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25 marzo 2010

Tutta legno e domotica: la casa del futuro

Tutta legno e domotica. Grazie a un sistema che integra pannelli solari,fotovoltaico, minieolico e geotermia con le strategie bioclimatiche, la casaZero Energy bilancia consumi e produzione energetica per arrivare all'impattozero sull'ambiente. Il primo esemplare, costruito in Friuli dal gruppo Polovicino a Tricesimo, è stato appena inaugurato.

"Ci abbiamo messo due anni per arrivare a questo risultato, con un monitoraggio continuo del prototipo che è stato via via modificato e perfezionato in base ai risultati della ricerca", spiega Antonio Frattari, direttore del Centro Universitario Edifici Intelligenti dell'università di Trento e ordinario di Architettura del legno, oltre che presidente del Green Building Council Italia, l'organismo che conferisce la certificazione Leed. Frattari ha seguito tutto il progetto dall'inizio e continuerà a seguirlo anche quando la casa sarà abitata, per mettere a confronto il comportamento teorico dell'edificio con il benessere effettivo degli abitanti. La casa, progettata dall’architetto Arnaldo Savorelli dello Studio Solarch a Bussolengo, ha una struttura in legno lamellare a telaio e sfrutta una serie di elementi passivi, sia per il riscaldamento invernale sia per la ventilazione e il raffrescamento estivo. La facciata Sud, disposta verso il giardino, ha un’ampia superficie vetrata e una serra che sfrutta i raggi del sole permettendone l’ingresso durante l’inverno, mentre in estate le vetrate sono schermate da brise-soleil per evitare il surriscaldamento. La facciata Nord, al contrario, è caratterizzata da aperture di piccole dimensioni, utilizzate in estate per la ventilazione notturna. L'abitazione è collegata alla rete elettrica, ma potrebbe anche essere off grid, perché produrrà energia in eccedenza rispetto al fabbisogno e quindi la rivenderà alla rete. L'ampio utilizzo della domotica ne farà una casa intelligente, in grado di integrare i vari sistemi e di percepire le variazioni esterne per regolare in modo autonomo la climatizzazione. "L’edificio è realizzato con materiali naturali e rinnovabili, esclusa la ferramenta della carpenteria che dev'essere in acciaio. E’ quindi classificabile come natural building", spiega Frattari. "I montanti sono prodotti secondo dimensioni modulari, in modo da potersi adattare alle altezze standard delle diverse tipologie edilizie, e gli elementi costruttivi sono maneggevoli, tanto che le pareti possono essere realizzate da una sola persona", fa notare Frattari, che vede in questo prototipo l'elemento di partenza per un sistema replicabile industrialmente, da utilizzare ad esempio in quartieri ecologici, come quelli costruiti a Friburgo o i BedZed inglesi.

20 marzo 2010

Otto miliardi in fumo: recuperiamo lo spreco energetico!

