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31 agosto 2003

I manager migliori non copiano mai

"Mai smettere di pensare al domani". Dopo tre anni di paralisi, è questo lo slogan più martellante che esce dalle Business School di tutto il mondo per convincere i top manager a riprendere in mano le strategie dell'innovazione gettate alle ortiche durante il periodo di crisi. Con i primi accenni di ripresa, gli strumenti dell'efficienza non bastano più: i tagli ai costi, la riduzione degli organici, il ritiro nelle retrovie in attesa che passi la bufera si rivelano sempre più inadeguati a vincere la corsa al successo. Bisogna riprendere in mano gli strumenti dell'efficacia: ci vogliono nuovi prodotti, nuovi mercati e nuovi modelli di business dopo tre anni di stagnazione, di limitazioni alla ricerca e sviluppo, di tagli ai finanziamenti per le start-up più innovative, di paralisi delle fusioni e acquisizioni. Come diceva il grande guru del management Peter Drucker: "Anche il business più efficiente non può sopravvivere, né tantomento avere successo, se mette tutta la sua efficienza nel fare le cose sbagliate". E' con questa consapevolezza in mente che una serie di aziende è riuscita a ottenere buoni tassi di crescita e ricchi utili anche nei tre anni più magri dell'ultimo decennio. Dell, RyanAir, Starbucks, Bloomberg o Ikea sono solo alcuni esempi, citati dall'ultimo studio di Chan Kim e Renée Mauborgne, docenti di strategia e management all'Insead di Fontainebleau e autori di diversi best-seller sull'argomento. Lo studio si concentra sulle strategie adoperate da queste aziende vincenti negli ultimi 15 anni e su come si distinguono dalle altre. Conclusione: è la tendenza della maggior parte delle aziende a imitare le proprie rivali che ne determina il fallimento. "Provate a pensare per un minuto - ci invitano Kim e Mauborgne - agli hotel a cinque stelle di Londra o di Parigi. A parte la loro posizione, che cosa li distingue gli uni dagli altri? Lo stesso si può dire delle principali compagnie aeree, dove i prezzi, il cibo, i sedili e perfino le uniformi sono del tutto intercambiabili". Eppure di settore in settore tutte queste aziende - dai produttori di beni di consumo ai servizi finanziari, dall'informatica alle telecomunicazioni - si lamentano all'unisono che le strutture dei loro costi diventano sempre meno comprimibili e i margini sempre più ridotti. Secondo Kim e Mauborgne la chiave del problema sta nel fatto che i top manager a caccia disperata di utili hanno messo la competizione diretta al centro della propria strategia. "Nella ricerca ossessiva di un vantaggio competitivo - spiegano Kim e Mauborgne - i manager tendono a guardare quello che fanno le altre aziende del loro settore e a cercare di farlo meglio". In questo modo, la competizione diretta impedisce di rimodellare i settori più vecchi per opporsi al declino, di spingere i settori più giovani verso nuove frontiere o di crearne di nuovi. In una parola, blocca la creatività. E' in questo tipo di spirale che sono incappate moltissime aziende negli ultimi tre anni: spendono enormi quantità di energie e denaro solo per ottenere modesti miglioramenti incrementali (che spesso i clienti non vedono nemmeno), entrando in un vicolo cieco dal quale non si può uscire che con una botta di creatività. "Per ottenere una crescita decisa nel futuro - concludono Kim e Mauborgne - le aziende devono rompere questo circolo vizioso di imitazione e inseguimento delle rivali, introducendo un mutamento fondamentale nel loro vocabolario e nella loro strategia e spingendo i propri manager ad apprezzare l'innovazione". Non a caso Kim e Mauborgne sono anche i fondatori del Value Innovation Network, un'associazione di professionisti impegnati nella diffusione del pensiero innovativo e anticonformista nel mondo del business. Si muove lungo la stessa linea la critica di Henry Chesbrough, professore a Berkeley e autore di "Open Innovation: the New Imperative for Creating and Profiting from Technology", appena pubblicato dalla Harvard Business School Press. Il suo discorso si concentra sulla capacità di alcune aziende di produrre più ricerca e sviluppo con meno spese, rimodellando i propri processi interni per risparmiare senza perdere i vantaggi del pensiero innovativo. Chesbrough spezza una lancia in favore di quella che lui chiama "open innovation", cioè la capacità di alcune aziende da un lato di usare anche idee prodotte all'esterno e dall'altro lato di portare le proprie idee sul mercato attraverso joint ventures e spin-offs. Opera pionieristica in questo senso è stata fatta da Ibm, che già da anni incorpora tecnologie esterne, come Linux o Java, nelle sue strategie. Anche Procter & Gamble ha deciso tre anni fa, di fronte ai primi segnali di rallentamento, di cambiare il suo approccio all'innovazione, inaugurando un'iniziativa di gruppo per incoraggiare le unità di prodotto a utilizzare anche partner esterni se portano idee nuove. Il motivo è semplice: nei suoi laboratori P&G impiega 8.600 scienziati. Fuori ce n'è un milione e mezzo. Perché cercare d'inventare tutto all'interno? Da allora è stata inventata la figura del direttore dell'innovazione esterna, a capo di un team di "technology scouts" impegnati nella ricerca di promettenti invenzioni. Nel 2002, P&G si è posta l'obiettivo di spostare dal 10 al 50 per cento il peso dell'innovazione esterna nel giro di cinque anni. Anche in altri settori l'outsourcing della ricerca sembra dare buoni risultati: Sainsbury, la più innovativa catena britannica di supermercati, la applica da anni. E a Hollywood l'industria cinematografica ha ormai rimpiazzato il vecchio sistema proprietario - in cui registi, attori, sceneggiatori, tecnici e studios "appartenevano" a una major - con una serie di alleanze fra professionisti indipendenti. In particolare in anni di vacche magre come questi, sostiene Chesbrough, il modello chiuso d'innovazione rischia di portare a dei tagli secchi che non beneficiano nessuno. Un tema contiguo, quello del "corporate venturing", cioè gli investimenti aziendali in start-up innovative, crollati del 75 per cento negli ultimi tre anni, è al centro dell'attenzione di Julian Birkinshaw, professore alla London Business School e autore di "Inventuring: Why Big Companies Must Think Small" (appena pubblicato da McGraw Hill). Anche qui il grido di dolore vale da ammonimento: le aziende che sono state capaci di nuotare controcorrente, mantenendo alti gli investimenti, come Intel, Johnson & Johnson o Nokia, ne hanno tratto enormi vantaggi. Perché chiudere completamente i rubinetti, allora?