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30 dicembre 2007

Internet? E' più attraente di Wall Street

Per decenni, i migliori laureati in scienze economiche si sono misurati con le sfide della finanza, dove l’analisi matematica in determinate circostanze può tramutarsi in denaro sonante. Ma oggi la massa di dati offerta dai mercati finanziari, su cui i giovani economisti disegnavano i loro modelli, è stata eclissata dal flusso gigantesco d’informazioni che passa attraverso i server delle grandi Internet companies. Chi è capace di prevedere il comportamento dei consumatori e di influenzarlo organizzando le offerte nella maniera più efficace, vince il jackpot della rete. Così la magia del marketing, nella sua versione online, è diventata misurabile, orientabile con un algoritmo. E più attraente di Wall Street. Infatti è qui che si stanno affollando le menti migliori della ricerca economica mondiale. Hal Varian è considerato uno dei pionieri di questo movimento. Economista dell’università della California a Berkeley, di cui è stato il rettore fino al 2001, Varian è noto a legioni di studenti per il suo popolare testo di microeconomia, ma è anche un grande esperto di economia dell’informazione, co-autore di “Information Rules”. Dall’estate scorsa è diventato il capo economista di Google, dove sta costruendo un team di economisti, statistici e analisti per contribuire alla strategia del gigante della rete. Un’opera che aveva già avviato da consulente esterno e a cui ora ha deciso di dedicarsi a tempo pieno. “Dopo aver studiato per anni le tribù della Silicon Valley, alla fine mi sono fatto accettare e ora sono uno di loro”, ha dichiarato recentemente al Wall Street Journal. Varian aveva già costruito nel tempo una nutrita squadra di analisti quantitativi. “Il team degli economisti andrà a completare queste risorse già esistenti”, ha spiegato. “Google – precisa – ha una straordinaria infrastruttura per l’analisi dei dati, oltre a un management molto ricettivo all’utilizzo di metodi quantitativi e disponibile a investire in questo campo. Cosa potrei desiderare di meglio?” L’attenzione di Larry Page e Sergey Brin per la ricerca econometrica non stupisce, visto che proprio su un algoritmo ben calibrato si basa la fortuna di Google: nel 2006 ha ricavato oltre 10 miliardi di dollari dalle entrate pubblicitarie e solo 112 milioni dalle altre attività. Le entrate pubblicitarie derivano essenzialmente dal modello matematico su cui si basa AdWords, il servizio che organizza la pubblicazione degli annunci. L’ordine in cui compaiono le voci pubblicitarie, infatti, dipende dal costo per click pagato dai diversi committenti, ma anche dal “quality score”, cioè dalla frequenza con cui gli annunci vengono cliccati, calcolata in base alle serie storiche e alla rilevanza delle parole chiave scelte dal committente per far comparire il suo annuncio. Il mix delle varie voci è stato calibrato in maniera tale da generare in media il 45% di ricavi in più per ogni ricerca, rispetto ai ricavi di Yahoo. Il principale competitor di Google ammette di aver perso centinaia di milioni di dollari su questo fronte e di dare la caccia da anni all’algoritmo giusto, senza successo. Non a caso anche Yahoo sta cercando di costruire una squadra di ricercatori per contrastare la corsa di Google. La prima recluta importante è stato Michael Schwarz, un promettente microeconomista di Harvard e autore di un paper molto chiacchierato proprio sul modello pubblicitario di Google. Ma il chief data officer di Yahoo, Usama Fayyad, conta di reclutarne un’altra dozzina, che andranno ad arricchire i laboratori di Yahoo Research, diretti da Prabhakar Raghavan, un ex veterano di Ibm Research passato alla concorrenza nel 2005. “Sarò deluso se lo sforzo di Yahoo nella ricerca di base non dovesse dare al mondo un premio Nobel”, ha dichiarato recentemente Fayyad. Belle parole. Ma nella pratica, l’obiettivo centrale di Yahoo, come quello dei rivali di Mountain View, è registrare che cosa fanno ogni giorno milioni di consumatori e studiare come i servizi offerti online possano influenzare il loro comportamento. A questo serve la pletora di servizi gratuiti che cercano di diffondere, da Gmail a Google Earth, fino al nuovissimo Knols, che punta a soppiantare Wikipedia. Il problema è agganciare la ricerca di base a questi obiettivi. E molti dubitano che gli ingegneri impegnati nella gestione quotidiana dell’azienda abbiano tempo o voglia di realizzare le idee del team di ricercatori. Un altro potenziale ostacolo al raggiungimento di questi obiettivi è la protezione della privacy. Infortuni come quello accaduto a Aol quando ha reso pubbliche per sbaglio una serie d’informazioni sui suoi utenti, o pratiche scorrette come la complicità con il governo cinese nella persecuzione dei suoi oppositori, rischiano di portare a una progressiva disaffezione del pubblico, che potrebbe non essere più disposto ad affidare tutti i propri dati a un’idrovora così potente e potenzialmente pericolosa. Ma per il momento i segnali d’inquietudine nell’opinione pubblica sono molto contenuti. Di conseguenza le Internet companies guardano con crescente interesse ai loro database per trasformarli in una fonte di reddito. E se saranno capaci di includere nel loro business plan le trovate dei nuovi economisti che li affiancano senza dare troppo nell’occhio, potrebbero persino riuscirci.

21 dicembre 2007

A caccia di specialisti per il nucleare

Matteo Moraschi si è laureato in ingegneria nucleare al Politecnico di Milano: «Ero preparato ad andare a lavorare in qualche compagnia internazionale che si occupa di centrali atomiche, mai mi sarei immaginato di trovare un posto in Italia...». Invece è stato assunto all' Enel. E non è l' unico. «Per ora ne abbiamo presi 55 e ci apprestiamo ad assumerne altrettanti nel giro di tre mesi, principalmente dalle poche facoltà italiane che ancora ne sfornano» spiega Giancarlo Aquilanti, numero uno della nuova squadra atomica dell' ex monopolista elettrico. Con la partecipazione dell' Enel alla costruzione del nuovo reattore di terza generazione - l' Epr (European Pressurized Reactor) a Flamanville, in Normandia - e l' acquisizione di quattro reattori operativi più altri due da completare in Slovacchia, si avvicina il momento tanto atteso dagli ingegneri nucleari italiani, che da vent' anni sono sottoutilizzati in patria o costretti a espatriare in via permanente. La formazione - «Ma la rinascita dell' industria nucleare è un fenomeno globale, che coinvolge l' intera industria italiana: non è un caso che l' Enel si sia mossa proprio adesso» spiega Giuseppe Forasassi, docente a Pisa e presidente del Cirten, il Consorzio interuniversitario per la ricerca tecnologica sull' energia nucleare, che raggruppa i sei atenei dove ancora si insegna questa materia: i due politecnici di Torino e Milano oltre alle università di Padova, Palermo, Pisa e Roma. Dalla Francia agli Stati Uniti, passando per la Russia e per la Cina, dovunque ci siano centrali atomiche in funzione, si stanno mettendo in moto gli investimenti per cominciare a rimpiazzare le più vecchie e realizzare una nuova generazione di reattori, più efficienti e più sicuri. «Su 54 centrali - spiega Forasassi - in Francia ce ne sono una trentina che mano a mano andranno sostituite, la Russia ne ha in programma venti, mentre negli Stati Uniti ci sono 32 richieste di autorizzazione pendenti alla Nuclear Regulatory Commission per la costruzione di nuovi impianti. E quando si muovono gli Stati Uniti, di solito, dopo qualche tempo anche l' Italia tende a realizzare qualcosa». Le assunzioni - L' Enel già oggi sta cercando di inserirsi nel colossale programma russo, con sopralluoghi e progetti sulle diverse collocazioni possibili, mentre il gruppo Finmeccanica guarda alla Cina. «La nostra squadra nucleare è ora costituita da 180 persone - spiega Giuseppe Zampini, amministratore delegato di Ansaldo Energia - di cui 15 nuovi assunti. Nei prossimi mesi dovremo assumerne un' altra decina». Ansaldo Nucleare è molto impegnata nella centrale di Cernavoda in Romania e ha partecipato allo sviluppo del reattore B1000 con la Westinghouse, che potrebbe essere l' elemento pilota di molte operazioni future. Ora ne sono stati ordinati quattro dalla Cina, per cui a Genova ci si aspetta dei subappalti. «Ma puntiamo soprattutto sullo smantellamento, un business - precisa Zampini - in cui nei prossimi anni ci sarà molto da fare». Si calcola infatti che ci saranno trecento reattori da smantellare da qui al 2020. Nel decommissioning è attiva anche Sogin, che prevede di assumere 60 persone su questo fronte. Mentre qualcosa si muove anche all' Enea, molto impegnata nelle collaborazioni internazionali sulla fusione. «Se ci fosse più chiarezza da parte delle aziende e soprattutto sugli obiettivi energetici del Paese - commenta Forasassi - anche noi potremmo organizzarci meglio per la corretta programmazione di queste necessità. Dopo l' 87, la produzione di ingegneri nucleari da parte delle università italiane è molto calata, da 300 all' anno fino al centinaio di oggi. Ora cominciano a scarseggiare, tanto che facciamo fatica a trattenere per il dottorato gli studenti più meritevoli, che spariscono sempre più rapidamente». «E' vero - conferma Aquilanti - rispetto alla nostra domanda i nuclearisti sfornati dalle università italiane sono troppo pochi». Solo per lo sviluppo dell' Epr, di cui è stata appena festeggiata la prima gettata di cemento in Normandia, serviranno almeno 500 ingegneri nucleari all' anno. Gli italiani forniti dall' Enel saranno una cinquantina, dispersi nella struttura francese dopo un percorso di training approfondito sul progetto. E non staranno con le mani in mano.

10 dicembre 2007

Le Coop fanno il pieno di benzina

Prezzo della benzina alle stelle, margini sempre più alti per le compagnie petrolifere, distacco sempre più marcato Italia-Ue: ormai oltre i 4 cent al litro. È in questo contesto che i gruppi della grande distribuzione rilanciano gli investimenti sui carburanti, un business fortemente sinergico con la loro attività commerciale, su cui riescono a realizzare anche 5 volte il volume erogato da una pompa media di benzina e quindi possono permettersi di annullare il divario di prezzo con l' Europa. Dopo Agip e Tamoil, anche Q8 ha varato un nuovo programma di investimenti, di concerto con i rappresentanti della Gdo, per realizzare una serie di stazioni di servizio automatizzate e innovative nell' ambito dei grandi centri commerciali, sotto il marchio Q8easy. L' ondata era cominciata quest' estate, con un primo accordo fra la divisione commerciale dell' Eni, guidata da Angelo Caridi, e Auchan, che in Francia è ai primi posti nel mercato dei carburanti. L' intesa tra i due giganti ha portato a 12 le stazioni di servizio gestite da Auchan, ma il colosso francese punta ad arrivare a 43 impianti, tanti quanti sono i suoi ipermercati in Italia, mentre Carrefour stima attorno a 55 stazioni il proprio potenziale e Conad si sta attrezzando per una trentina di pompe. L' obiettivo della grande distribuzione, quindi, è arrivare a circa 130 benzinai in Italia, dai 25 attualmente presenti su una rete-monstre di almeno 22mila punti vendita. In Germania ce ne sono 620 su 15mila stazioni di servizio, in Francia oltre 4.600 su 14mila e nel Regno Unito 1.200 su 10mila. Di conseguenza, l' erogato medio in Italia è fra i più bassi d' Europa, il margine lordo al litro fra i più alti (14 cent, il doppio di Germania, Francia e Regno Unito), mentre il margine lordo complessivo per punto vendita è il più basso in assoluto (215mila euro all' anno contro i 400mila di Spagna e Regno Unito). Gli accordi fra Gdo e compagnie petrolifere, oltre ai tentativi di liberalizzazione a livello legislativo, sono i primi segnali che sul fronte dei carburanti si sta muovendo qualcosa. Ma gli occhi dei consumatori sono puntati su LegaCoop, l' ultima arrivata in questo mercato dopo aver attentamente studiato il business per qualche anno. È di sua pertinenza il distributore inserito nell' Iper di Collestrada, in Umbria, dove da settimane ormai gli automobilisti fanno la fila per approfittare del pieno più economico d' Italia. A Collestrada un litro di diesel costa solo 99 cent, contro un prezzo consigliato che ormai supera 1,3 euro negli altri distributori. Come si fa a reggere un prezzo così basso, quando la materia prima a bocca di raffineria costa 53 cent al litro, che insieme a un' accisa di 42 cent e a 19 cent di Iva fa già 1,14? Giorgio Raggi, presidente delle Coop Centro Italia, non ha difficoltà a spiegare il mistero: «Siamo noi a finanziare la differenza». Come strategia di marketing non c' è male, visto che l' Iper di Collestrada in zona è più famoso della torre di Pisa. Alle compagnie petrolifere l' operazione delle Coop non è piaciuta per niente. Assopetroli ha presentato un esposto alla Procura di Perugia e alla Guardia di Finanza, accusando il disinvolto gestore di dumping. Ma a giudicare dalla fila, il ritorno sull' investimento non si dev' essere fatto attendere.