Otto miliardi. Lo spreco energetico nel settore residenziale continua a crescere in Italia e pesa ogni anno quanto una finanziaria. Ma questi 8 miliardi di sprechi – a fronte di una bolletta energetica nazionale di 60 miliardi l'anno – potrebbero essere evitati o drasticamente ridotti, se le case che si costruiscono e si ristrutturano fossero tutte, alla fine, in classe A, la classe energetica che definisce gli immobili con i consumi più bassi, sia per il riscaldamento invernale sia per il raffrescamento estivo. Un obiettivo non impossibile da raggiungere, considerando che in molte regioni d'Italia le costruzioni nuove sono obbligate a rispettare criteri energetici stringenti, mentre le ristrutturazioni verdi godono di detrazioni fiscali e di incentivi che riescono a compensare il costo dei lavori. Non a caso le imprese del settore puntano proprio sulla riqualificazione energetica degli edifici per voltare pagina dall'annus horribilis appena attraversato dall'edilizia: un'onda verde che potrebbe aiutare fornitori, costruttori e progettisti a fare massa critica per rilanciare la competitività del settore, caratterizzato da una grande frammentazione. L'agevolazione fiscale più consistente per il risparmio energetico permette di detrarre dall'Irpef o dall'Ires lorda il 55% delle spese sostenute per installare pannelli solari che producono acqua calda, per sostituire i sistemi di riscaldamento con impianti dotati di caldaia a condensazione e per gli interventi generali di riqualificazione energetica delle strutture. In più, le spese sostenute per il recupero edilizio hanno una detrazione del 36%, che potrebbe valere anche per l'installazione di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica, ma se ci si avvale della detrazione Irpef del 36% per installare l'impianto fotovoltaico, l'elettricità prodotta non può essere incentivata attraverso il cosiddetto "conto energia", le cui tariffe sono molto più redditizie. Anziché la detrazione fiscale una tantum, quindi, conviene utilizzare il conto energia, che assicura per vent'anni un contributo – la tariffa incentivante – pari alla quantità di energia pulita prodotta. L'impianto fotovoltaico, poi, può funzionare in regime di scambio sul posto: oltre al contributo regolare, che va a compensare il costo dei lavori, l'energia elettrica prodotta e immessa in rete compensa quella prelevata e consumata, azzerando la bolletta. Nel 2009 ben 43mila utenti si sono allacciati alla rete in regime di scambio sul posto, per una potenza di circa 175 megawatt complessivi. Il costo dei moduli e le spese professionali si possono finanziare tramite un meccanismo di credito fotovoltaico, offerto da quasi tutte le banche: in pratica, viene aperto un conto corrente sul quale confluiscono gli incentivi erogati dal Gestore dei servizi elettrici e da quello stesso conto la banca preleva le rate per il rimborso del prestito. Se l'operazione è ben congegnata, il saldo è in equilibrio. Di solito, il prestito si estingue in quindici anni e dal sedicesimo anno in poi la tariffa incentivante diventa un guadagno netto, fino al ventesimo anno. Ma anche dopo la fine degli incentivi resterà il risparmio sulla bolletta, perché i pannelli hanno un rendimento garantito dell'80% anche dopo anni 25 di esercizio.Con questa operazione, l'edificio può ricevere il "bollino verde" della certificazione energetica, che nei Paesi dov'è già diffusa influenza molto il mercato immobiliare, perché un immobile di classe A si vende e si affitta a prezzi più elevati, mentre un "immobile colabrodo" di classe F o G viene deprezzato. Questo ciclo virtuoso induce i proprietari e le imprese edili a curare di più impianti e strutture per poter spuntare guadagni maggiori al momento giusto. In Italia, per ora, l'effetto virtuoso è limitato, di fatto, agli immobili nuovi. I loro acquirenti stanno a poco a poco rendendosi conto che le case con fabbisogni energetici bassi hanno prezzi solo un po’ più elevati, che vengono però ammortizzati nel corso di pochi anni. Viceversa le prestazioni energetiche degli immobili "usati" incidono poco sui prezzi di compravendite e locazioni. Comunque sia, la certificazione energetica al rogito è un obbligo imposto dalle norme europee e l’Italia non può dissociarsi. Meglio quindi renderla un adempimento utile, nella speranza che in futuro cresca la sensibilità degli italiani sui temi del consumo di conbustibile.

