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9 marzo 2009

Gas, una liberalizzazione finita in farsa

L'Italia consuma quasi 90 miliardi di metri cubi di metano l'anno, di cui 80 importati dall'estero. E la domanda cresce: ogni anno partono nuove centrali elettriche alimentate a gas, che nell'ultimo decennio hanno ingigantito i consumi di metano del Paese. Il fabbisogno di queste centrali inghiotte oltre il 40% di tutto il gas che arriva in Italia, i consumi civili solo il 35%. A fronte di questa crescita, le infrastrutture di approvvigionamento restano sempre le stesse. Pur con i dovuti potenziamenti, il mercato italiano continua a dipendere essenzialmente da quattro tubi, che fanno capo all'Eni: per un terzo dalla Russia, per un altro terzo dall'Algeria e per il resto dal Mare del Nord e dalla Libia. L'unica novità è il rigassificatore di Rovigo, che entrerà in funzione nel giro di un paio di mesi, con una capacità di 8 miliardi di metri cubi l'anno: un apporto notevole, in capo a Edison, che introdurrà un minimo di flessibilità e di concorrenza in un mercato sostanzialmente bloccato. Malgrado la liberalizzazione introdotta quasi dieci anni fa, infatti, per i consumatori finora si sono visti ben pochi vantaggi. Lo dimostra lo Yellow Book, uno studio sul mercato del gas naturale, realizzato dal centro di ricerca Utilitatis in collaborazione con FederUtility, la federazione delle imprese dei servizi locali. Dallo studio si evince che ben pochi utenti hanno sfruttato la libertà di cambiare operatore, semplicemente perché le differenze di prezzo sono talmente minime da non valere la pena. Il problema, dunque, sta alla fonte: l'alto costo della materia prima da Russia e Algeria, le pretese dei Comuni nei confronti dei gestori e le tasse italiane sul gas, fra le più alte d'Europa (incidono sul prezzo finale per il 31,1% contro una media Ue del 20,5%), contribuiscono a spingere in alto i prezzi, senza consentire una reale concorrenza fra gli operatori. Per un consumo standard di 1400 metri cubi all’anno, nel Lazio si spendono 1.320 euro (seguite da Sicilia e Calabria) e in Trentino 1.123 euro (seguito da Abruzzo e Basilicata). I 200 euro di differenza, spalmati nell’arco di un anno, non sono uno stimolo sufficiente per indurre i consumatori ad avviare un cambiamento di gestore, mettendo a confronto le varie offerte. In dieci anni soltanto il 3,1% degli utenti domestici ha cambiato gestore. Le cose vanno meglio per le grandi industrie, che potendo negoziare sul prezzo hanno approfittato di più (nel 35% dei casi) della libera concorrenza. Ma il tasso complessivo di cambiamento del gestore (chiamato "tasso di switch") nel mercato italiano, al 3,4%, resta comunque fra i più bassi d'Europa.Fra le cause più evidenti dei prezzi ingessati c'è il "canone" che i Comuni chiedono ai gestori, che toglie mediamente il 53% degli incassi all’operatore. I 140 esiti delle gare presi in esame dallo studio dimostrano chiaramente che nel decidere quale offerta scegliere tra quelle presentate, per i Comuni conta molto la cifra che possono incassare dal gestore (l’offerta economica pesa per il 63% della decisione e circa metà della voce è rappresentato dal valore del canone), mentre conta poco la qualità tecnica e gestionale del servizio (pesa per il 37%) e conta pochissimo il prezzo all’utente che il gestore dichiara di voler applicare (pesa appena per lo 0,5% sulll’offerta economica). Il rischio di questo meccanismo - fa notare Adolfo Spaziani, direttore generale di Federutility - è la morte della concorrenza: "Non c’è da attendersi grandi economie per i consumatori, se l’unica leva resta la competizione tra i distributori, che pesano in piccola percentuale sulla bolletta al consumatore. Solo rendendo molto più liquido il mercato del gas, attraverso la realizzazione di infrastrutture strategiche e una politica energetica europea più efficace, si potrà evitare che l’elevato costo di questo servizio sia un vincolo allo sviluppo economico".

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