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30 giugno 2010

Scatta in luglio la bioraria per tutti: è una svolta di sistema

Per abbattere i picchi della domanda elettrica non c'è niente di meglio dei Mondiali di calcio: la prima partita dell'Italia ha causato un calo della potenza richiesta di 750 megawatt, equivalente al fabbisogno medio di una città come Torino. Ristoranti e cinema sono andati deserti e nelle case regnava il coprifuoco, con la gente incollata al teleschermo a luci spente.


Ma l'Autorità per l'energia elettrica si è inventata qualcosa di meglio: la tariffa bioraria. Dal 1° luglio si cominceranno a pagare due prezzi diversi per l'elettricità consumata di giorno - nella fascia di piccco dalle 8 alle 19 - oppure di sera e di notte, nel fine settimana e nei giorni festivi. La novità interessa il 90% dei consumatori: 25,7 milioni di utenze, cioè tutte quelle che non hanno optato per il mercato libero e sono rimaste sotto la maggior tutela dell'Authority. "In prospettiva - spiegano all'Authority - questo sistema dovrebbe spingere i consumi delle utenze familiari durante le fasce off-peak dall'attuale 67% all'80%". In questo modo si potrebbero ridurre gli squilibri del sistema elettrico, che presenta enormi divari nel fabbisogno a seconda degli orari e delle stagioni: nello stesso anno si possono raggiungere picchi di domanda fino a 51,9 gigawatt (17 luglio 2009) e cadute a 18,8 gigawatt (13 aprile 2009). E questo in un'annata di crisi, dove il picco è stato comunque contenuto. Nel 2007, il picco ha sfiorato i 57 gigawatt di potenza. Ed è probabile che con l'avvio della ripresa si tornerà a quei livelli di consumo.


Il sistema elettrico, ovviamente, dev'essere tarato in modo da poter far fronte alle punte massime di domanda, altrimenti si rischierebbe il blackout. Per questo in Italia abbiamo decine di centrali che si accendono soltanto poche ore all'anno, quando il fabbisogno è più estremo. Di solito sono le centrali più costose e inquinanti, che bruciano olio combustibile e spingono in alto le quotazioni dell'energia in Borsa elettrica. E' per questo che il prezzo aumenta nelle fasce di picco: le centrali vengono chiamate a vendere sul mercato per merito economico, prima le più efficienti e via via le più costose. Ma se si riuscisse a ridurre le oscillazioni della domanda, "limando" i picchi, questi impianti che vendono a carissimo prezzo potrebbero essere dismessi.


"L'applicazione di questo divario di prezzo anche agli utenti domestici è una questione di equità", spiegano all'Authority. In pratica, gli utenti che consumano più energia elettrica durante le fasce di picco rispetto alla media finiscono per essere sussidiati da quelli che ne consumano di meno. Le differenze di prezzo all'acquisto dell'energia, infatti, ci sono all'origine anche per gli utenti rimasti nel regime di maggior tutela. Solo che le differenze non si vedono in bolletta, grazie ai sussidi incrociati fra le varie categorie di consumatori.  


La nuova tariffazione, però, non verrà applicata tutta d'un colpo: fin da subito saranno coinvolte 10 milioni di utenze, che dovrebbero arrivare a 18-20 milioni entro la fine di quest'anno. Gli altri a seguire. Requisito indispensabile per l'applicazione delle nuove tariffe è che l'utenza sia dotata di contatore elettronico, una condizione ormai condivisa dal 90% dei consumatori, visto che la posa dei nuovi contatori, in cui l'Italia è all'avanguardia nel mondo, è avvenuta a tempo di record. Ma la macchina dev'essere riprogrammata per la telelettura dei consumi nelle due fasce orarie e questo prende qualche tempo. Sarà soft anche l'introduzione del nuovo delta di prezzo: per i primi 18 mesi la differenza fra le due fasce sarà limitata al 10% e solo alla fine dell'anno prossimo la forcella si allargherà al 46%, che risponde al divario effettivo fra i prezzi dell'energia comprata sul mercato nelle due fasce orarie. Per quel 10% di consumatori che hanno già abbandonato la tutela dell'Authority e hanno optato per il mercato libero, invece, non cambierà nulla. E anche chi volesse sottrarsi al nuovo regime biorario può scegliere la libertà, andando a curiosare fra le offerte non biorarie degli operatori sul Trovaofferte dell'Authority.