3 dicembre 2007

Gazprom avanza: ora tocca a Vienna

Dallo snodo di Baumgarten, cittadina alle porte di Vienna, passano 40 miliardi di metri cubi di gas naturale all' anno, equivalenti alla metà del fabbisogno italiano: un buon terzo dell' export russo verso l' Europa. E Gazprom ha appena concluso un accordo con il gruppo austriaco Omv per entrare al 50% nella proprietà di questo hub austriaco. Con questo impegno, destinato a essere finalizzato nel giro di qualche settimana, il presidente di Gazprom Alexei Miller ha messo la sua firma, insieme a quella del capo di Omv Wolfgang Ruttenstorfer, sotto il progetto di far diventare Baumgarten il principale hub europeo del gas. La prospettiva è di aumentare l' afflusso a 50 miliardi di metri cubi nel 2010 e di sostituire la piattaforma belga di Zeebrugge come punto di riferimento per fissare il prezzo del metano europeo. Già oggi Baumgarten è un importante stazione di stoccaggio, con un' intensa attività di trading, che coinvolge una sessantina di operatori europei. I principali clienti dell' hub austriaco - punto di partenza del gasdotto Tag (Trans Austria Gas Pipeline), al 90% dell' Eni, che porta il gas russo a Tarvisio - sono l' Italia, la Germania, la Svizzera e l' Ungheria. Non stupisce quindi l' interesse del Cremlino - che mira a dettare il prezzo del gas all' Europa senza concorrenti - nei confronti di questo snodo strategico. Ma con il suo sbarco a Vienna, Gazprom colpisce anche un altro obiettivo. Baumgarten, infatti, era destinato a diventare la stazione d' arrivo del Nabucco, il «gasdotto della libertà», su cui punta decisamente l' Unione Europea per diversificare le fonti di approvvigionamento del Vecchio Continente e portare in Europa il metano azero dai giacimenti del Caspio attraverso la Turchia. Sul Nabucco, un tubo lungo 3.300 chilometri che costerebbe 4 miliardi e mezzo di euro per portare in Europa 30mila metri cubi di gas caucasico all' anno, Miller è stato lapidario: «Non vedo risorse né riserve di gas capaci di alimentarlo». Ora che Gazprom prende possesso del suo punto di sbocco in Europa, non c' è dubbio che se ne vedranno ancora di meno. In alternativa al Nabucco, il Cremlino spinge invece il gasdotto sottomarino che attraverserà longitudinalmente il Mar Nero dalla Russia alla Bulgaria, saltando la Turchia, South Stream. Un altro tubo - di cui Gazprom ha appena avviato gli studi di fattibilità in partnership con l' Eni - destinato a soddisfare con gas russo la crescente domanda europea. «È evidente che l' ingresso di Gazprom a Baumgarten serve a minare il Nabucco in favore del South Stream», conferma Roberto Potì, direttore sviluppo di Edison e responsabile italiano della realizzazione di un altro, più modesto, «gasdotto della libertà», che porterà il gas azero in Europa passando da Sud invece che da Nord, attraverso la Turchia e la Grecia fino all' Italia, con un tubo di collegamento sotto il canale di Otranto. Edison partecipa al progetto con la costruzione di Igi, un gasdotto lungo 800 chilometri, in partnership con la greca Depa, che farà arrivare in Italia attraverso la Grecia 8 miliardi di metri cubi di gas entro il 2012. Il tassello fondamentale dell' interconnessione Turchia-Grecia-Italia è stato posato e messo in pressione qualche giorno fa, collegando la rete asiatica a quella europea con un tubo sottomarino che supera lo stretto dei Dardanelli, attraverso il quale è arrivata in Grecia la prima fornitura di gas del Caspio. L' inaugurazione di quest' opera storica ha visto fianco a fianco i primi ministri greco e turco, Costas Caramanlis e Recep Tayyip Erdogan, insieme al ministro dell' Energia americano, Samuel Bodman. Una presenza molto significativa, che non è passata inosservata. Per l' Italia si è mosso l' ambasciatore ad Atene Gianpaolo Scarante.

26 novembre 2007

De Benedetti prenota un posto al sole

L' energia del sole piace al gruppo De Benedetti. Il braccio energetico del gruppo, Sorgenia, guidato da Rodolfo De Benedetti, è diventato il leader italiano nel fotovoltaico, con quattro megawatt di potenza installata. E dopo i primi quattro impianti entrati in esercizio (due a Villacidro in Sardegna, uno a Benevento e l' altro a Enna), è previsto che altri 11 nuovi entrino in produzione entro marzo 2008, portando la potenza a 15 megawatt. Niente in confronto a una banale centrale a gas (che da sola può mettere assieme 400-800 megawatt) ma pur sempre un quarto del fotovoltaico italiano che, per ora, non supera i 60 megawatt in tutto. «Le ragioni di questo interesse per il fotovoltaico, cui abbiamo destinato un investimento di 85 milioni, sono semplici - spiega Massimo Orlandi di Sorgenia -. Le crescenti difficoltà nello sfruttamento dei combustibili fossili, dovute all' esaurimento del petrolio facile e alle preoccupazioni per l' effetto serra, stanno scatenando una rivoluzione tecnologica e industriale a livello planetario. L' energia del sole è il fronte più caldo di questa rivoluzione: meglio esserci». Il momento in Italia è propizio. Il nuovo sistema di incentivi in conto energia, partito nel 2005 con decreto del precedente governo, ha rovesciato una pioggia di sussidi su questa fonte da noi così abbondante eppure così poco sfruttata. Basta dire che la potenza fotovoltaica della brumosa Germania equivale a 50 volte la nostra, mentre la Spagna ha già raddoppiato rispetto a noi. Proprio per evitare che il Paese del sole perdesse il treno del fotovoltaico, è partito il nuovo sistema di incentivazione, volto a rendere più semplice la remunerazione e ad aumentare la redditività. Con questa spinta, ripresa dal governo attuale con alcune modifiche, si è scatenato il boom. «Ma con l' ultimo decreto, dell' inizio di quest' anno, già si comincia a scoraggiare l' installazione di impianti a terra - obietta Orlandi -. Peccato, perché in una situazione in rapida evoluzione tutte le opzioni tecnologiche vanno presidiate con giudizio». Come l' opzione del solare termodinamico, sistema a concentrazione caro al fisico Carlo Rubbia: che aveva avviato le prime sperimentazioni in Italia ma poi è andato a sviluppare i suoi progetti in Spagna. Ora l' Enel ci sta provando con il progetto Archimede, a Priolo. «Lo faremmo volentieri anche noi, se ci fossero gli stessi incentivi che ci sono in Spagna», conferma Orlandi. Per partecipare alla rivoluzione del sole, infatti, bisogna stimolare gli investimenti in tutta la filiera. «In Italia è mancato il coraggio dei tedeschi, che hanno incentivato per anni eolico e fotovoltaico favorendo investimenti nella produzione e ora hanno una fiorente industria - dice Orlandi -. Per colmare questo vuoto, abbiamo acquisito uno stabilimento di produzione di celle vicino a Roma e una società di progettazione, così da poter fornire impianti chiavi in mano ai clienti». Primi passi.