13 marzo 2010

L'agricoltura urbana salverà il mondo

Nel 1900, solo il 10% della popolazione mondiale viveva in città. Quest'anno, per la prima volta nella storia dell'umanità, oltre la metà di noi risulta concentrata in agglomerati urbani sempre più densi. E le previsioni dicono che già nel 2030 saremo all'80% cittadini. Da qui nasce l'idea dell'agricoltura urbana. Per alimentare tutta questa gente, quale sistema migliore di costruire in loco le fattorie dove cresceranno le piante destinate a sfamarli? Ma anche per ridurre l'impronta agricola delle città, che divora sempre più territorio. L'impronta agricola di New York, ad esempio, ha ormai raggiunto le dimensioni della Virginia. Non a caso, è proprio New York il principale laboratorio mondiale in materia di urban farming, a partire da Dickson Despommier, un professore della Columbia che predica l'agricoltura urbana già da vent'anni, fino ai progetti più recenti, realizzati o in via di realizzazione. Come la trasformazione del cortile interno al Contemporary Art Center di Queens in un enorme orto urbano distribuito su grandi bidoni verticali, o la costruzione, appena cominciata a Brooklyn, di una scuola con spettacolare serra annessa, dove i ragazzi coltiveranno quello che mangiano a pranzo. Le due opere sono state progettate dalla stessa coppia di architetti, la libanese Amale Andraos e l'americano Dan Wood, entrambi usciti dallo studio di Rem Koolhaas e impegnati da anni nella creazione di edifici urbani che diano spazio alle piante, come la nuova biblioteca dei Kew Gardens, coperta da un tetto erboso. Il progetto Edible Schoolyard, che stanno realizzando a Brooklyn, nasce dall'impegno di Alice Waters, fra i più seguiti guru americani dell'alimentazione naturale, che gestisce in California un tempio della cucina biologica, Chez Panisse. Waters, autrice di molti libri sull'argomento, ha contribuito negli anni Ottanta a Berkeley alla fondazione del primo Edible Schoolyard, dove il rapporto diretto con la terra viene utilizzato come strumento pedagogico. A Brooklyn il progetto è molto più ambizioso: la scuola costerà 1,6 milioni di dollari e sarà più grande, dovendo ospitare 500 ragazzini dall'asilo fino alle medie, con ampie zone a pannelli fotovoltaici per abbattere i consumi di combustibili fossili. Una novità ancora più importante sta sorgendo dall'altra parte dell'East River: il primo edificio completamente carbon neutral di Manhattan, chiamato Solar2 e disegnato da Kiss & Cathcart, dove il pezzo forte sarà una serra integrata verticale progettata da BrightFarm Systems. Il sistema di BrightHouse, una società specializzata nella coltivazione idroponica, che ha già costruito varie serre sui tetti di New York, consiste nell'orticoltura senza bisogno di terra: il nutrimento necessario viene fornito alle piante direttamente sciolto nell'acqua con cui vengono irrigate. In questo caso lattuga, pomodori e cetrioli verrebbero inseriti in doppia fila nell'intercapedine fra le due superfici di vetro della facciata ventilata, esposta a Est sulla riva del fiume, appoggiate su dei vassoi irrigati sempre in movimento, che salgono fino in cima alla parete trainati da cavi laterali e poi scendono dall'altra parte. Il movimento perpetuo permette d'intercettare il massimo della luce e il sistema di cavi consente di lasciare più o meno spazio fra un vassoio e l'altro per far entrare più o meno luce nell'edificio, a seconda delle stagioni. La presenza delle piante aumenta l'isolamento del palazzo, riducendo i costi di riscaldamento, raffreddamento e insonorizzazione, mentre la vendita del "raccolto" (che avviene sempre alla base) offre un'entrata fissa agli abitanti. Ma New York non è l'unico laboratorio dell'agricolutra prossima ventura. A Londra si progetta una fattoria urbana al posto della centralissima Leadenhall Tower, il grattacielo di 48 piani disegnato da Richard Rogers in piena City, che i londinesi avevano già soprannominato Cheese Grater per la sua parete inclinata. La crisi immobiliare ha bloccato la costruzione quest'estate, prima di cominciare e British Land in autunno ha indetto un concorso per riutilizzare il prezioso appezzamento: "Abbiamo bisogno di qualcosa di rapido per tappare il buco e non è l'unico buco in città che andrà tappato", ha detto Christine Cohen, presidente del comitato progettuale, spiegando il cambio di programma. Il concorso è stato vinto dalla fattoria urbana di Piers Taylor, un'architetto di Bath con ampia esperienza in urban farming. E così a Leadenhall Street si coltiveranno su una serie di fantasiose piattaforme le carote e i pomodori che andranno poi in vendita in una serie di chioschetti in mezzo alla City. Ma altri preziosi buchi neri londinesi sembrano destinati a trovare lo stesso uso. La società immobiliare che stava sviluppando il sito dell'ex ospedale di Middlesex, a Noho (North Soho), ha deciso di virare verso un progetto "Growho" finché non passa la buriana. E anche per un isolato sventrato su Oxford Street si comincia a parlare di fattoria urbana. Ben più ambizioso è il progetto di Andrew Maynard, un giovane architetto australiano molto noto per il suo impegno ambientalista, che sta cercando di convertire a Urban Orchard i tetti dei grattacieli di Melbourne, con un sistema che si autoalimenta attraverso la produzione di energia dalle biomasse di scarto: ogni tetto riconvertito dovrebbe avere alla base un punto vendita per le verdure coltivate in loco, aumentando così decisamente la sostenibilità del prodotto, che non avrebbe più bisogno di essere trasportato a Melbourne da lontano. Il suo progetto ha vinto il concorso Growing Up 2009, indetto dalla città di Melbourne per riconvertire i tetti dei grattacieli a verde pubblico, e ha buone probabilità di essere presto tradotto in pratica.

