica, come devono fare?
«In un' epoca di cambiamenti rapidi come questa, bisogna essere capaci di perseguire nello stesso tempo il core business dell' azienda, ma anche aprire nuovi fronti di espansione. In sostanza, si tratta di togliere risorse ai settori dove si vola già alto per identificare e sviluppare quelli in cui si volerà alto tra dieci anni, anche se può essere difficile da giustificare di fronte agli azionisti».
Facciamo qualche esempio pratico.
«Due casi concreti nello stesso settore, uno negativo e uno positivo: Polaroid e Kodak. Polaroid avrebbe avuto tutte le risorse necessarie per riconvertirsi in un' azienda di software se avesse perseguito il nuovo business in tempo. Ma è finita in bancarotta. Kodak, invece, ha saputo aprire nuovi fronti prima di perdere la guerra sul vecchio. E prospera».
Qual è il segreto per riuscire a barcamenarsi fra il vecchio e il nuovo?
«Non si può pensare che un progetto molto innovativo generi gli stessi profitti e le stesse dinamiche del core business. Essere ambidestri significa accettare di avere all' interno segmenti di business che vengono misurati con criteri diversi, non imporre la stessa strategia manageriale a tutto il gruppo».
In pratica?
«Ibm si è reinventata molte volte nei suoi cent' anni di vita, la sua principale fonte di reddito erano i mainframe e oggi sono i servizi, ma negli anni Novanta, quando ha cominciato ad emergere l' informatica distribuita, ha rischiato di fallire. Ibm ha risalito la china puntando sue due direttrici: i servizi a valore aggiunto e i sistemi cosiddetti midrange, che sono letteralmente esplosi prima nelle pmi e poi anche nelle grandi aziende, come snodo fra i grandi mainframe e le unità produttive decentrate. Ma prima che esplodessero sono passati anni, in cui i profitti tardavano ad arrivare. E' quello il momento più difficile».
In che senso?
«Gli azionisti premono per vedere i risultati e il management deve decidere se continuare gli sforzi o abbandonare un progetto che potrebbe diventare la fonte centrale di reddito del futuro, ma ancora non lo è. Decidere se tenere duro o cambiare strada è molto difficile. Per questo è importante capire che i nuovi business non vanno misurati con gli stessi parametri dei vecchi e bisogna dar loro tempo per svilupparsi».

