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18 novembre 2008

Dale Jorgenson

Nel giugno del 2003 uscì su Harvard Business Review un articolo di Nicholas Carr intitolato "Perché l' IT non è più importante". Una bomba. Per l' industria americana, che sull' information technology aveva basato un balzo di produttività tale da indurre nel mite Alan Greenspan la convinzione di aver scoperto il moto perpetuo (ovvero la crescita senza inflazione), l' articolo di Carr fu a dir poco un insulto. Per Dale Jorgenson, uno dei massimi esperti mondiali di crescita e nuove tecnologie, non è solo un insulto ma un atto di pericolosa arroganza.
Dunque gli investimenti in information technology continuano a essere importanti per la competitività delle aziende?
«Molto importanti. L' information technology, particolarmente nei mercati dove non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità, è un elemento di competitività essenziale. Rallentare il processo di svecchiamento, soprattutto nel settore dei servizi, dove l' Europa è molto indietro rispetto agli Usa, porterebbe a una deleteria involuzione».
Carr sostiene che l' IT è diventata ormai come l' elettricità o il telefono: qualcosa di cui non si può fare a meno, ma che non costituisce un vantaggio competitivo per nessuno.
«Un discorso di questo tipo può valere al massimo per gli Stati Uniti, dove l' utilizzo delle nuove tecnologie è talmente pervasivo da renderle scontate. In un mercato dove la disponibilità di risorse è tanto vasta, la risposta al problema posto da Carr sta nello "utility computing". I manager americani puntano sempre di più ad acquistare le risorse informatiche da un fornitore specializzato, come si fa con l' elettricità o con le tlc, anziché costruirsi la propria centrale interna. Questo consente alle imprese di consumare una quantità di risorse variabile a seconda delle necessità del business, con una tariffazione a consumo».
E in Europa?
«Ma in Europa e particolarmente in Italia, dove i servizi finanziari sono ancora erogati principalmente allo sportello e il commercio elettronico è ai primordi, è presto per porsi questo problema. Qui l' investimento in nuove tecnologie è ancora talmente basso e le opportunità di business per le imprese innovative talmente vaste, che vale la pena spingere l' acceleratore al massimo».
Che cosa emerge dai suoi studi sull' esperienza americana?
«Analizzando l' esperienza degli Stati Uniti nel mio ultimo libro "Produttività" (Mit Press), ho identificato nel mondo delle imprese quattro settori che producono IT, 17 settori che la utilizzano in maniera massiccia e 23 settori per cui non è un fattore essenziale. Da questo studio risulta che i settori produttori e grandi utilizzatori abbiano svolto un ruolo assolutamente sproporzionato nella crescita economica americana dell' ultimo decennio. Questi settori rappresentano soltanto il 30 per cento del Pil americano ma hanno contribuito a metà dell' accelerazione nella crescita. Nel contempo, emerge che le vaste disparità di crescita nell' ambito dei Paesi del G7 dipendono proprio dal diverso impatto dell' IT sulle singole economie».
Dunque la lentezza nella crescita europea discende dal minore utilizzo delle nuove tecnologie?
«Il balzo di produttività che ha sostenuto la crescita americana nel decennio 1995-2005 in Europa non c' è stato: qui la produttività è cresciuta della metà rispetto agli Usa. E in Italia ancora un po' di meno rispetto alle medie europee. E' chiaro che ci sia un legame fra questa differenza e il gap nella crescita economica fra le due sponde dell' Atlantico».
Da cosa dipende questa differenza?
«Per sfruttare a fondo le potenzialità delle nuove tecnologie ci vuole la libera concorrenza e quindi un mercato unico, dove le imprese possano muoversi senza barriere su tutto il continente e competere da pari a pari. E' questo che manca in Europa, soprattutto nell' ambito dei servizi. Per i consumatori è un danno colossale».
Ma sono proprio le imprese, spesso, a resistere alle liberalizzazioni. Basta guardare cos' è successo nel caso della direttiva Bolkestein...
«Solo gli incumbent resistono alle liberalizzazioni. Le altre imprese avrebbero tutto l' interesse a competere liberamente sull' intero continente: consentirebbe economie di scala gigantesche e un enorme efficientamento».
Ma spesso i nuovi entranti in un Paese sono gli incumbent in un altro e quindi si alleano fra di loro per mantenere le cose come stanno.
«Come dice un mio amico europeo, è una guerra di trincea. Stanare i privilegiati e farli sloggiare dalle loro posizioni è un processo lento, che va avviato il prima possibile. La direttiva europea passata in dicembre è un buon strumento, anche se ha annacquato la Bolkestein. Ma va implementata in fretta, altrimenti l' Europa continuerà a perdere terreno».

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