12 marzo 2010

Jared Blumenfeld: com'è verde la mia San Francisco

"Se potessimo ridurre l'impronta ambientale delle città, sarebbe un enorme passo avanti per il pianeta intero". Jared Blumenfeld, per otto anni zar dell'ambiente a San Francisco, sa di che cosa parla. Sotto la sua direzione, il dipartimento Ambiente del Comune è diventato un punto di riferimento centrale nella vita politica cittadina. Ma la sua missione parte da molto più lontano: prima di entrare nella pubblica amministrazione, Jared ha combattutto contro le baleniere giapponesi e norvegesi per l'International Fund for Animal Welfare e per EarthJustice, mettendo la sua specializzazione in giurisprudenza ambientale al servizio della battaglia animalista. All'inizio del 2010, Jared è stato chiamato a dirigere la regione Pacific South West del ministero dell'Ambiente Usa, che comprende California, Arizona, Hawaii, Nevada e le isole del Pacifico. Negli ultimi due anni ha percorso in bicicletta tutti i 220 parchi pubblici di San Francisco e come viaggio d'addio si è arrampicato in bici fino a Camp Mather, il rifugio gestito dalla città sulla Sierra Nevada: 160 miglia coperte in due giorni.
Otto anni alla guida del dipartimento Ambiente di San Francisco: qual'è stato il successo più importante?
"Aver spostato l'ambiente al centro del dibattito cittadino. All'inizio del mio mandato, quando parlavo di protezione ambientale la gente pensava a Yosemite o a Yellowstone. Adesso pensano a San Francisco: è questo l'ambiente che devono proteggere. Naturalmente ci sono stati successi simbolici, come aver bandito i sacchetti di plastica e il polistirolo dalla città. Ma il successo più grande è stato mobilitare l'impegno dei cittadini. Quando ho cominciato, il 46% dei rifiuti veniva riciclato, ora siamo al 70%. Questo dimostra alla gente che con l'impegno si possono raggiungere obiettivi importanti, senza danneggiare la qualità della nostra vita, anzi, migliorandola".
E qual'è stata la sfida più difficile?
"Colpire l'attenzione della gente. Siamo bombardati da così tanti messaggi e il ritmo è talmente accelerato che diventa difficile spiegare le misure di largo respiro. Bisogna competere con tanti altri messaggi e riuscire più interessanti di loro. Per questo abbiamo avviato un programma molto importante con Cisco, che ha scelto San Francisco, Amsterdam e Seul per applicare le tecnologie informatiche alla difesa dell'ambiente, soprattutto in relazione ai gas serra. L'obiettivo è ottenere informazioni in tempo reale sull'impronta energetica, sul traffico, sullo smaltimento rifiuti di ogni quartiere e metterle online, in modo che tutti i cittadini le possano vedere. Così potranno confrontare i vari quartieri e vedere qual'è più verde, e anche San Francisco con Amsterdam o con Seul. In questo modo, avranno un feedback immediato sulle iniziative che prendono. Capiranno che le azioni individuali contano e influenzano quelle degli altri, vicini e lontani".
San Francisco si considera un esempio a livello globale?
"La realtà è che le città si assomigliano tutte e pongono sempre gli stessi problemi: producono l'80% dei gas serra globali e attirano un'enorme massa di prodotti da molto lontano. Hanno un'impronta ambientale del tutto sproporzionata rispetto alle loro dimensioni. San Francisco ha alcuni vantaggi che altre città non hanno: siamo circondati dall'oceano su tre lati e anche il quarto è chiaramente definito, quindi non rischiamo un'espansione disordinata. Siamo una città ricca, abitata da gente molto consapevole dal punto di vista ambientale. Siamo guidati da politici progressisti. Abbiamo un mondo d'innovazione tutto attorno a noi, da Silicon Valley a Stanford a Berkeley. Abbiamo più premi Nobel nella Bay Area che in qualunque altro posto del mondo. E ne vogliamo altri. Vogliamo che la gente venga volentieri a vivere qui e ci viva bene. Se non riusciamo noi a trovare le soluzioni migliori a questi problemi, chi altro ci può riuscire? Ma ci sono altre città in pole position in questo sforzo: Portland, Seattle, Vancouver, e poi Stoccolma, Copenhagen o Curitiba in Brasile. Certo, è vero che San Francisco rientra probabilmente fra le prime dieci".
Quali sono gli obiettivi ancora da raggiungere?
"Puntiamo a eliminare completamente ogni tipo di rifiuto da discarica entro il 2020, a ridurre le nostre emissioni di gas serra sotto il livello del 1990, a bandire ogni sorta di veleni chimici dai nostri parchi. Tutti gli acquisti alimentari fatti nelle strutture pubbliche del Comune, dalle scuole agli ospedali, devono certificare la provenienza del cibo, con l'obiettivo di ampliare il più possibile gli acquisti locali. E tutti i nuovi edifici sono obbligati ad applicare altissimi standard ambientali, con l'obiettivo di arrivare a un obbligo di certificazione Leed Gold, la più ambiziosa, al 2012".
Un'ultima domanda: con che mezzo ti sposti in città?
"Con la bici".

