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22 giugno 2007

Il boom del private equity: barbarians at the gate?

In The Manchurian Candidate, il film di Jonathan Demme, un fondo di private equity per la prima volta svolge la parte del cattivo, della potenza oscura che cospira per controllare il cervello del presidente degli Stati Uniti. Hollywood è un termometro accurato, non solo di ciò che è popolare, ma anche dei timori degli americani. I timori nascono dalla crescita smisurata di questo mercato (agli inizi degli anni Ottanta era quasi inesistente, oggi viene stimato sui 1.300 miliardi di dollari) e crescono confrontandosi con la sua stessa natura: non essendo in genere quotate, tranne Blackstone che ha appena compiuto il grande salto, le società di private equity sono poco trasparenti e inaccessibili ai comuni investitori. I loro padroni, volto nuovo del capitalismo americano, sabituati a muoversi in silenzio, non rilasciano interviste, spesso nessuno li ha mai visti in faccia. E navigano bene in quest'aura di mistero. Ma con le ultime operazioni, sono diventati troppo grossi per continuare a nascondersi. Cerberus si è appena comprato Chrysler. Colony Capital ha conquistato la libica Tamoil. La compagnia elettrica Txu è andata a Texas Pacific (pretendente anche di Alitalia nella prima fase) per 45 miliardi di dollari. Equity Office a Blackstone per 38 miliardi. Hospital Corporation of America, per 32 miliardi, a Kohlberg Kravis Roberts. Queste operazioni battono il record segnato dalla famigerata vendita della Nabisco a Kkr per 30 miliardi nel lontano '89 e rispecchiano il salto di qualità di un settore a lungo osteggiato ma ormai inarrestabile. "Barbarians at the Gate", il libro scritto dai giornalisti Bryan Burrough e John Helyar per raccontare l'acquisizione della Nabisco, all'incrocio fra il tramonto dell'edonismo reaganiano e le prime luci dell'alba delle dot-com, ha venduto milioni di copie e affibbiato per sempre il nomignolo di barbari ai fondi di private equity, definiti anche liberamente locuste o avvoltoi, a seconda delle situazioni. Ma ora che i barbari sono davvero alle porte, conviene andare più a fondo del semplice episodio di cronaca, perché ormai un euro ogni quattro spesi in acquisizioni viene da loro. Standard & Poor's calcola che nel 2006 le operazioni di private equity abbiano raggiunto un valore totale di 430 miliardi di dollari, più o meno equamente distribuiti fra America ed Europa. Nel 2001 erano a 40 miliardi in tutto. In Italia, a dire il vero, si è visto poco: appena 3,7 miliardi sui 220 spesi in Europa. Il bello, quindi, deve ancora venire. Ma indubbiamente arriverà, con il consueto ritardo che ci caratterizza sempre. Già si è visto un primo assaggio con l'ingresso di Permira in Valentino, avviato verso il delisting. Basterà poco, quindi, per dipingerli al largo pubblico come una congiura dei potenti ai danni dei piccoli risparmiatori. Ma lungi dall'essere un'oscura forza del male, il private equity è un propellente essenziale, una componente fondamentale del miracolo americano degli ultimi quindici anni, con un aumento della produttività quasi doppio rispetto all'Europa. Per crescere è necessario cambiare. Nuove imprese devono nascere e le imprese esistenti devono ristrutturarsi o chiudere. In queste delicate fasi congiunturali, il modello di società a capitale diffuso presenta diversi svantaggi. L'incertezza è troppo elevata e le scelte da farsi troppo rischiose per affidarle al giudizio volubile del mercato azionario. È necessaria quindi una proprietà concentrata per far ricadere costi e benefici su chi fa queste scelte. E per finanziare la creazione o la ristrutturazione di un'impresa serve un investitore con sufficienti risorse per accompagnare l'impresa nei momenti difficili. Questo investitore deve anche avere la capacità e il tempo per consigliare l'impresa. Una volta questo mestiere era riservato ai super ricchi, ma non sempre costoro (soprattutto se hanno ereditato le loro fortune) hanno il fiuto per individuare gli investimenti più profittevoli. E in ogni caso il loro numero è limitato. Il private equity ovvia a questa carenza. Il private equity e il venture capital raccolgono da fondi pensione e investitori istituzionali le risorse da investire in società da ristrutturare e start up. Che gli investitori individuali ne siano generalmente esclusi non è un gran male, perché questi investimenti sono troppo rischiosi per il loro portafoglio. È grazie al private equity che nuove imprese come Apple e Microsoft, Netscape e Yahoo, Google e YouTube hanno avuto successo. E che gli Stati Uniti sono diventati leader nel settore informatico e in Internet, trasformandosi da obsoleto gigante