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30 maggio 2011

La ripresa? Può finire nel barile

Sembrava che scendesse. E invece no. Per Goldman Sachs il greggio e le materie prime correlate andranno su. Per Morgan Stanley e JP Morgan, pure. La Iea, il braccio energetico dei Paesi industrializzati, cioè importatori, si preoccupa che l'offerta non sia sufficiente e sollecita l'Opec ad aumentare la produzione. A che livello domanda e offerta, secondo la Iea, si debbano incontrare non è chiaro, ma è evidente che l'agenzia teme di arrivare a un prezzo troppo alto, che potrebbe compromettere la ripresa.

La banca d'affari più prestigiosa del mondo ha alzato le stime di prezzo per il greggio europeo da 105 a 120 dollari al barile per la fine del 2011 e da 120 a 140 per la fine del 2012. Morgan Stanley, con curioso tempismo, si è accodata, prevedendo che il Brent quest'anno raggiungerà 120 invece che 100 dollari e l'anno prossimo 130 invece che 105, mentre Jp Morgan ha reiterato la sua previsione di 130 dollari a barile entro il terzo trimestre. Ma l'economia mondiale potrà reggere prezzi così alti senza ripiombare in recessione? A giudicare dalle previsioni estive sui blackout cinesi, si direbbe di sì. La seconda economia mondiale non riesce a produrre abbastanza energia per reggere la sua crescita e ad alcune imprese viene chiesto di farne a meno. Qualche funzionario sostiene che il 2011 sarà peggio del 2004, quando il Paese dovette ricorrere a blackout parziali e a un razionamento dell'energia. Quindi, la domanda di energia dovrebbe tenere eccome.

In queste condizioni, il mondo industrializzato sarà ancora una volta alla mercé degli sceicchi: ma quel'è la soglia di resistenza, sotto la quale l'Arabia Saudita non è disposta a scendere? In media, finora, nel 2011 i sauditi hanno venduto il loro greggio a poco più di 104 dollari, consentendo a Riad di finanziare sussidi sociali e grandiosi programmi di investimento, ad esempio per aumentare la produzione di elettricità. Bisogna vedere cosa farà d'ora in poi. Al Waleed bin Talal, principe saudita tra i più celebri finanzieri al mondo, che ha costruito le sue fortune sull'oro nero, ha ammonito l'establishment saudita a non esagerare in un'intervista di lunedì scorso alla Cnn. Le cause per le quali oggi il prezzo del greggio si aggira in media sui 100 dollari al barile, ha spiegato, sono da ricondurre ai timori derivanti dall'instabilità nella regione del Golfo a seguito delle rivolte in Libia e Bahrain. Ma lui vedrebbe di buon occhio un prezzo del petrolio attorno agli 80 dollari al barile, per evitare che i Paesi consumatori siano incoraggiati ad investire massicciamente nelle fonti alternative.

Il problema di fondo, però, resta un'evoluzione progressiva del mercato petrolifero verso qualità sempre più care e difficili da estrarre: cala la produzione dei giacimenti di greggio leggero e anche i Paesi del Golfo sono costretti a ricorrere a una qualità più densa e più complicata da estrarre. Il petrolio pesante, la cui densità è paragonabile a quella della melassa, è molto più duro da estrarre rispetto a quello leggero e i costi di raffinazione sono più alti. Se il regno saudita si è imbarcato insieme al Kuwait in un nuovo progetto per estrarlo dal giacimento di Al Wafra, a cavallo fra i due Paesi, questo è un segnale inequivocabile della fine dell'era del petrolio facile, perfino per i Paesi del Golfo. Gli stessi sauditi, infatti, sembrano non essere più in grado di aumentare rapidamente la produzione a fronte di un'improvvisa crisi, come si è visto nel caso delle rivolte in Nord Africa. E questo non fa ben sperare per le future quotazioni del greggio.

A partire dal 2025, infatti, secondo l'ultimo rapporto di Wood Mackenzie, il 20% della domanda mondiale di energia potrebbe essere soddisfatta dal petrolio pesante. Nello studio si identificano i fattori di rischio derivanti dall'estrazione di queste fonti energetiche: si tratta di problemi tecnici, commerciali, fiscali ed ambientali. Per questo la Wood Mackenzie avverte le compagnie interessate di valutare quanto il gioco valga la candela, per garantire che i loro investimenti vadano a buon fine. Ma qualcuno si è già fatto i suoi conti: Royal Dutch Shell, Total, ExxonMobil e Chevron hanno già iniziato ad investire in paesi come il Canada e il Venezuela per l'estrazione di questo tipo di greggio.


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