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2 novembre 2003

L'adattabilità è il segreto del successo

Mettiamo a confronto i grafici di due elettrocardiogrammi: uno è apparentemente regolare e costante, l’altro invece presenta dei vistosi sbalzi. A occhio, il primo sembra “migliore” del secondo, ma non è così. Un battito cardiaco eccessivamente stabile indica che quel cuore è malato, perché non è in grado di adattarsi agli input ambientali, mentre l’apparente irregolarità indica la capacità di modificare il proprio ritmo in base alla quantità di ossigeno nei polmoni, il tasso di glucosio nel sangue e così via. Nella vita, la stabilità può essere confortante, ma molto pericolosa. Lo stesso si può dire per un’azienda. Adagiarsi sulla routine, stabilizzarsi sui parametri che ci hanno portato al successo può essere letale se questo ci impedisce di vedere il cambiamento in arrivo. L’accelerazione dei mutamenti tecnologici, di costume o politici portano sempre più spesso la clientela a considerare un prodotto obsoleto e a tradire il marchio abituale per un altro, più al passo con i tempi. Come si fa a evitare la stabilità che ha causato il crollo di Ibm nei primi anni Novanta? O che sta aprendo voragini nei bilanci di Sony in questi giorni? O che ha dato tanto filo da torcere a Fiat? L’unica risposta possibile alla velocità del cambiamento e al ciclo di vita sempre più breve dei prodotti, secondo Chris Meyer, è puntare tutto sull’adattabilità dell’impresa, con alcuni accorgimenti pratici tali da farla assomigliare al cuore sano e non al cuore malato. E non è il solo: da Stan Davis (Futuro Perfetto, Edizioni di Comunità) a Stephan Haeckel e Adrian Slywotsky (Adaptive Enterprise, Harvard Business School Press), da Ralph Stacey (Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Koehler Publishers) a Richard Pascale (Surfing on the Edge of Chaos, Tree Rivers Press), un’intera scuola di pensiero si sta formando sul concetto di convergenza tra biologia, informatica e business. Trarre dalla vita le proprie linee guida, trattando l’impresa come un organismo vivente e prendendo lezioni di adattamento dalla biologia, è già un sistema applicato in maniera più o meno consapevole da molti grandi executive. Gli algoritmi genetici sono ampiamente utilizzati per migliorare motori a reazione, programmi di produzione o modelli di credit-scoring. Ma per facilitare l’interazione fra questi mondi, che caratterizzeranno il volto dell’economia di domani, bisogna entrare in una mentalità gestionale basata sul tempo, in cui il costo del cambiamento non è più una spesa straordinaria ma un normale costo di gestione: dal return on equity al return on time. Per capire meglio questo approccio, basta guardare le aziende che lo usano già. Beyond Petroleum, ex British Petroleum, è uno degli esempi più citati. Lord John Browne, amministratore delegato del colosso britannico dell’energia, passa tutto il suo tempo a trasformare la volatilità da nemico in alleato. Impresa non facile in un mondo, come quello petrolifero, appassionato di stabilità e famoso per la refrattarietà al cambiamento. In Bp, invece, tutto è in movimento, a cominciare dal nome. Nei suoi sette anni al vertice, Browne è stato il primo a passare all’offensiva sul fronte ecologico, portando Bp a raggiungere il 20% della produzione mondiale di energia solare. E per vedere il futuro prima degli altri sta cercando di implementare il ciclo OODA (“osservare, orientare, decidere, agire”) più veloce del settore. In un ambito completamente diverso, quello finanziario, il campione dell’adattabilità è senz’altro Capital One. In soli sette anni di vita, Capital One è cresciuta fino a occupare il sesto posto nel gigantesco mercato americano delle carte di credito. I suoi fondatori, Richard Fairbank e Nigel Morris, hanno vinto la loro battaglia inventando il balance transfer, ovvero la possibilità di trasferire i propri debiti con altre società su una carta di credito erogata da Capital One a un tasso iniziale molto più basso. Ma questa invenzione non è nata dal nulla. Nel mondo di Fairbank e Morris, infatti, le idee proliferano a ritmi incalzanti e anche le più innovative hanno al massimo sei mesi di tempo prima che una folla di concorrenti invada il campo, annullandone l’utilità. Per vincere in questo ambiente Capital One si basa su una sperimentazione scientifica molto aggressiva, cercando di scoprire con centinaia di test diversi le esigenze di ogni singolo cliente e personalizzando al massimo le proprie offerte. La prima vittima di questo approccio è stato proprio il balance transfer, il loro cavallo di battaglia, abbandonato dopo soli di 18 mesi per raccogliere nuove sfide.

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