16 giugno 2008

Attenti a non farvi travolgere da un omino con un Gps

Cosa possono avere in comune un laghetto nei boschi della Val Venosta, un assolato campiello sull'isola di Murano e il parco del Monte Conero? Quasi nulla, tranne il fatto che in tutti e tre questi luoghi è nascosto un tesoro. Comincia così a diffondersi anche in Italia la nuova moda del geocaching, un gioco tecnologico che unisce lo spirito smanettone con le aspirazioni naturalistiche degli orfani della net economy. Niente paura, quindi, se durante una scampagnata domenicale ci si para davanti all'improvviso dal sottobosco un omino con in mano un apparecchio che lancia segnali acustici intermittenti, balza sull'albero più vicino e cerca di arrampicarcisi sopra. Lo sconosciuto distrubatore, che dopo un rapido saluto si dileguerà a precipizio con gli occhi incollati allo schermo dell'aggeggio, probabilmente è stato colpito dalla nuova mania, proveniente dal Nord America, che ormai dilaga in tutto il mondo, per la precisione in ben 165 Paesi, compresa l'Italia. Da quando l'amministrazione Usa ha aperto anche ai civili l'utilizzo dei satelliti militari Gps (Global Positioning System), il pianeta si è a poco a poco trasformato nel teatro di un'immensa caccia al tesoro, che ha mosso i suoi primi passi dalle parti di Seattle, nel Nord-Ovest degli Stati Uniti, per iniziativa di un gruppetto di amici. Sono loro - Jeremy Irish, Elias Alvord e Bryan Roth - che oggi dirigono il traffico dei giocatori dal sito www.geocaching.com, una specie di centrale dell'immenso movimento nato spontaneamente e in maniera del tutto inattesa da quel primo nucleo. "Quando ho avviato il sito non avrei mai immaginato che il geocaching sarebbe diventato coì popolare", spiega Irish, un programmatore e web designer di Seattle. "In realtà - ricorda - il primo ad avere l'idea è stato Mike Teague, di Portland, in Oregon. Ma allora il sito non esisteva e i geocacher si parlavano attraverso un newsgroup chiamato sci.geo.satellite-nav”. C'è però chi sostiene che il primo geocacher fosse un finlandese, Nuuksion Metsäsissit: come in tutte le saghe di successo, ci vuole anche un mitologico primogenitore. Ma in pratica è stata la creazione del sito, che ha dato il via alla fase di grande diffusione. “Ora – precisa Irish - abbiamo migliaia di iscritti attivi, con circa mezzo milione di tesori nascosti in tutto il mondo. Ma il movimento è più vasto, perché molti appassionati di geocaching lo praticano senza iscriversi". Il gioco è molto semplice: il primo passo è nascondere un tesoro, di solito un contenitore di plastica tipo Tupperware ben chiuso, con dentro chincaglieria di poco valore e un "diario di bordo", dove gli scopritori devono annotare i propri dati. Il nascondiglio va poi registrato nel sito, dando le coordinate geografiche esatte della sua posizione. E già dopo poche ore fioccano i primi geocacher, armati di un terminale Gps di cui esistono ormai in commercio i modelli più diversi, con o senza bussola e altimetro elettronici incorporati, con o senza cartografia, usati soprattutto per la nautica da diporto, il trekking o il volo. L'apparecchio, delle dimensioni di un palmare (alcuni cellulari ce l'hanno già incorporato), è in grado di portare i geocacher a pochi metri di distanza dall'oggetto del desiderio, che poi va trovato utilizzando la descrizione, di solito molto precisa, registrata nel sito. Una volta scovato, il contenitore va lasciato dov'era e certamente non svuotato completamente del suo contenuto, ma semmai arricchito di qualche altro oggettino dopo aver intascato un ricordo ed essersi registrati nel diario, magari scrivendo una frase di commento per i prossimi visitatori. Astenersi vandali. Qualsiasi nascondiglio va bene, da un albero cavo a una rovina romana, in Italia sono stati utilizzati anche il Colosseo e la torre di Pisa, ma c'è invece chi si spinge in luoghi davvero sorprendenti e spesso quasi inaccessibili, da un'oasi nel deserto del Sahara a un bosco di betulle in Lapponia, da un relitto sommerso ai Caraibi, al largo di Bimini, fino ai ghiacci dell'Antartide. I tesori nascosti, chiamati "cache", sono ormai quasi in tutto il mondo, compresa la Cina, la Bolivia e l'Albania (c'è anche il Kuwait, ma non l'Iraq). Le migliaia di appassionati, tra cui primeggiano naturalmente americani ed europei tecnologicamente avanzati, spesso scelgono la destinazione delle proprie vacanze proprio in funzione della "densità di tesori" reperibili in loco. In Europa, i Paesi più contagiati sono la Gran Bretagna e la Germania, dove l'amore viscerale per la natura si accompagna a un'antica passione per la tecnologia. Ma anche in Olanda e nei Paesi scandinavi la mania dilaga a macchia d'olio. Da qui, oltre che dal Nord America, vengono i cacciatori più incalliti, quelli che collezionano tesori a ritmo da Guinness dei primati. Da qui hanno cominciato a diffondersi le varianti più sofisticate del gioco, che includono ricerche a tappe, con diversi luoghi da visitare e indovinelli da risolvere prima di trovare l'amata scatoletta, oppure tesori viaggianti (detti travelbug) che possono essere trasportati da un posto all'altro, a patto di registrarne la nuova collocazione. I geocacher hanno sviluppato un loro gergo - di cui nel sito si può trovare un glossario - e creato una vasta rete di contatti, virtuali e reali, con ritrovi e cacce al tesoro collettive. Gli appassionati, del resto, rientrano in un profilo sociologico relativamente omogeneo: si tratta perloppiù di maniaci dell'hi-tech con simpatie ambientaliste, la stessa gente che ama l'abbigliamento Patagonia e ha mosso negli anni Novanta la rivoluzione digitale, che magari nel frattempo ha messo su famiglia e introduce anche i pargoli all'avventura. Nelle zone in cui il gioco è più sviluppato, soprattutto sulle due coste degli Stati Uniti ma anche nel Nord Europa, dove il popolo della net-economy orfano della bolla borsistica si è trovato altre occupazioni, la vendita di equipaggiamento per geocacher e il turismo mirato stanno ormai assumendo tutte le caratteristiche di un vero e proprio business. Per chi si vuole aggregare, una buona occasione sarà il prossimo 29 giugno per il secondo Nano Event che si svolgerà all’interno del Parco Nazionale del Circeo, nel bel mezzo della Foresta Planiziale, in quella che anticamente era conosciuta come Selva di Circe. E attenti a non farvi travolgere da un'omino con un Gps.