11 marzo 2010

Friburgo, la città del sole che batte la Grecia

Con quasi 5 megawatt installati, Friburgo è la città campione d'Europa per il fotovoltaico: incastonata fra il Reno e la Foresta Nera, produce più energia solare della Svezia, del Belgio, della Grecia o del Portogallo. Tutti i progetti urbani più recenti, dall'eco-quartiere di Vauban alla Solar City di Schlierberg, sono stati improntati a criteri draconiani di sostenibilità ambientale. Combinando materiali da costruzione riciclabili, un'esposizione strategica alla luce del sole con vaste vetrate orientate a Sud e i tetti di pannelli al posto delle tegole, le case solari dell'architetto Rolf Disch producono più energia di quella che consumano. Condizione d'entrata: lasciare fuori la macchina dall'insediamento. Per chi non può proprio farne a meno, si tratta di comprare a caro prezzo un posto nel garage sotterraneo all'entrata del quartiere. D'altra parte, Vauban non è certo l'unica area car-free di Friburgo. In città, la bicicletta è il mezzo principe per gli spostamenti: negli ultimi trent’anni le piste ciclabili sono aumentate in lunghezza da 29 a oltre 500 chilometri. E il Comune è orgoglioso di sottolineare che in media ci sono tre biciclette per ogni due abitanti, una statistica impressionante. Ma la ragione fondamentale del successo sta nell’efficacia con cui sono collegati i diversi mezzi pubblici e nella facilità con cui le due ruote vengono caricate sui tram e sui treni leggeri, la Breisgau S-Bahn, una rete ferroviaria suburbana da 400 milioni di euro che collega Friburgo con i paesi e le città vicine.

