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27 settembre 2004

L'Ue spinge, l'America frena, la Russia rinvia

Chi si è trovato sull' itinerario dell' uragano Ivan lo sa: l' effetto serra fa male. Ma un milione di case distrutte dalla Florida alla Louisiana e centinaia di vittime sono solo il modesto bilancio di uno degli innumerevoli eventi catastrofici che una parte degli scienziati attribuisce al riscaldamento del clima. L' anno scorso ne sono stati contati oltre 700, fra cui gli uragani caraibici che non sono i peggiori. Che il mondo sia destinato a diventare un luogo sempre più caldo e dal clima sempre più imprevedibile, è un dato ormai assodato: secondo i meteorologi dell' Intergovernmental Panel on Climate Change, sponsorizzato dalle Nazioni Unite, l' aumento della temperatura potrebbe variare fra 1,4° e 5,8° entro il 2100, a seconda dello scenario di sviluppo, con conseguenze più o meno catastrofiche. La consistenza del riscaldamento dipenderà dalla concentrazione di anidride carbonica e degli altri gas serra nell' atmosfera: potrebbero variare da un minimo di 540 a un massimo di 970 parti per milione. Per 5 o 6 milioni di anni, cioè da quando l' uomo abita la Terra all' inizio del secolo scorso, la concentrazione media di anidride carbonica nell' atmosfera si è mantenuta attorno a 270 ppm. Solo negli ultimi cento anni, con la rivoluzione industriale, ha cominciato a salire, arrivando alle 378 ppm attuali. La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, approvata dalle Nazioni Unite il 9 maggio 1992, è la risposta pensata a livello internazionale per contrastare e ridurre al minimo gli effetti negativi di questo processo. La convenzione, ratificata da 178 Paesi, ha come obiettivo la stabilizzazione a livello planetario della concentrazione dei gas serra a 550 ppm entro il 2100. Il protocollo di Kyoto, firmato nel dicembre 1997, rappresenta lo strumento attuativo della convenzione e impegna i Paesi industrializzati a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 5,2% rispetto ai valori del 1990. Un risultato minimo, ma considerato positivo perché crea la consapevolezza che sia venuto il momento di tirare il freno, creando incentivi agli investimenti in tecnologie pulite e meccanismi di mercato virtuosi. I Paesi soggetti a vincoli sono 39 e includono l' Europa, il Giappone, la Russia, gli Stati Uniti, il Canada, l' Australia e la Nuova Zelanda. Gli obiettivi specifici di riduzione delle emissioni, diversi per ogni Paese, sono stati quantificati per il periodo 2008-2012. Oltre il 2012, saranno negoziati nuovi obiettivi che potrebbero ampliare il numero dei Paesi vincolati. Il protocollo di Kyoto entrerà ufficialmente in vigore quando sarà ratificato da un numero di Paesi le cui emissioni totali, al 1990, rappresentino almeno il 55% di tutte quelle soggette a vincoli. In altri termini, il programma globale non può diventare obbligatorio senza l' adesione degli Usa o della Russia. Ma nel frattempo le interpretazioni di Washington e di Bruxelles si sono talmente divaricate, che nel 2001 gli Usa hanno deciso di non ratificarlo. Mosca invece ha più volte dichiarato di volerlo ratificare, senza mai arrivare al dunque. Nonostante la quota minima di adesioni non sia ancora stata raggiunta, l' Unione Europea, il Giappone e il Canada si sono decisi ad applicare comunque le restrizioni previste da Kyoto e di partire con un programma a tappe forzate già dall' inizio del 2005. Non bisogna dimenticare, infatti, che il protocollo prende come punto di riferimento il 1990, ma da allora a oggi le emissioni globali sono già aumentate del 10%. Attendere ancora significherebbe quindi sottoporsi a tagli più dolorosi in seguito. Bruxelles ha un obiettivo complessivo di riduzione dell' 8%, nell' ambito del quale l' Italia si è impegnata a un taglio del 6,5%, che ridurrebbe le nostre emissioni annuali a 487 tonnellate metriche di anidride carbonica. In pratica, però, considerando la crescita delle emissioni avvenuta nel frattempo, lo sforzo reale richiesto al nostro Paese è del 16% circa. In termini assoluti ciò equivale a una riduzione di circa 93 milioni di tonnellate di anidride carbonica, sulle 580 previste per il 2010 (oggi siamo a 550), mantenendo i ritmi di crescita attuali. Il programma complessivo per raggiungere quest' obiettivo è già stato delineato dal governo, con un costo netto stimato fra i 120 e i 300 milioni di euro all' anno per otto anni, ma l' Italia è arrivata in ritardo nella consegna a Bruxelles del piano nazionale di assegnazione delle quote di emissione ai singoli impianti del settore energetico e industriale - inoltrato in luglio invece che in marzo come previsto dalla direttiva europea dell' ottobre 2003 - per cui la Commissione ha aperto una procedura d' infrazione nei nostri confronti (insieme alla Grecia). Inoltre è già chiaro che il piano italiano, tutto incentrato sulla flessibilità per difendere l' autonomia del nostro sistema industriale, non potrà essere approvato dalla Commissione così com' è. Il negoziatore italiano Corrado Clini (vedi l' articolo sotto), del ministero dell' Ambiente, ha avviato da qualche giorno la fase cruciale delle trattative con Claus Sorensen, il direttore generale alle dipendenze della severa commissaria svedese, Margot Wallstroem. Ma in realtà Roma non fa mistero di sperare in un atteggiamento più morbido da parte del prossimo commissario all' Ambiente, il greco Stavros Dimas (la Wallstroem resta in Commissione, ma è stata promossa a vicepresidente e sarà responsabile delle relazioni istituzionali). Al momento attuale sono otto i piani già approvati dalla Commissione: Irlanda, Olanda, Danimarca, Svezia, Slovenia, più Germania, Austria e Regno Unito passati con riserva. Sugli altri 14 presentati (compreso quello italiano) la Commissione non si è ancora pronunciata. In complesso, sono oltre cinquemila gli impianti europei già ammessi al trading delle emissioni, su un totale di circa dodicimila complessivi. La Borsa europea delle emissioni, la cui partenza ufficiale è fissata al 1° gennaio 2005 (quella mondiale all' inizio del 2008, ma in realtà un vivace «mercato dei fumi» esiste già tra Chicago, Londra e New York), è stata appunto pensata per ridurre le emissioni di anidride carbonica senza strozzare le imprese. Posto il suo tetto massimo di emissioni, un' azienda si troverà di fronte a due possibilità: adottare misure di risparmio energetico tali da rientrare nei limiti previsti, oppure acquistare alla Borsa dei fumi crediti di emissioni da un' azienda che si trova a disporre di quote in eccedenza. Gli inglesi lo chiamano cap and trade, ovvero fissare una soglia e commerciare al suo interno. «L' idea - spiega Pierfrancesco Federici, responsabile della pratica ambientale dello studio legale Baker & McKenzie - è di stimolare le imprese ad assumere un comportamento virtuoso attraverso la pressione del mercato piuttosto che con i divieti. Il sistema di emissions trading originato da Kyoto sta mettendo in moto una molla economica con cui dovremo inevitabilmente fare i conti».

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