9 giugno 2008

Le frecce di Robin Hood su Eni, Shell e Total

Il greggio sale di un dollaro al barile? Per una compagnia petrolifera come l' Eni, l' utile netto si gonfia di 200 milioni di euro all' anno. E nel 2007 il prezzo del petrolio è raddoppiato, da 50 a 100 dollari al barile. Un trend che continua ancora, con punte oltre i 130. Mentre i costi di produzione non si spostano di molto: a seconda dei Paesi, oscillano fra i 5 e i 10 dollari al barile. E' così che si spiegano i profitti record delle major, dai 40,6 miliardi di dollari incamerati l' anno scorso dal numero uno mondiale, l' americana Exxon, ai 10 miliardi di euro (15,5 miliardi di dollari) dell' Eni. Se la Exxon fosse un Paese, i suoi profitti risulterebbero superiori al Pil di due terzi delle 183 nazioni comprese nelle graduatorie della Banca Mondiale. L' Eni invece si collocherebbe a metà, fra Cipro e l' Islanda. E' ben vero, come ha sostenuto giovedì 12 giugno lo stesso Paolo Scaroni, che l' extraprofitto resta in parte nelle tasche dei Paesi produttori, sempre più esosi nei confronti delle compagnie petrolifere indipendenti. Ma è anche chiaro che l' Italia, pur essendo fra i principali produttori di idrocarburi d' Europa, incassa ben poco sul fronte delle royalties sulle licenze di estrazione, mantenute insolitamente basse. «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di "profit sharing sulle rendite petrolifere", suggerisce Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi. «Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Un progetto in questo senso era già stato formulato a fine 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell' Industria e del Tesoro, quando il precedente governo Berlusconi si era trovato di fronte allo stesso problema, dopo una cavalcata delle quotazioni del greggio da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Ma poi cambiò il governo e non se ne fece nulla. Oggi, aggiornati i conti e i meccanismi alla luce dei nuovi record, quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l' anno sull' estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli -, ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri Paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall' Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Il problema principale della «Robin Hood Tax», sulla base di quanto è stato anticipato finora da Giulio Tremonti, è che una maggiorazione straordinaria dell' imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l' Eni e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro, che già si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista. «Da un lato, quindi, si rischia un effetto di sostituzione, che non migliorerebbe le entrate dello Stato», commenta Marzio Galeotti, economista esperto di energia della Statale. «Per non parlare poi del fatto - aggiunge - che farebbe infuriare gli altri azionisti e deprimerebbe i corsi borsistici del cane a sei zampe». Un altro rischio della Robin Hood Tax è di colpire il bersaglio sbagliato. «Bisogna distinguere bene - spiega Davide Tabarelli di Nomisma Energia - fra upstream e downstream». La vera rendita petrolifera risiede nel primo segmento, di esplorazione e produzione. «La rendita mineraria delle compagnie, che producono a 5-10 dollari al barile e poi vendono a 120 sui mercati internazionali, è gigantesca», fa notare Tabarelli. La raffinazione, invece, è un' attività industriale come un' altra, con margini piuttosto risicati. Basta guardare i conti di Saras o Erg per rendersene conto. E la distribuzione è semmai l' anello debole della catena, assediata dai problemi di competitività nel settore commerciale. «Colpire la raffinazione - ammonisce Tabarelli - sarebbe come aumentare le tasse sui carburanti, che sono già altissime: andrebbe immediatamente a colpire i consumatori». In sostanza, gli esperti concordano. «L' aumento delle royalties sulle licenze di estrazione è un discorso serio - interviene Pia Saraceno del Ref - tutto il resto è solo populismo». Nessuno nega il valore etico dell' idea di colpire i ricchi per dare ai poveri. «Ma bisogna stare attenti a non provocare più danni che vantaggi ai consumatori», precisa Saraceno. Che apre un nuovo fronte di discussione: sulla rendita idroelettrica. «L' acqua non costa niente, ma il prezzo dell' energia viene trascinato in alto dal caro-greggio. Anche l' Enel, che è il principale beneficiario di questo vantaggio, gode di margini crescenti: ragioniamoci su».

