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30 maggio 2011

La ripresa? Può finire nel barile

Sembrava che scendesse. E invece no. Per Goldman Sachs il greggio e le materie prime correlate andranno su. Per Morgan Stanley e JP Morgan, pure. La Iea, il braccio energetico dei Paesi industrializzati, cioè importatori, si preoccupa che l'offerta non sia sufficiente e sollecita l'Opec ad aumentare la produzione. A che livello domanda e offerta, secondo la Iea, si debbano incontrare non è chiaro, ma è evidente che l'agenzia teme di arrivare a un prezzo troppo alto, che potrebbe compromettere la ripresa.

La banca d'affari più prestigiosa del mondo ha alzato le stime di prezzo per il greggio europeo da 105 a 120 dollari al barile per la fine del 2011 e da 120 a 140 per la fine del 2012. Morgan Stanley, con curioso tempismo, si è accodata, prevedendo che il Brent quest'anno raggiungerà 120 invece che 100 dollari e l'anno prossimo 130 invece che 105, mentre Jp Morgan ha reiterato la sua previsione di 130 dollari a barile entro il terzo trimestre. Ma l'economia mondiale potrà reggere prezzi così alti senza ripiombare in recessione? A giudicare dalle previsioni estive sui blackout cinesi, si direbbe di sì. La seconda economia mondiale non riesce a produrre abbastanza energia per reggere la sua crescita e ad alcune imprese viene chiesto di farne a meno. Qualche funzionario sostiene che il 2011 sarà peggio del 2004, quando il Paese dovette ricorrere a blackout parziali e a un razionamento dell'energia. Quindi, la domanda di energia dovrebbe tenere eccome.

In queste condizioni, il mondo industrializzato sarà ancora una volta alla mercé degli sceicchi: ma quel'è la soglia di resistenza, sotto la quale l'Arabia Saudita non è disposta a scendere? In media, finora, nel 2011 i sauditi hanno venduto il loro greggio a poco più di 104 dollari, consentendo a Riad di finanziare sussidi sociali e grandiosi programmi di investimento, ad esempio per aumentare la produzione di elettricità. Bisogna vedere cosa farà d'ora in poi. Al Waleed bin Talal, principe saudita tra i più celebri finanzieri al mondo, che ha costruito le sue fortune sull'oro nero, ha ammonito l'establishment saudita a non esagerare in un'intervista di lunedì scorso alla Cnn. Le cause per le quali oggi il prezzo del greggio si aggira in media sui 100 dollari al barile, ha spiegato, sono da ricondurre ai timori derivanti dall'instabilità nella regione del Golfo a seguito delle rivolte in Libia e Bahrain. Ma lui vedrebbe di buon occhio un prezzo del petrolio attorno agli 80 dollari al barile, per evitare che i Paesi consumatori siano incoraggiati ad investire massicciamente nelle fonti alternative.

Il problema di fondo, però, resta un'evoluzione progressiva del mercato petrolifero verso qualità sempre più care e difficili da estrarre: cala la produzione dei giacimenti di greggio leggero e anche i Paesi del Golfo sono costretti a ricorrere a una qualità più densa e più complicata da estrarre. Il petrolio pesante, la cui densità è paragonabile a quella della melassa, è molto più duro da estrarre rispetto a quello leggero e i costi di raffinazione sono più alti. Se il regno saudita si è imbarcato insieme al Kuwait in un nuovo progetto per estrarlo dal giacimento di Al Wafra, a cavallo fra i due Paesi, questo è un segnale inequivocabile della fine dell'era del petrolio facile, perfino per i Paesi del Golfo. Gli stessi sauditi, infatti, sembrano non essere più in grado di aumentare rapidamente la produzione a fronte di un'improvvisa crisi, come si è visto nel caso delle rivolte in Nord Africa. E questo non fa ben sperare per le future quotazioni del greggio.

A partire dal 2025, infatti, secondo l'ultimo rapporto di Wood Mackenzie, il 20% della domanda mondiale di energia potrebbe essere soddisfatta dal petrolio pesante. Nello studio si identificano i fattori di rischio derivanti dall'estrazione di queste fonti energetiche: si tratta di problemi tecnici, commerciali, fiscali ed ambientali. Per questo la Wood Mackenzie avverte le compagnie interessate di valutare quanto il gioco valga la candela, per garantire che i loro investimenti vadano a buon fine. Ma qualcuno si è già fatto i suoi conti: Royal Dutch Shell, Total, ExxonMobil e Chevron hanno già iniziato ad investire in paesi come il Canada e il Venezuela per l'estrazione di questo tipo di greggio.


27 maggio 2011

Da Berlino il segnale della ritirata all'industria nucleare

Con la decisione di abbandonare il nucleare entro il 2022, il governo di Angela Merkel ha messo una pietra tombale sull'atomo europeo: otto centrali tedesche chiuderanno immediatamente, sei entro il 2021 e tre l'anno successivo. Subito dopo, gli svizzeri hanno deciso l'uscita dal nucleare entro il 2034 e l'abbandono dei progetti di costruzione di tre nuove centrali. Gli inglesi hanno messo un freno alla realizzazione dei loro nuovi reattori. Gli italiani andranno a referendum il 12-13 giugno e l'esito si può già dare per scontato, vista l'aria che tira e la facilità di ritirarsi da un progetto mai realizzato.

La prima reazione dall'industria è stata quella di E.on: durissima. Farà causa al governo di Berlino chiedendo un congruo risarcimento. "La compagnia si aspetta adeguate compensazioni", ha detto un portavoce, aggiungendo che i danni sono calcolabili "in una somma a due cifre in miliardi di euro". Rwe, per parte sua, ha fatto sapere che "si stanno considerando azioni legali". Con le sue quote negli 11 reattori nucleari tedeschi in cui è presente, E.on avrebbe potuto produrre 1.271 terawattora di qui alla fine del ciclo di vita previsto: come dire che solo con quelli avrebbe potuto mandare avanti l'Italia intera per quattro anni. Ripercussioni si cominciano a vedere anche sulla strategia internazionale delle aziende tedesche: Siemens, che ha appena sofferto una batosta da 648 milioni di multa per la rottura della joint-venture nucleare con la francese Areva, ha deciso di uscire anche dall'accordo con il colosso russo dell'atomo Rosatom, che aveva firmato due anni fa.

In Giappone, l'effetto Fukushima si fa sentire su Toshiba, casa madre insieme a Westinghouse del reattore AP1000, grande rivale dell'Epr francese: il campione tecnologico giapponese ha annunciato un ridimensionamento delle attività nucleari a favore delle rinnovabili e delle smart grid. "Se tutti nel mondo sono contrari all'atomo non ha senso continuare a dire che questa tecnologia sarà il pilastro della nostra strategia", ha dichiarato il presidente di Toshiba, Norio Sasaki, aggiungendo che "ci vorrà del tempo per capire esattamente quale sarà il nuovo quadro internazionale". Il gruppo ha reso noto che l'obiettivo di 39 ordini per altrettanti reattori AP1000 slitterà di due anni fino al marzo 2016. Sasaki ha precisato che gli ordini per i quattro AP1000 da realizzare in Cina non subiranno ritardi, ma potrebbero slittare di 2-3 anni i tempi di approvazione dei progetti negli Usa e in altri Paesi. Toshiba si concentrerà di conseguenza su nuovi settori come le rinnovabili, le smart grid e le batterie, per i quali stanzierà 700 miliardi di yen (oltre 6 miliardi di euro). Più in dettaglio, ha spiegato Sasaki, 350 miliardi di yen saranno investiti nel solare, idroelettrico, geotermico ed eolico, 800 miliardi nei motori elettrici a bassi consumi, negli inverter e nelle batterie e 900 miliardi nelle smart grid.