industriale in potenza del terziario avanzato. Questo non significa che, come in tutti i mercati, non ci siano eccessi ed abusi. Nel venture capital, il pericolo maggiore sono gli eccessi. Alla fine degli anni Novanta l'enorme afflusso di fondi contribuì alla bolla speculativa: centinaia di milioni di dollari furono sprecati nell'illusione di creare il nuovo Amazon.com. Nel buyout market, quello su cui si muovono i fondi di private equity, il rischio più consistente è quello di abusi. Il caso più eclatante è quando una società quotata viene acquisita con l'appoggio del management. Grazie alle informazioni privilegiate di cui dispone il management, l'offerta di acquisto può essere formulata al momento in cui l'azienda è più sottovalutata dal mercato. Per evitare questo rischio esistono precise regole di disclosure, ma non sempre queste regole funzionano e il management - come sapientemente descritto nel libro di Burrough e Helyar - gode di un vantaggio significativo. Il rischio maggiore dei buyout fund, come sottolineato di recente dall'Economist, è per i suoi investitori. Uno studio di Steven Kaplan e Antoinette Schoar dimostra che, al netto delle commissioni, questi fondi rendono quanto l'indice di Borsa. Ma assumono molto più rischio. In media le imprese che compongono l'indice borsistico americano hanno un livello di debito pari al 30% del capitale investito. Mentre le imprese acquisite dai buyout fund hanno un debito pari all'80% del capitale. Le attività dei buyout fund sono quindi esposte alle fluttuazioni di mercato in misura più che doppia di un investimento nell'indice. È come se si comperasse l'indice di Borsa prendendo a prestito più di metà del capitale. Perché allora fondazioni, fondi pensioni, e celebri università continuano a investire nei buyout fund? Perché si trovano impossibilitate a effettuare direttamente investimenti così rischiosi. Quale fondazione potrebbe giustificare al suo consiglio di amministrazione di prendere a prestito per investire nell'indice? Il vantaggio dei buyout fund è che non sono costretti giornalmente a valutare a prezzi di mercato le loro partecipazioni: così facendo rendono più appetibili agli investitori istituzionali attività molto rischiose. Ma nonostante i benefici che hanno generato, i fondi di private equity restano sotto accusa. Forse per l'inquietante somiglianza di chi li controlla con i vecchi padroni delle ferriere, figli di quei robber barons che hanno dato origine al capitalismo moderno. I nuovi padroni sono gente schiva. Da Bill Conway e David Rubenstein, i pionieri di Carlyle, a Steve Schwarzman e Pete Peterson di Blackstone, da Henry Kravis e George Roberts di Kohlberg Kravis Roberts a Stephen Feinberg di Cerberus, passando per David Bonderman di Texas Pacific Group, sono quasi tutti cervelloni di umili origini, partiti dalla finanza pura per passare a occuparsi di management, con un occhio fisso ai profitti. Le loro passioni sono politically correct, anche se talvolta scivolano negli eccessi da parvenu. Bonderman e Schwarzman, ad esempio, condividono la passione per il rock: l'uno ha chiamato i Rolling Stones a suonare per il suo sessantesimo compleanno, l'altro Rod Stewart. Ma non è solo questo. Come ogni padrone delle ferriere che si rispetti, i nuovi robber barons non devono render conto a nessuno dei loro numeri e delle loro decisioni, essendo le loro aziende private, non quotate in Borsa e quindi non obbligate ad alcun tipo di trasparenza. Nei Paesi dove il capitalismo di mercato funziona e dove i padroni delle ferriere, pubblici o privati, non esistono più, è naturale che l'ascesa di questi signori faccia innervosire qualcuno. E' il modello basato sulle public companies, rese grandi dalla raccolta di capitali presso una miriade di risparmiatori passivi di lungo termine, che si ribella al proprio tramonto. Un modello che ha i suoi difetti, come tutti i sistemi maturi. Dove i padroni sono deboli, i manager sono spesso troppo forti. I loro compensi troppo alti. E le loro azioni troppo poco controllate. Da Enron a Parmalat, si è ben visto che anche le aziende quotate in Borsa possono sfuggire di mano. Ma è un modello che viene identificato da molti con un'epoca d'oro di crescita democratica delle società industrializzate. In Italia è tutta un'altra storia, perché grandi multinazionali sostanzialmente non ce ne sono, come dimostrato dall'ultimo rapporto dell'ufficio studi di Mediobanca. E quelle poche che abbiamo (Eni, Enel, Finmeccanica) comunque sono controllate dallo Stato o da singole grandi famiglie, come la Fiat. Il modello anglosassone delle public companies non ci ha mai intaccati. Quindi ben vengano i buyout fund. Non abbiamo niente da perdere e tutto da guadagnare.

