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11 luglio 2003

Cattedrali laiche in onore del dio marchio

Per chi arriva a Wolfsburg, Autostadt è decisamente la principale attrazione. Basta attraversare il canale che sta di fronte alla stazione per essere fagocitati anima e corpo nel mondo Volkswagen. Si può immergersi nel processo produttivo osservando una catena di montaggio al lavoro o assaggiare la sensazione di stare al volante su un simulatore: ogni marchio della prima casa automobilistica europea trova il suo spazio sotto il gigantesco hangar di vetro, da Audi a Vw, da Skoda a Seat, da Bugatti a Lamborghini, ce n’è per tutti i gusti. Autostadt è uno degli esempi più riusciti di marketing in 3D e viene visitata ogni anno da un milione di persone, tanto che si sta lavorando a un progetto gemello a Dresda, la città dell’ex-Germania Est dove Vw ha delocalizzato parte della produzione. Come Autostadt, di parchi a tema legati a un marchio famoso in giro per il mondo ormai ce n’è tantissimi. Dalla Heineken Experience di Amsterdam alla Guinness Storehouse di Dublino, dall’American Girl Place di Chicago (American Girl è una bambola famosa come Barbie negli Usa) alla Cereal City della Kellogg’s. The World of Coca-Cola, ad Atlanta, è il capostipite e il più muscoloso: dall’apertura nel ’90 a oggi ha macinato dodici milioni di visitatori. Basta moltiplicare per i sei dollari di biglietto e si capisce perché la regina delle bollicine sta mettendo in cantiere un altro investimento da 50 milioni di dollari per un nuovo parco che aprirà nel 2006. Ma l’idea che ha portato alla nascita di queste cattedrali laiche dedicate al dio marchio non è tanto di spremere ulteriormente la propria già affezionata clientela, ma di offrire al pubblico qualche motivo in più per restare affezionati al prodotto. Un’immagine domestica, un senso di appartenenza, un’esperienza. “Experience Economy” la chiamano i guru del marketing: è l’evoluzione dell’economia industriale in economia dell’esperienza, dopo la fase dell’economia dei servizi. La creazione di un parco ispirato alle origini, al contesto geografico e culturale, al ruolo storico svolto da un certo prodotto all’interno della società in cui è nato parte dal concetto che ormai non si tratta più di vendere oggetti ma esperienze. Perché in fondo, come sanno bene i pubblicitari, l’acquisto razionale, dettato da un’effettiva necessità pratica, è sempre più raro. Si compra per soddifare esigenze di altro tipo e soprattutto per rafforzare la propria identità, che ha sempre più bisogno di puntelli esterni per tenersi in piedi. Tutte le grandi marche tentano di entrare nell’orbita dei propri clienti instaurando una relazione di appartenenza, un’identificazione culturale che va molto al di là della fruizione immediata del prodotto. La Casa Bacardi a Portorico, che ha appena aperto, cerca ad esempio di ricreare il mitico ambiente della Cuba pre-rivoluzionaria. Fuggiti dall’Avana nel ’59, poco prima che Fidel Castro sequestrasse tutti i loro impianti, i Bacardi avevano forse qualche ragione più degli altri per voler riprodurre il loro mondo perduto a portata di turista. Con un investimento da 7 milioni e un pubblico previsto di cinquemila ingressi al giorno, i re del rum puntano su Casa Bacardi per aumentare la penetrazione sul mercato americano, loro sbocco principale, ma non rifuggono dalla vendita di gadgets di tutti i tipi tra un assaggio e l’altro di Cuba Libre. La motivazione di fondo, comunque, non è certamente il profitto immediato, come ha spiegato Michel Recalt - a.d. di Bacardi Global Brands - all’apertura. Ma il fenomeno si allarga a molte altre manifestazioni, da Ronald McDonald, il famoso ambasciatore del marchio di hamburger, che cerca con mille trucchi di far credere ai bambini di essere un personaggio vero come Babbo Natale, alla catena Starbucks, che ispirandosi all’esempio italiano ha fatto del caffè una vera e propria filosofia. Basta navigare sui siti Internet di qualche grande multinazionale per accorgersi che con tutti quei cieli azzurri e quel design sofisticato non vogliono diffondere informazioni, ma esperienze. Anzi, le informazioni diventano sempre più difficili da trovare, nascoste fra le pieghe di un universo a tutto tondo che tenta di avvolgere subdolamente chiunque entri. I parchi a tema, dunque, sono solo lúltima manifestazione di un’ormai ben consolidata economia dell’esperienza, contro la quale è perfettamente inutile resistere. Certo, anche l’economia dell’esperienza ha i suoi flop: nel ’99, ad esempio, Generla Motors ha investito 60 milioni di dollari in Opel Live, a Russelsheim, in Germania, per rivitalizzare il suo marchio più in difficoltà. Ma dopo due anni l’enorme parco, che annoverava fra le sue attrazioni anche un cinema in 3D, è stato drammaticamente ridotto per motivi di costi. Le perdite non sono state rese note, ma s’intuiscono drammatiche dalla rapidità della marcia indietro. Le critiche a questa teatralizzazione del marketing, del resto, non mancano. Da un lato, infatti, è molto difficile quantificare il vantaggio apportato al brand da questo tipo di iniziative e dall’altro bisogna stare molto attenti nella loro concezione per non scadere nel kitsch. “Se un parco a tema viene fatto male rischia di diventare la tomba del suo marchio invece che dargli una spinta”, commenta Gloria Garvey, di Brand Strategy Group, la più grossa società americana specializzata nel branding. “D’altra parte – puntualizza Garvey – spesso il disastro non dipende dal parco ma dalla debolezza del brand stesso, che non regge a un investimento di marketing così importante. Se fatte nelle dimensioni giuste, invece, queste iniziative possono davvero essere di grande vantaggio: in fondo non costano molto di più di una campagna pubblicitaria televisiva e diventano un’installazione permanente che nel giro di qualche anno ammortizza l’investimento iniziale. Per di più un centro dedicato, se fatto bene, comunica l’esperienza del brand molto meglio di qualsiasi campagna pubblicitaria”. Resta un unico problema: qualsiasi prodotto si può tradurre in uno spot, ma non tutti i marchi possono essere trasformati in un luogo.

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