16 novembre 2007

La Grande Muraglia di fuoco

Il 9 marzo del 2000, in un famoso discorso pronunciato alla Johns Hopkins University di Baltimora sull'evoluzione politica cinese, Bill Clinton proclamava: “Nel nuovo secolo, la libertà si diffonderà attraverso i cellulari e i modem. E' indubbio che la Cina stia tentando d'imbavagliare Internet. Buona fortuna. E' come tentare d'inchiodare al muro un budino di gelatina”.
UNA STORIA CINESE
Il 24 novembre del 2004, nella città di Taiyuan, nella provincia di Shanxi, il giornalista Shi Tao veniva arrestato dagli uomini della polizia politica, con l'accusa di aver passato segreti di Stato ad agenti stranieri, una formula standard con cui il governo di Pechino usa incastrare i dissidenti. L'accusa si basava su una mail inviata da Shi Tao all'Asia Democracy Foundation, partendo dal suo indirizzo registrato su Yahoo, con cui illustrava nei dettagli le limitazioni imposte delle autorità ai media cinesi sulla copertura dell'anniversario della strage di Tiananmen. Come aveva fatto la polizia politica a trovare Shi? Semplicissimo: aveva chiesto a Yahoo di consegnare tutti i suoi dati personali, compreso l'indirizzo, che Yahoo aveva prontamente rivelato. Il 27 aprile 2005, all'età di 37 anni, Shi veniva condannato a 10 anni di prigione dal tribunale del popolo. Il 2 giugno l'appello presentato da Shi veniva respinto dalla corte di secondo grado senza concedergli udienza. Da allora Shi marcisce in prigione. Insieme ad altri 42 colleghi che hanno fatto la stessa fine in circostanze analoghe. Il 28 agosto 2007 la madre di Shi, Gao Qinsheng, denunciava il comportamento di Yahoo al tribunale di San Francisco. Il 6 novembre 2007 la Commissione Esteri del Congresso convocava il numero uno di Yahoo, Jerry Yang, per chiedergli conto del suo operato, definito da Tom Lantos, il presidente della Commissione, “codardo e irresponsabile”. Lantos chiedeva poi a Yang di scusarsi pubblicamente con la madre di Shi, presente all'audizione. Il 13 novembre Yahoo raggiungeva un accordo extragiudiziale con la famiglia di Shi, i cui termini non sono pubblici. Ma tutti i soldi di Yang non tireranno Shi fuori di prigione.
LA FINE DI UN'UTOPIA
Oggi sappiamo che le speranze di democratizzazione dei regimi totalitari attraverso il web, ottimisticamente riassunte da Clinton nel suo discorso di Baltimora, sono miseramente naufragate in un mare di filtri censori sempre più sofisticati. Il caso cinese prova senza ombra di dubbio che la forza liberalizzatrice della tecnologia può essere inchiodata al muro – se si hanno gli strumenti giusti - molto meglio di un budino di gelatina. E i cinesi li hanno, così come i birmani, i vietnamiti, i sauditi, gli iraniani o i siriani, poiché nessuna azienda occidentale vuole mettersi contro le autorità dei Paesi con cui fa affari, come ha dichiarato recentemente John Chambers di Cisco mentre annunciava l'intenzione di investire 16 miliardi di dollari in Cina nei prossimi cinque anni: “Se c'è una cosa che le aziende tecnologiche non possono fare è lasciarsi coinvolgere nelle controversie politiche di un Paese”. Ha ragione, quindi, Yang a protestare quando i difensori dei diritti umani se la prendono con Yahoo, solo perché è stata beccata con le mani nel sacco. Nel mondo di Yang, quasi nessuno è senza peccato.
LA GRANDE MURAGLIA DI FUOCO
In pratica, la censura è intrecciata nel tessuto stesso del web cinese, un'isola collegata alla rete globale tramite nove accessi attentamente sorvegliati dall'occhio governativo. Questi nove accessi vengono comunemente soprannominati "Great Firewall" o GFW da chi se ne intende. Come il firewall installato sui pc, il GFW si attiva per bloccare minacce specifiche, ma non è dato sapere quali. Dai vari studi sulla complessa materia si deduce che viene eliminata tutta una serie di informazioni "indesiderate", contenute in migliaia di siti, da quello dei Falun Gong ormai inaccessibile da anni alle pagine cinesi della Bbc, spesso impossibili da aprire. La caratteristica particolare della censura cinese è che non avviene mai alla luce del sole. Pechino nega da sempre di esercitare qualsiasi sorveglianza. Le autorità ripetono continuamente che filtrare i contenuti del web è impossibile. Di conseguenza, se le pagine che si cercano sono irraggiungibili non si può mai sapere se è colpa della censura o di un sovraccarico delle linee. Altri regimi totalitari utilizzano delle "pagine di blocco" a cui gli utenti vengono rimandati quando cercano di accedere alle informazioni censurate. La Cina no. Per cui i blocchi sono del tutto imprevedibili e talvolta solo temporanei o parziali. I siti in lingua cinese, ovviamente, hanno più problemi degli altri e quelli che mettono direttamente in discussione il regime comunista sono i più sorvegliati.
UN'ISOLA CON 162 MILIONI DI ABITANTI
Mentre il GFW protegge l'isola cinese dagli assalti esterni, il sistema applicato per la censura interna è completamente diverso. Qui i principali censori sono gli stessi provider, che rischiano la chiusura se non applicano rigorosamente i filtri imposti dalle autorità. Ogni singola pagina presente in rete viene attentamente setacciata dal provider che la ospita, sia un sito o un blog, uno spazio autogestito tipo YouTube o addirittura un videogioco online. Una schiera di controllori da far impallidire la Stasi passa tutto il suo tempo a sorvegliare il materiale immesso in rete per bloccare le informazioni proibite. Che non sempre sono le stesse. Le indicazioni delle autorità sono volutamente vaghe, in modo da indurre all'autocensura. I tabù principali sono incentrati sulle tre T: Tibet, Taiwan e Tiananmen. Su questi tre temi non passa uno spillo. Ma le indicazioni possono diventare anche molto dettagliate nei momenti più delicati, in occasione di anniversari, di grandi happening politici come il Congresso del partito o di eventi internazionali come le Olimpiadi che si avvicinano. Le punizioni per gli utenti che si avventurano ripetutamente fuori dal seminato o per i provider che non filtrano abbastanza variano molto. I blogger possono ritrovarsi disabilitati da un momento all'altro, i post cancellati, i manager di un portale licenziati, il portale chiuso. La sorveglianza si estende agli Internet Café, dove gli operatori sono spinti dalle autorità a controllare attentamente gli utenti usando tecnologie che registrano ogni parola scambiata online. Ma come si vede dal caso iniziale, i censori ricorrono spesso anche a metodi molto più tradizionali, arrestando i trasgressori e condannandoli a lunghe detenzioni.
VARCHI NEL MURO
Gli unici canali di cui ci si può fidare sono quelli che passano attraverso le aziende che non fanno affari con la Cina, spiega Rebecca MacKinnon, ex capo dell'ufficio di Pechino della CNN, fondatrice di Global Voices Online, oggi docente di nuovi media all'Università di Hong Kong e blogger appassionata su RConversation. Dall'alto della sua esperienza cinese, Rebecca sconsiglia a chiunque abbia opinioni poco ortodosse di usare qualsiasi provider, anche americano, che abbia una sede in Cina. Stesso discorso vale per i blogger. Nello specifico, Rebecca consiglia di usare Hushmail per la posta elettronica, mentre per aprire un blog indica Civilblog, che ha sede in Canada ed è molto impegnato sul fronte dei diritti civili. Sul resto non si sente di mettere una mano sul fuoco. Ma sono ben pochi i cinesi tanto gelosi della propria privacy da arrivare così lontano.
UN SISTEMA EFFICACE
Il risultato di quest'opera ciclopica di manipolazione della realtà è sotto gli occhi di tutti: la vasta maggioranza dei 162 milioni di internauti cinesi risulta efficacemente schermata da qualsiasi opinione che le autorità potrebbero considerare politicamente problematica. In pratica, il partito è riuscito a creare una "memoria collettiva", soprattutto fra i giovani, in cui la versione governativa dei fatti non viene mai messa in discussione, anche quando è distante anni luce dalla realtà storica. Un esempio classico è la foto del ragazzo davanti al tank nei disordini di Piazza Tiananmen: quella che per l'Occidente è l'immagine-simbolo del massacro, in Cina è stata accuratamente erasa dal web, tanto che mostrandola a un cinese oggi, nessuno la riconosce. Consciamente o inconsciamente, gli internauti cinesi hanno interiorizzato i limiti oltre i quali è meglio non spingersi e preferiscono tenersi all'interno della linea rossa tracciata dal partito. Questo è uno dei motivi per cui la Repubblica Popolare rimane stabile anche in presenza di enormi problemi irrisolti.

12 novembre 2007

Sonatrach entra nel mercato italiano

Il colosso algerino Sonatrach entra a pieno titolo nel mercato italiano del gas: figura infatti nell' elenco delle 407 aziende che, al 31 ottobre, hanno ottenuto dal ministero dello Sviluppo economico l' autorizzazione alla vendita diretta del metano ai consumatori finali. Sonatrach Gas Italia, con amministratore unico Mohammed Fouad Koulla, risulta già iscritta al registro delle imprese della Camera di commercio di Milano, con sede in corso Venezia 5. L' azienda energetica dello Stato algerino potrà vendere il suo metano ai clienti italiani dal 2008, quando comincerà ad arrivare in Italia con un comodo biglietto di transito sul gasdotto transtunisino controllato dall' Eni. Per la compagnia algerina, che punta da anni a raggiungere questo obiettivo, è una prima volta quasi insperata: il progetto ufficiale era la commercializzazione della sua quota di metano che arriverà in Italia dal 2011 attraverso il gasdotto Algeria-Sardegna-Italia, ancora tutto da costruire. Con questo escamotage, invece, l' obiettivo è stato centrato molto prima. Il programma di potenziamento dei gasdotti già esistenti, in particolare il Tag dal Nord per il metano russo e il Ttpc dal Sud per il metano algerino - entrambi dell' Eni, come tutto il sistema di trasporto - era stato imposto a colpi di multe dall' Antitrust per far crescere nuovi player su questo mercato, dominato quasi completamente dalla compagnia di San Donato. Ma le modalità di assegnazione della nuova capacità messa in gara dal Ttpc si sono rivelate decisamente sfavorevoli per le rivali italiane, da Hera a Sorgenia, dall' Aem a Iride, giudicate idonee nella prima fase della gara, ma respinte nella seconda. L' anno scorso l' Authority di Antonio Catricalà aveva inflitto all' Eni una megamulta da 290 milioni per abuso di posizione dominante, subito contestata dalla compagnia di San Donato. E le aveva imposto di aumentare la capacità di trasporto sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui in due tranche, cedendo la quota in più a operatori terzi, entro l' ottobre 2008. Della seconda tranche (3,3 miliardi di metri cubi), destinata in origine a essere spartita fra 45 società giudicate idonee, 2 miliardi andranno invece a Sonatrach Gas Italia e il resto all' Enel, in base a un accordo stipulato nel ' 91 con l' Eni, in cui lo Stato algerino si riserva di esprimere il gradimento sui contratti di trasporto firmati dal Ttpc con altri «shipper» di gas, diversi dall' Eni e dall' Enel. In questo modo, si rimette ad Algeri la scelta dei soggetti che possono accedere alla nuova capacità di trasporto messa in gara in Italia. Resta da chiedersi se Sonatrach farà davvero concorrenza a uno dei suoi più affezionati alleati. In Spagna, Sonatrach sta facendo una politica molto aggressiva: il ministro algerino dell' Energia, Chakib Khelil, ha annunciato l' intenzione di vendere il suo gas a prezzi inferiori a quelli degli altri operatori. «È evidente - ha detto il ministro Khelil - che il gas commercializzato direttamente da Sonatrach sarà meno caro per i consumatori spagnoli rispetto allo stesso gas venduto attraverso intermediari». Ma in Spagna Sonatrach è in guerra aperta contro Gas Natural, a cui vuole imporre un aumento del prezzo del 20% su un terzo del fabbisogno di metano della penisola iberica. In Italia non siamo ancora a questo punto. Eni e Sonatrach, qui, sono buone amiche.

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Sonatrach entra nel mercato italiano

Il colosso algerino Sonatrach entra a pieno titolo nel mercato italiano del gas: figura infatti nell' elenco delle 407 aziende che, al 31 ottobre, hanno ottenuto dal ministero dello Sviluppo economico l' autorizzazione alla vendita diretta del metano ai consumatori finali. Sonatrach Gas Italia, con amministratore unico Mohammed Fouad Koulla, risulta già iscritta al registro delle imprese della Camera di commercio di Milano, con sede in corso Venezia 5. L' azienda energetica dello Stato algerino potrà vendere il suo metano ai clienti italiani dal 2008, quando comincerà ad arrivare in Italia con un comodo biglietto di transito sul gasdotto transtunisino controllato dall' Eni. Per la compagnia algerina, che punta da anni a raggiungere questo obiettivo, è una prima volta quasi insperata: il progetto ufficiale era la commercializzazione della sua quota di metano che arriverà in Italia dal 2011 attraverso il gasdotto Algeria-Sardegna-Italia, ancora tutto da costruire. Con questo escamotage, invece, l' obiettivo è stato centrato molto prima. Il programma di potenziamento dei gasdotti già esistenti, in particolare il Tag dal Nord per il metano russo e il Ttpc dal Sud per il metano algerino - entrambi dell' Eni, come tutto il sistema di trasporto - era stato imposto a colpi di multe dall' Antitrust per far crescere nuovi player su questo mercato, dominato quasi completamente dalla compagnia di San Donato. Ma le modalità di assegnazione della nuova capacità messa in gara dal Ttpc si sono rivelate decisamente sfavorevoli per le rivali italiane, da Hera a Sorgenia, dall' Aem a Iride, giudicate idonee nella prima fase della gara, ma respinte nella seconda. L' anno scorso l' Authority di Antonio Catricalà aveva inflitto all' Eni una megamulta da 290 milioni per abuso di posizione dominante, subito contestata dalla compagnia di San Donato. E le aveva imposto di aumentare la capacità di trasporto sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui in due tranche, cedendo la quota in più a operatori terzi, entro l' ottobre 2008. Della seconda tranche (3,3 miliardi di metri cubi), destinata in origine a essere spartita fra 45 società giudicate idonee, 2 miliardi andranno invece a Sonatrach Gas Italia e il resto all' Enel, in base a un accordo stipulato nel ' 91 con l' Eni, in cui lo Stato algerino si riserva di esprimere il gradimento sui contratti di trasporto firmati dal Ttpc con altri «shipper» di gas, diversi dall' Eni e dall' Enel. In questo modo, si rimette ad Algeri la scelta dei soggetti che possono accedere alla nuova capacità di trasporto messa in gara in Italia. Resta da chiedersi se Sonatrach farà davvero concorrenza a uno dei suoi più affezionati alleati. In Spagna, Sonatrach sta facendo una politica molto aggressiva: il ministro algerino dell' Energia, Chakib Khelil, ha annunciato l' intenzione di vendere il suo gas a prezzi inferiori a quelli degli altri operatori. «È evidente - ha detto il ministro Khelil - che il gas commercializzato direttamente da Sonatrach sarà meno caro per i consumatori spagnoli rispetto allo stesso gas venduto attraverso intermediari». Ma in Spagna Sonatrach è in guerra aperta contro Gas Natural, a cui vuole imporre un aumento del prezzo del 20% su un terzo del fabbisogno di metano della penisola iberica. In Italia non siamo ancora a questo punto. Eni e Sonatrach, qui, sono buone amiche.

9 novembre 2007

Gary Hamel

L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.

Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?

«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».

Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?

«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».

Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...

«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».

Quindi il suo consiglio è di sfrondare?

«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».

Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...

«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».

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Gary Hamel

L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.
Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?
«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».
Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?
«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».
Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...
«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».
Quindi il suo consiglio è di sfrondare?
«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».
Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...
«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».