La svolta della Merkel ha travolto anche il mercato europeo della CO2, dove i prezzi sono schizzati in alto fino a 17 euro la tonnellata, partendo dal presupposto che la chiusura dei reattori tedeschi rimetterà in gioco il carbone polacco e il gas russo, causando un marcato aumento delle emissioni di anidride carbonica e quindi del valore dei certificati relativi. La Germania ha solo sei mesi per evitare il blackout estivo, che nelle condizioni attuali risulterebbe inevitabile. E quindi dovrà mettere rapidamente in piedi un'alternativa, non certo affidandosi alle fonti rinnovabili. La Francia stessa è preoccupata dall'improvviso venir meno dell'energia d'importazione tedesca, che colpisce il sistema francese proprio in un momento di grave siccità, di cui soffrono anche i sistemi di raffreddamento dei reattori. La Commissione Europea, a sua volta, non è stata particolarmente entusiasta della decisione unilaterale di Berlino, che non tiene conto delle ricadute infrastrutturali per l'Europa, come ad esempio nuovi gasdotti o elettrodotti intercontinentali. Ma l'addio al nucleare della locomotiva tedesca è ormai deciso e resterà un punto di svolta nella strategia energetica del Vecchio Continente.


25 maggio 2011

Grandi opere? Si muovessero almeno le piccole...

Per le grandi opere i soldi non ci sono. E anche le piccole fanno fatica: la Brebemi e la Pedemontana lombarda non riescono a chiudere i contratti di finanziamento, nonostante siano state approvate dal Cipe e i cantieri siano già aperti. Le nostre autostrade restano intasate, le ferrovie inadeguate, l'alta velocità c'è solo sulla direttrice Milano-Roma, lasciando fuori tutto il Nord Est.

Se la coperta è corta, dipende anche dalla bassissima partecipazione dei privati al finanziamento dei progetti: una riforma organica degli appalti pubblici potrebbe correggere il problema e rimettere in moto il sistema. E' quello che si aspettano le imprese del settore, insieme al ministero delle Infrastrutture, che ha promosso un tavolo tecnico da cui sono uscite, dopo mesi di lavoro, le linee guida della riforma. Proposte scavalcate prontamente dal decreto sviluppo, diventato legge la settimana scorsa, che con un paio di provvedimenti estemporanei vorrebbe superare l'impasse. "Queste norme non faranno ripartire le opere pubbliche, perché il taglio della spesa (-34%) ha lasciato la macchina senza carburante: il problema va affrontato con una terapia ad ampio spettro, non basta un intervento sintomatico", spiega Mario Lupo, presidente dell'Associazione Imprese Generali, che si occupano appunto di grandi opere.

Il decreto sviluppo ha messo un tetto del 2% alle compensazioni per gli enti locali, che oggi arrivano a pesare fino al 5%. E su questo le imprese sono d'accordo. Si oppongono, invece, al giro di vite imposto dal decreto alla revisione dei costi in corso d'opera, che d'ora in poi dovrà essere contenuta entro un quinto del valore del contratto, anche nel caso di imprevisti archeologici o di errori progettuali. "Penalizzare le imprese, a prescindere dalle loro ragioni, non farà certamente ripartire il mercato. Renderà anzi più difficile lo sviluppo del partenariato pubblico-privato", obietta Lupo.

Il provvedimento è stato pensato per arginare la tendenza a usare l'arma della riserva come compensazione del fenomeno dei maxi-sconti. Oggi le imprese offrono maxi-ribassi in sede di gara per portare a casa una commessa e poi cercano di recuperarli con le riserve una volta aperto il cantiere, innescando contenziosi che allungano i tempi e fanno lievitare sistematicamente i costi. Per un chilometro di alta velocità, in Italia si spendono anche 90 milioni di euro e mai meno di 20, contro i 10 della Francia o della Spagna. Sul costo a chilometro delle autostrade, il divario è analogo. "La responsabilità qui non è solo delle imprese, ma anche delle stazioni appaltanti, che scelgono il contraente che offre il prezzo più basso, anche quando è irrealistico", spiega Lupo. Attribuire il controllo delle offerte anomale per eccesso di ribasso a un ente terzo, che non siano le stazioni appaltanti, potrebbe sanare questo malcostume.

Un'altra soluzione è affidare la progettazione direttamente alle imprese che devono svolgere i lavori, come si fa all'estero, almeno per le opere più impegnative: così gli eventuali errori progettuali, che sono una delle prime cause di contenzioso, saranno responsabilità dell'impresa. In questo modo si stimolerebbe la crescita delle imprese e si darebbe un taglio all'overdesign, che oggi comporta sovrapprezzi importanti. Solo applicando una progettazione più frugale, si stima, i costi potrebbero essere ridotti del 25-30%. Queste proposte e altre ancora, spesso a costo zero, sono contenute nel rapporto uscito dal tavolo tecnico del ministero, coordinato dalle Fondazioni Astrid, ItaliaDecide e ResPublica, che fanno capo rispettivamente a Franco Bassanini, Luciano Violante e Giulio Tremonti in persona. Ora il decreto sviluppo ha sbarrato la strada a una riforma organica. Ma più di un esperto si chiede che effetti potrà avere un "tappo" calato dall'alto senza affrontare il problema nel suo insieme. E che senso abbia avuto il lavoro di tutti questi mesi.


20 maggio 2011

Auto elettrica: prove di filiera italiana senza la Fiat

La Smartina fila via silenziosa e più d'uno si ferma stranito a guardare: com'è che non fa rumore? Poi leggono le scritte sulla fiancata e capiscono, bussano sul finestrino, chiedono se cammina bene, quanto dura la carica, quanto costa... Girare con un'auto elettrica a Milano risveglia interesse, ma per ora rimane un esercizio teorico. Mancano le colonnine di ricarica, mancano le esenzioni per parcheggiare gratis in centro, mancano gli incentivi per abbattere i prezzi troppo alti delle auto. E forse manca anche un po' di sprint da parte dei consumatori, se è vero che il distretto italiano dell'auto elettrica vende quasi tutta la sua produzione all'estero. L'Italia infatti, pur non essendo un mercato di sbocco particolarmente interessante e non avendo un capofila attivo su questo fronte, ospita una serie di piccoli produttori considerati all'avanguardia in Europa, soprattutto nella Motor Valley emiliana. Perloppiù si tratta di trasformazione di auto o bus, che erano stati prodotti con un motore a combustione interna e in cui viene inserito un motore elettrico, su ordinazione di qualche Comune o Regione interessato a una flotta a emissioni zero. Su questo fronte è schierato un agguerrito gruppetto di piccole medie imprese, che sono in grado di costruire circa 6mila veicoli all'anno, di cui 900 autobus. Ma il mercato per ora resta minuscolo e molto frammentato.

