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25 settembre 2006

Offshoring fino all'ultimo respiro

Mikhail Gorbachev è stato accolto da un lungo applauso lo scorso agosto, in una sala gremita alla periferia di Boston. Ma nel suo discorso non c'era traccia di perestroika o di pace nel mondo. L'ex presidente sovietico ha caldeggiato il principio dell'apertura dei mercati e messo in luce senza mezzi termini il formidabile talento dei programmatori russi, invitando i 700 manager convenuti al Massachusetts Software Council a investire nella nascente industria informatica dell'ex Impero del male. E nessuno si è meravigliato della sua trasformazione, da statista di rango a piazzista di lusso: è solo un segno della crescente posta in gioco sul tavolo dell'outsourcing globale. Dal Brasile al Vietnam, dalla Russia al Botswana, tutto il mondo in via di sviluppo è in corsa per attirare gli investimenti nei servizi delle multinazionali europee e americane. L'India è il loro modello. L'anno scorso il gigante asiatico ha totalizzato un giro d'affari da 22 miliardi gestendo reti informatiche piazzate dall'altra parte del globo, rispondendo alle telefonate di clienti texani o scozzesi, elaborando fatture o scrivendo software per aziende sempre più globalizzate. Non stupisce che tanti governi si stiano muovendo per costruire altre mille Bangalore: guardano ai risultati messi a segno nel subcontinente indiano - compreso il milione e mezzo di posti di lavoro creati in dieci anni - e vogliono partecipare al gioco. Rispetto all'outsourcing manifatturiero, ad alta intensità di capitale, catturare l'outsourcing dei servizi non richiede grandi strutture e può generare centinaia di posti di lavoro in più per ogni dollaro investito. Ma i benefici economici e sociali si estendono ben oltre i vantaggi immediati: in base alle stime di Nasscom, l'associazione indiana del settore, per ogni nuovo lavoratore nell'hi-tech si creano ben sette posizioni nell'indotto. Per di più, i Paesi che vogliono competere in questa gara devono per forza migliorare le proprie infrastrutture e introdurre maggiore flessibilità nella legislazione, con ricadute positive di vasta portata. La domanda di manodopera specializzata dà slancio al miglioramento del sistema educativo e le nuove competenze acquisite da tutti gli studenti mettono in moto un circolo virtuoso di sviluppo inarrestabile. Per ottenere tutto ciò, basta intercettare il volano di un settore che sta esplodendo. Le stime di Gartner dicono che il mercato dell'offshoring di servizi IT e del backoffice ha raggiunto un valore di 34 miliardi di dollari nel 2005 e potrebbe raddoppiare entro la fine dell'anno prossimo. La fetta indiana della torta, oggi del 60%, è destinata a ridursi, proprio a causa del successo che spinge in alto i salari e accelera il turnover. Questo lascia un po' più di spazio agli altri Paesi in gara, che l'anno prossimo si metteranno in tasca 30 miliardi di dollari da questo business. Ma all'interno della cifra complessiva, è tutto da vedere quali saranno i cavalli vincenti. Tra i contendenti c'è naturalmente la Cina, grazie alle dimensioni micidiali della sua forza lavoro e alla capacità di attrarre investimenti nell'outsourcing manifatturiero, dov'è spesso incluso lo sviluppo di tecnologie digitali. Anche