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14 novembre 2008

Il boom del private equity: barbarians at the gate?

In The Manchurian Candidate, il film di Jonathan Demme, un fondo di private equity per la prima volta svolge la parte del cattivo, della potenza oscura che cospira per controllare il cervello del presidente degli Stati Uniti. Hollywood è un termometro accurato, non solo di ciò che è popolare, ma anche dei timori degli americani. I timori nascono dalla crescita smisurata di questo mercato (agli inizi degli anni Ottanta era quasi inesistente, oggi viene stimato sui 1.300 miliardi di dollari) e crescono confrontandosi con la sua stessa natura: non essendo in genere quotate, tranne Blackstone che ha appena compiuto il grande salto, le società di private equity sono poco trasparenti e inaccessibili ai comuni investitori. I loro padroni, volto nuovo del capitalismo americano, sabituati a muoversi in silenzio, non rilasciano interviste, spesso nessuno li ha mai visti in faccia. E navigano bene in quest'aura di mistero. Ma con le ultime operazioni, sono diventati troppo grossi per continuare a nascondersi. Cerberus si è appena comprato Chrysler. Colony Capital ha conquistato la libica Tamoil. La compagnia elettrica Txu è andata a Texas Pacific (pretendente anche di Alitalia nella prima fase) per 45 miliardi di dollari. Equity Office a Blackstone per 38 miliardi. Hospital Corporation of America, per 32 miliardi, a Kohlberg Kravis Roberts. Queste operazioni battono il record segnato dalla famigerata vendita della Nabisco a Kkr per 30 miliardi nel lontano '89 e rispecchiano il salto di qualità di un settore a lungo osteggiato ma ormai inarrestabile. "Barbarians at the Gate", il libro scritto dai giornalisti Bryan Burrough e John Helyar per raccontare l'acquisizione della Nabisco, all'incrocio fra il tramonto dell'edonismo reaganiano e le prime luci dell'alba delle dot-com, ha venduto milioni di copie e affibbiato per sempre il nomignolo di barbari ai fondi di private equity, definiti anche liberamente locuste o avvoltoi, a seconda delle situazioni. Ma ora che i barbari sono davvero alle porte, conviene andare più a fondo del semplice episodio di cronaca, perché ormai un euro ogni quattro spesi in acquisizioni viene da loro. Standard & Poor's calcola che nel 2006 le operazioni di private equity abbiano raggiunto un valore totale di 430 miliardi di dollari, più o meno equamente distribuiti fra America ed Europa. Nel 2001 erano a 40 miliardi in tutto. In Italia, a dire il vero, si è visto poco: appena 3,7 miliardi sui 220 spesi in Europa. Il bello, quindi, deve ancora venire. Ma indubbiamente arriverà, con il consueto ritardo che ci caratterizza sempre. Già si è visto un primo assaggio con l'ingresso di Permira in Valentino, avviato verso il delisting. Basterà poco, quindi, per dipingerli al largo pubblico come una congiura dei potenti ai danni dei piccoli risparmiatori. Ma lungi dall'essere un'oscura forza del male, il private equity è un propellente essenziale, una componente fondamentale del miracolo americano degli ultimi quindici anni, con un aumento della produttività quasi doppio rispetto all'Europa. Per crescere è necessario cambiare. Nuove imprese devono nascere e le imprese esistenti devono ristrutturarsi o chiudere. In queste delicate fasi congiunturali, il modello di società a capitale diffuso presenta diversi svantaggi. L'incertezza è troppo elevata e le scelte da farsi troppo rischiose per affidarle al giudizio volubile del mercato azionario. È necessaria quindi una proprietà concentrata per far ricadere costi e benefici su chi fa queste scelte. E per finanziare la creazione o la ristrutturazione di un'impresa serve un investitore con sufficienti risorse per accompagnare l'impresa nei momenti difficili. Questo investitore deve anche avere la capacità e il tempo per consigliare l'impresa. Una volta questo mestiere era riservato ai super ricchi, ma non sempre costoro (soprattutto se hanno ereditato le loro fortune) hanno il fiuto per individuare gli investimenti più profittevoli. E in ogni caso il loro numero è limitato. Il private equity ovvia a questa carenza. Il private equity e il venture capital raccolgono da fondi pensione e investitori istituzionali le risorse da investire in società da ristrutturare e start up. Che gli investitori individuali ne siano generalmente esclusi non è un gran male, perché questi investimenti sono troppo rischiosi per il loro portafoglio. È grazie al private equity che nuove imprese come Apple e Microsoft, Netscape e Yahoo, Google e YouTube hanno avuto successo. E che gli Stati Uniti sono diventati leader nel settore informatico e in Internet, trasformandosi da obsoleto gigante industriale in potenza del