Per il settore è determinante l'assenza di un grande player industriale, che potrebbe fare da catalizzatore. Tra i manager globali dell'auto, Sergio Marchionne resta uno dei più scettici rispetto alla propulsione a batterie, nella quale tutti i concorrenti, volenti o nolenti, hanno investito. "La struttura finanziaria delle auto elettriche non sta in piedi", ha detto recentemente. E in un certo senso è vero. Come le fonti rinnovabili di energia, anche l'auto elettrica non è realmente competitiva, sul piano dei costi, con le sorelle dotate di motore a combustione interna: la Smart Electric Drive, tanto per fare un esempio, non è ancora in vendita, ma è probabile che non potrà costare meno del doppio della sua omologa a propulsione fossile. Quindi per fare volumi avrà bisogno d'incentivi statali, che in Italia ancora non ci sono a livello nazionale. I più fortunati, per ora, sono i parmigiani, dov'è in fase d'avvio uno schema d'incentivazione in cui il Comune ha investito ben 9 milioni di euro, che serviranno anche a garantire uno sconto fino a 6mila euro agli acquirenti delle prime cento auto elettriche. Poi ci sono altre iniziative sparse, ma una strategia nazionale manca completamente. In Parlamento giacciono da mesi due proposte di legge in materia, che dovrebbero essere esaminate prima dell'estate per poter entrare in vigore nel 2012.

Basta un confronto con il caso francese, per capire dove andranno a parare i consumatori italiani interessati all'auto elettrica: qui il governo ha già stanziato 1,5 miliardi di euro in un piano per incoraggiare lo sviluppo della tecnologia dei veicoli puliti. Dal canto loro, Renault e Peugeot Citroen si sono impegnate e a mettere in vendita 60mila auto elettriche in Francia nel periodo 2011-2012, in particolare in 12 Comuni pilota. Contestualmente, una ventina di gruppi pubblici e privati hanno ordinato 50 mila veicoli elettrici per le flotte interne, con lo scopo di garantire ai costruttori francesi una domanda sufficiente a permettergli di avviare la produzione di massa.


19 maggio 2011

Nel 2050 avremo 1,7 miliardi di auto: verso una camera a gas?

Il mercato dell'auto è destinato a una crescita fenomenale nel mondo: anche solo prendendo in considerazione i 30 Paesi più sviluppati, le previsioni più prudenziali stimano una crescita dagli attuali 700 milioni di veicoli a 1,7 miliardi nel 2050. Il problema posto da questa proliferazione è facile da immaginare: paralisi del traffico, crisi petrolifera e inquinamento alle stelle, soprattutto nelle città. Quali alternative? "I veicoli elettrici potrebbero essere una delle risposte a questa crisi", sostiene Melissa Stark, responsabile globale del settore Clean Energy per Accenture, fra gli autori dello studio "Changing the game - Plug-in electric vehicle pilots".

Carlos Ghosn, capo di Renault-Nissan, prevede che già nel 2020 l'auto elettrica plug-in (non ibrida) rappresenterà il 10% del mercato mondiale. Che ne dice?

"Mi sembra una previsione un po' azzardata. Forse nel segmento delle compatte possiamo immaginare un'evoluzione di questo genere, visto che per adesso i plug-in sono destinati a svilupparsi come  veicoli prevalentemente urbani. L'organizzazione mondiale dei costruttori di auto prevede per il 2020 il 3% di auto elettriche plug-in su una produzione di 103 milioni di unità a livello globale".

Quindi lei la vede come un veicolo destinato a rimanere in città?

"Non in prospettiva, ma nell'immediato sì, la vedo come un'auto prevalentemente cittadina. Le varie restrizioni alla circolazione messe in atto da molte città europee porteranno acqua al mulino dell'auto elettrica, che diventerà in breve tempo la scelta di riferimento per le famiglie che possiedono una seconda macchina. Il che non comporta ricadute particolarmente limitanti, dato che già oggi metà della popolazione mondiale vive in città e nel 2050 questa quota avrà superato i tre quarti della popolazione globale. Ogni anno in Europa 400mila persone acquistano una seconda o terza auto per percorrere in media meno di 70 chilometri al giorno. Inoltre non dimentichiamo che il 60% dei guidatori europei percorre meno di 30 chilometri al giorno e più del 90% non supera i 100 chilometri, il che rientra nel raggio d'azione di un'auto elettrica con la batteria carica. Il potenziale teorico di sostituzione dei veicoli convenzionali con veicoli elettrici, quindi, risulta considerevole".

Per i consumatori quali sono i punti più critici, che li trattengono dall'acquisto?

"I motivi che hanno impedito fino ad oggi la diffusione su larga scala dell’auto elettrica sono riconducibili principalmente a tre fattori: la scarsa autonomia (nell’ordine dei 100-150 chilometri), l’elevato costo delle batterie, che fanno lievitare il prezzo della macchina, e la mancanza di infrastrutture per la ricarica. Per abbattere i costi di acquisto dei veicoli elettrici si sta facendo strada un modello di business, che svincola il possesso dell'auto da quello della batteria, lasciando la proprietà della batteria alla casa automobilistica e consentendo così di abbattere il prezzo dei veicoli elettrici, che diventano analoghi a quelli delle auto tradizionali. Questo modello permetterebbe anche di tutelare il cliente dalla svalutazione della batteria, che ha una vita più breve del veicolo. E potrebbe risolvere il problema dell'autonomia limitata, consentendo di scambiare in apposite aree di servizio la batteria scarica con una nuova, carica".

Quali sono invece i fattori che spingono all'adozione dell'auto elettrica?

"Attraggono, ovviamente, i vantaggi ambientali: l'idea di circolare a emissioni zero e di contribuire alla riduzione dell'inquinamento atmosferico, grazie all'elevata efficienza del motore elettrico, che è tre volte più efficiente di quello a combustione interna. Poi ci sono i costi di gestione contenuti, cinque volte inferiori rispetto ai veicoli tradizionali. Ma questi due fattori non sono sufficienti per muovere grandi masse di consumatori. Per adesso, il target è un consumatore di classe media, con grande interesse per le nuove tecnologie e proprietario di due auto: evidentemente si tratta di un segmento limitato del mercato. Se invece si mettono in conto delle politiche d'incentivazione pubblica, allora il quadro cambia molto".


17 maggio 2011

Auto elettrica: la rivoluzione è partita nel resto d'Europa

La rivoluzione è partita, ma per ora prevalentemente all'estero. Le imprese italiane della mobilità sostenibile esportano i tre quarti della loro produzione. E sperano che prossimamente si muova qualcosa anche qui da noi.

In complesso, in Italia sono poco più di 53mila in tutto i veicoli elettrici attualmente in uso, di cui 3.100 per il trasporto persone, 8.700 per le merci, 950 bus, 5.400 quadricicli e 35mila motocicli. Questi numeri - prodotti dalla Commissione Italiana Veicoli Elettrici Stradali a Batteria del Comitato Elettrotecnico Italiano, l'organizzazione che aggrega le imprese del comparto - non sono sufficienti a fare un mercato. E anche se in Europa al momento le Pmi italiane sono in pole position sia nella componentistica e nell'elettronica che controlla il motore che nella produzione e adattamento dei veicoli, lo scarso dinamismo del mercato interno alla lunga potrebbe metterle in difficoltà, soprattutto quando nel campo di gioco scenderanno i colossi dell'automotive europeo.