10 marzo 2010

Energia del sole: la grande corsa agli incentivi

Grande corsa all’energia del sole. Con buoni motivi di soddisfazione, visto che nel 2009 abbiamo superato il muro di un gigawatt di potenza installata e ci stiamo progressivamente riallineando ai campioni europei delle fonti rinnovabili, Spagna e Germania in testa. Ma con qualche incognita per il futuro, perché la nostra corsa è trainata dall’imminente scadenza dei vecchi e generosi incentivi pubblici al fotovoltaico. E il dibattito è ancora aperto sul nuovo regime, con tutta probabilità più avaro, che dovrebbe scattare entro fine anno. Sta di fatto che il fotovoltaico italiano chiude il 2009 con un raddoppio rispetto a fine 2008, con oltre 1000 megawatt di potenza e 70mila impianti capaci di generare 1.300 gigawattora l'anno. Abbastanza per dare luce a 500mila famiglie, cioè 1,2 milioni di persone, corrispondenti all'intera popolazione del Friuli-Venezia Giulia. Un record raggiunto grazie all'accelerazione dell'ultimo biennio, ma che la Germania o il Giappone avevano già superato nel 2004, favorendo la nascita di colossi come Q-Cells o Solarworld, Sharp Solar o Mitsubishi Electric, marchi che oggi siamo abituati a leggere sui pannelli intallati in Italia. Il nostro ritardo, infatti, non ha favorito la nascita di una filiera produttiva locale, per cui la crescita del fotovoltaico italiano si basa sulla massiccia importazione di pannelli e apparati di controllo dall'estero. L'industria fotovoltaica nazionale è in forte crescita, ma è principalmente costituita da distributori e installatori: nel 2009 è arrivata a un migliaio di imprese, molte delle quali di nuova creazione, con un fatturato complessivo stimato in almeno 2,5 miliardi di euro e più di 20mila occupati, direttamente o indirettamente. Mentre a monte – cioè nella produzione e vendita del silicio e dei pannelli, dove i margini sono ben più alti – l'import raggiunge quota 98%. Non esiste una produzione nazionale di silicio policristallino, la materia prima di base dei pannelli fotovoltaici, e la Silfab di Franco Traverso, che voleva creare un polo produttivo italiano a Borgofranco d'Ivrea, ha appena annunciato il trasferimento del progetto in Nord America, dove ha ricevuto aperture di credito più consistenti. E anche sulla produzione di pannelli non siamo messi molto meglio. Ora ci stanno investendo Enel e StMicroelectronics, che hanno stretto un'alleanza con la giapponese Sharp per la realizzazione di una fabbrica da 770 milioni di euro a Catania, operativa dall'anno prossimo. Solarday, che sforna già i moduli, vuole entrare nella produzione di celle su vasta scala. La Ferrania di Cairo Montenotte si è riconvertita in Ferrania Solis, dalle lastre radiografiche ai pannelli. L'Electrolux di Scandicci sta per essere riconvertita a questa produzione. Ma il grosso degli investimenti sta nell'ultima parte della filiera, l'installazione di pannelli per produrre energia. Il Gse, il gestore dei servizi energetici che coordina i sussidi pubblici, prevede che entro il prossimo luglio si arriverà ai 1.200 megawatt incentivati, il massimo previsto dal regime in scadenza. E quindi infuria l'assalto finale ai 200 megawatt incentivabili con il regime attuale. Con attori vecchi e nuovi che moltiplicano gli sforzi. Ternienergia quest'anno costruirà sei impianti fotovoltaici per una potenza di 14,5 megawatt investendo 45 milioni. Helio Capital mette in campo un investimento di 60 milioni, con l'obiettivo di raggiungere i 16 megawatt di potenza installata entro la fine dell'anno. E la neonata Solar fa cassa fra fondi europei di private equity e punta addirittura a 40 impianti da altrettanti megawatt, sparsi fra Puglia, Sicilia e Basilicata. Solar Investment Group, che parte con un capitale iniziale di 32 milioni ma conta di mobilitarne altri 150 entro la fine dell'anno, è sostenuto da un parterre de roi di non poco conto. L'ad è Luca Concone, ex McKinsey poi chiamato da Letizia Moratti a fare da super-manager nel Comune di Milano, senza grande successo. Insieme al co-fondatore Paolo Pagella, aveva già avviato un'altra azienda fotovoltaica, Enexon. Il terzo co-fondatore è Fabio Cannavale, ex-AT Kearney e fondatore di Volagratis. Presidente è Achille Colombo, ex ad del gruppo Falck. Tra i soci Roger Abravanel (già stratega di McKinsey), Andrea Casalini (ad di Buongiorno), Stefano Ferro (ad di B&B Italia), Carlo Micheli (fondatore di Fastweb), Andrea Rossi (ad di Axa Italia). Non tutti ce la faranno a rientrare nel tetto dei 1.200 megawatt incentivabili, ma è previsto un meccanismo che garantisce l'incentivo ora in vigore anche a tutti gli impianti autorizzati che entreranno in funzione nei 14 mesi successivi.