terziario avanzato. Questo non significa che, come in tutti i mercati, non ci siano eccessi ed abusi. Nel venture capital, il pericolo maggiore sono gli eccessi. Alla fine degli anni Novanta l'enorme afflusso di fondi contribuì alla bolla speculativa: centinaia di milioni di dollari furono sprecati nell'illusione di creare il nuovo Amazon.com. Nel buyout market, quello su cui si muovono i fondi di private equity, il rischio più consistente è quello di abusi. Il caso più eclatante è quando una società quotata viene acquisita con l'appoggio del management. Grazie alle informazioni privilegiate di cui dispone il management, l'offerta di acquisto può essere formulata al momento in cui l'azienda è più sottovalutata dal mercato. Per evitare questo rischio esistono precise regole di disclosure, ma non sempre queste regole funzionano e il management - come sapientemente descritto nel libro di Burrough e Helyar - gode di un vantaggio significativo. Il rischio maggiore dei buyout fund, come sottolineato di recente dall'Economist, è per i suoi investitori. Uno studio di Steven Kaplan e Antoinette Schoar dimostra che, al netto delle commissioni, questi fondi rendono quanto l'indice di Borsa. Ma assumono molto più rischio. In media le imprese che compongono l'indice borsistico americano hanno un livello di debito pari al 30% del capitale investito. Mentre le imprese acquisite dai buyout fund hanno un debito pari all'80% del capitale. Le attività dei buyout fund sono quindi esposte alle fluttuazioni di mercato in misura più che doppia di un investimento nell'indice. È come se si comperasse l'indice di Borsa prendendo a prestito più di metà del capitale. Perché allora fondazioni, fondi pensioni, e celebri università continuano a investire nei buyout fund? Perché si trovano impossibilitate a effettuare direttamente investimenti così rischiosi. Quale fondazione potrebbe giustificare al suo consiglio di amministrazione di prendere a prestito per investire nell'indice? Il vantaggio dei buyout fund è che non sono costretti giornalmente a valutare a prezzi di mercato le loro partecipazioni: così facendo rendono più appetibili agli investitori istituzionali attività molto rischiose. Ma nonostante i benefici che hanno generato, i fondi di private equity restano sotto accusa. Forse per l'inquietante somiglianza di chi li controlla con i vecchi padroni delle ferriere, figli di quei robber barons che hanno dato origine al capitalismo moderno. I nuovi padroni sono gente schiva. Da Bill Conway e David Rubenstein, i pionieri di Carlyle, a Steve Schwarzman e Pete Peterson di Blackstone, da Henry Kravis e George Roberts di Kohlberg Kravis Roberts a Stephen Feinberg di Cerberus, passando per David Bonderman di Texas Pacific Group, sono quasi tutti cervelloni di umili origini, partiti dalla finanza pura per passare a occuparsi di management, con un occhio fisso ai profitti. Le loro passioni sono politically correct, anche se talvolta scivolano negli eccessi da parvenu. Bonderman e Schwarzman, ad esempio, condividono la passione per il rock: l'uno ha chiamato i Rolling Stones a suonare per il suo sessantesimo compleanno, l'altro Rod Stewart. Ma non è solo questo. Come ogni padrone delle ferriere che si rispetti, i nuovi robber barons non devono render conto a nessuno dei loro numeri e delle loro decisioni, essendo le loro aziende private, non quotate in Borsa e quindi non obbligate ad alcun tipo di trasparenza. Nei Paesi dove il capitalismo di mercato funziona e dove i padroni delle ferriere, pubblici o privati, non esistono più, è naturale che l'ascesa di questi signori faccia innervosire qualcuno. E' il modello basato sulle public companies, rese grandi dalla raccolta di capitali presso una miriade di risparmiatori passivi di lungo termine, che si ribella al proprio tramonto. Un modello che ha i suoi difetti, come tutti i sistemi maturi. Dove i padroni sono deboli, i manager sono spesso troppo forti. I loro compensi troppo alti. E le loro azioni troppo poco controllate. Da Enron a Parmalat, si è ben visto che anche le aziende quotate in Borsa possono sfuggire di mano. Ma è un modello che viene identificato da molti con un'epoca d'oro di crescita democratica delle società industrializzate. In Italia è tutta un'altra storia, perché grandi multinazionali sostanzialmente non ce ne sono, come dimostrato dall'ultimo rapporto dell'ufficio studi di Mediobanca. E quelle poche che abbiamo (Eni, Enel, Finmeccanica) comunque sono controllate dallo Stato o da singole grandi famiglie, come la Fiat. Il modello anglosassone delle public companies non ci ha mai intaccati. Quindi ben vengano i buyout fund. Non abbiamo niente da perdere e tutto da guadagnare.

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