5 novembre 2007

Il vento del business verde soffia verso Sud

È febbre da energia verde anche in Italia. I cantieri si moltiplicano e i big del settore energetico, dopo aver snobbato a lungo il business delle fonti rinnovabili, hanno iniziato a investire massicciamente per non perdere il treno. I Moratti, i Brachetti, i Garrone, i Falck e naturalmente l' Enel, per citare solo i principali operatori, sono in corsa per accaparrarsi le postazioni migliori: là dove il vento soffia a 15 metri al secondo, sulle aspre montagne irpine o sulle serre della Sila. Ma anche nella Sicilia occidentale, o sulle preziose coste della Sardegna, emissari di banche internazionali annusano l' aria, per vedere se si muove. Tutti pronti a convincere i contadini a cedere il loro avamposto più turbinoso, a intercettare i «facilitatori» di pratiche meglio inseriti con le amministrazioni locali, a prospettare piogge di royalties sulle comunità. Paradossalmente, più del sole è il vento che sta facendo calamitare l' interesse sul Sud Italia. Eppure l' eolico, la più remunerativa delle energie pulite, è ancora al centro di bisticci fra ambientalisti. Da un lato c' è chi lo considera la nuova panacea per affrancare l' Italia dalla schiavitù del petrolio, sporco e sempre più caro. Dall' altro c' è chi lamenta i danni paesaggistici, con quelle pale «brutte» sullo sfondo delle dolci colline toscane o sulle coste della Sardegna. A inizio 2007 la potenza totale delle fattorie eoliche italiane ha toccato i 2.123 MW. Di questi, solo nel 2006 ne sono stati installati 417, soprattutto in Sicilia, Puglia, Basilicata, Toscana e Molise. Un dato ancora inferiore rispetto agli altri Paesi europei, ma che colloca l' Italia al settimo posto nella classifica mondiale dei produttori di energia elettrica generata dal vento. E il meglio deve ancora venire. Le richieste arrivate al gestore della rete elettrica nazionale per connessioni con i parchi eolici, infatti, sono 458 che - salvo blocchi ambientalisti - andranno nei prossimi anni ad aggiungersi ai 168 già esistenti. Quasi cinquecento nuovi impianti, già autorizzati, che permetteranno di far fare un enorme balzo in avanti al settore eolico in Italia. La potenza complessiva che le turbine di prossima installazione sarebbero in grado di generare è pari a 23.124 GW, quasi dieci volte la potenza attuale e più di tutte le fattorie del vento della Germania, leader mondiale dell' eolico, che arriva a 20.622 GW. Il grosso delle richieste viene dal Sud: delle 458 nuove installazioni, 225 sono sparse fra Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e altre 162 fra Sicilia e Sardegna, là dove il soffio di Eolo è più potente. L' Enel, campione mondiale della rinnovabili con oltre 19.000 MW di potenza idroelettrica, eolica, geotermica e solare, va a caccia di pale sia in Italia sia all' estero, dalla Francia alla Grecia. Per la conquista di Enertad - una piccola società di energia eolica che adesso ha 132 MW ma punta a raggiungere i 350 in due anni - è scesa in campo la Erg dei Garrone, impegnandosi in una partita molto combattuta contro la Alerion di Giuseppe Garofano. Nell' eolico hanno investito i Moratti con la Sardeolica, la Api dei Brachetti Peretti, il gruppo Falck, che sogna di installare una «dorsale del vento» dall' Inghilterra all' Italia fino al Marocco, e anche il gruppo De Benedetti con Sorgenia, la sua società per la produzione elettrica. Le spagnole Endesa e Iberdrola hanno già iniziato lo shopping da noi e hanno opzionato centrali in costruzione in Basilicata e Calabria dalla Gamesa, secondo gruppo continentale nella produzione di torri e pale. E come primo operatore eolico italiano si sono appena piazzati gli inglesi di International Power, che hanno rilevato la proprietà di gran parte degli impianti eolici ex-Ivpc, la società dell' avvocato avellinese Oreste Vigorito, il re dell' eolico «made in Italy», più grande di Enel ed Edison messe insieme. Del resto, si tratta di un trend internazionale: in Europa, Germania e Spagna guidano la classifica di nuovi impianti e la Francia si sta aprendo, ma in tutto il mondo la crescita dell' energia da fonti rinnovabili è guidata dal vento. Certo, anche se aumenteranno tutte insieme di cinque volte in quantità, le nuove fonti rinnovabili (sole, vento e biomasse) nel 2020 non soddisfaranno più del 2 per cento della domanda mondiale. Ma, considerando il punto di partenza, è comunque un boom.

Biodiesel, dazi e sussidi nel mirino

C' è chi li considera affamatori di popoli e traditori della vera anima ecologista, ma i biocombustibili ormai sono già decollati: il barile a cento dollari e le fosche previsioni sul futuro del petrolio sono argomenti sufficienti per alimentare il boom. Quest' anno la coltivazione di campi destinati a fini energetici in Europa ha superato tutte le attese: per la prima volta, la produzione europea ha interessato 2,84 milioni di ettari, superando così l' obiettivo dei due milioni di ettari fissato dalla Commissione. Tanto che Bruxelles sta meditando di ridurre gli aiuti, previsti per avviare un mercato ormai lanciato. Anche il Fondo monetario internazionale e le Nazioni Unite insistono per fermare i sussidi, che inducono gli agricoltori del mondo industrializzato a utilizzare i raccolti di cereali a fini energetici e spingono in alto il prezzo del pane o della tortilla, mettendo in difficoltà le popolazioni più povere. In Europa, l' obiettivo è quello di «tagliare» tutto il carburante per i veicoli con un 5,75% di biodiesel o bioetanolo entro il 2010, per poi raddoppiare al 10% entro il 2020. Gli Stati Uniti non sono così precisi, ma vanno nella stessa direzione. Il disegno è chiaro: affrancarsi dalla schiavitù del petrolio e dare una spinta all' agricoltura. Ma essendo i biocarburanti molto più cari da produrre dei combustibili fossili, per tenere in piedi il mercato c' è bisogno dei sussidi. Il supporto pubblico per il bioetanolo va dai 30 centesimi al litro negli Stati Uniti a un dollaro nell' Ue, passando dai 60 centesimi della Svizzera, mentre per il biodiesel va dai 60 centesimi negli Usa ai 70 centesimi di Bruxelles. Considerando che la benzina, a pari rendimento, costa 34 centesimi e il diesel 41, si finisce per spendere di più per il sussidio che per la produzione del corrispondente combustibile fossile. Se i conti per ora non tornano sul piano dei costi, il discorso cambia sul piano delle politiche energetiche e ambientali. Secondo il World Energy Outlook 2006 dell' Agenzia Internazionale dell' Energia, infatti, la domanda mondiale di energia primaria è destinata a crescere, tra il 2005 e il 2030, di oltre il 50%. Le economie emergenti, Cina, India, Brasile, Messico, Indonesia, Sud Africa, contribuiranno per due terzi al boom. Se i combustibili fossili copriranno, com' è prevedibile ai ritmi di crescita attuali, oltre l' 85% dell' aumento della domanda di energia, le emissioni globali di anidride carbonica sono destinate a crescere del 55% rispetto al livello attuale, con immaginabili conseguenze sull' effetto serra. Per l' esplorazione dei giacimenti e la costruzione delle infrastrutture, saranno investiti oltre 20.000 miliardi di dollari, in gran parte nelle economie emergenti. «È chiaro che questi investimenti decideranno il futuro energetico e ambientale del pianeta», spiega Corrado Clini, presidente della Global Bio-Energy Partnership, l' azione lanciata dal G8 per non lasciare al caso il futuro del pianeta. «La possibilità di modificare il trend energetico globale verso una minore intensità di carbonio - spiega Clini nella proposta del Gbep, in via di presentazione il 13 novembre al World Energy Congress, che quest' anno si svolge a Roma - è legata allo sviluppo e all' uso, entro il 2030, di fonti energetiche alternative ai combustibili fossili e di tecnologie ad alta efficienza». Non si tratta, naturalmente, di affamare il pianeta per dare energia alle macchine. Ma semplicemente di spostare le colture a fini energetici verso le aree tropicali, dove crescono piante molto più adatte rispetto a quelle coltivate nei climi temperati. Già oggi, il combustibile ricavato dalla canna da zucchero coltivata in Brasile - secondo produttore mondiale di bioetanolo dopo gli Stati Uniti - è perfettamente competitivo con la benzina, mentre quello prodotto negli Usa costa di più e rende di meno. Per fermare la concorrenza brasiliana, Washington e Bruxelles usano l' arma dei dazi, distorcendo il mercato. «È assolutamente chiaro - fa notare Clini - che l' Unione Europea non potrà rispettare l' impegno del 10% di biocombustibili nel portafoglio energetico entro il 2020 senza ricorrere alle importazioni dai Paesi della fascia tropicale. Ma l' importazione è limitata sia dalle barriere tariffarie che dai sussidi ai produttori agricoli europei». Eliminarli potrebbe riequilibrare la situazione e compensare gli aumenti dei prezzi alimentari.

Energia liberalizzata, ma niente sconti

Pronti, via. Dal primo luglio è partito il supermarket dell' energia elettrica in Italia. Da allora ogni minuto dieci utenti vincolati diventano clienti liberi: quasi 300mila famiglie hanno approfittato della liberalizzazione per cambiare fornitore. Con l' effetto paradossale di pagare di più, non di meno, per la stessa fornitura. I contratti che si sono rivelati più popolari, infatti, sono quelli che danno la certezza del prezzo bloccato sul lungo periodo, in cambio di un lieve aumento immediato. E quelli che offrono energia verde, derivata da fonti rinnovabili, quindi lievemente più cara. In realtà, dal punto di vista puramente quantitativo, il grosso del mercato era già liberalizzato prima di luglio: al contrario del mercato del gas, sull' energia elettrica l' Italia ha scelto la strada di una vera apertura alla concorrenza. Dal ' 99 - quando il decreto Bersani ha segnato l' inizio di questo processo - la maggioranza dei clienti industriali ha cambiato fornitore. Meglio di noi hanno fatto soltanto il Regno Unito e la Scandinavia. Di conseguenza, su un fabbisogno complessivo di 300 terawattora l' anno (escluse le perdite di rete e l' autoproduzione), 150 erano già «liberi». In questo segmento la quota dell' Enel negli ultimi anni si è ridotta a meno del 15%. La fedeltà delle partite Iva Da luglio possono cambiare fornitore anche le famiglie, che rappresentano un parco consumi di 60 TWh l' anno. I restanti 90 TWh fanno capo al cosiddetto popolo delle partite Iva, che è già libero di cambiare fornitore da oltre due anni, ma finora l' ha fatto solo in misura irrisoria. Dal punto di vista numerico, invece, il parco clienti in palio per chi li saprà conquistare è immenso: 27 milioni di famiglie, più 7 milioni di partite Iva, sono ancora legate al loro fornitore originario. Su questo mercato, l' Enel mantiene una quota dell' 80%. Il resto è suddiviso fra le varie municipalizzate, in primis Acea di Roma, Aem Milano, Aem Torino, Hera di Bologna. Concorrenti alla carica Dall' altro lato della barricata, i contendenti si chiamano Eni, Edison, Sorgenia (gruppo Cir), le varie estere Rezia, Egl, Eon, aziende come Multiutility o Lumenenergia nate per rifornire i consumatori industriali, la grande distribuzione che si sta affacciando in questi giorni al mercato e una vasta costellazione di trader che comprano e vendono alla Borsa elettrica cercando così il loro profitto: ne sono registrati un centinaio. Per ora, però, i giochi sono limitati ai grandi player. Dei nuovi clienti «liberi», circa 250mila sono targati Enel, ma solo in minima parte si tratta di utenti nuovi: in maggioranza sono clienti a tariffa pubblica («vincolati») che hanno lasciato l' Enel Distribuzione per passare al contratto Enel Energia («liberi»). L' altra grande società sul mercato libero è l' Eni: si può stimare che da luglio il Cane a sei zampe abbia conquistato qualche decina di migliaia di clienti, avvicinandosi in Italia a quota 300mila. In questo caso clienti nuovi, sfilati dal portafoglio dell' Enel e delle municipalizzate. La battaglia dei servizi Per quanto riguarda più in dettaglio l' offerta messa a punto dagli operatori in questi primi mesi, si può dire che di grandi ribassi e conseguenti risparmi non se ne sono visti. Più che sugli sconti, la partita tra i vari fornitori si gioca sulla possibilità di sviluppare offerte integrate di prodotti e servizi aggiuntivi o su contratti che possano riunire in un' unica fattura «dual-fuel» i costi per l' approvvigionamento dell' energia elettrica e del gas. Vanno di moda anche le soluzioni che forniscono solo energia verde, ottenuta cioè da fonti rinnovabili, come quella offerta da La220 del bresciano Giuseppe Zanardelli, un po' più cara ma «politically correct». L' opzione bioraria è disponibile anche per chi rimane nel mercato vincolato, a patto che gli sia già stato installato un contatore elettronico e telegestito. Per trarre veramente beneficio da questa soluzione, però, è necessario concentrare i consumi durante le ore più convenienti, cioè dalle 19 alle 8 dei giorni feriali, sempre nei fine settimana e nei festivi. In base ai calcoli dell' Autorità, affinché la bioraria risulti più conveniente della monoraria si deve spostare almeno il 68% del consumo nelle fasce meno care. A prescindere da sconti o aumenti, va detto che le offerte non si distinguono per trasparenza. Nell' era di Internet dovrebbe essere possibile trovare tutte le informazioni utili per il confronto, la valutazione e magari un preventivo senza fornire alcun dato personale, come avviene nel sito del regolatore inglese Ofgen. In rete si trovano messaggi promozionali più che documenti informativi e chi vuole saperne di più deve inviare i propri dati personali per poi ricevere una proposta commerciale.