8 marzo 2010

Le piccole imprese alla sfida del nucleare

La sfida del nucleare si riaffaccia sul panorama industriale italiano. Piccole e grandi, le imprese della penisola non vogliono perdere l'occasione della rinascita dell'atomo, in patria e all'estero. Dopo vent'anni di sonno, oggi ci sono 53 centrali nucleari in costruzione nel mondo, di cui 4 di terza generazione, due in Europa di tecnologia francese e due in Cina di tecnologia nippo-americana. Un primo censimento è stato fatto il mese scorso dall'Enel e da Confindustria, che ha ospitato in un meeting ad hoc 351 imprese già qualificate o interessate alle qualifiche per lavorare nel nucleare. I grandi gruppi - come Saipem, Maire Tecnimont, Techint, Ansaldo - che hanno continuato a operare nel nucleare all'estero dopo lo stop italiano del 1987, si contano sulle dita di due mani. Ma fra le piccole e medie ce n'è almeno una trentina già qualificate e molte altre che avrebbero tutte le carte in regola per mettere a disposizione della rinascita atomica la loro professionalità nella componentistica, nell'elettronica, nei cementi di alta qualità, negli acciai speciali. Per la realizzazione di un impianto di terza generazione di tecnologia francese, si prevede un investimento di 4-4,5 miliardi di euro, di cui solo la metà è destinato alla cosiddetta isola nucleare, che comprende il reattore e gli apparati connessi, come i generatori di vapore, le sale controllo, gli impianti di sicurezza. Il resto va nell'isola convenzionale, che raccoglie i sistemi di conversione in elettricità - turbine, alternatori, ausiliari - dell'energia termica sviluppata dal reattore, e per un 20% nelle opere civili. In tutti e tre questi ambiti ci sono imprese italiane che già contribuiscono alla realizzazione del primo reattore francese di terza generazione, in costruzione a Flamanville, in Normandia: dal gruppo Aturia al gruppo Belleli, da Mangiarotti Nuclear a Tectubi (nell'articolo qui accanto), da Fomas alle Acciaierie Valbruna, da Forgiatura Modena a Sesia Fucine, tanto per citarne alcune. Molte di loro erano rimaste al palo con la conclusione della prima avventura nucleare italiana e si stanno attrezzando per partecipare alla rinascita dell'atomo. Mangiarotti Nuclear, ad esempio, ha ereditato il know-how nucleare con l'acquisizione della fabbrica di componenti ex-Breda, poi Ansaldo, della Bicocca a Milano, che ora vorrebbe trasferire nel nuovo stabilimento di Monfalcone, pronto entro la fine dell'anno. Impianti di dimensioni importanti come i generatori a vapore che costruiva l'ex Breda sono molto pesanti e il gruppo Mangiarotti ha investito 100 milioni per trasferire la produzione sul mare, da dove spera sarà più facile vincere le gare di appalto. La brianzola Fomas, da parte sua, ha investito 250 milioni per ampliare 4 siti produttivi, di cui 2 in Italia, uno in Cina e uno in India, per star dietro alle commesse di forgiati destinati al circuito primario e secondario nelle centrali nucleari di tutto il mondo, dalla Francia alla Svezia, dalla Cina agli Stati Uniti. Nel Vicentino è nato addirittura un polo nucleare con tre imprese già qualificate, Forgital Italy di Velo d'Astico, Acciaierie Valbruna e Safas di Vicenza, grazie alla lunga tradizione nella lavorazione dei metalli e a un'esperienza consolidata nel comparto energetico e in settori contigui, come l'aerospaziale, in cui la qualità delle leghe e la precisione realizzativa sono fondamentali. Ma la rivoluzione in corso non investe solo il mondo del manifatturiero. Il ritorno del nucleare ha vaste ripercussioni di sistema, dalla ricerca alla formazione, fino a tutti i servizi collaterali. In prima linea c'è l'Enea, con il commissario Giovanni Lelli, che si candida a certificare il nucleare italiano, offrendo alle imprese italiane le sue strutture altamente specializzate per le prove di qualificazione nucleare di componenti e sistemi da installare nelle centrali. Sul piano nucleare italiano, dopo il via al decreto sui criteri per i siti, aleggia ancora l'incertezza politica. La guerra governo-Regioni infuria a colpi di ricorsi alla Consulta e tra gli stessi amministratori di centro-destra la linea prevalente è quella del "sì, ma non qui". Si compatta, a maggior ragione, l'opposizione: il "no" va da Rifondazione fino al referendum no nukes dell'Italia dei Valori, attraversando anche uomini del Pd, come Pier Luigi Bersani, che antinuclearisti non sono. Passate le regionali se ne parlerà con meno intralci? Certo è che la difficile corsa nel labirinto normativo è molto in ritardo. Lo statuto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che doveva essere varato entro il 15 novembre, non si è ancora visto. E manca anche il nome del presidente. La posa della prima pietra entro fine legislatura, cioè entro il 2013, diventa sempre più improbabile. Ma se alla fine i quattro reattori Enel-Edf dei progetti governativi venissero davvero realizzati, nonostante l'opposizione e i ritardi, si parla di 16-18 miliardi d'investimento, di cui almeno 12 potrebbero andare in commesse alle aziende italiane. Per la seconda cordata, interessata a realizzare l'altra metà del programma nucleare del governo, i tempi sono ancora più lunghi, ma già diversi colossi elettrici si sono dichiarati interessati, dalla tedesca E.on alla milanese A2A. L'ipotesi della seconda cordata è una scelta politica importante, perché consentirebbe di diversificare le imprese e le tecnologie adottate. L'asse italo-francese si basa sul reattore Epr da 1600 megawatt, progettato da Areva (il braccio nucleare di Edf) e già in costruzione in Normandia, con la partecipazione dell'Enel. La seconda cordata, invece, potrebbe adottare la tecnologia di terza generazione nippo-americana, l'AP1000 di Westinghouse, in cui Ansaldo svolge un ruolo centrale.