10 giugno 2007

Le nuove Sette Sorelle

Nuove tecnologie, nuovi scenari. L'evoluzione dei mezzi di produzione migliora l'efficienza e sposta gli equilibri fra manifattura e terziario. Succede così in quasi tutti i settori, ma non nell'energia. Un campo ancora dominato dagli idrocarburi, dove la produzione invece che avanzare va indietro. Non per carenze tecnologiche, ma per motivi politici. La rinascita del nazionalismo nei Paesi petroliferi, dal Medio Oriente al Sudamerica, sta costando carissima al resto del pianeta: 2 miliardi e mezzo di dollari al giorno, centesimo più, centesimo meno. E' questa la differenza di prezzo che oggi paghiamo per soddisfare il fabbisogno quotidiano di petrolio dell'umanità, dopo quattro anni di caduta della produzione e di aumento costante delle quotazioni, che a metà 2003 si aggiravano sui trenta dollari al barile e oggi superano ampiamente i sessanta, senza grandi prospettive di riduzione nel prodssimo futuro. In quattro anni di trasformazione radicale dell'industria petrolifera, la bolletta energetica del pianeta è più che raddoppiata. Nell'ultimo decennio, addirittura, è quadruplicata. Ormai l'economia globale si è sintonizzata su questo aumento stratosferico, analogo a quello che causò la catastrofica crisi petrolifera a cavallo tra fine anni Settanta-inizio Ottanta, e lo dà quasi per scontato. Ma i motivi alla base di questo aumento pesano drammaticamente sulle prospettive future dell'economia mondiale, che non ha ancora trovato una valida alternativa al petrolio per mandare avanti i suoi ingranaggi. L'evoluzione a cui stiamo assistendo, infatti, non è ancora completa. In questi quattro anni un nuovo gruppo di compagnie petrolifere ha spazzato via i leader che avevano dominato il settore nel mezzo secolo precedente. Delle famose sette sorelle di matteiana memoria, oggi rimane ben poco. Nel processo di consolidamento avvenuto negli anni Novanta, la Standard Oil of New Jersey, la Standard Oil of New York e la Gulf Oil sono confluite nella ExxonMobil, la più potente di questo gruppo. La British Anglo-Persian Oil Company, oggi BP (Beyond Petroleum), viene per seconda. Poi c'è la ChevtonTexaco, in cui è confluita anche la Standard Oil of California. Infine la Royal Dutch Shell. Nomi ancora altisonanti, che Wall Street continua a riverire. Ma a ben guardare le sorelle superstiti sono da tempo in preda a una grave crisi d'identità. Questi quattro colossi, che nei primi anni Cinquanta facevano arrabbiare Enrico Mattei dettando le regole di un mercato che dominavano largamente, oggi producono complessivamente non più di un decimo degli idrocarburi mondiali e ne posseggono solo il 3 per cento delle riserve. Di conseguenza, non dettano più legge a nessuno. Malgrado siano le migliori sul mercato, sia dal punto di vista tecnologico che patrimoniale, sono costrette a chinare il capo di fronte ai vari tiranni che controllano le riserve mondiali e alle nuove dominatrici del settore, le compagnie petrolifere statali dei Paesi produttori. Le nuove sette sorelle, identificate in base ai livelli di produzione ma soprattutto alle riserve, appartengono a una categoria tutta diversa. Sono la saudita Saudi Aramco, la russa Gazprom, la cinese Cnpc, l'iraniana Nioc, la venezuelana Pdvsa, la brasiliana Petrobras e la malese Petronas. Tutte di proprietà statale, insieme controllano quasi un terzo della produzione mondiale d'idrocarburi e oltre un terzo delle riserve. Malgrado ciò, i loro guadagni sono notevolmente inferiori rispetto alle rivali indipendenti, che hanno una struttura integrata verticalmente tale da arrivare, con le loro raffinerie e le loro catene distributive, fino al consumatore finale. Ma anche questo rapporto è destinato a modificarsi nel tempo, con il declino delle riserve occidentali: quelle americane hanno raggiunto il loro picco nel '79 e da allora scendono, così come anche la