22 ottobre 2007

Enel a caccia di gas in Egitto

Il mare non è molto profondo davanti al Delta del Nilo. Per fortuna. Lì sotto, infatti, dorme una delle più vaste riserve di gas del Mediterraneo, che ha lanciato l' Egitto nel business del gas naturale liquefatto. Da quel mare attingono gli egiziani della Egas, la compagnia di Stato del Cairo, gli inglesi di BP, i francesi di Gaz de France, i malesi di Petronas e gli italiani dell' Eni. Ora vuole attingere anche l' Enel. «L' avventura egiziana non è ancora cominciata, ma siamo a buon punto con le trattative», anticipa Gianfilippo Mancini, l' uomo degli approvvigionamenti per il gigante italiano dell' elettricità, appena tornato dal Cairo. Nella prospettiva di costruire un terminale di rigassificazione a Porto Empedocle, in Sicilia, per alimentare le esauste vene dei metanodotti italiani e soprattutto le sue centrali a gas, l' Enel va a caccia di forniture di metano in tutto il Nord Africa, ma soprattutto in Egitto, balzato rapidamente al sesto posto nella classifica mondiale dei produttori di gas naturale liquefatto, con una capacità annua complessiva pari a 17,5 miliardi di metri cubi. Questo grazie a una serie continua di nuove scoperte nella zona del Delta del Nilo, che hanno eclissato i giacimenti petroliferi dell' area di Suez, ormai arrivati a una fase di maturità, con produzione in declino e riserve sostanzialmente stabili attorno ai 500 milioni di barili. Le riserve egiziane di gas, invece, sono raddoppiate negli ultimi cinque anni e la produzione è triplicata, con la costruzione di due impianti di liquefazione a Idku e Damietta, che hanno consentito di valorizzare i nuovi ritrovamenti rendendo il gas esportabile. «Gli egiziani sono stati molto bravi nella trasformazione e nella commercializzazione di queste risorse, molto più rapidi dei loro vicini», spiega Mancini, che li conosce bene. La crescita fulminea dipende dalla nuova apertura del regime di Mubarak, finalizzata ad attrarre la partecipazione di compagnie internazionali: le condizioni legali e finanziarie offerte a chi sviluppa progetti mirati all' esportazione di gas sono definite come le più vantaggiose in tutta l' area del Nord Africa e hanno fatto affluire investimenti esteri pari a 10 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni. Così, dopo il raddoppio del terminale di Idku, adesso si prospetta un raddoppio di Damietta. È in questa prospettiva che s' inserisce la compagnia guidata da Fulvio Conti. Attingere alle riserve egiziane di metano andrebbe così ad aggiungersi alla fornitura di Gnl nigeriano già in atto, che per ora non può essere rigassificato in Italia per mancanza di terminali, ma viene dirottato sull' impianto Gaz de France di Montoir, in Bretagna, e riconsegnato all' Enel attraverso uno swap, con uno stranded cost di 150 milioni di euro l' anno. «Il contratto nigeriano è già in piedi dagli anni Novanta, quando avevamo in progetto un terminale a Brindisi e poi uno a Monfalcone, ma né l' uno né l' altro sono stati realizzati. Ora Porto Empedocle è alle battute finali del processo autorizzativo e quindi ci muoviamo per trovare il resto di gas che ci serve per alimentarlo», spiega Mancini. Con una capacità di rigassificazione da 8 miliardi di metri cubi l' anno, di cui 1,6 da lasciare liberi all' accesso di terzi e 3,5 già forniti dalla Nigeria, ne restano da trovare altri 3. Sono questi, nell' immediato, l' oggetto della trattativa con gli egiziani. Ma lo sbarco dell' Enel nell' upstream fa parte di una strategia di ben più vasta portata. Strategia incentrata soprattutto sulla Russia, primo player mondiale nella hit parade del gas, dove l' ex monopolista italiano quest' estate ha messo le mani sulle riserve di Yukos nella penisola siberiana di Yamal, messe all' asta dal Cremlino. «Le riserve di gas stimate in questa zona artica della Siberia ammontano a 5 miliardi di barili: al momento attuale ne controlliamo il 40%, il restante 60% è dell' Eni, ma nel giro di due anni entrerà Gazprom al 50%, noi scenderemo al 20 e l' Eni al 30%», precisa Mancini. Tradotto in pratica, si tratta comunque di 1 miliardo di barili equivalenti di petrolio. «Nessuna utility nostra concorrente - fa notare Mancini - possiede riserve di questa portata: neanche Gdf arriva al miliardo, Rwe e Centrica non superano i 500 milioni, EdF si ferma a 200. Solo Eon, con gli asset Ruhrgas in Russia, si muove in un ambito paragonabile. Ma noi vogliamo crescere ancora».

8 ottobre 2007

Livorno, il rigassificatore passa a E.on

Dovrebbe arrivare soltanto a metà ottobre l' annuncio ufficiale del perimetro preciso dello «spacchettamento» di Endesa Italia, dopo l' Opa di Enel e Acciona su Endesa, annunciata venerdì scorso. Ma ormai è un fatto che Enel e Asm hanno raggiunto un accordo sullla divisione degli asset di Endesa Italia tra la società bresciana e i tedeschi di E.on. In particolare, il colosso germanico subentrerà agli spagnoli nel rigassificatore di Livorno, con la nuova società Eon Italia, destinata a diventare il terzo operatore energetico italiano. Condividerà così con Iride il controllo dell' unico terminale per ora autorizzato sul territorio nazionale, oltre a quello di Edison-ExxonMobil al largo di Rovigo. «L' ingresso di E.on, che ha già sottolineato pubblicamente la strategicità di questo progetto, è un elemento di garanzia sullo sviluppo del rigassificatore e sul suo approvvigionamento, anche in considerazione del fatto che E.on è attualmente uno dei principali operatori europei nel settore del gas», sottolinea il presidente operativo di Iride, Roberto Bazzano. Il terminale sarà in grado di rigassificare 3,75 miliardi di metri cubi di gas naturale liquido all' anno, il 5% del fabbisogno nazionale. Malgrado le resistenze degli ambientalisti locali e un parere negativo del ministro dell' Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che aveva individuato sette vizi procedurali nell' autorizzazione del febbraio 2006, dopo l' ultimo consiglio dei ministri sembra che la posizione del ministro dello Sviluppo Economico, Pier Luigi Bersani, decisamente favorevole all' impianto, abbia finito per prevalere. Bersani, convinto assertore della necessità di tre-quattro terminali gas per superare la crisi di approvvigionamento del Paese, ha prodotto un parere in cui si afferma l' assoluta regolarità dell' iter autorizzativo. La società, per ora controllata da Iride e dagli spagnoli al 30,46% ciascuno (gli altri soci sono l' armatore norvegese Golar e la famiglia Belleli), ha già avviato le prime opere a terra, ma si attende l' ulteriore passaggio di proprietà per finalizzare l' accordo con Saipem, che si occuperà della realizzazione del terminale. In pratica, si tratta di riconvertire una nave metaniera, fornita dalla Golar, dotandola di un impianto di vaporizzazione, con un investimento sui 700 milioni di euro. Il terminale galleggiante, ancorato al largo di Livorno, riceverà il gas liquido dalle navi gasiere, lo riporterà allo stato gassoso e lo immetterà nella rete nazionale attraverso una condotta sottomarina. Se l' accordo con Saipem si chiuderà come previsto entro novembre, il terminale potrà entrare in funzione all' inizio del 2010. Fino ad allora, ci toccherà tirare la cinghia nei consumi di gas.

24 settembre 2007

Aem-Edison: "Riaccendiamo i reattori"

Uno studio di fattibilità per rilanciare il nucleare in Italia. Una base tecnico-scientifica, da cui partire qualora il Paese decidesse di riaprire il discorso sull' atomo. Edison e Aem Milano hanno cominciato a lavorarci già da un po' , insieme con i cinque atenei milanesi e la Regione Lombardia. «Non vogliamo scavalcare la politica», precisa Giuliano Zuccoli, presidente di Edison e numero uno della nuova maxi-utility del Nord che unisce Aem con Asm Brescia. E spiega: «Vogliamo solo dare un contributo alla battaglia contro le emissioni nocive degli idrocarburi e contro il caro-energia, che attanaglia il sistema industriale italiano. Siamo convinti che l' atomo sia la via più realistica, al momento attuale, per alleviare entrambi i problemi». In pratica, si tratta di rispondere a una serie di quesiti ingegneristici, geologici e finanziari, per offrire una possibile soluzione sulla scelta degli impianti, dei siti e dei costi che andrebbero affrontati nell' eventuale ricostituzione di un sistema nucleare italiano. Un compito di non poco momento, ma essenziale per gettare le basi di un ragionamento obiettivo, che potrebbe aiutare la politica a superare le paure scatenate dall' incidente di Chernobyl e sfociate nel referendum anti-atomo dell' 87. «Per una volta, lasciamo parlare gli ingegneri», invita Zuccoli. Ma Edison - in cui Aem è partner dei francesi di Edf, grandi esperti di nucleare - non ha alcuna intenzione di riprendere il discorso da sola: «Ci vuole un consorzio di operatori per avviare questo progetto seriamente - fa notare Zuccoli - ed è quello che stiamo cercando di costituire». Dal punto di vista dei costi, ma anche sotto il profilo politico, la scelta del consorzio è inevitabile. «Puntiamo a seguire il modello finlandese - ipotizza Zuccoli - dove si sta costruendo, con tecnologia francese, la prima centrale nucleare europea di nuova generazione, proprio con l' obiettivo di abbattere le emissioni nocive». L' esperienza finlandese parte dalla fondazione di una società senza scopo di lucro cui partecipano 60 imprese della domanda e dell' offerta, impegnandosi a prelevare tutta l' energia prodotta dal nuovo impianto di Olkiluoto con dei contratti di lungo termine. Questo accordo ha annullato il rischio di mercato dell' operazione, consentendo di ottenere dalle banche un finanziamento a tasso molto favorevole. Così, malgrado il costo alto dell' impianto (stimato in quattro miliardi), si abbatte di molto il prezzo finale dell' energia: a Olkiluoto il megawattora costerà circa 30 euro, contro i 40-42 stimati da Edf per il nuovo reattore in progetto a Flamanville, in Normandia, e contro un prezzo medio di 75 euro sulla Borsa elettrica italiana. «Naturalmente, nello studio di fattibilità terremo conto delle strutture che ci sono già - ragiona Zuccoli - e anche del know-how che si è costruito nelle zone dei primi quattro reattori italiani di Trino Vercellese, Caorso, Latina e Garigliano, non ancora smantellati». Ma il punto dolente è un altro: «In Italia non esiste un sito nazionale di stoccaggio delle scorie radioattive e questo è un problema che va risolto, con un esame geologico approfondito della penisola per individuare la posizione più adatta». Lo studio di fattibilità si occuperà anche di questo, malgrado le analisi geologiche già portate a termine, che hanno indicato come sito ideale quello di Scanzano Jonico, poi abbandonato sull' onda delle resistenze locali. «Abbiamo ben presenti le forti resistenze a cui andremo incontro - ammette Zuccoli - ma non per questo siamo disposti a mettere la testa nella sabbia: che cosa sarà dell' Italia fra dieci anni, senza il nucleare? Avremo più inquinamento e più incertezze nell' approvvigionamento di energia rispetto ai nostri partner europei. Per non parlare dei prezzi del kilowattora, che resteranno altissimi. Le fonti rinnovabili sono un bel sogno, ma sono ancora troppo poco sviluppate per risolvere questi problemi in tempi brevi». Basterà uno studio, per dare le risposte ai resistenti?