Russia, Brasile e Messico, grazie alle diverse specificità geografiche o storiche, sono in testa alle classifiche: offrono costi e talenti più o meno assimilabili a quelli asiatici, ma hanno dalla loro il vantaggio di una maggiore contiguità ai mercati che servono. Perfino alcuni Paesi africani, sulla scia del Sudafrica che è già ben piazzato, partecipano alla corsa, dal Botswana all'Egitto. Ma il vero sprinter che sta emergendo negli ultimi mesi è il Vietnam. Uno degli ultimi bastioni del socialismo reale si è aperto al nuovo business con entusiasmo, come si deduce dall'accoglienza riservata a Bill Gates dagli apparatchik riuniti sotto i ritratti di Marx e di Lenin. Qualche mese fa l'uomo più ricco del mondo è arrivato per la prima volta in visita a Hanoi proprio durante il congresso del partito e il presidente Nguyen Minh Triet ha interrotto l'evento più solenne della vita politica del Paese per salutarlo come un eroe. Nella sua sosta all'Università della Tecnologia il fondatore di Microsoft è stato letteralmente preso d'assalto da migliaia di studenti in delirio, tra cui molti stringevano in mano la versione vietnamita dei suoi libri. L'entusiastica reazione della folla al nuovo che avanza, proprio mentre i suoi leader discutevano di piani quinquennali in pieno spirito marxista, riflette gli impulsi conflittuali che si agitano nel Vietnam di oggi, dove il governo punta all'industria hi-tech per farne la pietra angolare dello sviluppo, ma nel contempo resta legato ai modelli di un'economia strettamente controllata dallo Stato. Malgrado la conflittualità fra il sistema pianificato e la moderna economia globalizzata, il Vietnam cresce a rotta di collo: dal 2000 a ritmi del 7,5%, nel 2005 addirittura dell'8,4%. La Borsa di Hanoi, con appena 36 aziende quotate, quest'anno è cresciuta del 90%. Gli investimenti esteri diretti galoppano e Intel ha recentemente annunciato l'intenzione di costruire una fabbrica di microchip da 300 milioni di dollari a Ho Chi Minh City. Il nuovissimo Saigon High Tech Park offre a tutte le imprese IT un'esenzione fiscale di quattro anni a partire dal break-even e una riduzione del 50% nei nove anni successivi. Ma anche senza la defiscalizzazione i vantaggi sono evidenti: la popolazione è molto giovane grazie al baby-boom seguito alla guerra e il costo del lavoro è fra i più bassi del mondo, mentre il tasso d'istruzione è uno dei più elevati. In Vietnam ci sono 62 università per 84 milioni di persone, che tutti gli anni producono 8.500-9.000 laureati in materie scientifiche, 500 master e 50 dottori in campi collegati alle scienze informatiche. Da quest'anno il ministero dell'Educazione ha reso l'informatica materia obbligatoria in tutti i licei. Inoltre le condizioni favorevoli stanno riportando indietro un'intera generazione di vietnamiti espatriati, gli amatissimi “viet kieu”. Molti di loro hanno raccolto vaste esperienze nell'imprenditoria informatica a Silicon Valley e ora vogliono replicare in patria il modello di start-up appreso negli Stati Uniti. Nguyen Huu Le è uno dei casi più noti: vice presidente di Nortel, dopo 22 anni passati in Nord America è ritornato a casa e ha fondato Tma Solutions, una compagnia di software per le tlc che lavora ormai per tutti i giganti del settore, da Lucent a NTT. E questo è soltanto l'inizio.

