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8 marzo 2010

Le piccole imprese alla sfida del nucleare

La sfida del nucleare si riaffaccia sul panorama industriale italiano. Piccole e grandi, le imprese della penisola non vogliono perdere l'occasione della rinascita dell'atomo, in patria e all'estero. Dopo vent'anni di sonno, oggi ci sono 53 centrali nucleari in costruzione nel mondo, di cui 4 di terza generazione, due in Europa di tecnologia francese e due in Cina di tecnologia nippo-americana. Un primo censimento è stato fatto il mese scorso dall'Enel e da Confindustria, che ha ospitato in un meeting ad hoc 351 imprese già qualificate o interessate alle qualifiche per lavorare nel nucleare. I grandi gruppi - come Saipem, Maire Tecnimont, Techint, Ansaldo - che hanno continuato a operare nel nucleare all'estero dopo lo stop italiano del 1987, si contano sulle dita di due mani. Ma fra le piccole e medie ce n'è almeno una trentina già qualificate e molte altre che avrebbero tutte le carte in regola per mettere a disposizione della rinascita atomica la loro professionalità nella componentistica, nell'elettronica, nei cementi di alta qualità, negli acciai speciali. Per la realizzazione di un impianto di terza generazione di tecnologia francese, si prevede un investimento di 4-4,5 miliardi di euro, di cui solo la metà è destinato alla cosiddetta isola nucleare, che comprende il reattore e gli apparati connessi, come i generatori di vapore, le sale controllo, gli impianti di sicurezza. Il resto va nell'isola convenzionale, che raccoglie i sistemi di conversione in elettricità - turbine, alternatori, ausiliari - dell'energia termica sviluppata dal reattore, e per un 20% nelle opere civili. In tutti e tre questi ambiti ci sono imprese italiane che già contribuiscono alla realizzazione del primo reattore francese di terza generazione, in costruzione a Flamanville, in Normandia: dal gruppo Aturia al gruppo Belleli, da Mangiarotti Nuclear a Tectubi (nell'articolo qui accanto), da Fomas alle Acciaierie Valbruna, da Forgiatura Modena a Sesia Fucine, tanto per citarne alcune. Molte di loro erano rimaste al palo con la conclusione della prima avventura nucleare italiana e si stanno attrezzando per partecipare alla rinascita dell'atomo. Mangiarotti Nuclear, ad esempio, ha ereditato il know-how nucleare con l'acquisizione della fabbrica di componenti ex-Breda, poi Ansaldo, della Bicocca a Milano, che ora vorrebbe trasferire nel nuovo stabilimento di Monfalcone, pronto entro la fine dell'anno. Impianti di dimensioni importanti come i generatori a vapore che costruiva l'ex Breda sono molto pesanti e il gruppo Mangiarotti ha investito 100 milioni per trasferire la produzione sul mare, da dove spera sarà più facile vincere le gare di appalto. La brianzola Fomas, da parte sua, ha investito 250 milioni per ampliare 4 siti produttivi, di cui 2 in Italia, uno in Cina e uno in India, per star dietro alle commesse di forgiati destinati al circuito primario e secondario nelle centrali nucleari di tutto il mondo, dalla Francia alla Svezia, dalla Cina agli Stati Uniti. Nel Vicentino è nato addirittura un polo nucleare con tre imprese già qualificate, Forgital Italy di Velo d'Astico, Acciaierie Valbruna e Safas di Vicenza, grazie alla lunga tradizione nella lavorazione dei metalli e a un'esperienza consolidata nel comparto energetico e in settori contigui, come l'aerospaziale, in cui la qualità delle leghe e la precisione realizzativa sono fondamentali. Ma la rivoluzione in corso non investe solo il mondo del manifatturiero. Il ritorno del nucleare ha vaste ripercussioni di sistema, dalla ricerca alla formazione, fino a tutti i servizi collaterali. In prima linea c'è l'Enea, con il commissario Giovanni Lelli, che si candida a certificare il nucleare italiano, offrendo alle imprese italiane le sue strutture altamente specializzate per le prove di qualificazione nucleare di componenti e sistemi da installare nelle centrali. Sul piano nucleare italiano, dopo il via al decreto sui criteri per i siti, aleggia ancora l'incertezza politica. La guerra governo-Regioni infuria a colpi di ricorsi alla Consulta e tra gli stessi amministratori di centro-destra la linea prevalente è quella del "sì, ma non qui". Si compatta, a maggior ragione, l'opposizione: il "no" va da Rifondazione fino al referendum no nukes dell'Italia dei Valori, attraversando anche uomini del Pd, come Pier Luigi Bersani, che antinuclearisti non sono. Passate le regionali se ne parlerà con meno intralci? Certo è che la difficile corsa nel labirinto normativo è molto in ritardo. Lo statuto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che doveva essere varato entro il 15 novembre, non si è ancora visto. E manca anche il nome del presidente. La posa della prima pietra entro fine legislatura, cioè entro il 2013, diventa sempre più improbabile. Ma se alla fine i quattro reattori Enel-Edf dei progetti governativi venissero davvero realizzati, nonostante l'opposizione e i ritardi, si parla di 16-18 miliardi d'investimento, di cui almeno 12 potrebbero andare in commesse alle aziende italiane. Per la seconda cordata, interessata a realizzare l'altra metà del programma nucleare del governo, i tempi sono ancora più lunghi, ma già diversi colossi elettrici si sono dichiarati interessati, dalla tedesca E.on alla milanese A2A. L'ipotesi della seconda cordata è una scelta politica importante, perché consentirebbe di diversificare le imprese e le tecnologie adottate. L'asse italo-francese si basa sul reattore Epr da 1600 megawatt, progettato da Areva (il braccio nucleare di Edf) e già in costruzione in Normandia, con la partecipazione dell'Enel. La seconda cordata, invece, potrebbe adottare la tecnologia di terza generazione nippo-americana, l'AP1000 di Westinghouse, in cui Ansaldo svolge un ruolo centrale.

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