21 settembre 2007

Michael Hoffman

Non sempre l' etica negli affari si può imporre con delle leggi, per quanto stringenti. Situazioni come quella dei giocattoli cinesi di Mattel, del latte artificiale Nestlé per i bambini africani o delle protesi Dow Corning al silicone sono talmente delicate da gestire che le regole scritte spesso non aiutano. «In molti casi le peggiori decisioni del management s' inseriscono in un' area grigia e a prima vista possono sembrare perfettamente legittime: solo in seguito si scopre che invece hanno causato gravi danni». Per questo Michael Hoffman, guru bostoniano dell' etica aziendale, è convinto che un Ethics Officer, più sensibile alle sottili distinzioni fra giusto e sbagliato, dovrebbe essere chiamato automaticamente a partecipare alle decisioni dei vertici aziendali.
Come si costruisce una cultura etica che impedisca disastri come quello capitato alla Mattel o alla Dow Corning?
«Ci dev' essere una rete capillare di controlli interni, con ispettori che visitino gli impianti anche di sorpresa, senza alcun preavviso, per verificare che i prodotti siano appropriati. I controlli devono essere estesi a tutta la produzione, anche all' estero. E questa è la parte più difficile, in particolare quando si ha a che fare con Paesi complicati come la Cina. Ma ci vogliono soprattutto delle persone che tirino le fila di questa rete e abbiano la capacità d' interfacciarsi sia con la produzione che con i decisori, con chi ha il potere di assumere e licenziare il top management».
Quindi con il consiglio d' amministrazione...
«Esattamente. E' ormai una quindicina d' anni che le corporation americane hanno creato la figura del Chief Ethics Officer (EO), una guida strategica e operativa che deve vigilare sulla conformità dell' operato dell' azienda alle buone regole di condotta etica. Ma in generale l' EO fa parte del management e viene ascoltato solo raramente dal consiglio d' amministrazione. Questo crea un chiaro conflitto d' interesse: da un lato l' EO non ha l' autorità sufficiente per imporsi sul top management, dall' altro lato è molto difficile per lui giudicare e denunciare la condotta morale di chi, come l' amministratore delegato, ha il potere di assumerlo e licenziarlo. Ecco perché io propongo che l' EO sia messo in relazione diretta con il consiglio, a cui dovrebbe poter riportare direttamente, quasi come un revisore dei conti».
Ma per questo non ci sono già le normative anti-frode come la Sarbanes-Oxley?
«Le leggi di questo tipo sono sempre utili. Più ancora della Sarbanes-Oxley, che si rivolge solo alle società quotate, sono state utili le Federal Sentencing Guidelines for Organizations, che hanno imposto una serie di regole contro le truffe finanziarie, le molestie sessuali, i prodotti pericolosi. Le aziende non sono costrette a seguirle, ma in pratica lo fanno perché se succede un guaio il giudice ne tiene conto. Se le FSGO vengono applicate a puntino, in caso di denuncia la magistratura tende a perseguire i singoli manager, ma non la società».
Dunque le regole sono importanti...
«Importanti ma non decisive. Non dimentichiamo che Enron, ad esempio, aveva un codice etico lungo 72 pagine. "Scripta manent", dicono. Ma in questo caso non è servito a nulla. Non sono determinanti le dichiarazioni scritte, ma le persone. La cultura dell' etica deve partire dai valori, non dagli obblighi».
Il problema è che i manager in generale non sono concentrati sull' etica ma sul business.
«E' uno sbaglio, perché l' etica porta business. Compriamo più volentieri i prodotti di una società che tratta bene i suoi dipendenti, che non sporca l' ambiente, che non dà in giro bustarelle...».
L' etica nel business può diventare uno strumento di marketing?
«Spero qualcosa di più, ma anche. E' importante però che le belle cose propagandate nelle pubblicità siano vere al cento per cento, altrimenti rischiano di diventare controproducenti».

14 settembre 2007

Compagnie petrolifere a corto di uomini

Ma il petrolio non era agli sgoccioli? Si fa per dire: le riserve conosciute dureranno almeno altri quarant' anni e quelle sconosciute chissà... Sia come sia, l' industria petrolifera con annessi e connessi prospera ormai da tre-quattro anni, con le quotazioni del greggio messe al bello stabile e margini sempre più appetitosi. Gli investimenti per cercare oro nero e altri idrocarburi - dagli scisti bituminosi al gas naturale - oltre i confini del possibile, nei territori più freddi e nei mari più profondi, stanno diventando remunerativi e il boom di esplorazione e produzione cresce di giorno in giorno. Tutta la filiera ne sta beneficiando, dai servizi di mappatura e di progettazione agli studi geologici per gli scavi, dai tubi per il trasporto ai servizi ambientali, fino alla cantieristica e alla raffinazione. Unico limite: le risorse umane. «Ci servono specialisti ma fatichiamo a trovarli: il mercato del lavoro è talmente tirato che ormai i grandi operatori sono costretti a richiamare gli esperti più anziani dalla pensione», si lamenta Dario Scaffardi, direttore generale di Saras. E in tutto il settore si sente la stessa musica. «Quella che manca di più è la fascia mediana, già abbastanza esperta da assumere responsabilità strategiche ma non ancora a livello di top management», spiega Andrea Magnabosco, uno dei pochi headhunter italiani specializzati nel settore, responsabile della divisione engineering di Hays. Il problema parte da un dato di fondo: l' industria petrolifera esce da oltre un decennio di vacche magre, con il prezzo del greggio schiacciato sotto i trenta dollari al barile e a tratti addirittura sotto i dieci, da fine anni Ottanta a fine anni Novanta. «In questo lasso di tempo - spiega Magnabosco - c' è stato un blocco totale. Nessuno assumeva, nessuno formava nuovi quadri intermedi, il settore era paralizzato». Lo sfruttamento degli idrocarburi più difficili da trovare non era remunerativo e quindi l' esplorazione si è fermata, pochissimi giacimenti sono stati scoperti, la produzione ristagnava. Ma l' economia continuava a correre e a bruciare petrolio nei suoi ingranaggi. Dopo l' attacco alle Torri Gemelle è iniziata una lenta risalita, spinta dalle turbolenze geopolitiche e soprattutto dalla crescente domanda asiatica. Dal 2005 le quotazioni del greggio oscillano fra i 50 e i 70 dollari al barile, con punte - come in questi giorni - oltre i 75. E gli esperti prevedono che rimarranno a lungo su questi livelli. «Da allora si è rimesso tutto in moto, ma questo è un business ad alta specializzazione e il periodo di stasi ha creato un vuoto generazionale fra gli anziani esperti e i giovani neolaureati, che diventa sempre più difficile da colmare», sostiene Magnabosco. Non a caso il gruppo della famiglia Moratti, specializzato nella raffinazione, quest' anno ha dovuto richiamare dalla pensione una decina di esperti, per attività di coordinamento nella gestione di importanti commesse. «In particolare le figure di cantiere, costrette a trascorrere gran parte dell' anno in lunghe trasferte internazionali, si fanno sempre più rare», conferma Scaffardi. «Rispondiamo alle tensioni del mercato con la formazione interna, affiancando le nuove leve ai nostri grandi specialisti, ma anche con campagne di reclutamento all' estero, ad esempio in Turchia e Romania», spiega Antonio Vietti, direttore risorse umane di Foster Wheeler, multinazionale americana specializzata nella progettazione e costruzione di grandi impianti nel settore petrolifero, chimico, farmaceutico, alimentare e di produzione di energia. «Puntiamo molto a far crescere le persone dall' interno», ribatte Patrizia Bonometti, direttore risorse umane di Tenaris Europa, il maggior produttore e fornitore a livello globale di tubi e servizi per l' esplorazione e la produzione di petrolio e gas. «Abbiamo un programma interno abbastanza completo, che ci evita di andare sul mercato del lavoro per trovare profili già formati», sostiene Bonometti. Nella società controllata dalla famiglia Rocca il primo mese di formazione di base dei giovani neolaureati si svolge in Argentina e continua poi per due anni nella sede di provenienza. «Investiamo molto sulle nuove leve e in questo modo si crea un forte senso di appartenenza», commenta Bonometti. Il rischio di farsi portar via un giovane formato all' interno, dunque, si mantiene entro limiti accettabili. Ma con l' aria che tira sul mercato, anche ingegneri, chimici e geologi possono diventare mercenari.

10 settembre 2007

Emergenza rifiuti: Bassolino ci guadagna

Spariti i cumuli d'immondizie per le strade, roghi sempre più rari, ma l´emergenza in Campania non è finita: il sequestro cautelare, che ha bloccato le casse di Fibe, controllata da Impregilo, rischia d'interrompere il ciclo dei rifiuti e di fermare i lavori per il termovalorizzatore di Acerra, quasi pronto, mentre le discariche avviate dal nuovo commissario, Alessandro Pansa, saranno presto sature. La risposta di Impregilo si chiama Bruno Ferrante, ex prefetto di Milano, ex candidato sindaco, ex commissario anti-corruzione al Viminale, oggi presidente di Fibe e Fibe Campania, le due società accusate di aver gestito per anni un appalto che, secondo i giudici napoletani, "già sapevano di non poter rispettare". "Ma il problema di fondo è un altro: qualcuno ha interesse a mantenere l'emergenza rifiuti, perché ci guadagna. Del resto, se c'è bisogno di un commissario dal '94 e ancora oggi non si riesce a implementare un piano di smaltimento datato 2000, vuol dire che c'è qualcosa che non va. Il ciclo non è tanto complicato da realizzare, in altre regioni le difficoltà sono state affrontate e superate senza drammi. Qui invece è tutto fermo da oltre dieci anni", sostiene Ferrante. Con una produzione regionale di circa 7.500 tonnellate al giorno e un costo di smaltimento di 7,7 centesimi al chilo, è facile intravvedere la dimensione economica della questione. Il settore rifiuti in Campania rappresenta una delle più grosse aree d'affari di tutto il Mezzogiorno, gestita in larga parte nell'illegalità. Aprire l’accesso al settore privato rappresenta una scommessa importante per il potere politico regionale. In pratica, Fibe è accusata di non aver confezionato bene il combustibile da rifiuti, le famose ecoballe, che sarebbero di cattiva qualità e quindi impossibili da bruciare. Nell'ambito della stessa inchiesta, Antonio Bassolino, commissario dal 2000 al 2004, è stato rinviato a giudizio per truffa ai danni dello Stato. Ma il fallimento, più che tecnico, sembra squisitamente politico. La peculiarità del ruolo di Fibe sta scritta nel contratto di assegnazione: tutte le immondizie prodotte in Campania vanno consegnate ai sette impianti di produzione di ecoballe, dove Fibe ne diviene proprietaria. Da qui vanno smistate, in parte verso i termovalorizzatori, paralizzati dai moti di piazza, e in parte nei siti di stoccaggio che Fibe ha proposto a decine, ma sono sempre stati scartati dal commissariato. L'accumulo di rifiuti negli impianti di produzione ha causato la crisi del sistema. E' evidente la convenienza di Impregilo a portare a termine l'incarico assegnatole in Campania, così come ha fatto in altri 500 siti in giro per il mondo, tra cui nel 2006 a Wuppertal in Germania, a Joenkoeping in Svezia e a Kyoto in Giappone. L'energia prodotta da rifiuti è rivendibile a non meno di 18 centesimi a kilowattora: con le quote disponibili, si arriverebbe a 100mila euro giornalieri medi. Per lo smaltimento del resto, Fibe doveva percepire un compenso pari a circa 5 dei 7,7 centesimi al chilo di partenza. Un volume d'affari di 350mila euro giornaliseri. Perché rinunciare a tutto questo bendiddio?È qui che emerge l'inconciliabilità di due visioni opposte del ciclo dei rifiuti. Da una parte, quella del commissariato Bassolino che promuoveva una presenza massiccia del sistema pubblico. Dall'altra, quella della giunta precedente che aveva previsto e disegnato una delega più libera al sistema privato. Il gettone di presenza mensile incassato da Bassolino per fare il commissario era di 10.000 euro. Il nuovo commissario, il prefetto Alessandro Pansa, eredita oltre 600 milioni di debiti.