produzione europea nel Mare del Nord. Nei prossimi trent'anni, secondo l'International Energy Agency, il 90 per cento delle nuove produzioni verrà dai Paesi in via di sviluppo. Una svolta fondamentale rispetto ai trent'anni passati, quando il 40 per cento delle nuove produzioni veniva dai Paesi industrializzati e andava ad arricchire le compagnie indipendenti. Saudi Aramco sarà la più attiva nelle nuove produzioni: il suo piano d'espansione prevede un aumento dell'output dagli attuali 11 milioni di barili al giorno (13 per cento del fabbisogno globale) a 15 milioni di barili. Con ciò, Riad consoliderà il suo ruolo di banchiere centrale del petrolio, in grado di aprire o chiudere i rubinetti dell'energia mondiale in base all'umore del momento. In verità, i sauditi siedono su un tale mare di riserve facili da raggiungere da giocare in un girone per conto proprio. Per gli altri non è tutto così facile. L'estrazione del petrolio, soprattutto in aree disagevoli come le acque profonde del Golfo del Messico o le zone artiche della Siberia, richiede delle capacità tecniche che non tutti hanno. Gazprom, ad esempio, non le ha. E non le avrà nemmeno nel prossimo futuro. Per non parlare di Nioc o di Petrobras. I governi che le controllano, infatti, tendono a incamerare gli utili succhiati dalle viscere della terra, per devolverli alle loro clientele politiche. In questo modo impediscono alle compagnie d'investire in know-how e tecnologia, riducendo gravemente le loro capacità di produzione. Nel 2006 il presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha recentemente sbattuto fuori dal Paese l'Eni e la Total con una campagna di espropriazioni, ha speso i due terzi dei guadagni della Pdvsa (circa 7 miliardi) per i suoi programmi sociali. In Iran, la Nioc continua a importare gas nonostante controlli il più grande campo di gas del mondo, scoperto nel 1990 sotto il Golfo Persico: i fondi che le servirebbero per sviluppare l'estrazione devono essere incanalati nei sussidi che mantengono il prezzo della benzina a 10 centesimi di dollaro al litro nel Paese. Il piccolo Qatar, che controlla l'altra metà del campo sulla riva di fronte del Golfo, negli ultimi quindici anni è diventato una potenza mondiale nel gas liquefatto, sfruttando quelle riserve in maniera molto più imprenditoriale insieme a ExxonMobil. E il governo del Kuwait, che sta seduto su un mare di petrolio, quarto per riserve nel mondo, ha ammesso che non sarà in grado di aumentare la produzione senza la collaborazione tecnica delle compagnie occidentali. Esempi analoghi non si contano. In complesso, secondo i calcoli del Centre for Global Energy Studies di Londra, i fattori geopolitici legati al nazionalismo rampante in Iran, Nigeria, Russia, Kuwait e Venezuela hanno ridotto la produzione mondiale di idrocarburi di 7,8 milioni di barili al giorno dal 2000 a oggi, equivalenti al fabbisogno complessivo di Germania, Francia, Italia e Spagna. Ecco da dove viene l'aumento spropositato del prezzo del petrolio. E non è finita qui. Nel prossimo quarto si secolo, secondo le stime di Faith Birol dell'International Energy Agency, per adeguare le forniture alla crescita del fabbisogno mondiale sarebbero necessari 20mila miliardi d'investimenti, considerando anche la sete di energia delle potenze emergenti. Invece, andando avanti di questo passo, ci ritroveremo con un 20 per cento di petrolio in meno rispetto a quello che ci serve. Sembra una previsione azzardata, ma essendo l'industria petrolifera un pachiderma dai tempi lunghissimi, le stime di Birol sono perfettamente plausibili. E' molto difficile modificare un trend di questo tipo, dovuto alla politica e non alla tecnologia. Già oggi abbiamo perso troppo terreno, come si vede chiaramente dalle indicazioni del mercato. Perciò sarà bene che il mondo si attrezzi a sviluppare delle fonti alternative. O a ritornare al carbone.