Pesa l'assenza di una strategia organica d'interventi, quel "Piano strategico nazionale per la mobilità elettrica" che ancora non ha visto la luce e che dovrebbe promuovere la diffusione dei veicoli a impatto zero e delle infrastrutture necessarie, i punti di ricarica. Gli incentivi statali potrebbero dare il via a una serie di ordini: le auto verdi con accesso libero alle zone a traffico limitato si cominceranno a vedere in giro, in prima battuta, soprattutto come flotte comunali o veicoli da car sharing per la mobilità urbana, così come già oggi sta succedendo nel resto d'Europa. Solo dopo, se gli incentivi saranno adeguati, la rivoluzione dell'auto a emissioni zero potrebbe cominciare ad attrarre la domanda dei privati. Basti pensare che il 50% degli automobilisti italiani si dice disposto, in uno studio di Deloitte, ad acquistare un'auto elettrica solo nel momento in cui potrà garantire un'autonomia di 320 chilometri, mentre i due terzi sono disposti a tollerare un tempo di ricarica non superiore alle due ore, per capire quanto i privati, per ora, siano lontani dalla realtà. Ma le iniziative che si prendono localmente potrebbero dare una prima smossa al mercato. Da Milano a Parma, da Roma a Pisa, dal Trentino alla Toscana, gli enti locali stanno facendo del loro meglio per facilitare l'utilizzo di queste vetture in città, dove avranno un impatto importante sul problema dell'inquinamento.

Ad aspettare l'alba dell'auto elettrica italiana c'è una cinquantina di Pmi, che gravitano soprattutto sulla Motor Valley emiliana, ma non solo. Alle aziende storiche sul fronte delle quattro ruote, come la MicroVett di Imola o la Tecnobus di Frosinone, se ne sono aggiunte di nuove come la Tazzari (sempre di Imola), la Estrima di Pordenone che fa un quadriciclo leggero, la Alpina di Varese che fa veicoli commerciali, la Brusa di Lugo di Romagna che costruisce motori elettrici, la Zivan di Reggio Emilia che si occupa di caricabatterie o la genovese Nts che fa inverter per motori elettrici, la e-Max e la Italwin per le due ruote, la marchigiana Faam sul fronte delle batterie o la veneziana Thetis su quello dei sistemi per la gestione del traffico. Si tratta quasi sempre di piccole imprese già attive nel mondo della meccanica, che hanno visto nella mobilità a emissioni zero un nuovo fronte di competitività e di crescita. Ma ci sono anche società più robuste, come la Ansaldo Energia, che si occupa di motori elettrici con la divisione Ansaldo Electric Drives. Il terreno fertile delle imprese si alimenta con qualche buona idea dei centri di ricerca, come il Polo per la Mobilità Sostenibile di Latina, il Centro Ricerche su Economia, Territorio e Ambiente di Pisa, il laboratorio di Sistemi Elettrici per l'Automazione e la Veicolistica dell'università di Padova, il Cnr e l'Enea, che si occupa soprattutto di supercondensatori e di batterie al litio. Diverse associazioni arricchiscono il panorama, come EuroZev, la eCars Now! e adesso anche Corrente in Movimento, un'associazione di ricercatori under 40 che si sono coalizzati per organizzare un giro d'Italia a emissioni zero, in corso proprio in questi giorni.


15 maggio 2011

Rinnovabili alla maturità: le risorse vanno sfruttate dove ce n'è di più

Crisi delle finanze pubbliche, quotazioni del greggio alle stelle, difficoltà di approvvigionamento. Il modello su cui si è fondata la strategia energetica del mondo industrializzato fino ad oggi sembra avviato all'archivio. Si parla di una terza rivoluzione industriale, a bassa intensità di carbonio, per dare il cambio alla seconda, spinta dal motore a combustione interna. E il perno su cui si basa questa rivoluzione sono le fonti rinnovabili, che producono energia pulita: vento e sole in primis, ma anche biomasse, mini-idroelettrico e geotermia. Negli ultimi dieci anni, l'aumento complessivo di valore di questo comparto è stato eccezionale.

Basta sfogliare l'ultimo rapporto Clean Edge per rendersene conto: nel decimo anniversario della sua nascita, la società fa notare quanto fosse inusuale la definizione clean tech quando pubblicò il primo rapporto, nell'aprile del 2001 (era appena scoppiata la bolla Internet, per chi non se lo ricordasse). Solo un istituto al mondo, in India, aveva inserito nel suo nome il concetto clean tech. Dieci anni dopo, è diventato un termine di uso corrente e un settore di tutto rispetto. Prendiamo ad esempio il fotovoltaico: un tasso medio annuo di crescita del 39,8% ha fatto moltiplicare il fatturato del settore per 28 volte nel decennio, fino a toccare un valore di 71,2 miliardi. L'eolico, nello stesso periodo, è cresciuto con un tasso medio annuo del 29,7%, moltiplicando il suo valore per 13 fino ai 60,5 miliardi del 2010. Grande sviluppo anche negli altri comparti della green economy, come l'edilizia sostenibile: nel 2000 solo 3 edifici al mondo erano targati Leed (Leadership in Energy and Environmental Design), nel 2010 erano 8.138.

E l'exploit promette di continuare. Dal 2009 al 2010 i ricavi di fotovoltaico, eolico e biocarburanti messi assieme sono cresciuti del 35,2%. Al 2020 - prevede Clean Edge - il mercato del fotovoltaico arriverà a un giro d'affari di oltre 113 miliardi e quello dell'eolico toccherà i 123 miliardi di dollari. Buone le previsioni per il futuro: il clean tech sembra essere il settore più vitale dell'economia. Nel 2000 meno dell'1% degli investimenti in venture capital statunitensi erano andati al settore low carbon, nel 2010 il settore ha attirato più investimenti di tutti gli altri: oltre il 23% del totale. Soldi che andranno a spingere le evoluzioni tecnologiche e le aziende più promettenti dell'economia verde. Tra i comparti chiave citati nel report ci sono i veicoli elettrici, l'illuminazione efficiente e l'edilizia sostenibile a basso consumo di energia.

Ma ci sono alcuni dati di fatto che giocano un ruolo importante nelle differenze di sviluppo delle rinnovabili da Paese a Paese. In Italia, ad esempio, c'è molto sole ma poco vento, per cui l'eolico è molto caro da realizzare e ha pochi margini, mentre il fotovoltaico è più conveniente, soprattutto al Sud. "Come tutte le fonti energetiche, anche le fonti rinnovabili bisogna andarle a cercare là dove si trovano", commenta Alessandro Marangoni, ad di Althesys, che ha messo a confronto costi di produzione e ricavi di eolico e solare nei vari Paesi, ottenendo risultati interessanti. "E' chiaro che se un impianto equivalente lavora il 30-40% in più o in meno, i ricavi cambiano parecchio", fa notare, riferendosi alla forza del vento, che in Danimarca soffia in media 2500 ore all'anno, mentre in Italia non va oltre le 1800 ore. Stesso discorso per il fotovoltaico: se nel Sud Italia il sole splende su un pannello per 1800 ore all'anno e al Nord per 1200, conviene andarlo a cogliere dove ce n'è di più. In Francia, la differenza è compensata dagli incentivi pubblici, che tengono conto del divario fra i rendimenti. In Italia, per ora, il federalismo del solare non c'è. Eppure le province più fotovoltaiche della penisola sono Bolzano e Brescia.