24 giugno 2010

Manca l'acqua dolce? La si paghi salata

Emergenza sì, emergenza no. Il deficit idrico in Italia sta diventando cronico. Nell' ultimo decennio si è registrato un calo del 20% della portata dei principali fiumi italiani, con relativa riduzione della produzione idroelettrica. E non saranno i pacchetti di risparmio predisposti a intervalli regolari dalla Protezione Civile a rimettere sui binari il treno deragliato dell' approvvigionamento idrico nazionale. La crisi però può mettere in luce un dato di fondo: l' acqua è un bene prezioso. E come tale va pagata. Solo così gli italiani - famiglie, agricoltori e industriali - smetteranno di sprecarla. «Bisogna adattarsi agli effetti di un clima sempre più arido - commenta Mauro D' Ascenzi, vicepresidente di Federutility, l' associazione che raggruppa tutte le utility italiane operanti nel settore dell' acqua e del gas - passando dalla lunga tradizione di politica della domanda a una nuova stagione della pianificazione e gestione della risorsa disponibile». In pratica, se i bacini naturali non sono più efficienti come una volta, è l' efficienza dell' uomo che deve sopperire alla loro funzione. «L' acqua, che un tempo veniva raccolta dai nevai e dai ghiacciai durante l' inverno e poi rilasciata a poco a poco nella stagione calda in cui più serve all' uomo, ora dev' essere raccolta e conservata da noi - sostiene D' Ascenzi -. Va distribuita in modo corretto senza disperderla e utilizzata con parsimonia, contenendo i consumi e incrementando l' efficienza degli usi». A partire da un settore strategico come quello agricolo, principale colpevole e al tempo stesso vittima di questa crisi. L' agricoltura in Italia si beve 20 miliardi di metri cubi all' anno di acqua, ossia il 49% del totale disponibile, una percentuale altissima (e probabilmente sottostimata), che ci pone ben oltre la media europea del 30%. Al secondo posto c' è l' industria che usa il 21%, quindi la rete civile per il 19%, infine il settore energetico, che tra produzione idroelettrica e raffreddamento delle centrali arriva all' 11%. L' utilizzo irriguo, oltre a prelevare di più, è anche quello che restituisce meno acqua all' ambiente, attorno al 50% rispetto al 90% che ritorna disponibile dopo gli usi civili e industriali. A prezzi irrisori. I cittadini italiani la pagano 52 centesimi di euro al metro cubo, la metà della media europea, ma sempre più del prezzo stracciato fatto agli agricoltori, che spendono fino a 100 volte di meno. E solo in pochi casi vengono fatturati i reali consumi agricoli: su 190 consorzi di bonifica, solo 10 li contabilizzano, mentre tutti gli altri fanno pagare un forfait annuo sulla base della tipologia di colture e degli ettari. Un sistema che non incentiva certo un consumo improntato al risparmio. La proposta che tutti gli esperti mettono al primo punto di una nuova politica dell' acqua, dunque, è la revisione completa del sistema di tariffazione. «Altro che acqua libera per tutti!», è la critica di Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente e autore di un prezioso libro bianco sull' emergenza idrica, a uno slogan spesso ripetuto nei raduni ambientalisti. «Anzi - insiste Ciafani - qui ci vuole un affondo della forza pubblica contro chi scava pozzi abusivi attingendo alle falde nel sottosuolo senza pagare un centesimo; ci vuole un censimento preciso dei pozzi, come prescritto dalla legge Galli del ' 94, mai applicata. Serve un meccanismo di premi e penalizzazioni che valorizzi le esperienze virtuose e gravi sui consumatori più grandi, come nel caso delle aziende d' imbottigliamento delle acque minerali, che pagano meno di un centesimo al metro cubo una risorsa che, messa in vendita sugli scaffali di un supermercato, a noi costa 500-1.000 volte di più, garantendo ai produttori profitti da capogiro». Stesso discorso sui consumi agricoli. «Bisogna cambiare - precisa Ciafani - il sistema della vendita a forfait, garantita dalla quasi totalità dei consorzi di bonifica». Solo così si spingeranno gli agricoltori a ripensare il sistema d' irrigazione, quasi totalmente fondato sulla modalità a pioggia, per riconvertirlo ai sistemi di microirrigazione e a goccia, che possono garantire almeno il 50% del risparmio di acqua utilizzata. «Per compiere questa piccola rivoluzione - propone Ciafani - il mondo agricolo dev' essere incentivato, magari con strumenti di agevolazione fiscale simili a quelli che promuovono l' efficienza energetica». E poi bisogna avviare lo sfruttamento per usi agricoli o industriali delle acque reflue, che oggi vanno perse. Un nuovo meccanismo di prezzo s' impone anche per la rete idrica ad uso civile, ridotta a un colabrodo che lascia per strada il 42% dell' acqua immessa (il primato è di Cosenza con il 70%). Per ripararla servono soldi. «Da dove vengono? Che io sappia - è la spiegazione di D' Ascenzi - o vengono dalle tasse o da un inasprimento delle tariffe. Bisogna industrializzare l' intero settore. Chi avvertirà di più la crisi idrica quest' estate non saranno le aree dov' è piovuto di meno, ma quelle dove l' acqua non è stata "industrializzata". In alcune zone c' è un sacco d' acqua eppure la gente muore di sete. In California piove molto meno che in Sicilia, ma hanno quantità incredibili d' acqua per attività irrigue».

18 giugno 2010

La scure di Calderoli sull'energia del vento

Non c'è crisi per l'eolico a livello globale, ma l'Italia rischia una brusca frenata quest'anno. Nell'ultimo decennio il settore è cresciuto con una media annua del 23% e il futuro prossimo promette bene: i 158 gigawatt installati nel mondo a fine 2009 potranno essere oltre 400 nel 2014 per il Global Wind Energy Council. In Italia, il 2009 è stata un'annata record: la potenza totale accumulata è cresciuta del 30%, arrivando a 4.850 megawatt a fine anno e ha continuato la sua corsa nel 2010, fino a 5.200 megawatt a fine maggio. Puntava già su quota 6 giga per l'inizio del 2011.