18 settembre 2006

Snam: nessuna fusione con Terna

Terna, la rete elettrica ad alta tensione, è già da anni separata dall' Enel e privatizzata. Ora si parla di scorporo e vendita della rete Telecom. E Snam Rete Gas? La rete dei metanodotti disegnata negli anni Cinquanta da Enrico Mattei è ancora di proprietà dell' Eni al 50%, una quota che entro il 2008 dovrebbe calare sotto il 20%. Ma Paolo Scaroni non è d' accordo: la discesa di Eni nel capitale di Snam Rete Gas «non farebbe gli interessi degli azionisti», ha detto recentemente, augurandosi che «il Parlamento riveda» la norma. Sul fronte opposto, il presidente dell' Authority Sandro Ortis: «Enel ha ceduto la rete e non mi pare che sia diventata più debole. Non vedo pericoli per l' Eni». E quindi occorre che «al più presto Snam e Stogit diventino terze, perché hanno ricavi connessi a tariffe che tutti paghiamo» e «perché gli operatori possano accedere senza discriminazioni di sorta». «Ma questo già si fa», replicano alla Snam. Anzi. «Da quando la rete si è costituita in società autonoma per poi venire quotata in Borsa nel 2001, ad oggi, gli operatori che fanno transitare il loro gas sulla nostra rete sono più che raddoppiati: erano 19, ora sono una cinquantina», spiega l' amministratore delegato Carlo Malacarne. «E non abbiamo mai avuto una sola rimostranza», aggiunge fiero il presidente Alberto Meomartini. Vero è che le tariffe di trasporto entry-exit applicate sulla rete italiana sono le più basse d' Europa e sono considerate un modello di equità anche dalla Commissione Europea e dal Forum di Madrid, dove si definiscono i benchmark del mercato europeo del gas. Ma nelle ultime settimane, anche sull' onda dell' accordo con Gazprom e delle passate indiscrezioni sull' interesse dei russi nella rete italiana, s' infittiscono le voci di scorporo e anche di fusione con Terna, sul modello inglese. «È un' operazione che personalmente non caldeggio ma che ha qualche significato logico», commenta Scaroni. A condizione, fa capire, che Snam rimanga controllata dall' Eni. Di conseguenza anche Terna, se fusa in Snam, dovrebbe rinunciare alla propria indipendenza per passare direttamente sotto il cane a sei zampe. «Niente di simile è allo studio», precisa Meomartini. E la definisce un' operazione squisitamente finanziaria, visto che le due reti funzionano in base a principi del tutto antitetici: mentre la rete elettrica comanda sulle centrali, accendendole o spegnendole in base alle oscillazioni della domanda, la rete gas è un contenitore molto più elastico, che non comanda nulla e dev' essere invece pronto in ogni momento a soddisfare le esigenze degli operatori. Non a caso sugli scambi di energia elettrica - dove domanda e offerta devono sempre mantenersi perfettamente in equilibrio - è attiva già da anni una Borsa elettrica, mentre la Borsa del gas, pensata a suo tempo come un tassello importante della liberalizzazione, non è mai stata avviata. Poche sarebbero, dunque, le sinergie possibili fra i due network, che pure servono a trasmettere materie prime correlate. L' Italia infatti sta uscendo dall' era delle centrali a olio e non avendo altra scelta (il nucleare non c' è e il carbone viene fortemente osteggiato dalle comunità locali) vira rapidamente verso un sistema elettrico alimentato prevalentemente a metano: a fronte dei 18 mila MW attuali di potenza installata a gas, ce ne sono quasi 9 mila in costruzione e Snam prevede un parco centrali a metano da 32 mila MW complessivi nel 2009. Quasi un raddoppio. A fronte della domanda che corre, è inevitabile l' aumento dell' offerta: arrivano i rigassificatori e si potenziano i metanodotti che importano il gas dalla Russia e dall' Algeria, con altri in progetto per portare in Puglia il gas del Mar Nero attraverso la Turchia e la Grecia (l' Igi) e in Sardegna quello algerino (il Galsi). La domanda si concentra soprattutto al Nord, l' offerta al Sud. In mezzo c' è la rete Snam, che diventa sempre più strategica per il sistema Paese. «Gli investimenti di oggi sono già pensati in questa prospettiva: 3 miliardi e mezzo di lavori da qui al 2009 per potenziare la rete in vista delle nuove immissioni dalla Russia e dall' Algeria e in previsione di nuovi rigassificatori in funzione oltre al nostro di Panigaglia», spiega Meomartini. Oggi la rete primaria movimenta 85 miliardi di metri cubi di metano all' anno, ma già nel 2010 saranno 95 e nel 2015, secondo le previsioni, 106. «Per noi il futuro è già qui - commenta - non possiamo permetterci di farci cogliere di sorpresa dagli avvenimenti». Si è visto con la crisi del gas: nei momenti di panico vissuti dall' Italia lo scorso inverno, mancava il metano ma non i tubi per trasportarlo. «In quest' ottica di prevenzione dei possibili problemi - aggiunge Meomartini - stiamo potenziando la rete in corrispondenza dei punti di sbocco dei gasdotti esteri, quindi in Friuli e in Sicilia, ma anche nell' area padana e lungo la dorsale adriatica, colonna vertebrale del sistema». Snam si prepara così ad ogni evenienza, anche a una provvidenziale sovrabbondanza di gas rispetto al fabbisogno nazionale, che consentirebbe di fare dell' Italia uno snodo centrale di tutto il mercato europeo, quel famoso hub del gas vagheggiato da anni dal presidente dell' Authority Sandro Ortis. «Gli operatori che stanno costruendo nuovi terminali possono stare tranquilli: la rete ci sarà, neutrale ed efficiente», prospetta Meomartini. Con un piano d' investimenti di questa portata, del resto, le prospettive di fusioni impallidiscono sullo sfondo. E comunque, dice Scaroni: «Se proprio dovessimo cedere Snam, la venderemo a chi paga di più». E non è detto che gli azionisti di Terna siano il migliore offerente. Magari un' offerta in rubli potrebbe battere la concorrenza.