12 maggio 2011

Sarà un anno d'oro per l'eolico, ma non in Italia

Il 2011 sarà un anno d'oro per il vento, ma non in Italia. Il rapporto annuale della World Wind Energy Association prevede che saranno avviati a livello globale nuovi impianti eolici per 45 gigawatt, un record assoluto, che porterà l'installato complessivo a 240 gigawatt. In Italia, invece, tira aria di stagnazione a causa delle incertezze normative. Il 2010 è stato il primo anno di rallentamento nella crescita del settore: le nuove installazioni si sono fermate a 948 megawatt, il 25% in meno rispetto agli anni passati. E non è prevedibile una ripresa in tempi rapidi: "I dati del primo trimestre 2011 sono bassissimi e quelli del secondo trimestre non saranno migliori", commenta l'Associazione Nazionale Energia del Vento. Con ciò l'Italia, sesto mercato mondiale dell'eolico, rischia di essere scavalcata nel 2011 sia dalla Francia che dal Regno Unito. La potenza cumulativa di 5.797 megawatt, raggiunta a fine 2010, potrebbe ancora consentire il raggiungimento degli obiettivi fissati al 2020, dice l'Anev, solo se verrà modificata la normativa che a metà dell'anno scorso ha determinato il "crollo del 40% del valore dei certificati verdi".

Ma in realtà il 2010 è stata un'annata piuttosto deludente un po' per tutti, con soli 37.642 megawatt installati a livello globale, grazie soprattutto all'exploit della Cina, che ha avviato nell'anno 18.928 megawatt, compensando il calo registrato in Nord America ed Europa. Il colosso asiatico è ora il primo Paese eolico del mondo con 44,7 gigawatt, seguito dagli Usa a 40,2, Germania a 27,2 e Spagna a 20,6. La capacità eolica mondiale ha sfiorato così i 200 gigawatt a fine 2010, equivalenti a una produzione annua di 430 terawattora, il 2,5% dei consumi elettrici del pianeta. Il rapporto prevede che la capacità eolica mondiale arrivi a 600 gigawatt nel 2015 e a oltre 1.500 gigawatt nel 2020.

Per l'Europa, le speranze di rapida crescita sono riposte soprattutto nell'ultimo arrivato, l'eolico offshore, che sta dimostrando una vitalità veramente fuori dal comune. Nel 2010, rivela il rapporto dell'European Wind Energy Association, sono state installate 308 nuove turbine in mare, il 51% in più rispetto al 2009, per un totale di 883 megawatt distribuiti in nove parchi eolici in 5 Paesi europei, tutti affacciati sul Mare del Nord o sul Baltico. Gli investimenti complessivi si sono aggirati sui 2,6 miliardi di euro. I dati 2010 portano la capacità eolica offshore europea a 2.964 megawatt. E se il 2010 è stato un anno positivo, il 2011 andrà ancora meglio: Ewea prevede infatti nuove installazioni offshore per una capacità compresa tra i 1.000 e i 1.500 megawatt. Per ora il Paese leader è la Gran Bretagna, con una capacità di 1.341 megawatt, seguita da Danimarca e Olanda.

E proprio dal Regno Unito ci viene una previsione di crescita stratosferica sul medio periodo: di qui al 2050 la capacità eolica offshore mondiale aumenterà fino a 1.150 gigawatt, secondo il centro studi governativo Carbon Trust, con ritmi di crescita media del 10% l'anno nel periodo considerato.

Il segreto di questa crescita sta soprattutto nella dimensione delle turbine offshore, che ormai raggiungono i 4 megawatt ciascuna, e nell'immensa estensione di questi parchi, grazie ai bassi fondali comuni nel Mare del Nord: il Dogger Bank, ad esempio, è un colossale banco sabbioso che si estende per 18mila chilometri quadrati, cento chilometri a Est delle coste inglesi, con profondità fra i 15 e i 30 metri, su cui si sta costruendo un gigantesco parco eolico che arriverà in una prima fase a una potenza di 9.000 megawatt (come nove centrali nucleari) e in una seconda fase a 13mila (oltre il doppio di tutto l'installato italiano). L'appalto è stato vinto l'anno scorso dal consorzio Forewind, costituito da Sse, Rwe, Statoil e Statkraft, attraverso una gara bandita dall'agenzia demaniale britannica Crown Estate. Il banco è ciò che rimane di un grande territorio conosciuto come Doggerland, esistito durante l'ultima glaciazione e collegato sia alla Gran Bretagna che al continente europeo, ma non è l'unico caso: formazioni geologiche analoghe sono sparse in tutto il Mare del Nord e potranno essere sfruttate in base al piano eolico del governo di Londra, che riguarda nove zone, in cui sorgeranno parchi per un totale di 32.000 megawatt, un quarto della domanda elettrica britannica.

In Italia, invece, i vari tentativi di installare turbine offshore si sono scontrati fino ad oggi con le resistenze locali: famoso è il caso del parco progettato da Effeventi al largo delle coste molisane, bloccato a suo tempo da Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture. Un altro, proposto da Trevi Energy al largo della Puglia, è stato appena bocciato dal ministero dei Beni Culturali. E' chiaro che i mari italiani, più affollati e più profondi, si prestano di meno a questa tecnologia. Malgrado ciò, l'Anev calcola che anche l'Italia abbia un potenziale offshore di tutto rispetto, che andrebbe sfruttato. In questo spirito, dopo un anno e mezzo di gestazione, il mese scorso è finalmente partito il progetto Powered (Project of Offshore Wind Energy: Research, Experimentation, Development), iniziativa per lo studio delle potenzialità e delle problematiche legate allo sviluppo dell'eolico offshore nel Mare Adriatico, cui aderiscono alcune regioni prospicenti. Nel giro di due anni, Powered dovrebbe produrre un'analisi sulle strategie di sviluppo: può essere che per il prossimo secolo vedremo anche qualche turbina installata.


11 maggio 2011

L'Europa leader verso un'economia low carbon

Il mese scorso la Commissione europea ha adottato una nuova tabella di marcia per ridurre, entro il 2050, le emissioni di carbonio dell'80% rispetto ai livelli del 1990. La commissaria europea all'Azione per il clima Connie Hedegaard - intervenuta alla Giornata dell'Energia delle Regioni europee, organizzata a Bruxelles da GE Energy insieme all'Assemblea delle Regioni d'Europa - è convinta che guidare il passaggio, a livello planetario, verso un'economia a basse emissioni di carbonio comporterà un notevole vantaggio competitivo per l'Unione Europea.

E i costi?

"Quanto più aspetteremo, tanto più elevato sarà il costo. Con i prezzi del greggio che continuano ad aumentare, l'Europa vede rincarare ogni anno la propria fattura energetica, diventando sempre più vulnerabile di fronte a queste fluttuazioni. Dare avvio oggi alla transizione ci ripagherà domani e non dobbiamo neanche attendere alcun progresso tecnologico, dal momento che è possibile realizzare un'economia a basse emissioni di carbonio solo sviluppando tecnologie già disponibili e di provata efficacia".

Ma in pratica, quanto ci costerà abbassare le emissioni dell'80%?

"Per realizzare questo programma, nei prossimi quarant'anni l'Unione dovrà fare ulteriori investimenti annuali pari all'1,5% del Pil, cioè 270 miliardi di euro, oltre all'attuale 19% del Pil già investito. Ma una buona parte di questi investimenti, se non tutta, sarà compensata da una fattura energetica per gas e petrolio meno onerosa che, secondo le stime, permetterà di risparmiare tra i 175 e i 320 miliardi di euro l'anno. Inoltre non va dimenticato che questo aumento ricondurrà semplicemente l'Europa ai livelli d'investimento in tecnologie pulite precedenti la crisi economica".