"Invece, qui ci fermiamo", commenta mestamente Simone Togni, direttore dell'Associazione nazionale energia del vento. Con l'articolo 45 della finanziaria, infatti, il ministro Roberto Calderoli ha calato la scure sull'eolico italiano, abolendo l'obbligo per il Gestore dei servizi elettrici (con valore retroattivo) di acquistare i certificati verdi rimasti invenduti sul mercato. Sono appunto i certificati verdi che finanziano tutte le fonti rinnovabili, tranne il fotovoltaico: non con i soldi dei contribuenti, ma delle compagnie energetiche che producono elettricità da fonti fossili. In pratica, il certificato verde è una penalità: chi genera energia ha l'obbligo di produrne una quota (ora del 6%) da fonti rinnovabili, ma se non ci arriva deve acquistarla sul mercato, in forma di certificati verdi, venduti dalle aziende specializzate nelle fonti rinnovabili per finanziare la propria attività. Il Gestore dei servizi elettrici fa da camera di compensazione di questo mercato: ne vende se c'è carenza di offerta e ne acquista se c'è carenza di domanda. I guadagni e le perdite vanno a incidere sulle bollette, abbassando o alzando la componente A3, che finanzia per l'appunto lo sviluppo delle fonti rinnovabili.


Il governo ha deciso a suo tempo che questo meccanismo deve restare in piedi finché l'Italia non avrà raggiunto l'obiettivo richiesto dall'Europa al 2020: una quota del 30% di fonti rinnovabili sul mix energetico nazionale. Negli anni di vacche magre, quando le fonti rinnovabili erano merce rara, il Gse ha fatto lauti guadagni su questo mercato, vendendo i certificati che mancavano. Ma dall'anno scorso c'è un'eccedenza di certificati verdi sul mercato e quindi il Gse deve comprare, per non far crollare i prezzi. Questi titoli, che premiano la produzione di energia da fonti rinnovabili, ad oggi sono venduti in media a 88 euro per megawattora. Ma se mancasse l'intervento del Gse, come indicato dall'emendamento Calderoli, i prezzi scenderebbero a 60-65 euro. Equita Sim ha esaminato i possibili effetti negativi della nuova norma sulle aziende quotate attive su questo mercato e le ricadute stimate sul margine operativo lordo 2010-2011 rischiano di essere notevoli: del 20-25% per Alerion e per Erg Renew, del 6-7% per Iride, del 5% per Enel Green Power (debuttante in autunno), dell'1-2% per Hera e dell'1% per Edison.


"Interrompendo questo meccanismo, per di più con valore retroattivo, il governo ha generato sui progetti già in essere una grave situazione di insolvenza", spiega Togni. "Il sistema creditizio, che ha partecipato al finanziamento di circa 2,5 gigawatt di potenza concedendo finanziamenti per 4 miliardi e mezzo di euro, valuta che tali investimenti siano già a rischio default, per non parlare di quelli futuri per ulteriori 1,75 gigawatt di potenza", precisa Togni. In pratica, dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale le erogazioni dei finanziamenti già in essere verranno sospese e le distribuzioni di eventuali dividendi già maturati verranno bloccate, con impatto sui nuovi investimenti e sulla liquidità dei produttori. Non a caso, il provvedimento ha scatenato una vera e propria levata di scudi fra gli operatori, con reazioni di tutte le associazioni di categoria, dall'Aper all'Anev, dalla Fiper a Federambiente, passando per Fise Assoambiente. Perfino Emma Marcegaglia è intervenuta in prima persona a favore di una correzione.


"Speriamo che la norma venga rivista nel corso del dibattito in Parlamento - auspica Togni - ma anche in questo caso, con un fermo di almeno un paio di mesi, la crescita dell'eolico quest'anno resterà azzoppata e una parte dei 25mila lavoratori dell'eolico rischia il posto per il default tecnico degli impianti. Per non parlare della perdita di credibilità del Paese nei confronti di chi è venuto dall'estero a investire sul vento italiano".


14 giugno 2010

L'eolico europeo guarda al mare

L'eolico europeo guarda al mare. E Berlino farà da traino verso questa nuova frontiera. Leader continentale delle fonti rinnovabili, prima nell'eolico con 26 gigawatt complessivi, la Germania non aveva ancora affrontato il tema dell'offshore. Ma in maggio ha inaugurato il suo primo parco eolico nel Mare del Nord, Alpha Ventus. Ne seguiranno altri 25, con 1650 pale, che insieme ai piani di sviluppo degli altri Paesi nordici, dal Regno Unito alla Norvegia, andranno a rimpiazzare l'oro nero del Mare del Nord, in via di esaurimento. Il tutto legato da una supergrid capace di reggere le forti oscillazioni tipiche delle fonti rinnovabili, simile a quella in via di sviluppo per il progetto mediterraneo Desertec.