7 settembre 2007

Caos da scrivania? Fa bene agli utili

C' è il minicaos: uno scaffale in un angolo dell' open space, un tabellone pieno di bigliettini, un cassetto nascosto. C' è il caos verticale. Il disordine viene impilato per sembrare armonioso, ammonticchiando in perfetto equilibrio riviste, documenti, grafici e fotografie alla rinfusa. C' è il caos cumuliforme: nel vasto mucchio selvaggio che si allarga sulla scrivania finiscono seppelliti dossier interi, cartelle d' archivio insieme a oggetti di cancelleria e bucce d' arancia. C' è il caos satellitare, quello che viene esiliato lontano, in magazzini esterni all' ufficio per carenza fisica di spazio. E poi c' è il caos ciclico, quello che monta e rifluisce come una marea a intervalli regolari, settimanali, stagionali o perfino annuali, a seconda dei ritmi del lavoro. In ognuno di questi casi c' è sempre un capoufficio, un partner, un collega che cerca di porre rimedio, di contenere o in casi gravi di fare piazza pulita. E' opinione diffusa che un tavolo disordinato danneggi l' efficienza e molte corporation - da General Motors a Ups, passando per Ibm - impongono ai dipendenti la cosiddetta Clean Desk Policy, con tanto di premi e sanzioni rigorose per i trasgressori. Ma i risultati? «In realtà è illusorio pensare di poter eliminare completamente il disordine e molti studi dimostrano che l' ordine imposto dall' alto può addirittura danneggiare la produttività», spiega Maria Vittoria Giusti, psicologa del lavoro e partner nella società di ricerca del personale Mindoor. «Per produrre qualcosa di valido bisogna mettere in moto un processo creativo - fa notare Giusti - che non parte mai dall' ordine». Semmai l' ordine meticoloso può servire come struttura di contenimento a chi si senta insicuro oppure per dare serenità a un capo che si ferma all' apparenza. Ma la sua utilità non è affatto dimostrata. Anzi. Da un sondaggio della società americana PsyMax Solutions risulta chiaro il collegamento fra scrivania caotica e stipendio alto, che relega gli ordinati a un salario inferiore ai 35mila dollari all' anno. Ma allora a che servono gli organizzatori professionali, che ormai nascono come funghi? Negli Stati Uniti sono già 4.000 aziende, riunite nella National Association of Professional Organizers, che sguinzagliano in giro per il Paese squadre lautamente pagate, capaci di fare piazza pulita in poche ore di interi paesaggi cognitivi, radendo selvaggiamente al suolo elaborate montagne di carta e preziose miniere di sapere. Ma anche in Europa l' industria degli organizzatori professionali prospera. Si racconta di un' azienda di Francoforte messa in ginocchio dal passaggio di un simile ciclone: per mesi i dipendenti non sono stati più capaci di trovare le loro carte. Eric Abrahamson, professore alla Columbia University e autore di «A Perfect Mess» (Little, Brown & Co) va ancora più in là: il caos, assicura, fa bene alla produzione. Il disordine, dice Abrahamson, è robusto e adattabile. Il disordine è inclusivo, poiché abbraccia ogni sorta di elementi casuali. Il disordine è narrativo: si può imparare molto sulla gente dai suoi detriti, mentre l' ordine è un libro sigillato. Il disordine è naturale, accade da solo. Invece per mettere ordine ci vuole tempo e fatica. Tempo e fatica sprecati, sostiene Abrahamson: in base ai suoi calcoli, chi ha un tavolo vuoto impiega il 36 per cento di tempo in più per recuperare il materiale che gli serve. E cita la famosa frase di Albert Einstein, re dei creativi disordinati: «Se una scrivania stracarica indica una mente stracarica, che cosa indica una scrivania vuota?»

3 settembre 2007

Islanda e Italia, unite dalla geotermia

Un buco profondo quattro-cinque chilometri per scaldare e illuminare un' intera nazione: in Islanda, terra di vulcani, ci sono vicini. In Italia, invece, si procede a fatica. Il Paese natale dell' energia geotermica, partita con Francesco De Larderel agli inizi del Novecento, oggi fa molta resistenza, anche se l' Enel ce la mette tutta per sfruttare una delle fonti rinnovabili più ricche e promettenti che abbiamo a disposizione. I giacimenti di «petrolio bianco» sono facili da individuare, perché di solito si accompagnano a manifestazioni superficiali come fumarole, geyser o sorgenti d' acqua calda, fenomeni attribuiti dagli antichi a divinità sotterranee e utilizzati già da etruschi e romani per le loro terme. «In certe regioni della terra, dove le placche tettoniche confinano tra di loro e dove le forze geologiche spostano in superficie le masse magmatiche, il calore sprigionato dal centro del pianeta arriva a portata di mano, offrendoci una delle poche fonti rinnovabili costanti, a differenza del sole e del vento, di cui è nota l' estrema instabilità», spiega Gennaro De Michele, responsabile della ricerca Enel. Da qui il grande interesse di questa risorsa, che l' Italia possiede in quantità, soprattutto in Toscana, Lazio, Campania e Sardegna. Il centro nevralgico dello sfruttamento è nella zona boracifera di Larderello, in Toscana, dove le centrali geotermiche dell' Enel producono circa 5 miliardi di kWh l' anno, coprendo oltre un quarto del fabbisogno regionale, l' 1,5% dei consumi elettrici italiani. L' Italia è al quarto posto nel mondo - dietro a Stati Uniti, Filippine e Messico - per la produzione geotermoelettrica. Ma basta guardare al Nord Atlantico per capire quanto si potrebbe fare di più. In Islanda l' energia geotermica copre al 95% il riscaldamento delle famiglie, delle serre per la floricoltura e delle vasche per l' itticoltura, oltre a una bella fetta del fabbisogno elettrico. Ma non basta: gli islandesi hanno sviluppato nuove tecnologie per catturare il calore della terra anche là dove non arriva in superficie, trivellando a profondità di chilometri, in prossimità delle camere magmatiche. Da lì prevedono di estrarre tanta energia da liberare completamente il Paese dalla schiavitù degli idrocarburi. È questo il sogno di Gudmundur Friedleifsson, dell' Iceland GeoSurvey, il massimo esperto islandese di geotermia e responsabile del Deep Drilling Project. «L' Italia e l' Islanda - commenta Friedleifsson, che conosce bene il nostro Paese - si somigliano per l' intensa attività vulcanica, ma si differenziano per l' utilizzo delle fonti geotermiche: mentre l' Italia si trova in forte deficit energetico, l' Islanda ha eliminato il problema utilizzando a fondo questa risorsa straordinaria». «In Italia la sperimentazione è più difficile - spiega De Michele - perché i campi geotermici stanno in zone molto popolate». Ad esempio il Monte Amiata, dove lo sfruttamento di questa risorsa è bloccato dalla resistenza dei gruppi ambientalisti. Nel quinquennio 2007-2012 l' Enel progetta di costruire, con quasi 500 milioni d' investimento, cinque nuovi impianti geotermici, di cui quattro nelle zone storiche e uno sull' Amiata, dove però gli ambientalisti sostengono che la geotermia nuoce alla salute dei cittadini. «In realtà - controbatte De Michele - lo sfruttamento della geotermia non produce sostanze inquinanti né aumenta le emissioni di anidride carbonica rispetto a quelle già presenti allo stato naturale, mentre le acque reflue vengono reiniettate nel sottosuolo per mantenere stabile il ciclo e quindi non hanno alcun impatto ambientale». Non a caso il futuro della geotermia si sta giocando lontano dall' Italia: a Soulz, nella fossa tettonica del Reno fra Strasburgo e Karlsruhe, una delle zone più densamente popolate d' Europa, è in corso di realizzazione un prototipo industriale che punta a sfruttare il calore della terra anche lì dove mancano depositi naturali di acqua, allargando quindi di molto le possibilità di applicazione. L' acqua, in questo caso, viene iniettata dall' alto in pozzi profondi cinque chilometri, dove si scalda e risale in superficie lungo altri pozzi per poi venire impiegata come fluido energetico. La sperimentazione della tecnologia HDR (Hot dry rock), finanziata dall' Unione Europea e dal governo svizzero, va avanti da dieci anni e sarà completata l' anno prossimo, con l' entrata in produzione di un impianto da 6 megawatt. Da qui in poi, la strada è segnata: sfruttando questa potenzialità l' Europa potrebbe ottenere da una fonte stabile e inesauribile l' equivalente di tutta la sua produzione nucleare. Ma non sul Monte Amiata.

23 agosto 2007

Africa, un cavo sottomarino contro la fame

Un’ora di connessione in un Internet Café di Nairobi può costare un mese di stipendio a un ragazzo kenyota. Per non parlare dell’utilizzo a livello di business: connettere un call-center con 25 postazioni costa 17mila dollari al mese in Kenya, contro i 6-900 richiesti in India. In Africa Orientale sono tutti d’accordo sul fatto che la banda larga porti sviluppo, ma è dal lontano 2003 che i vari progetti si trascinano da un veto politico all’altro. Ora, forse, siamo arrivati alla resa dei conti. Per ampliare l’offerta, fino ad oggi tutta basata sul cavo sottomarino SAT-3 che scende giù dalla penisola iberica lungo la costa atlantica fino al Sud Africa, bisogna posare altri 13mila chilometri di cavo sottomarino lungo la costa orientale, con diverse derivazioni, per collegare Sud Africa orientale, Madagascar, Mozambico, Tanzania, Kenya e India occidentale all’Europa, cui è destinato l’85% del traffico africano. Progetti per portare a termine l’impresa ce ne sono quattro o cinque, ma è chiaro che solo uno sopravviverà, quello capace di arrivare a destinazione prima degli altri. Quando la prima dorsale in fibra ottica sarà posata, il mercato - ora affamatissimo - verrà immediatamente modificato dalla nuova realtà. Il cavallo vincente sembrerebbe Seacom, l’ultimo arrivato: un consorzio fondato da una serie di manager di Sithe Global - un operatore energetico controllato all’80% da Blackstone - ma in cui il gruppo americano di private equity finora non ha messo un dollaro. Il management è supportato da investitori kenyoti, sudafricani ed europei che hanno cospicui interessi nel continente nero, con una serie di altri progetti in corso del valore di 5 miliardi di dollari. Seacom ha tentato di coinvolgere anche il governo di Nairobi, per ora senza successo. Il Kenya, infatti, partecipa già a due diversi progetti concorrenti. The East African Marine Cable System (Teams), che dovrebbe collegare il Kenya con gli Emirati Arabi Uniti seguendo in parte lo stesso itinerario del cavo di Seacom, è stato lanciato l’anno scorso. E’ a questo progetto che Seacom vorrebbe associarsi. L’Eastern African Submarine Cable System (Eassy), invece, è un consorzio concepito nel lontano 2003 all’East African Business Summit, che dovrebbe collegare i Paesi dell’Africa Orientale tra di loro, fermandosi al Sudan. Da lì in poi, bisognerebbe comprare capacità da altri operatori internazionali per connettersi all’Europa. Il cavo dovrebbe essere finanziato dai diversi operatori telefonici nazionali, ma questo modello non ha ancora trovato abbastanza sponsor disposti a imbarcarsi nell’impresa. Anche perché assomiglia molto al modello del SAT-3, che controlla la dorsale occidentale e consente l’acquisto di capacità solo a un singolo operatore per Paese, mantenendo quindi un sistema monopolistico, con evidenti conseguenze sui prezzi. Parallelamente a Eassy, è nato un consorzio formato dalla New Partnership for Africa’s Development (Nepad), che mira ad evitare il problema dei prezzi alti progettando la costruzione di un’infrastruttura faraonica, in mare e a terra, con finanziamenti pubblici. Ad oggi, il protocollo d’intesa sulla Nepad Broadband Infrastructure è stato firmato, ma non ratificato, solo da 12 dei 23 Paesi partecipanti al Nepad. Il Kenya non ha firmato. Ma intanto il Nepad combatte da anni una guerra sotterranea contro Eassy, con il risultato di rendere ancora più problematico ogni sforzo di cablaggio. A questo punto il vantaggio di Seacom sta tutto nella sua stabilità finanziaria e nel fatto di aver già sottoscritto per prima un contratto con Tyco, una delle uniche tre aziende a livello globale capaci di posare un cavo di questa portata con le loro navi super-attrezzate. Tyco assicura che il collegamento di Seacom sarà operativo dal primo trimestre del 2008, mentre Teams e Eassy parlano del dicembre 2008, ma nessuna delle due ha ancora firmato un contratto di appalto. Questo particolare può sembrare trascurabile, ma con la crescita precipitosa della domanda di fibra ottica sottomarina, ormai il mercato è dominato dai tre venditori: Alcatel, Nec e Tyco. Dallo scorso dicembre, infatti, sono in via di posa ben tre cavi sottomarini attraverso il Pacifico - due fra la Cina e gli Stati Uniti e uno di collegamento con l’Australia - e due dai Caraibi al Nord America. Di conseguenza, chi non ha già firmato un contratto con una delle tre compagnie, difficilmente vedrà la sua infrastruttura completata entro la fine del prossimo anno. Un buon motivo per non credere alle promesse dei due consorzi. E per aprire all’offerta di associarsi rivolta da Seacom al governo di Nairobi.

