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23 ottobre 2009

Ammalati di solastalgia: ci manca il clima di una volta

I cambiamenti climatici non degradano solo il paesaggio attorno a noi, ma anche il nostro paesaggio interiore. La psiche umana è la prossima vittima del riscaldamento globale: il primo ad accorgersene è stato l'australiano Glenn Albrecht. In una ricerca condotta tra i suoi connazionali, sconvolti dalla devastante siccità che sta riducendo il continente australe a una distesa polverosa, Albrecht ha riscontrato marcati segnali di depressione e li ha messi in relazione con la scomparsa dell'ambiente naturale abituale, sofferta negli ultimi cinque anni. Nel corso del suo studio, centinaia di australiani gli hanno descritto il profondo senso di perdita scatenato dalla morte degli alberi, dai giardini inariditi e dalla sparizione degli uccelli. “Hanno l'impressione di non riconoscere più il luogo in cui vivono”, spiega Albrecht, che ha riscontrato similitudini con la depressione provata dalle popolazioni deportate forzatamente dalla loro patria d'origine. Ma in questo caso non sono gli abitanti che abbandonano la patria d'origine, è la patria che se ne va. Albrecht ha dato a questa sindrome un nome evocativo: solastalgia, contrazione di solacium e algia, una strana nostalgia di casa, di quel sollievo derivato dalla permanenza in un ambiente abituale, che oggi ci è negato pur restando a casa nostra. Gli indiani Hopi usavano la parola koyaanisqatsi per indicare il disagio causato dalla vita che si disintegra e gli Inuit dell'isola di Baffin hanno esteso al clima sempre più imprevedibile un aggettivo, uggianaqtuq, che di norma serviva per definire un amico che si comporta in modo bizzarro. Comunque la si chiami, resta il fatto che la sindrome depressiva descritta da Albrecht in un paper pubblicato da “Australasian Psychiatry” sta dando parecchio filo da torcere agli australiani. E non solo a loro. Reazioni analoghe sono state registrate nella popolazione colpita dall'uragano Katrina o dallo tsunami in Thailandia, dove le malattie mentali sono raddoppiate negli anni successivi ai due disastri. Ma il disagio per i cambiamenti climatici emerge anche lontano dai luoghi più esposti al riscaldamento globale. “Ci piace credere alla nostra immagine di freddi neo-capitalisti, nomadi e sempre interconnessi, ma in realtà il legame di base con la terra è ancora forte”, fa notare Albrecht. Non ci siamo ancora evoluti abbastanza da poter fare a meno del nostro ambiente naturale. E infatti anche fra le tribù più smaliziate del pianeta, quelle che affollano i grandi agglomerati urbani sulle due coste del Nord America, l'ansia ecologica dilaga e gli psicoterapeuti sono costretti ad attrezzarsi per far fronte al nuovo disagio. Linda Buzzell e Sarah Anne Edwards hanno fondato un'associazione dedicata, l'International Association for Ecotherpy, che propone agli stressati connazionali - colpiti da sindromi depressive e da insonnia di fronte al clima impazzito - di prendere il toro per le corna e cercare sollievo nella coscienza pulita, cambiando le abitudini antiecologiche, per rendere più sostenibile la propria vita quotidiana. Assicurano risultati entusiasmanti. Sulla stessa linea anche Lise van Susteren, nota psichiatra docente alla Georgetown University, che ha sperimentato l'ansia ecologica direttamente su se stessa, con una sindrome depressiva da cui è uscita solo recentemente, affiancando Al Gore nella sua campagna per la ratifica del protocollo di Kyoto.

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