4 giugno 2007

Nucleare: Romano riaccende la Sogin

Il destino di Arturo è segnato. Entrato in funzione a Caorso nel 1978 e spento nell' 87, dopo neanche un decennio di produzione elettrica nella campagna piacentina, 29 miliardi di kilowattora in tutto, l' ultimo reattore italiano da allora ha smesso di illuminare le nostre case ma ha continuato a essere curato da una nutrita truppa di tecnici. Nell' impianto, dopo vent' anni, sono ancora stoccate 190 tonnellate di combustibile irraggiato, destinate a essere trasferite in Francia per il riprocessamento, dopo la firma all' inizio di maggio dell' accordo con Areva. In una decina d' anni al posto della centrale dovrebbe ritornare un «prato verde». Come se l' esperienza nucleare fosse solo un brutto sogno da dimenticare. Ma è davvero così? Massimo Romano, l' uomo chiamato dal Tesoro a rivoltare Sogin come un calzino dopo gli scandali della passata gestione, non sembra per niente d' accordo. Concluso un decennio di lobbying per l' Enel, il potente responsabile degli affari istituzionali e delle strategie dell' ex monopolista elettrico è andato ora a guidare con il medesimo spirito combattivo la società pubblica cui è affidato lo smantellamento delle quattro centrali atomiche italiane di Trino, Caorso, Latina e Garigliano, oltre all' impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo e i centri di ricerca ex Enea di Saluggia, Casaccia e Trisaia. Un salto mortale da un colosso multinazionale con 60mila dipendenti a un' aziendina di nicchia, in cui Romano vede però «grande potenziale». Sogin è l' unico strumento rimasto in mano al Paese per mantenere vivo il know how nucleare, raccolto in un quarto di secolo di attività, dall' entrata in funzione della centrale di Latina nel ' 64 al blocco dovuto al referendum dell' 87. Ma bisogna agire in fretta, prima che vada perso. «Sulla destinazione delle aree - spiega Romano - non spetta a Sogin decidere, come non spetta agli operatori industriali qualunque decisione relativa al ritorno al nucleare in Italia. Ma se un giorno si verificassero le condizioni per un ritorno, sarà determinante non aver disperso la vocazione industriale di alcune porzioni del territorio italiano che per decenni hanno sviluppato una cultura della convivenza con l' attività nucleare». Mantenere un piede nella porta, quindi, è la sua mission. Non sarà una mission impossible, ma quasi. Dopo un buco di vent' anni, in cui si sono spesi oltre 800 milioni di euro solo per il mantenimento in sicurezza dell' esistente, non è facile riprendere il filo del discorso. «Nel ciclo nucleare l' attività di decommissioning non ha minore dignità di quella relativa alla costruzione e all' esercizio degli impianti», precisa Romano. «Nei prossimi quindici anni, tenuto conto che molte centrali si avvicineranno a fine vita, questo mercato sarà ancora più significativo: Sogin e il sistema industriale italiano devono cogliere l' occasione per ritagliarsi uno spazio adeguato, in particolare in Russia e nei Paesi dominati dalla tecnologia russa, che rappresentano larga parte del mercato mondiale e dove operiamo già da anni sia in ambito civile che militare». È necessario però un ripensamento radicale del modello di business. Con 784 dipendenti e un giro d' affari di 121 milioni di euro, «non c' è dubbio che Sogin appaia ridondante in relazione alla sua missione e al fatturato realizzato», commenta Romano, soprattutto se la si confronta con i competitor esteri, dalla britannica Nda (1.417 milioni di fatturato con 220 dipendenti) alla belga Ondraf (100 milioni di fatturato con 62 addetti). Per non parlare dell' età media del personale: 57 anni i dirigenti, 50 i quadri (contro medie del settore di 50 e 47). Il riassetto punterà a fare in modo che anche in Italia «il decommissioning abbia costi e tempi allineati agli standard internazionali». A partire dal risanamento di Bosco Marengo, dove ci sono le condizioni per completare il lavoro in 24-30 mesi, dopo il lungo sonno delle autorizzazioni. «Sui ritardi accumulati, oltre alle difficoltà autorizzative, ha pesato una sostanziale ambiguità del modello di Sogin», ammette Romano. «Per rimettere in moto il processo - indica - alla cultura tecnica bisogna aggiungere una cultura gestionale che manca». Sarà sufficiente per risvegliare la bella addormentata nel bosco del nucleare italiano?