18 luglio 2007

Locatelli: "E' guerra contro le merchant lines"

Arenati sul Carso della burocrazia, in una guerra di trincea dove tutti si sparano addosso, ma non riescono ad avanzare di un millimetro. Nemmeno le merchant lines di Gianni Locatelli, giornalista di lungo corso (negli anni Ottanta diresse il “Sole 24 Ore”) e oggi presidente di Trafigura Italia, filiale italiana di un gruppo inglese da 30 miliardi di dollari specializzato nel trading dei combustibili e sbarcato a Milano con la liberalizzazione. A cosa servono delle linee d'interconnessione? "Ad arricchire l'offerta, aumentare la concorrenza e importare energia un po' più conveniente della nostra. Sulle Borse estere l'energia costa il 20-30% in meno rispetto all'Italia, comprarla lì è un bell'affare. Per di più, importando energia già pronta, in genere con cavi invisibili su tracciati di pochi chilometri, si evita di costruire in Italia impianti che qui non si riescono a fare, come le centrali nucleari". Va bene, sono utili al Paese. E a voi? “Siamo dei trader, compriamo e vendiamo energia sulla Borsa elettrica italiana e su quelle straniere come Powernext. Ma per ridurre i rischi un trader deve verticalizzare la sua attività, con un po' di produzione o una linea d'importazione dedicata, senza oneri di trasmissione. Una centrale a ciclo combinato a gas l'abbiamo già vicino a Gorizia, un'altra la stiamo costruendo a Greve in Chianti. In contemporanea lavoriamo sulle linee d'interconnessione”. Ma... “Siamo alle prese con gli ostacoli più incredibili. Abbiamo in piedi tre progetti diversi, tutti sul confine orientale che è il più attraente dal punto di vista dei prezzi: due con la Slovenia e uno con la Croazia, con cavi interrati o sottomarini, quindi l'impatto ambientale è minimo. Eppure non andiamo né avanti né indietro”. In che senso? “I rapporti con il territorio sono buoni, i Comuni interessati al tracciato sono d'accordo, ma abbiamo grosse difficoltà con la Regione e con i gestori della rete. Fra Terna e Eles, il gestore sloveno, è in corso un rimpallo kafkiano, in cui ognuno dice: non ti possiamo dare il via se non hai avuto prima il via dal nostro omologo. E noi lì a cercare di farli parlare fra di loro. Sembra quasi che facciano apposta a non tirare su il telefono per mettere i bastoni fra le ruote”. E va avanti così da molto tempo? “Siamo stati fra i primi a proporre delle linee d'interconnessione con la Slovenia e la Croazia, i nostri sono fra quei 42 progetti autorizzati con la prima normativa, nel 2002. Quindi è cinque anni che ci lavoriamo”. E la Regione? “Anche dalla Regione ci sono fortissime resistenze. Fino a un paio di anni fa, sembrava tutto tranquillo: il presidente Riccardo Illy si era dimostrato addirittura favorevole e ci aveva ricevuti insieme ad Acegas, l'utility triestina con cui siamo in partnership. Poi si è arenato tutto. Non riusciamo nemmeno a farci rispondere dall'assessore competente, Lodovico Sonego: gli ho scritto due lettere, una a metà marzo e una a metà aprile, per chiedere un incontro. Non ha risposto a nessuna delle due. Se andiamo avanti così perderemo un'altra estate. Bisognerebbe vincolare gli enti locali a dare il loro parere in tempi congrui”. Non è un problema solo vostro... “Me ne rendo conto, ma non mi consola. Se almeno dicessero chiaro che queste linee non si possono fare, rivolgeremmo i nostri investimenti da un'altra parte. Non si può bloccare delle imprese per anni senza spiegare perché”. E' così per tutte le infrastrutture. “A maggior ragione dovrebbero essere contenti di avere una linea elettrica, con un bassissimo impatto ambientale, piuttosto che una centrale a carbone. Cosa c'è di più pulito di una linea ad alta tensione? Non sporca, non comporta l'importazione di carburante, diminuisce l'impatto degli impianti di produzione. Mi sembra che dovrebbe suscitare solo reazioni positive”.

Terna non vuole concorrenza dai privati

All'inizio erano 42. Poi, come i piccoli indiani, si sono parecchio sfoltiti e oggi ne è rimasta una decina. Ma a cinque anni di distanza da quel primo censimento, solo uno dei progetti di linee elettriche private d'interconnessione con l'estero (le cosiddette merchant lines) sta per andare in porto, quello delle Ferrovie Nord, soggetto privato fino a un certo punto, visto che è controllato al 58% dalla Regione Lombardia. Gli altri sono ancora in alto mare. E non sembrano vicini all'approdo. Ma la spinta di queste imprese a investire negli allacciamenti della rete italiana con il resto d'Europa non è solo un interesse privato. Per l'energia, infatti, in Italia è sempre rischio blackout: due gocce di pioggia non risolvono la siccità e il caldo sempre più africano delle nostre estati, oltre a strangolare la produzione, fa volare i consumi, mettendo in crisi interi distretti produttivi del Nord Est e della Lombardia. Il mix di generazione italiano, dominato ormai per due terzi dal gas naturale, continua a tenere i prezzi alti. Il carbone e il nucleare, con il loro effetto calmieratore, restano off-limits. Sviluppare le interconnessioni con l'estero, quindi, non rappresenta solo un'opportunità di business per le imprese, ma anche un fattore di maggiore sicurezza per l'intero sistema a corto di energia e un elemento di compensazione per gli squilibri della produzione interna. Comprare kilowattora a prezzi migliori sul mercato europeo può convenire alle aziende che realizzeranno gli elettrodotti, ma è anche un modo per rivitalizzare la concorrenza sul mercato italiano. “Qui continuiamo a costruire centrali a gas, ma non dimentichiamo che il 2006 è stato caratterizzato da un notevole incremento dei prezzi del greggio e conseguentemente del gas: la bolletta pagata dall’Italia per importazioni di materie prime energetiche ha superato i 50 miliardi di euro”, spiega Alessandro Clerici, responsabile della task force di Confindustria sull'efficienza energetica. Piuttosto che importare prodotti petroliferi cari e sporchi, sostiene Clerici, perché non importare energia già bell'e fatta, possibilmente da combustibili meno cari di quelli prevalenti in Italia, come ad esempio il nucleare o il carbone? E' lo stesso ragionamento delle imprese, da una parte compagnie energetiche impegnate a ottimizzare l'attività di trading, dall'altra manifatture energivore, che sperano così di tagliare un po' i costi della bolletta. Come il gruppo Burgo. “Con un fabbisogno di punta da 500 MW e 3 terawattora di consumi annuali – precisa Roberto Manzoni, energy manager del gruppo – è ovvio che la bolletta energetica per noi sia una delle principali preoccupazioni: attingiamo a tutte le fonti possibili, dall'autoproduzione al mercato elettrico, ma ormai in Italia il prezzo è dettato dalle quotazioni del gas e continua a salire”. Da qui i progetti d'interconnessione con l'estero. “Al confine con l'Austria abbiamo proposto un semplice cavo interrato da 300 MW lungo il tracciato dell'oleodotto transalpino – fa notare Manzoni - che sfrutta una galleria di nove chilometri per scavalcare le Alpi e quindi non ha alcun impatto ambientale, tant'è vero che tutte le amministrazioni locali interessate al tracciato sono d'accordo. Ma il progetto è arenato da un anno e mezzo sul tavolo della Regione, che non dà una risposta”. Forse perché sullo stesso tracciato, tra Somplago in Carnia e Wurmlach in Carinzia, c'è anche un altro progetto sponsorizzato da due imprese regionali, i gruppi Pittini e Fantoni, su cui l'assessore Lodovico Sonego sembra particolarmente impegnato, scontrandosi però con le amministrazioni locali, contrarie all'utilizzo di un elettrodotto aereo. Al ministero dello Sviluppo Economico, che ha l'ultima parola sui progetti d'interconnessione di questa portata, non possono far altro che attendere il parere regionale, obbligatorio. “Proprio perché ci rendiamo conto dell'esigenza delle imprese di comprare energia a prezzi migliori - puntualizza Sara Romano, direttore generale del ministero dello Sviluppo Economico - abbiamo accelerato il più possibile le disposizioni attuative del decreto Scajola, che permette agli investitori privati di realizzare linee d'interconnessione con l’estero e di avvalersi dell’esenzione dell’accesso a terzi, ma ci rendiamo conto che le troppe iniziative nel Nord Est stiano portando a delle difficoltà autorizzative. Da parte nostra, consideriamo questi progetti strategici per il Paese e cerchiamo di facilitarli in ogni modo”. Non sono dello stesso parere le imprese, preoccupate dall'onerosità delle ultime disposizioni in materia, che obbligano i proponenti a ottenere tutti i permessi di costruzione prima ancora di presentare la richiesta al ministero. Un procedimento che li costringe a sostenere costi notevoli, prima ancora di sapere se potranno tirare il loro cavo. Il sospetto è che malgrado l'apertura dello Sviluppo Economico, il governo voglia proteggere la rete pubblica, di proprietà di Terna (società quotata di cui lo Stato è il principale azionista), dalla concorrenza dei privati. Sul fronte svizzero, in effetti, non va molto meglio: a parte il caso un po' particolare delle Ferrovie Nord, già in fase di realizzazione, gli altri investitori per ora sono al palo. Edison, ad esempio, sta tentando da cinque anni di tirare una linea d'interconnessione da 200 MW, fra Tirano e Campocologno nei Grigioni. “Abbiamo ottenuto tutte le licenze di costruzione – spiega il direttore sviluppo Roberto Potì - e l'impianto sarebbe realizzabile già da un po' di tempo, contavamo di cantierizzarlo in marzo, ma ci manca l'accordo fra i due gestori di rete, Terna e il suo omologo svizzero, che devono definire la capacità di trasporto della linea. E' un anno che aspettiamo una risposta, l'impressione è che la nostra richiesta non sia in cima alle loro priorità. D'altra parte per noi questa esperienza è determinante: rappresenta un banco di prova per decidere se andare avanti con gli altri progetti che avevamo avviato”. “Ma quali bastoni fra le ruote”, rispondono da Terna. “Le difficoltà autorizzative affrontate dalle compagnie private sono analoghe a quelle che siamo costretti a superare anche noi. Basti pensare che per realizzare l'elettrodotto Matera-Santa Sofia ci abbiamo messo dieci anni. Per noi la fase di concertazione con le amministrazioni locali dura minimo 2-3 anni, cui poi bisogna aggiungere almeno altri 18 mesi di per le autorizzazioni vere e proprie. Quindi 4-5 anni solo per cantierizzare un progetto. Del resto per fare una centrale elettrica ci vogliono in media 4 anni di procedure autorizzative, quindi siamo nello stesso ordine. Il business delle infrastrutture in Italia è così, bisogna che i privati se ne rendano conto”. Parola di paladino della rete pubblica.