Mentre nel Mediterraneo si punterà sul sole, nel Mare del Nord si punta sul vento, una tecnologia ampiamente collaudata: basta investire sul campo. È quello che ha annunciato il governo britannico, che ha lanciato un piano da oltre 86 miliardi di euro per la costruzione di 9 campi offshore per un totale di 32 gigawatt di potenza. La Germania si è fissata l'obiettivo di arrivare a 25 gigawatt entro il 2030 e ha già concesso i permessi di costruzione per un totale di 8 gigawatt. Da qui al 2020 la Ue dovrebbe poter estrarre dal vento offshore 55-60 gigawatt, quasi altrettanti della potenza eolica attuale. La Offshore Grid Initiative coinvolge i dieci Paesi europei che si affacciano sul Mare del Nord e sul Baltico. L'intesa politica c'è già e le trattative sono in corso per siglare un memorandum entro la fine di quest'anno, con il sostegno di tutte le compagnie elettriche dell'area, da E.on a Vattenfall, da Vestas a Rwe. Ma è la rete, che unirà i centri di produzione e quelli di consumo, l'investimento principale del progetto. Si tratta di linee di corrente continua ad alta tensione, già sviluppate dalla Abb e dalla Siemens: in totale ci sarà bisogno di 6 mila chilometri di cavi, molto più grossi di quelli attuali dell'alta tensione e molto più performanti. Per l'European Wind Energy Association, ci vorranno 30 miliardi di euro. Ma è presto per fare valutazioni complessive. Al momento di sicuri ci sono solo i 165 milioni di euro che la Commissione Europea ha messo sul tavolo per il piano di connessione tra i campi eolici del Mare del Nord e del Mar Baltico, un piccolo inizio ma un tassello importante della supergrid.


Se la partita principale dell'eolico offshore si gioca a Nord, non è chiusa per chi si affaccia a Sud. In Italia, i progetti di un  decina di aziende si concentrano in Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, ma con diversi stadi di avanzamento. Il primo e, per ora, unico campo eolico offshore autorizzato in Italia è quello della milanese Effeventi, di Luca Wagner, nelle acque di fronte a Termoli e a Montenero di Bisaccia: la Corte Costituzionale ha rigettato per incostituzionalità il divieto imposto dalla Regione. Il parco eolico San Michele prevede 54 torri alte 80 metri, della potenza complessiva di 162 megawatt. Stesso problema per Trevi Energy, di Davide Trevisani, che punta invece sulla Puglia: anche lì la giunta regionale ha appena espresso parere sfavorevole di compatibilità ambientale per i due campi eolici offshore proposti, uno da 150 megawatt al largo della costa foggiana al confine con il Molise e l'altro da 300 megawatt davanti a Manfredonia. Ma non è detta l'ultima parola, anche se il gruppo Trevi ha già dovuto ritirarsi da un progetto analogo in Sardegna. La Puglia ha dato invece parere favorevole a un campo eolico al largo di Tricase, nel Salento: il progetto della Sky Saver riguarda l'installazione di 24 pale per un totale di 90 megawatt, a una distanza di 20 chilometri dalla costa. Essendo in mare aperto, in questo caso le turbine non potranno essere ancorate al fondo ma sospese su piattaforme galleggianti.


Incerto anche il destino per la joint venture Enel-Moncada, che prevede 115 torri nel golfo di Gela: Legambiente Sicilia aveva dato fin dall'inizio il suo sostegno al progetto, ma i comuni prospicenti sono tutti contrari. Ma anche qui non è detta l'ultima parola. L'autorizzazione finale in materia energetica, infatti, spetta allo Stato: il parere degli enti locali ha un valore solo consultivo. Tanto è vero che, malgrado le resistenze locali - ben nota quella di Vittorio Sgarbi in quanto sindaco di Salemi - la Sicilia è una delle regioni italiane dove l'eolico cresce di più: secondo i dati di Terna, ci sono momenti in cui l'energia del vento soddisfa il 60% del fabbisogno dell'isola.


11 giugno 2010

Treno batte aereo sul podio della modernità

Fino a pochi anni fa, la ferrovia sembrava un relitto dell'altro secolo. L'aereo simboleggiava l'idea del futuro e del progresso tecnologico. Oggi no. Il treno è di ritorno. L'alta velocità lo ha rimesso sui binari, con i treni-proiettile che sfrecciano in Europa, Cina, India, Corea e presto anche negli Usa di Barack Obama.


La rinascita dei treni coincide, guarda caso, con la rivoluzione della mobilità sostenibile: milioni di persone si pongono ogni giorno il problema di ridurre l'impronta ambientale dei propri spostamenti. Il trasporto aereo è il grande incriminato di fronte al tribunale dell'effetto serra. Volare è una delle azioni che dà i peggiori mal di pancia agli ambientalisti militanti, tanto che le compagnie più avvedute stanno tentando in tutti i modi di sostituire il kerosene con i biocombustibili. Il treno, alimentato dalla rete elettrica, è un mezzo marcatamente più pulito, soprattutto se viaggia in Paesi dove prevale il kilowattora nucleare. Non è un caso che l'alta velocità ferroviaria in Europa sia nata in Francia (e in Asia in Giappone), dove l'elettricità è prodotta all'80% grazie all'atomo, quindi con risorse interne e a costi vantaggiosi. Il "bollino verde" del treno si appanna un po' nei Paesi come l'Italia, dove le centrali elettriche vanno per oltre l'80% a combustibili fossili. Resta comunque il fatto che i consumi a chilometro di un treno sono molto più ridotti di quelli di un aereo e che la produzione concentrata di energia è sempre molto più efficiente e pulita della produzione distribuita. In altri termini, fra aerei e treni c'è la stessa relazione esistente fra una flotta di auto a benzina e una corrispondente di auto elettriche: venisse anche da combustibili fossili, l'alimentazione delle auto elettriche sarebbe sempre più pulita, semplicemente perché l'energia prodotta in una centrale inquina meno di cento scappamenti.