6 marzo 2010

Patrick Moore: da Greenpeace all'atomo

"All'inizio degli Anni '70, quando ho contribuito a fondare Greenpeace, credevo che l'energia atomica fosse sinonimo di olocausto nucleare. E così la pensavano i miei compagni. Ora, a distanza di trent'anni, il mio punto di vista è cambiato e ritengo che tutti i militanti del movimento ambientalista dovrebbero aggiornare il loro. Perché il nucleare potrebbe essere la sola fonte energetica in grado di salvare il nostro pianeta dall'inquinamento e dai cambiamenti climatici". Patrick Moore, che negli anni Settanta e Ottanta fece di Greenpeace il riferimento mondiale del movimento ambientalista e poi saltò il fosso, passando dalla parte dei fautori dell'atomo, è il capostipite di una specie nuova: quella del "verde nuclearista" che va dall'inventore della teoria di Gaia, James Lovelock, fino al promotore del casalingo referendum italiano dell'87, Chicco Testa. Moore e Testa, infatti, si sono dati appuntamento la settimana scorsa a Roma per la prima uscita pubblica da sinistra in favore del ritorno italiano al nucleare.
Perché ha cambiato idea?
"Pensavamo all'atomo come alla fine dell'umanità. Una paura che nel '79 si è avverata con l'incidente nucleare dell'impianto di Three Mile Island, in Pennsylvania. Ma a ben guardare, quella è una storia di successo: le strutture di cemento dell'impianto hanno impedito qualsiasi fuga di radiazioni, sia all'interno che all'esterno. Non ci sono stati morti nè feriti, fra gli operai come fra gli abitanti della zona. E l'ambiente non ha subito alcun danno. In 50 anni di utilizzo di questa fonte energetica, in Nord America non c'è mai stato alcun problema vero. Proviamo a confrontare questo dato con i danni all'ambiente e alle persone causati in 50 anni dal carbone o dal petrolio".
E Chernobyl?
"Chernobyl è frutto della grave irresponsabilità e della pessima qualità tecnica prodotta da un sistema ormai in decomposizione come quello sovietico, che infatti dopo tre anni si è sfaldato. Comunque anche un disastro come Chernobyl non è niente al confronto dei 5mila minatori che muoiono ogni anno nel mondo".
Quindi vede con favore la nuova svolta dell'amministrazione Obama?
"Il presidente Obama ha espresso un concetto molto importante: basterà una delle prime due centrali che verranno costruite in Georgia per tagliare 16 milioni di tonnellate all'anno di CO2 rispetto a un impianto equivalente a carbone, è come togliere 3,5 milioni di veicoli dalle strade. Il nucleare può fornirci già oggi tutta l'energia elettrica di cui abbiamo bisogno senza danneggiare l'ambiente. Negli Usa, il 20% del fabbisogno elettrico è assicurato da 103 reattori nucleari e l'80% delle persone che vivono nel raggio di 10 chilometri dicono di non avere alcuna preoccupazione".
E perché non possiamo andare avanti con i combustibili fossili?
"Le oltre 600 centrali elettriche a carbone americane producono il 36% di tutte le emissioni di CO2 negli Usa, il 10% delle emissioni mondiali. E' questa la prima causa dell'effetto serra e dei cambiamenti climatici. Quanto al petrolio e al gas naturale, oltre a inquinare sono già oggi troppo costosi e lo diventeranno sempre di più".
Ma non è meglio puntare su eolico e fotovoltaico?
"Non scherziamo. Gli impianti eolici e fotovoltaici non forniscono neanche l'1% dell'energia elettrica mondiale, sono costosissimi e offrono un'erogazione intermittente e scarsamente prevedibile. Al momento attuale non possono certamente essere considerati un'alternativa alle fonti fossili. Il 99% dell'elettricità pulita nel mondo viene prodotta da centrali nucleari e idroelettriche".
E lo smaltimento delle scorie radioattive?
"Se tutta l'elettricità che serve per l'intera esistenza di un individuo venisse dall'energia atomica, le tanto temute scorie starebbero dentro una lattina di Coca-Cola e solo una loro traccia avrebbe una lunga vita radioattiva. Quelle che impropriamente vengono definite scorie sono in realtà, per la gran parte, combustibili nucleari che contengono ancora energia e dopo essere stati utilizzati per un ciclo possono essere riciclati e riutilizzati".
E quel che resta alla fine del riciclo?
"Dev'essere conservato come un'importante risorsa per il futuro. Le ricerche per arrivare ai reattori autofertilizzanti, che riutilizzano tutto il combustibile producendone addirittura di nuovo, sono a buon punto e quando saranno concluse, anche quei residui radioattivi ci torneranno utili. Del resto già oggi gli Stati Uniti stanno riutilizzando per usi civili 12.000 testate nucleari acquistate dall'ex Unione Sovietica. E ne riutilizzeranno molte di più negli anni a venire".