1 giugno 2007

Dale Jorgenson

Nel giugno del 2003 uscì su Harvard Business Review un articolo di Nicholas Carr intitolato "Perché l' IT non è più importante". Una bomba. Per l' industria americana, che sull' information technology aveva basato un balzo di produttività tale da indurre nel mite Alan Greenspan la convinzione di aver scoperto il moto perpetuo (ovvero la crescita senza inflazione), l' articolo di Carr fu a dir poco un insulto. Per Dale Jorgenson, uno dei massimi esperti mondiali di crescita e nuove tecnologie, non è solo un insulto ma un atto di pericolosa arroganza.
Dunque gli investimenti in information technology continuano a essere importanti per la competitività delle aziende?
«Molto importanti. L' information technology, particolarmente nei mercati dove non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità, è un elemento di competitività essenziale. Rallentare il processo di svecchiamento, soprattutto nel settore dei servizi, dove l' Europa è molto indietro rispetto agli Usa, porterebbe a una deleteria involuzione».
Carr sostiene che l' IT è diventata ormai come l' elettricità o il telefono: qualcosa di cui non si può fare a meno, ma che non costituisce un vantaggio competitivo per nessuno.
«Un discorso di questo tipo può valere al massimo per gli Stati Uniti, dove l' utilizzo delle nuove tecnologie è talmente pervasivo da renderle scontate. In un mercato dove la disponibilità di risorse è tanto vasta, la risposta al problema posto da Carr sta nello "utility computing". I manager americani puntano sempre di più ad acquistare le risorse informatiche da un fornitore specializzato, come si fa con l' elettricità o con le tlc, anziché costruirsi la propria centrale interna. Questo consente alle imprese di consumare una quantità di risorse variabile a seconda delle necessità del business, con una tariffazione a consumo».
E in Europa?
«Ma in Europa e particolarmente in Italia, dove i servizi finanziari sono ancora erogati principalmente allo sportello e il commercio elettronico è ai primordi, è presto per porsi questo problema. Qui l' investimento in nuove tecnologie è ancora talmente basso e le opportunità di business per le imprese innovative talmente vaste, che vale la pena spingere l' acceleratore al massimo».
Che cosa emerge dai suoi studi sull' esperienza americana?
«Analizzando l' esperienza degli Stati Uniti nel mio ultimo libro "Produttività" (Mit Press), ho identificato nel mondo delle imprese quattro settori che producono IT, 17 settori che la utilizzano in maniera massiccia e 23 settori per cui non è un fattore essenziale. Da questo studio risulta che i settori produttori e grandi utilizzatori abbiano svolto un ruolo assolutamente sproporzionato nella crescita economica americana dell' ultimo decennio. Questi settori rappresentano soltanto il 30 per cento del Pil americano ma hanno contribuito a metà dell' accelerazione nella crescita. Nel contempo, emerge che le vaste disparità di crescita nell' ambito dei Paesi del G7 dipendono proprio dal diverso impatto dell' IT sulle singole economie».
Dunque la lentezza nella crescita europea discende dal minore utilizzo delle nuove tecnologie?
«Il balzo di produttività che ha sostenuto la crescita americana nel decennio 1995-2005 in Europa non c' è stato: qui la produttività è cresciuta della metà rispetto agli Usa. E in Italia ancora un po' di meno rispetto alle medie europee. E' chiaro che ci sia un legame fra questa differenza e il gap nella crescita economica fra le due sponde dell' Atlantico».
Da cosa dipende questa differenza?
«Per sfruttare a fondo le potenzialità delle nuove tecnologie ci vuole la libera concorrenza e quindi un mercato unico, dove le imprese possano muoversi senza barriere su tutto il continente e competere da pari a pari. E' questo che manca in Europa, soprattutto nell' ambito dei servizi. Per i consumatori è un danno colossale».
Ma sono proprio le imprese, spesso, a resistere alle liberalizzazioni. Basta guardare cos' è successo nel caso della direttiva Bolkestein...
«Solo gli incumbent resistono alle liberalizzazioni. Le altre imprese avrebbero tutto l' interesse a competere liberamente sull' intero continente: consentirebbe economie di scala gigantesche e un enorme efficientamento».
Ma spesso i nuovi entranti in un Paese sono gli incumbent in un altro e quindi si alleano fra di loro per mantenere le cose come stanno.
«Come dice un mio amico europeo, è una guerra di trincea. Stanare i privilegiati e farli sloggiare dalle loro posizioni è un processo lento, che va avviato il prima possibile. La direttiva europea passata in dicembre è un buon strumento, anche se ha annacquato la Bolkestein. Ma va implementata in fretta, altrimenti l' Europa continuerà a perdere terreno».