Felici, quindi, i Paesi dove i treni hanno già sostituito l'aereo: in tutta Europa, da Berlino a Madrid, da Vienna a Londra, cadono come mosche le tratte aeree che gareggiano con tratte ferroviarie entro le tre ore. Tra Parigi e Bruxelles i passeggeri dei cinque voli quotidiani si sono trasferiti da tempo sul Thalys, lo stesso è accaduto da Londra a Parigi, da Basilea a Francoforte o da Madrid a Barcellona. Sono 560 i Tgv francesi in circolazione e 350 gli Ice tedeschi, ma solo 60 i Frecciarossa italiani. Il reticolo dei treni-proiettile si allarga a vista d'occhio dappertutto, tranne che in Italia. Per anni ci è stato spiegato che il Corridoio 5 – ovvero il corridoio ad alta velocità che dovrebbe collegare Torino a Trieste – è un'infrastruttura indispensabile per il sistema Paese. Ma per il momento l'alta velocità italiana disegna solo una linea longitudinale sulla penisola, da Torino a Milano e poi da qui a Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Da Milano verso Est non c'è nulla. O meglio, c'è solo la mini tratta Milano-Treviglio. Poi il buio, che resterà fitto ancora per molti anni, perché la tratta per Brescia e Verona non è stata ancora finanziata, la progettazione della Verona-Padova è stata rimandata a dopo il 2011 e il tracciato Venezia-Trieste nemmeno pensato. Il ritardo pesa su tutto il Nord Est e anche sul collegamento con i mercati dell'Est europeo, oltre che sulla messa in rete dei porti adriatici e la nuova autostrada del mare.


Verso Nord, poi, i collegamenti ferroviari veloci con l'Europa hanno un grosso limite: le Alpi. Esteso per 1200 chilometri da Lubiana a Nizza, a cavallo su sette Paesi, l'arco alpino si erge come un grande muro al centro del Vecchio Continente, tagliando fuori lo Stivale. E anche su questo fronte le novità accadono altrove. Di qui al 2017 sono in progetto o in costruzione quattro nuovi mega-tunnel che potrebbero riscattare il Belpaese dal suo isolamento plurimillenario. Le quattro opere ciclopiche, equivalenti all'Eurotunnel sotto la Manica, non assomigliano più in nulla alle antiche gallerie di scavalcamento delle cime più alte, perché scavano le montagne alla base in modo da non costringere i treni a superare dislivelli che impedirebbero l'uso dell'alta velocità. Il più occidentale consentirà di viaggiare fra Torino e Parigi in meno di tre ore, il più orientale di raggiungere Monaco da Verona in poco più di due ore, i due centrali di collegare Milano con Zurigo in due ore e quaranta e con Basilea in tre ore, offrendo così ai passeggeri italiani una connessione ottimale con il sistema ferroviario continentale e liberando le strette valli montane dalla valanga soffocante del traffico - soprattutto merci - transalpino su gomma.


Per ora solo due di questi progetti sono già in corso di realizzazione: quelli svizzeri. Il nuovo tunnel del San Gottardo, sulla tratta Milano-Zurigo, sarà lungo 57 chilometri (il vecchio, del 1882, è di 15) e sarà completato da altre due gallerie di base, a Nord e a Sud, lunghe in tutto 25 chilometri, sotto il Zimmerberg e sotto il Monte Ceneri. Faraonica è un aggettivo modesto per quest'opera, destinata a estrarre dalla montagna materiale sufficiente per costruire sette piramidi di Cheope: sarà la più lunga galleria ferroviaria del mondo. L'inaugurazione è prevista per il 2017. Il nuovo tunnel del Loetschberg, sul tracciato Milano-Berna-Basilea, è lungo 35 chilometri (l'attuale, del 1905, è di 14) e la prima galleria è già entrata in esercizio dal 2007, mentre la seconda è fatta per due terzi. Ma anche quando in Svizzera tutto sarà pronto, mancheranno le tratte di collegamento con l'alta velocità italiana, dal confine a Milano. Vanno molto più a rilento, invece, i due progetti italo-francese e italo-austriaco. E intanto il treno del futuro ci passa accanto.