11 settembre 2006

Vendola: rigassificatori a Brindisi mai

Sul rigassificatore di Brindisi, «mi trovo di fronte a un mandato popolare chiaro: il consiglio regionale si è espresso all' unanimità contro questo impianto, così come il consiglio provinciale e quello comunale». Nichi Vendola, governatore della Puglia, fin dalla campagna elettorale si è schierato con decisone contro la collocazione di un terminal di rigassificazione nel porto industriale di Brindisi, dove il gruppo British Gas (Bg) sta lavorando da un anno. L' impianto, che poteva essere già pronto nel 2007, ha subito una serie di rallentamenti burocratici tali da farne slittare l' entrata in esercizio al 2009. Fra il 2001 e il 2002, le amministrazioni regionale, provinciale e comunale si erano già pronunciate a favore dell' impianto proposto da Bg, che all' inizio del 2003 ha ottenuto il via libera con un decreto interministeriale. Non le sembra un capitolo chiuso? «No, non mi sembra un capitolo chiuso. Qui bisogna decidere a che cosa dare più importanza: al mandato popolare o a un' astratta procedura amministrativa?». La procedura amministrativa ha messo insieme 23 diversi enti locali e centrali, pronunciatisi all' unanimità nella conferenza servizi. Non discendevano da un mandato popolare? «Ma sia l' amministrazione comunale che quella provinciale e regionale poi sono state mandate a casa. Ciò significa che le decisioni prese da quelle amministrazioni non hanno soddisfatto la popolazione locale. Quindi vanno modificate. Non è un caso che gli attuali amministratori siano stati votati proprio sull' onda dell' opposizione a quell' impianto. Ora che siamo stati eletti, dobbiamo dare seguito alle promesse fatte in campagna elettorale. Per questo chiediamo che venga fatta una nuova valutazione d' impatto ambientale». Non è detto che quando un' amministrazione viene mandata a casa, bisogna disfare tutto quello che ha messo in piedi. Le decisioni prese spesso diventano legge. Come la mettiamo con la certezza del diritto? «L' iter procedurale attraverso il quale si è giunti al decreto si è svolto in un clima di degrado politico, di gestione affaristica della cosa pubblica e di vaste corruttele che ora noi vogliamo correggere. Non si possono lasciar correre scelte rilevanti per il futuro del territorio che potrebbero essere state portate a maturazione da interessi personali». Lei accusa le amministrazioni precedenti di aver agito per interessi personali? «Questo è compito della magistratura». Ma non tutti a Brindisi sono contro il rigassificatore. «Ci sono alcune espressioni sindacali, che restano legate alle logiche di gestione delle passate amministrazioni. Ma sono estremamente minoritarie in termini di consenso popolare». Dunque la sua opinione è che il rigassificatore di Brindisi non s' ha da fare? «Senza dubbio. Abbiamo detto sì a una vasta serie di progetti nel campo dell' energia: a Brindisi sorgerà una maxi centrale solare. Ci piacerebbe fare della Puglia uno dei più importanti parchi energetici alternativi. Abbiamo concluso la moratoria all' eolico e detto sì al metanodotto fra la Grecia a Otranto. Non abbiamo nemmeno espresso un no pregiudiziale ai rigassificatori: c' è il progetto di Taranto». Si farà? «Non ho detto questo. Bisogna vedere che ne pensano i tarantini...».