Con quali vantaggi?

"Gli investimenti in tecnologie pulite e infrastrutture intelligenti, come le smart grid, comporteranno notevoli vantaggi. Mentre a trarre beneficio del caro bolletta sono soprattutto i Paesi terzi, infatti, gli investimenti creano valore aggiunto all'interno dell'Unione. Oltre a ridurre la dipendenza dell'Europa dalle importazioni energetiche e di conseguenza la nostra vulnerabilità di fronte a possibili fluttuazioni dei prezzi del petrolio, questi investimenti stimoleranno nuove fonti di crescita e creeranno nuovi posti di lavoro. Ridurremo l'inquinamento atmosferico e i costi sanitari connessi. Da qui al 2050 i benefici derivanti da una migliore qualità dell'aria potrebbero ammontare complessivamente a 88 miliardi di euro all'anno".

E cosa ne sarebbe degli obiettivi 20-20-20?

"L'analisi rivela che per centrare l'obiettivo al 2050 nel modo economicamente più sostenibile, nel 2020 bisognerebbe ridurre le emissioni del 25%, anziché del 20% come attualmente fissato. E solo attraverso interventi a livello europeo. Ma la tabella di marcia dimostra che per ridurre del 25% le emissioni interne di carbonio basterebbe mettere in pratica le politiche necessarie per migliorare del 20% l'efficienza energetica dell'Unione — come riaffermato dai capi di Stato e di Governo all'ultimo vertice sull'energia — e attuare pienamente il pacchetto di misure su clima ed energia adottato nel 2009 per il 2020".

In che misura l'Ue ha già ridotto le sue emissioni?

"Le emissioni di gas serra prodotte dai 27 Stati membri nel 2009, secondo le stime, sono state di circa il 16% inferiori ai livelli del 1990, a fronte di una crescita economica dell'Ue nell'ordine del 40% nello stesso periodo. L'Unione è quindi già riuscita a dissociare la tendenza decrescente delle sue emissioni da quella crescente del suo sviluppo economico. Siamo a buon punto su tutto, meno che sull'efficienza energetica: con le politiche esistenti non riusciremo ad aumentare più del 10% l'efficienza energetica del sistema europeo. Il piano proposto ora dalla Commissione mira solo al pieno conseguimento dell'obiettivo iniziale".

Gli obiettivi 20-20-20, però, possono essere conseguiti con misure interne e crediti internazionali. Perché ridursi ora unicamente alle misure interne?

"L'analisi indica che con le politiche attuali, in realtà, l'Ue potrebbe già ridurre le proprie emissioni grazie alle sole misure interne. Se è possibile, varrebbe la pena di farlo, per trasferire all'interno dell'Unione tutti i vantaggi di riduzione dell'inquinamento e di stimolo economico, invece che 'regalare' questi vantaggi alla Cina o al Brasile. L'analisi, inoltre, ha permesso di concludere che andando avanti nel tempo non sarà più possibile un ricorso su larga scala ai crediti internazionali, perché l'azione globale necessaria a contrastare i cambiamenti climatici ridurrà l'offerta di crediti a costi contenuti. È quindi logico, in una prospettiva economica, pensare di ridurre le emissioni esclusivamente con misure interne, nel lungo periodo".


8 maggio 2011

Piccole biomasse crescono

Ci sono biomasse e biomasse. Dal cippato ricavato dai resti legnosi del taglio del bosco alle canne dei fossi distillate per produrre carburanti futuristici, dai rifiuti solidi urbani al biogas. In questo comparto una forma di energia antichissima, ricavata dalla combustione del legno, incontra la ricerca più avanzata nelle procedure più diverse di sfruttamento, dalla conversione termica a quella chimica o biochimica. Si tratta quindi di un mondo molto variegato, in cui spesso la sostenibilità cozza con gravissimi problemi d'inquinamento. La combustione del legno, senza filtri, è considerata una delle principali cause di morte da inquinamento in Africa, tanto che ad esempio la Regione Lombardia vieta da anni tassativamente l'utilizzo di stufe e caminetti nei Comuni al di sotto dei 300 metri di altitudine. La produzione dell'olio di palma, invece, è responsabile di vaste deforestazioni nelle aree tropicali. E i biocarburanti tratti da coltivazioni in concorrenza con la produzione alimentare non sono considerati sostenibili in prospettiva. Ma se gestite nella maniera corretta, le biomasse possono avere un ruolo determinante nel mix energetico: la loro modulabilità si integra benissimo con la discontinuità di solare ed eolico, permettendo così di abbandonare progressivamente le fonti fossili.

Particolarmente emblematico è il caso della Mossi & Ghisolfi, il campione italiano dei biocarburanti di seconda generazione, che ha appena inaugurato in Piemonte il primo impianto mondiale per la produzione industriale su grande scala di bioetanolo dalla canna dei fossi, quindi non in competizione con le colture alimentari. La struttura, che sarà capace di produrre 40mila tonnellate all'anno di bioetanolo, deriva da una lunga ricerca condotta dalla famiglia Ghisolfi per arrivare a utilizzare un materiale povero e pienamente sostenibile, come la canna Arundo donax, per produrre biocarburanti.

In Italia, nell'arco temporale compreso tra il 1999 e il 2009, il parco impianti a biomasse è cresciuto in maniera considerevole: il tasso medio annuo di crescita è stato pari al 10,4% per la numerosità e al 14,8% per la potenza installata, secondo l'ultimo rapporto del Gestore dei Servizi Energetici. Questa crescita è stata caratterizzata da una dimensione media, in termini di potenza, sempre più consistente: gli impianti nel 1999 avevano potenza installata media pari a 3,2 megawatt, cresciuta fino a 4,8 megawatt nel 2009. La produzione totale negli ultimi 10 anni è aumentata del 410% con un tasso di crescita medio annuo del 17,7%, ma nell'ultimo anno il balzo è stato di oltre il 27%. La spinta si evidenzia in particolar modo per le biomasse solide, grazie all'avvento dei meccanismi di incentivazione. Compresi i rifiuti urbani, le biomasse solide pesano per il 62% del totale della potenza installata e nel 2009 hanno prodotto oltre 4.400 gigawattora. Biogas e biocombustibili liquidi hanno invece prodotto rispettivamente circa 1.700 e 1.400 gigawattora.


5 maggio 2011

Le rinnovabili in Italia valgono mezzo punto di Pil

Investire nelle rinnovabili sul mercato italiano conviene, non solo all'ambiente, ma anche ai rendimenti. L'Italia, con 203 operazioni mappate nel 2010 e 12,3 miliardi di euro di investimenti, è uno dei mercati più attraenti al mondo per le rinnovabili. Un dato, in particolare, balza agli occhi: il totale degli investimenti del 2010 nelle energie pulite equivale allo 0,4% del Pil italiano che – nello stesso anno – è cresciuto dell'1%.