8 giugno 2010

Bioetanolo da scarti agricoli: un prototipo a Comacchio

Paglia, legno e scarti vegetali in genere, ma anche vinacce, pastazzo di agrumi, cruscami, bucce di pomodoro, residui dei semi di soia e del cotone. Sono queste le materie prime utilizzate da Umberto Manola, inventore della tecnologia Hyst (Hypercritical Separation Technology), per ricavare farine alimentari, cellulosa per l’industria dei biocarburanti (bioetanolo), combustibili solidi (lignina) per il settore delle bioenergie, fibre di cellulosa per l’industria cartaria e chimica. Il processo consiste nel separare le componenti della materia prima immessa facendo scontrare tra di loro, ad alta velocità, le particelle di biomassa trasportata da getti d'aria contrapposti. Il sistema, che sarà commercializzato dalla BioHyst, consente di trasformare le biomasse residue provenienti dalle attività agricole o dall’industria agroalimentare in matrici ricche di amido, facilmente fermentabili in etanolo, con costi e consumi energetici estremamente ridotti. Il prototipo, a San Giuseppe di Comacchio, nelle valli ferraresi, lavora ogni ora due tonnellate di materiale, ma potrebbe arrivare fino a sette: è stato presentato la settimana scorsa al responsabile del gruppo sistemi vegetali per prodotti industriali dell’Enea, Vito Pignatelli. "L’Enea è interessata a questa tecnologia - ha detto Pignatelli - per l’applicazione nel campo dei biocombustibili, ma si potrebbe pensare di applicarla anche per la separazione degli elementi radioattivi dalle scorie prodotte dall’industria nucleare". "Questa tecnologia, brevettata e accompaganata da un software specifico, è nata in decenni di sperimentazioni, derivate dall'esigenza di valorizzare gli scarti dei mulini", spiega Daniele Lattanzi, responsabile della strategia di BioHyst. I settori su cui punta BioHyst sono le energie alternative e l'alimentazione, con uno sguardo particolare alle aree più povere del pianeta. "Il nostro obiettivo è fornire in comodato d'uso gratuito alcune decine d'impianti ai Paesi in via di sviluppo", precisa Lattanzi, che è già in trattative avanzate con il governo del Senegal. La diffusione della tecnologia BioHyst nei Paesi industrializzati sarà funzionale alla raccolta di risorse da investire nella costruzione di impianti per i Paesi poveri. "Nella mangimistica, ad esempio, la nostra tecnologia porta enormi risparmi, sostituendo l'orzo con gli stocchi di mais come fonte di amido si può tagliare del 30-40% i costi di approvvigionamento".


4 giugno 2010

Per l'acqua serve una vera Authority

La consapevolezza passa per la trasparenza. «Ma se i dati sul sistema idrico non ci sono, come fanno a essere trasparenti?». Questo, secondo Roberto Passino, presidente del Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche, è il problema fondamentale. Passino, che è anche direttore dell' Istituto di ricerca sulle acque al Cnr, ne sa qualcosa: «L' ultimo quadro aggiornato del fabbisogno lo abbiamo fatto noi dell' istituto nel ' 99 - dice -. Una ricerca molto approfondita, ma anche quella basata su stime, mai su dati a consuntivo, perché gran parte dei consumi non si pagano o vengono pagati a forfait. Dopo di che, il nulla. Come si può pensare di governare un sistema su queste premesse?». Appunto. «Non si può. Del resto, manca un' Authority unitaria, come quella per l' energia. Il sistema idrico è frammentato e difficile da controllare. La struttura dell' approvvigionamento potabile, che pure soffre di innumerevoli allacciamenti abusivi e falle di ogni tipo, è l' unica di cui si può tracciare un perimetro relativamente preciso, se non altro perché gestita da aziende che hanno interesse a farsi pagare. Ma interessa meno del 20% del sistema». E il resto? «Il grosso del nostro patrimonio idrico è dato in concessione ai consorzi di bonifica, per soddisfare le esigenze irrigue degli agricoltori. Ma il sistema normativo che ha istituito i consorzi risale agli anni Trenta, quando si voleva incentivare l' uso dell' acqua per modernizzare un' agricoltura ancora arretrata, basandosi su una risorsa abbondante, anzi eccessiva. Erano gli anni in cui le pompe idrovore bonificavano le paludi della Pianura Padana aspirando l' acqua dalla terra e scaricandola nel Po. Oggi succede l' esatto contrario, con le chiatte che aspirano l' acqua del Po e la indirizzano verso i terreni agricoli». Senza monitoraggio? «Nella maggior parte dei casi, le tariffe non sono a consumo e quindi non c' è ragione di misurare precisamente i prelievi. I dati sul fabbisogno degli agricoltori sono stimati su parametri soggettivi e probabilmente riduttivi rispetto alla realtà. E se gli acquedotti italiani perdono il 40% dell' acqua prelevata alla fonte, non è nemmeno immaginabile la quantità di perdite delle reti irrigue. Per non parlare dei prelievi abusivi, che nel settore agricolo sono all' ordine del giorno, come anche negli usi industriali». I pozzi non vanno autorizzati? «Certamente. Ma da quando la legge Galli ha imposto il censimento dei punti di prelievo sotterraneo, nel ' 94, tutti si sono affrettati a costruirne di abusivi. Da allora ad oggi la scadenza delle notifiche è stata prorogata per otto volte in sordina, inserendo la norma in provvedimenti omnibus per mimetizzarla. Come con i condoni edilizi, questo modo di procedere incentiva gli abusi». E dunque? «Dunque non si conoscono i punti di prelievo sotterraneo e questo è uno dei motivi della crisi strutturale del sistema. I dati di utilizzo devono essere riordinati e monitorati. In questo modo si incentiverebbe anche l' uso di tecniche d' irrigazione più efficienti. Non dimentichiamo che la madre delle grandi imprese specializzate nelle tecnologie dell' acqua è la normativa restrittiva imposta nei loro Paesi d' origine. La necessità di diventare efficienti aguzza l' ingegno». Ma i titolari delle concessioni dovranno pur pagare un canone. «È un canone ridicolmente basso, che non supera l' 1% del prezzo finale agli utenti. Per di più, molti consorzi di bonifica fanno anche commercio dell' acqua che hanno in concessione, vendendo l' utilizzo di acqua agricola per altri scopi: ad esempio la produzione elettrica, con ottimi profitti». Basterebbe aumentare il canone... «Non è così semplice. Occorre soprattutto rivedere i concetti che stanno alla base delle concessioni, rispettando le compatibilità economiche dei concessionari. Non bisogna dimenticare che anche queste concessioni, come tutte le altre in vigore in Italia, devono essere governate dai concedenti, non dai concessionari. Questo è un concetto che negli anni si è un pò perso di vista». Santuari difficili da smantellare? «I santuari vanno toccati e nella revisione del decreto ambiente, ora allo studio del ministro, ci sono diverse proposte radicali sulla gestione dell' acqua. Il sistema idrico italiano ha già dato troppo da mangiare oltre che da bere. Ora è arrivato il momento di cambiare questa cultura dei grandi finanziamenti e dei grandi sprechi per dedicarsi un po' all' efficientamento delle strutture che ci sono già. L' acqua in Italia c' è, basta smettere di rubarla e di buttarla via».