Illy: un rigassificatore va bene, anzi due

Per un Paese come l' Italia «la carenza di gas è gravissima: già nell' inverno scorso diverse aziende friulane sono state costrette ad interrompere la produzione dalla crisi ucraina. Bisogna assolutamente fare qualcosa perché questo non si ripeta più». Riccardo Illy, governatore del Friuli-Venezia Giulia, ha aderito con slancio alla «giusta volontà del governo di accelerare i tempi», ammettendo che «i terminal di rigassificazione sono l' unico strumento a disposizione nel medio termine». Tanto da prendere in considerazione l' ipotesi di collocarne addirittura due nel Golfo di Trieste. Come mai tanto entusiasmo per questi impianti, che stanno già sollevando delle polemiche tra gli ambientalisti locali? «Nessun entusiasmo pregiudiziale, ma nemmeno contrarietà di principio. Semplicemente facciamo la nostra parte, senza pretese di considerarla esaustiva. Naturalmente prenderemo tutti i provvedimenti necessari per evitare rischi ambientali: abbiamo già chiesto un approfondimento tecnico alle due società che li propongono, Endesa e Gas Natural. Ma si tratta di impianti abbastanza semplici e quindi contiamo di chiudere la partita entro la fine dell' anno». Due terminal in uno specchio d' acqua di queste dimensioni, non le sembra eccessivo? «Guardiamoci un po' intorno, prima di fasciarci la testa: nella baia di Tokyo, lunga 50 chilometri e larga 20, circa il doppio del golfo di Trieste, ce ne stanno cinque, che portano un traffico di 400 navi gasiere l' anno. Pur con un mare meno profondo del nostro, non mi risulta che ci siano problemi». Quali problemi potrebbero dare? «Il gas liquido viene compresso a una temperatura molto bassa e per riportarlo allo stato gassoso bisogna farlo tornare a temperatura ambiente: di solito si usa l' acqua di mare, che si raffredda nel processo. Ma si tratta di una massa d' acqua modesta, che non può certo causare abbassamenti di temperatura in tutto il golfo. E il freddo generato può anche essere sfruttato in qualche altro modo. Per l' impianto di Gas Natural, che dovrebbe sorgere in una zona industriale del porto, vicino a un termovalorizzatore e a un impianto siderurgico, si potrebbero studiare delle sinergie con questi stabilimenti. È un aspetto ancora da studiare». E l' altro impianto dove si collocherebbe? «Il terminal proposto da Endesa è su una piattaforma off-shore. Oltre alla questione del raffreddamento dell' acqua, questo impianto presenta un problema paesaggistico, anche se la dimensione è modesta: non supera il profilo di una nave. In più, c' è l' uso del cloro, che serve a mantenere gli scambiatori di calore sgombri da alghe. Vogliamo capire se si riesce a sostituirlo con qualche altro sistema. Ma anche qui si tratta di quantità veramente irrisorie: usiamo certamente più cloro, in proporzione, per rendere potabile la nostra acqua». Che vantaggi porterebbero questi impianti? «In un Paese che ha scelto il gas come fonte energetica principale, il primo vantaggio consiste nel garantire gli approvvigionamenti. In più, si aumenta la concorrenza, favorendo la diminuzione dei prezzi. E naturalmente c' è anche un vantaggio economico, in termini di posti di lavoro e di entrate nelle casse locali. Per la nostra regione, queste sono considerazioni importanti. Dopo il terremoto del ' 76, il nostro motto è stato: prima ricostruire le fabbriche, poi le case, infine le chiese. Il lavoro viene prima di tutto».

4 settembre 2006

British Gas: "Vi bruciate la reputazione"