"Nel 2010, il settore delle energie rinnovabili ha confermato di essere molto dinamico, nonostante la congiuntura economica sfavorevole", spiega Alessandro Marangoni, ad di Althesys e capo del team di ricerca di Irex, l'indice italiano dei titoli delle società quotate attive nelle fonti rinnovabili, che ha appena presentato il suo rapporto annuale. "L'analisi ha rilevato 203 operazioni industriali, per un totale di 5.165 megawatt e investimenti stimati in circa 12,3 miliardi di euro", di cui oltre 6 di puri investimenti in nuovi impianti. In quest'area la parte del leone in termini economici la fa il fotovoltaico, ma è l'eolico che presenta le maggiori dimensioni in termini di megawatt installati. In aumento anche il numero delle acquisizioni rilevate (+30%), a conferma della tendenza al progressivo consolidamento del settore. In calo la presenza degli investitori finanziari, in particolare nelle operazioni di finanza straordinaria.

Il comparto è largamente rappresentato a Piazza Affari: l'Irex (Italian Renewable Index) include Alerion, Actelios, Erg Renew, ErgyCapital, Greenvision, K.R.Energy, Kerself, Kinexia, TerniEnergia e da luglio 2010 Eems. Queste società coprono quasi la metà della capacità italiana da fonti rinnovabili. Alerion, TerniEnergia e Eems sono i titoli che hanno saputo approfittare meglio della ripresa del settore nelle ultime settimane, con buone performance da inizio anno, mentre le altre sono scivolate in terreno negativo. Ma le prospettive sono buone per il settore nel suo complesso: Marangoni stima un potenziale di crescita al 2020 compreso tra i 30 e i 40.000 megawatt, con investimenti fino a 100 miliardi di euro. L'analisi costi-benefici condotta da Althesys, alla luce degli scenari politici e regolatori attualmente in discussione, mostra un beneficio netto potenziale per l'Italia compreso tra 24,3 e 32,3 miliardi di euro al 2020. "A fronte della spesa per gli incentivi, sempre meno generosi, ma comunque consistenti, volti a coprire i costi di generazione differenziali, ci sono benefici sia economici, sia ambientali, sia di politica energetica", spiega Marangoni.

Gli effetti degli investimenti in rinnovabili hanno anche risvolti occupazionali non trascurabili: 90mila posti di lavoro potenziali in più al 2020, purchè si superi l'attuale stato di incertezza con una normativa non penalizzante per le fonti verdi. L'incertezza legislativa e il credit crunch, infatti, incidono sul finanziamento dei progetti: due terzi degli operatori dichiarano di aver ridotto gli investimenti mentre il 27% delle aziende rinuncia a oltre il 30% di progetti per questioni legate al finanziamento.


4 maggio 2011

Sole e vento volano in Borsa

Crisi libica e terremoto in Giappone hanno riacceso i riflettori sulle energie rinnovabili, nonostante i malumori per gli eccessi di crescita e le incertezze sul fronte degli incentivi pubblici.

"Il livello di fiducia resterà alto, malgrado le battute d'arresto in alcuni mercati", ha detto il direttore Renewables and Cleantech di PricewaterhouseCoopers, Ronan O'Regan, alla presentazione del rapporto PwC Renewables Deals. Il rapporto sottolinea l'importanza dello sbarco nel settore rinnovabili dei grandi gruppi atomici francesi e americani, che dopo Fukushima stanno ulteriormente accelerando la diversificazione delle attività. Nel complesso, prevede O'Regan, "il recente ritorno del prezzo del petrolio sopra i 100 dollari al barile e la tragedia nucleare in Giappone continueranno a fornire supporto alle società del settore rinnovabili e a ricordare ai governi che il passaggio a un'economia a basse emissioni di CO2 non riguarda solo l'ambiente, ma anche la sicurezza degli approvvigionamenti energetici".

Al centro dell'attenzione è finito soprattutto il comparto del solare, su cui sembra essersi spostato gran parte dell'interesse perso per l'atomo: dopo Fukushima alcuni titoli della categoria sono balzati del 90% sui listini. Al di là degli sbalzi momentanei, sono le tedesche a esprimere le performance migliori da inizio anno: il colosso Solarworld, con un +50% nei primi tre mesi del 2011, Nordex a +46 e Sma Solar a +28, seguite dalla danese Vestas (+28%), dalla spagnola Gamesa (+28%), dalla tedesca Q-Cells (+26%), da Enel Green Power (+25%), Edf Energies Nouvelles (+18%) e Edp Renovaveis (+11%). Tutta speculazione, oppure ci sono davvero le basi per un trend duraturo?

A guardare al lungo periodo, Société Générale è stata tra le prime a fornire indicazioni sul nuovo scenario, ancora in corso di definizione. In uno studio gli esperti dicono che una rinuncia totale all'energia nucleare porterebbe a un 22% di capacità aggiuntiva per le fonti verdi al 2020, rispetto alle previsioni fatte prima del terremoto in Giappone: 387 gigawatt di nuove installazioni per l'eolico e 226 gigawatt per le altre rinnovabili. Ad approfittarne di più sarebbero i titoli del fotovoltaico: assumendo per il solare un tasso medio di crescita del 5% all'anno per il periodo 2010-2020, il potenziale di rialzo sarebbe del 66%. In uno scenario a tinte meno forti, di blocco solo per i nuovi impianti nucleari, l'impatto sulle fonti rinnovabili sarebbe più limitato, del 3-5% in più rispetto alle previsioni pre-terremoto.

Fra i titoli più gettonati dagli analisti c'è la tedesca Centrotherm Photovoltaics, uno dei pionieri del settore, con trent'anni di esperienza nelle tecnologie per l'industria del fotovoltaico. Per Independent Research, è il titolo più favorito: il consiglio è comprare con obiettivo di prezzo 50 euro, un guadagno del 35% rispetto ad oggi. Piacciono anche i due giganti First Solar e Suntech, l'americana e la cinese che si contendono il titolo di leader mondiale del fotovoltaico: per Barclays Capital il titolo First Solar correrà fino a 144 dollari mentre Suntech può arrivare a 12 dollari, con un'avanzata del 26%. Buone prospettive anche per la regina dell'eolico, la danese Vestas: per Hsbc il giudizio è comprare, senza obiettivo di prezzo.

Una prospettiva ottimistica per il settore delle energie pulite, nonostante il taglio delle incentivazioni in alcuni Paesi, viene anche dal rapporto Clean Energy Trends 2011 della società specializzata Clean Edge, giunto alla sua decima edizione. In base alle proiezioni del rapporto al 2020, il mercato dell'eolico è previsto in espansione a 122,9 miliardi di dollari dai 60,5 miliardi di fine 2010, il solare a 113,6 miliardi da 71,2 e i biocarburanti a 112,8 miliardi da 56,4. Nessun altro settore economico mondiale, del resto, ha registrato negli ultimi 10 anni una crescita paragonabile a quella delle nuove energie rinnovabili. Il mercato globale del fotovoltaico è passato dagli appena 2,5 miliardi di dollari del 2000 a 71,2 miliardi nel 2010, mettendo a segno un tasso medio annuo di crescita del 39,8%, mentre l'eolico è aumentato nello stesso periodo da 4,5 a 60,5 miliardi (+29,7%). Risultati spettacolari sono stati registrati anche in altri settori verdi, come i biocarburanti, i veicoli ibridi, gli edifici a basso consumo energetico e le smart grid. Considerando anche i biocarburanti, insieme all'eolico e al fotovoltaico il mercato globale delle energie pulite è salito nel 2010 del 35,2% rispetto al 2009, fino a 188,1 miliardi di dollari, con una prospettiva di crescita a 349,2 miliardi nel prossimo decennio, solo per queste tre tecnologie.