E noi scommettiamo sull'anidride carbonica

L' economia del carbonio entra nel mirino della grande finanza. Tra i mercati delle materie prime, quello della CO2 mostra ormai la crescita più promettente e svolge un ruolo-chiave nel consentire alle aziende di pianificare la loro strategia ambientale, offrendo trasparenza nei prezzi. Il programma di scambi in Europa per il 2008 è stimato in ben 46 miliardi di euro e a livello globale risultano avviati 940 progetti legati al Clean Development Mechanism (Cdm) del Protocollo di Kyoto, in grado di generare oltre due miliardi di «carbon credits». Si tratta di centrali a energia rinnovabile, di sostituzione delle vecchie tecnologie inefficienti o di recupero di energia là dove viene sprecata. In tutto il mondo le società finanziarie e le banche d' affari stanno investendo in questi progetti, che generano crediti di carbonio nei Paesi in via di sviluppo. I finanziamenti del venture capital sono arrivati a 5,18 miliardi di dollari nel 2007, con un aumento del 44% rispetto al 2006. Ultimo esempio, l' accordo annunciato fra il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) e il gruppo finanziario belga-olandese Fortis per supportare una serie di progetti «verdi» in Uzbekistan, Macedonia, Yemen e Ruanda, Paesi dove le attività di Cdm finora erano inesistenti. In base al Protocollo di Kyoto - che riconosce anche gli investimenti condotti dai Paesi sviluppati in quelli meno avanzati - questi progetti generano crediti di carbonio, liberamente negoziabili poi sui vari mercati mondiali. Se un' azienda di un Paese industrializzato supera il suo tetto di emissioni, è lì che dovrà andare a comprare i diritti ad inquinare, a un prezzo medio di 20 euro a tonnellata di anidride carbonica. «La crescita di questo comparto è inevitabili, anche grazie alla crescente pressione su tutta la filiera produttiva degli idrocarburi, dall' estrazione fino ai trasporti marittimi, che riduce l' offerta di petrolio e gas proprio mentre sta crescendo la richiesta delle popolazioni in via di sviluppo, soprattutto quella cinese», spiega Harris Antoniou, amministratore delegato di Fortis Energy, Commodities & Transportation. In questo modo i prezzi degli idrocarburi salgono e i progetti di generazione di energia da fonti rinnovabili diventano remunerativi. «Malgrado la battuta d' arresto dei mercati - sostiene Antoniou - non c' è dubbio che il comparto delle energie alternative abbia un grandissimo futuro e continui a crescere a ritmi sostenuti». Le decisioni politiche che si continuano a prendere nei Paesi industrializzati, del resto, confermano il trend. La Ue si è data dei traguardi precisi per il 2020, con un taglio delle emissioni di gas serra del 20%, che saliranno al 30% in caso di accordi internazionali più restrittivi, e un obiettivo vincolante del 20% nella produzione di energia alternativa, compreso un 10% di utilizzo di biocarburanti. «Sono valori che porranno l' Europa all' avanguardia di questo mercato, dov' è già oggi in posizione di leader», osserva Antoniou, che apprezza soprattutto l' eolico danese e il fotovoltaico tedesco. Ma anche a livello globale si sta andando verso un' accelerazione. Il processo di rinnovo del Protocollo di Kyoto dopo il 2012, anno in cui scade il periodo di adempimento, è già cominciato e l' Ipcc (il Gruppo intergovernativo sui mutamenti climatici che lo scorso anno ha vinto il premio Nobel per la pace) ha indicato alcuni traguardi precisi: una riduzione del 25-40% delle emissioni dei Paesi industrializzati entro il 2020 e una globale del 50-85% entro il 2050. La novità più importante è l' affacciarsi degli Stati Uniti a un sistema di «cap and trade» simile a quello europeo. Per l' economia del carbonio potrebbe essere la svolta decisiva.