Armando Henriques, capo di British Gas per l' area del Mediterraneo, è un manager navigato, si occupa da vent' anni di petrolio e di gas, ma una situazione come questa non l' aveva mai vista. «Abbiamo il gas che serve all' Italia - dice -, ma non sappiamo dove farlo arrivare, perché il nostro terminale di Brindisi, che doveva essere già pronto nel 2007, subisce un intralcio dietro l' altro dalle autorità locali». E prosegue: «Il rigassificatore che stiamo costruendo, dopo avere ottenuto già da anni tutte le autorizzazioni, è il più importante investimento mai fatto da un' impresa britannica in Italia: 400 milioni di euro complessivi, di cui 150 già spesi. Se i nostri sforzi venissero frustrati adesso, questo solleverebbe gravi dubbi sull' attrattività dell' Italia per gli investimenti esteri». Proprio mentre il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, si fa in quattro per dare una soluzione alla crisi del gas prossima ventura, accelerando il processo autorizzativo per gli altri rigassificatori in progetto, l' unico impianto che potrebbe essere già quasi pronto sembra definitivamente incagliato nel limbo delle resistenze locali. «Dragon, il terminale gemello che stiamo costruendo nel Galles, sarà operativo nel 2007 come previsto - dice Henriques - e comincerà subito a ricevere il gas dai nostri pozzi egiziani». Il gruppo Bg, infatti è uno dei giganti mondiali del gas, attivo anche nell' estrazione, e il rigassificatore di Brindisi è uno dei pochi progetti in Italia con i contratti di approvvigionamento già in essere: un vantaggio non indifferente in un mercato dove la materia prima comincia a scarseggiare. «Gli impianti di rigassificazione costruiti oggi senza la certezza dell' approvvigionamento - spiega Henriques - rischiano di diventare cattedrali nel deserto». È per questo che Bg ha messo in cantiere contemporaneamente a Brindisi anche un impianto di liquefazione a Idku, in Egitto, con un investimento da un miliardo e mezzo. Ma il gas liquefatto destinato a Brindisi ora sta prendendo altre destinazioni: verso gli Usa, dove Bg gestisce il più grande rigassificatore americano in Louisiana, o verso altri Paesi europei. «Peccato, perché da Brindisi potremmo fornire 8 miliardi di metri cubi di gas all' anno, quasi un decimo del fabbisogno italiano, colmando le carenze che si sono evidenziate lo scorso inverno», fa notare Henriques, intervenuto al culmine della crisi con due navi gasiere mandate in aiuto all' Eni nel suo impianto di Panigaglia. «La richiesta globale di Gnl ormai supera la domanda - commenta Henriques -, perché si costruiscono sempre più rigassificatori, che sono il modo migliore di ricevere gas da Paesi lontani senza la schiavitù del tubo». In Spagna, negli ultimi anni, ne sono sorti quattro. Nel frattempo, in Italia, Brindisi ha subito continui slittamenti: «Abbiamo passato tutta la trafila, abbiamo raccolto l' unanimità dei consensi alla conferenza servizi da 23 enti locali e nazionali, compresi Comune, Provincia e Regione, oltre ai sei ministeri competenti, che già nel 2003 ci hanno dato il via con un decreto. Ma quando siamo partiti con i lavori le autorità locali hanno subito cominciato a chiedere altre verifiche, rallentando il progetto di anni». Il fatto è che, nel frattempo, c' erano state le elezioni e le amministrazioni locali avevano cambiato colore. Nel 2004 il nuovo sindaco di centro-destra Domenico Mennitti è subentrato a Giovanni Antonino, mentre alla Provincia il diessino Michele Errico ha sostituito il forzista Nicola Frugis. Nel 2005 Nichi Vendola si è seduto sulla poltrona di Raffaele Fitto. E ognuno di loro ha voluto distruggere il lavoro del predecessore. Il gruppo britannico non si spiega le loro motivazioni. «Abbiamo cercato il dialogo - sostiene Henriques -. Abbiamo tenuto il cantiere fermo in attesa di una nuova valutazione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, che è stata positiva. Abbiamo subito persino una verifica archeologica dell' area su cui stavamo costruendo, che non ha scoperto nulla di nuovo. Ci hanno chiesto di cambiare localizzazione, ma siamo quasi a metà dei lavori e qualsiasi spostamento ci farebbe ripartire daccapo con le autorizzazioni. Il Consiglio di Stato ci ha dato ragione. E comunque localizzazioni migliori non ci sono: siamo in una zona già destinata a usi industriali e non diamo fastidio né agli abitanti, che sono lontani, né al porto. Riceveremo due navi alla settimana, che non impiegano più di 40 minuti per fare la manovra. E daremo lavoro e prospettive di sviluppo a un' area in crisi». What' s the problem?