3 maggio 2011

Era al 34° piano della South Tower l'11/9/01: oggi festeggia

La morte di Osama Bin Laden regala uno sprint di breve durata ai mercati mondiali, che preferiscono mantenere un atteggiamento prudente, anche per timore di rappresaglie incombenti. Ma le ricadute sul lungo periodo potrebbero essere più significative, secondo Ruggero De Rossi, gestore a Wall Street, definito 'genio dei bond' dall'autorevole settimanale americano Barron's per le ottime performance del suo fondo Tandem Global Partners.

L'11 settembre del 2001 lei si trovava nella Torre Sud, la seconda a essere colpita ma la prima a crollare dopo l'attacco terroristico. Che effetto le fa questo epilogo?

"E' stato ucciso il leader di un'organizzazione criminale che ha massacrato tremila civili, morti bruciati davanti ai miei occhi quel mattino. Per fortuna noi dell'Oppenheimer Fund lavoravamo al 34° piano e quindi siamo riusciti a scappare in tempo, ma tutti quelli più sfortunati che lavoravano ai piani alti, oltre il 75°, sono rimasti intrappolati e sono morti. Vederli bruciare vivi nel rogo delle torri è stato terribile".

Ha festeggiato la morte di Bin Laden?

"Certamente, ma non tanto per la soddisfazione di veder soccombere un nemico, che pure considero giustificata, quanto per celebrare il coronamento di una lunga battaglia, costata dieci lunghi anni di sacrifici colossali. La fine di questa battaglia ha un valore simbolico non indifferente, ma soprattutto un valore economico".

In che senso?

"Se riusciremo a uscire dall'Afghanistan, risparmieremo centinaia di miliardi di dollari all'anno. Il 19% del bilancio americano è destinato alle spese per la difesa e una fetta cospicua di queste spese va nell'impegno in Afghanistan. Se questi soldi venissero risparmiati e potessero essere in parte investiti nella ricerca e sviluppo di energie alternative, sarebbe un enorme vantaggio, sia per il bilancio federale che per il futuro dell'economia americana. Inoltre la vittoria su Al Qaeda darà una mano alla popolarità del presidente Obama, che potrà essere più facilmente rieletto. Questo è positivo per l'economia americana, visto che la sua amministrazione applica una politica economica molto espansiva, mentre i repubblicani stanno spingendo per i tagli di bilancio".

Un altro effetto potrebbe essere un calo del prezzo del petrolio...

"Senza dubbio. La sconfitta di Al Qaeda riduce il rischio geopolitico, che si ripercuote anche sulle quotazioni del greggio. Alla lunga, quindi, il prezzo del petrolio dovrebbe diminuire e anche questo andrà a tutto vantaggio dell'economia".

Nel breve termine, però, si rischiano rappresaglie...

"Può essere che gli uomini di Al Qaeda sopravvissuti al loro leader vogliano dimostrare che anche senza Bin Laden sono in grado di dar fastidio all'Occidente, ma non credo che riusciranno a sferrare attacchi di grandi dimensioni. In questi dieci anni la potenza militare di Al Qaeda è molto diminuita. Innumerevoli leader terroristici sono stati uccisi e moltissimi complotti sono stati sventati. Resta però il rischio di qualche attentato, su questo non ci sono dubbi".


2 maggio 2011

Gas via tubo o via nave? L'Italia è poco liquida

Gas via tubo o via nave? L'Italia, quarto importatore mondiale di gas, ha scelto i tubi: due terrestri, che ci portano il metano dal Mare del Nord e dalla Russia, e due sottomarini, provenienti dalla Libia e dall'Algeria. I tubi non bastano, però, se si vuole approfittare della rivoluzione in corso, scatenata dall'estrazione dello shale gas. Oltre ai gasdotti, tutti dell'Eni, servono terminali di rigassificazione, che consentano l'importazione di gas naturale liquefatto via nave. Con 80 miliardi di metri cubi di fabbisogno, il nostro sistema produttivo beve gas quanto l'economia giapponese, che ha un Pil quasi triplo. Ma il Giappone ha 28 rigassificatori, noi solo due: uno piccolo a Panigaglia, in Liguria, sempre del Cane a sei zampe, e uno più grande al largo di Rovigo, di ExxonMobil, QatarPetroleum e Edison. Infatti ci sono ben dieci impianti in progetto da anni, di cui cinque andranno a realizzazione, secondo i piani del governo.

Il più avanzato fra i progetti in corso è il terminale Olt Offshore di E.on e Iride, che dovrebbe entrare in esercizio l'anno prossimo al largo di Livorno, tanto che è già stata avviata anche l'attività di reclutamento per la gestione del rigassificatore. L'impianto galleggiante, da 600 milioni di euro, consiste in una grossa nave gasiera, che è attualmente in cantiere a Dubai per la riconversione. L'arrivo in loco è previsto per aprile-maggio 2012: il terminale, da quasi 4 miliardi di metri cubi l'anno, sarà ancorato a 22 chilometri dalla costa e si sta già lavorando alla posa del tubo sottomarino, che lo collegherà alla rete a terra. Con la società Ruhrgas, capofila anche del progetto italiano, E.on è attiva nell'estrazione di gas naturale, sia nel Mare del Nord che in Russia, dove produce oltre 4 miliardi di metri cubi di metano all'anno. Malgrado i tagli agli investimenti annunciati in Germania, Ruhrgas è molto interessata a rendere rapidamente operativo il terminale al largo di Livorno, che considera strategico per la sua presenza in Italia. E.on ha un altro rigassificatore offshore in progetto, nel golfo di Trieste, che potrebbe contare su una capacità di 8 miliardi di metri cubi di gas all'anno, ma l'iter autorizzativo per questo secondo impianto è ancora lungo.

Della cinquina vincente dovrebbe far parte anche l'impianto Enel di Porto Empedocle: come confermato dal numero uno Fulvio Conti, nella presentazione del piano strategico 2011-2015 agli analisti internazionali, il progetto è considerato parte integrante dello sviluppo della società in Italia, per migliorare l'equilibrio nel mix dei combustibili utilizzati.

C'è stato un piccolo passo in avanti anche per il progetto di Erg-Shell a Priolo, nella concertazione con gli enti locali: in un incontro alla Regione con i sindaci di Priolo, Melilli e Augusta, è stata definita una prima base negoziale per compensazioni ambientali, riqualificazione dell'area e attività d'informazione alla popolazione relativa alla sicurezza dell'impianto.

Procede la riconversione a terminale di rigassificazione per la piattaforma petrolifera offshore Falconara di Api Nova Energia, che ha incassato il decreto di Via la scorsa estate e si appresta alla conferenza dei servizi conclusiva.

Ulteriore rallentamento, invece, per il progetto di Edison e Bp a Rosignano, il cui recente decreto di Via è stato impugnato davanti al Tar da un comitato di cittadini contrari al rigassificatore.

Fra i progetti di nuovi tubi, il più avanzato è il Galsi, che consentirà d'importare altri 8 miliardi di metri cubi di gas dall'Algeria via Sardegna, grazie all'investimento di 3 miliardi da parte di Edison, Enel e Hera, insieme all'algerina Sonatrach.

Per quanto riguarda Igi-Poseidon, il gasdotto sottomarino di collegamento fra la Grecia e l'Italia, in joint venture fra Edison e la greca Depa, entro giugno dovrebbe essere risolto il nodo della disponibilità del gas azero, uno degli ultimi ostacoli sulla strada della realizzazione del progetto.