2 giugno 2008

Modello Finlandia: l'atomo va in banca

Costruire una centrale nucleare non è un' impresa semplice. Niente a che fare con le dimensioni finanziarie di un ciclo combinato a gas. Costi e tempi sono molto più impegnativi. Ma il caro-greggio e le limitazioni di Kyoto fanno pendere la bilancia del mercato internazionale verso l' atomo, perciò gli appalti si moltiplicano. Dopo la Georgia, anche in South Carolina è partito l' ordine alla Westinghouse per due reattori AP1000 da 1100 MW ciascuno, piazzato dalla South Carolina Gas and Electricity, una delle più grosse utilities americane. «Prezzo complessivo, chiavi in mano: 9,8 miliardi di dollari, ovvero 6,3 miliardi di euro, cioè 2.800 euro per kilowatt», riferisce Alessandro Clerici, responsabile del gruppo di lavoro sul nucleare del World Energy Council e vicepresidente della Commissione Energia di Confindustria. «Un bel salto rispetto ai 2 mila euro per kilowatt della prima centrale europea di terza generazione, la finlandese Olkiluoto3», fa notare Clerici, che è appena rientrato dalla Scandinavia, dove ha accompagnato una delegazione di Energy Lab con Giuliano Zuccoli per prendere contatto con gli amici finlandesi. L' interesse degli italiani si concentra in particolare sulle modalità di finanziamento. Il reattore, un Epr da 1.600 MW che entrerà in funzione nel 2011, è stato ordinato nel 2005 alla joint-venture franco tedesca Areva-Siemens dalla Tvo, una società senza scopo di lucro in cui si raccolgono sessanta azionisti, fra operatori elettrici e industriali della carta. Il consorzio si è impegnato a ritirare a prezzo di costo tutta l' energia prodotta, per soddisfare il proprio fabbisogno. Così ha abbattuto il rischio di mercato ed è riuscito a farsi finanziare l' investimento dalle banche all' 80%, con un tasso molto contenuto, del 5%. Ecco come hanno fatto i finlandesi a ridurre il costo dell' investimento a 2 mila euro al kilowatt, che tradotto in termini di produzione significa 15 euro a megawattora. Basta aggiungere altri 15 euro - tra costi standard di gestione, acquisto del combustibile (che ha un' incidenza minima), trattamento dopo l' utilizzo e smantellamento finale dell' impianto - per ottenere il prezzo dell' energia a bocca di centrale: 30 euro a MWh. Ma attenzione, anche il modello finlandese non riesce a fermare la cavalcata delle materie prime. In questi tre anni il prezzo dell' acciaio è raddoppiato, quello del rame quintuplicato. E l' effetto si vede, confrontando i costi del primo Epr con quelli del secondo, su cui sono già partite le richieste di autorizzazione. Tvo, guidata dal presidente Pertti Simola, sarà anche stavolta della partita. Ma i costi di costruzione per Olkiluoto4 - si legge nei primi studi di fattibilità - saranno molto più salati: da 2000 a 2800 euro al kilowatt, in linea con quelli americani. Tradotti in termini di produzione: 21 euro al MWh, più i soliti 15 di gestione, per un prezzo finale dell' energia di 36 euro al MWh. Sempre la metà di un megawattora a gas, ma un pò meno conveniente. Un trend destinato a continuare: fra cinque anni, in pieno boom di richieste, i prezzi saranno certamente più alti e i termini di consegna più lunghi. Sul modello finlandese si possono anche calcolare i tempi: per Olkiluoto4 si sa già che ci vorranno 11-12 anni. Due per la valutazione d' impatto ambientale, uno per l' autorizzazione governativa, che comporta un voto in Parlamento, un altro per la licenza di costruzione dall' Authority nucleare, altri due per le gare d' appalto, 5-6 per la costruzione materiale della centrale.