3 giugno 2010

La spazzatura viaggia sotto terra a 70 km all'ora

Niente cassonetti, niente camion dei rifiuti. E niente monnezza per le strade. Com'è possibile? A Stoccolma e a Barcellona hanno già scoperto il trucco, ora la tecnologia Automatic Waste System potrebbe arrivare anche da noi, attraverso i fratelli Beretta e la loro Oppent, leader in Italia della movimentazione automatizzata.


Oppent

Il sistema è relativamente semplice e assomiglia a quello della vecchia posta pneumatica: la spazzatura viene risucchiata a 70 chiometri all'ora attraverso tubazioni metalliche sotto vuoto, convogliata nei centri di raccolta, compressa e inscatolata in container, pronti per il trasporto al trattamento finale. Può essere applicato a un palazzo solo, a un quartiere o a una città intera. In Italia il primo centro residenziale che si doterà della tecnologia Oppent è l'Eurosky Tower, il più alto grattacielo di Roma in costruzione all'interno dell'Europarco, ideato da Franco Purini come un modello di efficienza energetica. Ma c'è una settantina di progetti residenziali dove si sta prendendo in considerazione questa tecnologia, da Porta Nuova e City Life a Milano all'Umberto I di Mestre, passando da Bagnoli Futura a Napoli. "Per gli insediamenti nuovi, la realizzazione è più semplice, le stazioni di partenza si inseriscono direttamente nel corpo dell'edificio, così i rifiuti non escono mai all'aperto", spiega Alberto Beretta, amministratore delegato di Oppent. Così il sistema è nato, quarant'anni fa in Svezia, dove fu applicato per la prima volta ai quartieri popolari costruiti alla periferia di Stoccolma. Così viene sviluppato oggi in Corea del Sud, dove una legge impone ai costruttori di prevedere un impianto di raccolta automatizzata per ogni nuovo edificio residenziale. "Laggiù c'è un vero e proprio boom, ne stiamo installando diversi, perché il governo non vuole farsi travolgere dall'inurbamento galoppante", precisa Beretta.


Ma lo stesso sistema può essere applicato anche a insediamenti già esistenti o addirittura antichi, come si sta facendo a Barcellona, dove si costruisce un impianto all'anno, con l'obiettivo di coprire tutta la città. In Italia c'è il caso del comune piemontese di Venaria Reale, poco più di diecimila abitanti e oltre un milione di visitatori all'anno, attirati soprattutto dalla Reggia Sabauda: qui è in corso una gara per automatizzare completamente la raccolta rifiuti. "In questo caso le stazioni di partenza dovranno essere ubicate a livello stradale, ma funzioneranno nello stesso modo: i sacchetti cadono per gravità e si depositano sulle valvole alla base, dove comincia il tubo di trasporto pneumatico. Arrivate a un certo livello di riempimento, le valvole si aprono e i tubi aspirano i rifiuti fino alla centrale di raccolta, lì c'è una macchina che espelle l'aria, la filtra e la fa uscire pulita. Poi i rifiuti vengono compattati automaticamente e inseriti nel container fino a quando è saturo". Per un comune come Venaria Reale bastano due centrali di raccolta, che di solito si cerca di collocare fuori dal centro urbano, per evitare il passaggio dei camion. "In ogni caso - precisa Beretta - si tratta di normali camion portacontainer, non di camion della spazzatura, che sono molto più pesanti e rumorosi, e ne bastano pochi perché la spazzatura è già stata raccolta e compressa".


I vantaggi sono evidenti. Da un lato spariscono i cassonetti, dall'altro i camion. Drastica riduzione delle emissioni per i trasporti, quindi, e anche dell'inquinamento acustico. Miglioramento del decoro urbano, anche nel caso della raccolta porta a porta, che spesso significa montagne d'immondizie per strada nelle ore notturne. E incentivazione della raccolta differenziata. "Dalle indagini svolte a livello internazionale si evince che un sistema automatizzato spinge gli utenti a un maggiore rispetto delle regole, se non altro perché hanno l'impressione di un maggiore controllo", fa notare Beretta. In prospettiva, c'è anche il vantaggio di un risparmio per le casse del comune, che non dovrà più comprare costosissimi camion dei rifiuti e non avrà più bisogno di tutto il complesso sistema di raccolta.


1 giugno 2010

I big del solare calano sul Belpaese

L'Italia è diventata l'Eldorado del solare in questi anni di super-incentivi e i big internazionali non se lo sono fatto dire due volte. Malgrado le incertezze normative, il Belpaese ha guadagnato un'altra posizione, passando al sesto posto nella classifica mondiale di Ernst & Young sui Paesi maggiormente attraenti per gli investimenti nelle fonti rinnovabili. In base all'ultima classifica, che abbiamo scalato dall'ottavo posto nel 2007 al settimo nel 2008 fino al sesto di oggi, l'Italia ha ottenuto infatti un indice complessivo pari a 60, contro il 70 degli Stati Uniti (primi classificati), il 67 della Cina, il 64 della Germania e il 61 dell’India. Non c'è da stupirsi, dunque, se i big mondiali del solare sbarcano in massa nel Belpaese. Il colosso tedesco E.on ha recentemente avviato le attività nel fotovoltaico in Francia e in Italia, dove ha messo in funzione lo scorso dicembre il suo primo parco in Sardegna, accanto alla centrale di Fiume Santo. "Il nostro obiettivo è di raggiungere 80 megawatt fotovoltaici entro l'anno prossimo, con progetti in varie regioni d'Italia", annuncia l'ad di E.on Italia Klaus Schaefer. Siemens scommette invece sul solare termodinamico a concentrazione, che in Italia sta diventando una filiera importante, con a capo l'avvenieristico stabilimento in costruzione in Umbria di Archimede Solar Energy, del gruppo Angelantoni, dove Siemens è entrata al 30%. La nuova fabbrica produrrà i tubi ricevitori per i sali fusi, su cui si concentra tutto il calore intensissimo generato dagli specchi ricurvi, di cui Archimede è l'unico produttore al mondo. SolarWorld, la più nota impresa del fotovoltaico in Germania - anche grazie all'esuberanza del suo principale azionista, Frank Asbeck, uno dei fondatori dei Verdi tedeschi - punta direttamente sul Vaticano: dopo aver donato alla Santa Sede un impianto che riscalda e illumina l'immensa aula dove il Papa, durante l'inverno, riceve ogni mercoledì migliaia di fedeli, ora è in pole position per il maxi impianto da 100 megwatt che il Vaticano intende realizzare a Santa Maria di Galeria. Ma sull'energia del sole non ci sono solo i tedeschi: il colosso russo Renova dell’imprenditore Viktor Vekselberg è entrato in Kerself con una quota del 15% attraverso la controllata Avelar Energy. "Consideriamo il fotovoltaico strategico e continueremo a crescere nel settore", ha annunciato recentemente l'ad di Avelar, Igor Akhmerov, ricordando che nel 2011 partirà la produzione dello stabilimento di moduli a film sottile da 120 megawatt l’anno che Renova sta realizzando nel polo tecnologico russo di Khimprom. SunTech, il gigante del fotovoltaico cinese, ha già al suo attivo parecchie grosse installazioni in Italia realizzate con i suoi moduli, fra cui l'impianto Statkraft di Aprilia da 3,3 megawatt, quello di Manifatture Sigaro Toscano a Lucca e un altro a Castel San Giovanni, e ne ha altri in pipeline. I norvegesi di Statkraft, primo gruppo europeo per la produzione di energia da fonti rinnovabili, sono sbarcati in sottotono, con un impianto da 3,3 megawatt a Latina, ma hanno già firmato un accordo con Solar Utility per l'acquisto di 8 impianti fotovoltaici in Puglia e progettano altri 40 megawatt entro fine anno. Sarà la spagnola Siliken a realizzare "chiavi in mano" il maxi-impianto fotovoltaico da 9,8 megawatt a Fiumicino per Fotowatio Renewable Ventures e Solesa Green Power. Sempre gli spagnoli di Fotowatio hanno appena annunciato la firma di un accordo da 125 milioni di euro con BP Solar per la costruzione in Italia di impianti per un totale di 37 megawatt. Anche canadesi e portoghesi stanno rafforzando la loro presenza in Italia: Canadian Solar ha annunciato un accordo per fornire già quest'anno 60 megawatt di moduli a Fire Energy Group per i mercati italiano, spagnolo e tedesco, mentre la portoghese Martifer Solar ha fatto sapere che realizzerà entro il terzo trimestre del 2010 altri due impianti nel Sud Italia da 4 e 2 megawatt. E sul fotovoltaico italiano punta anche il gruppo israeliano Gilatz, che ha firmato due lettere d'intenti per l'acquisto di 7 parchi solari per 25,8 milioni di euro, dopo i primi due già comprati all'inizio di quest'anno.